Danno morale, danno alla capacità lavorativa specifica e perdita di chance nel danno alla persona da sinistro stradale

Cass. sez. III n° 19.922 del 12.07.2023 , rel. Iannello:

1°:

<<Come evidenziato in sentenza, il primo giudice ha liquidato il danno alla salute in base ad una elaborazione delle c.d. tabelle milanesi successiva alle note sentenze c.d. di San Martino del 2008, fondate dunque su un sistema che “incorpora” nel valore monetario del singolo punto di invalidità anche il pregiudizio morale.

In proposito questa Corte ha di recente chiarito che siffatta operazione è erronea (solo) se frutto di un automatismo liquidatorio non più predicabile, e non se presuppone invece l’accertamento, su base necessariamente presuntiva, della sussistenza di una apprezzabile sofferenza soggettiva in rapporto di diretta proporzionalità alla gravità della menomazione che, come tale, trova corrispondenza nella tecnica liquidatoria sottostante alle tabelle (Cass. n. 25164 del 2020).

Ferma, infatti, “la diversa (e non più discutibile) ontologia del danno morale” e ferma la necessità per la parte che ne pretenda il risarcimento di allegarlo e provarlo, occorre pur sempre considerare che:

a) trattandosi di pregiudizio che attiene ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva può costituire anche l’unica fonte di convincimento del giudice;

b) il danneggiato ha pur sempre l’onere di allegare i fatti noti da cui risalire, in base a ragionamento inferenziale, a quello ignoto della sussistenza ed entità del pregiudizio; tuttavia, considerata la dimensione eminentemente soggettiva del danno morale, ad un così puntuale onere di allegazione non corrisponde un onere probatorio altrettanto ampio;

c) esiste, difatti, nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio morale in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione, posto che in tal caso la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell’organo giudicante;

d) ebbene un attendibile criterio logico-presuntivo funzionale all’accertamento del danno morale quale autonoma componente del danno alla salute è quello della corrispondenza, su di una base di proporzionalità diretta, della gravità della lesione rispetto all’insorgere di una sofferenza soggettiva; tanto più grave infatti sarà la lesione della salute, tanto più il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l’esistenza di un correlato danno morale inteso quale sofferenza interiore, morfologicamente diversa dall’aspetto dinamico relazionale conseguente alla lesione stessa (così Cass. n. 25164 del 2020, cit., cui si rimanda per una più articolata illustrazione dell’esposta struttura argomentativa);

e) da qui deriva la piena utilizzabilità ai fini della liquidazione del danno morale delle tabelle milanesi, nelle versioni successive al 2008, in quanto elaborate comprendendo nella indicazione dell’importo complessivo del danno alla persona anche una quota diretta a risarcire il danno morale, secondo il detto attendibile criterio di proporzionalità diretta, sempre che nel caso concreto tale liquidazione sia giustificata da un corretto assolvimento dell’onere di allegazione e prova nei termini predetti e non invece da un non consentito automatismo (Cass. n. 25164 del 2020, cit., ha pertanto ritenuto già correttamente compreso nella liquidazione del danno secondo le tabelle predette anche il risarcimento del danno morale e conseguentemente ritenuto che costituisce una mera duplicazione della medesima posta risarcitoria la liquidazione di ulteriore importo a titolo di danno morale)>>.

2°:

<<In punto di diritto infatti la decisione si rivela conforme al principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui la riduzione della capacità lavorativa non costituisce un danno di per sé (danno-evento) ma rappresenta una possibile causa del danno da riduzione del reddito (danno-conseguenza); pertanto, una volta provata la riduzione della capacità di lavoro, non può ritenersi automaticamente e meccanicisticamente provata l’esistenza d’un danno patrimoniale, ove il danneggiato non dimostri concretamente, anche per mezzo di presunzioni semplici, l’esistenza d’una conseguente riduzione della capacità di guadagno (in tal senso già Cass. 21/4/1999 n. 3961).

Il danno da perdita di capacità lavorativa specifica, ben lungi dal costituire danno in re ipsa, va pertanto allegato e provato nell’an e nel quantum (sia pure a mezzo di presunzioni semplici) da parte del danneggiato (cfr. Cass. 6/6/2008 n. 15031)>>.

3°:

<<A fondamento della tesi censoria si richiama, dunque, il principio, in effetti più volte affermato da questa Corte ed applicato anche nel richiamato precedente, per cui in tema di danni alla persona l’invalidità di gravità tale da non consentire alla vittima la possibilità di attendere neppure a lavori diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro, e comunque confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, integra non già lesione di un modo di essere del soggetto, rientrante nell’aspetto del danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, quanto piuttosto un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance, ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica, e derivante invece dalla riduzione della capacità lavorativa generica, il cui accertamento spetta al giudice di merito in base a valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 cod. civ (Cass. 12 giugno 2015 n. 12211; principio di recente ribadito anche da Cass. 31/1/2018 n. 2348).

Nei casi in cui l’elevata percentuale di invalidità permanente rende altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica ed il danno che necessariamente da essa consegue, il giudice può procedere all’accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi (Cass. 23/8/2011 n. 17514; 7/11/2005 n. 21497). La liquidazione di detto danno può avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio (Cass. 14/11/2013, n. 25634).

Siffatto principio però non giustifica automaticamente la liquidazione di un danno patrimoniale, tanto meno in termini di danno da perdita di capacità lavorativa specifica, bensì richiede la prospettazione di elementi sulla base dei quali poter svolgere tale giudizio prognostico presuntivo>>.

Capacità lavorativa generica e specifica, danno biologico e danno patrimoniuakle in un caso di malpractice sanitaria con invalidità al 100 per cento

Cass.  n. 16.844 del 13.06.2023, sez. 3, rel. Cirillo:

<<La sentenza, infatti, muove da una premessa corretta – e cioè che la danneggiata “ha subito la perdita totale della capacità lavorativa generica” – per poi pervenire ad una conclusione non coerente con la premessa. Si legge nel successivo passaggio, infatti, che “non vi è prova della perdita di una concreta capacità reddituale della minore ovvero di una capacità lavorativa specifica risarcibile, nella specie non configurabile nemmeno in via potenziale e futura, dovendosi escludere che la danneggiata potrà mai intraprendere un’attività lavorativa”. Di talché, in conclusione, la Corte di merito ha ritenuto sufficiente, ai fini risarcitori, il risarcimento della capacità lavorativa generica “compresa nel danno biologico”.

Tale valutazione, però, non considera che la giurisprudenza di questa Corte alla quale la sentenza impugnata chiaramente si riferisce, pur senza richiamarla formalmente, è stata dettata per percentuali del danno biologico assai più contenute, le quali lasciano evidentemente intatta, in misura maggiore o minore, una residua capacità lavorativa. E’ stato infatti affermato da questa Corte che il danno patrimoniale futuro conseguente alla lesione della salute è risarcibile solo ove appaia probabile, alla stregua di una valutazione prognostica, che la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio, mentre il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa, si risolve in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo e va liquidato in modo unitario come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto (così le ordinanze 9 ottobre 2015, n. 20312, 22 maggio 2018, n. 11750, nonché la sentenza 4 luglio 2019, n. 17931).

Questa giurisprudenza, però, si riferisce – come risulta dalla lettura integrale dei provvedimenti citati e dalle fattispecie ivi regolate – a postumi di invalidità permanente bassi, o comunque contenuti entro una soglia (orientativa) del 25 per cento (v. la sentenza 12 giugno 2015, n. 12211, richiamata e chiarita dalla citata sentenza n. 17931 del 2019).

E’ evidente, invece, che in presenza di un soggetto che è divenuto invalido al 100 per cento fin dalla nascita a causa di una malpractice sanitaria, com’e’ avvenuto nel caso di specie, ogni discussione circa la distinzione tra capacità lavorativa generica e specifica e sulla possibile ricomprensione del danno patrimoniale in quello biologico è del tutto fuor di luogo. P.G., che oggi ha quasi trent’anni, non solo non è in grado di svolgere, all’attualità, alcuna attività lavorativa, ma neppure potrà mai svolgerla in futuro, data la gravità e l’irreversibilità della sua condizione (come del resto ammette la stessa Corte napoletana nel passaggio che sopra si è riportato).    In una situazione del genere non ha senso compiere alcuna previsione di quella che potrà essere, in futuro, l’attività lavorativa svolta dalla danneggiata; ma è palese che la persona danneggiata certamente ha patito, in conseguenza del fatto dannoso, la definitiva e totale perdita della sua capacità di lavoro, pur non potendosi fare riferimento alla capacità di lavoro specifica, posto che la parte non ha mai lavorato. E tale perdita dovrà essere risarcita a titolo (anche) di danno patrimoniale e non certo (soltanto) di danno biologico, proprio per il fatto che la vittima non potrà mai svolgere alcuna attività lavorativa in conseguenza del fatto dannoso.

2.3. La sentenza impugnata, quindi, deve sul punto essere cassata, in considerazione dell’errore commesso dalla Corte d’appello là dove ha automaticamente ricondotto il danno da lesione della capacità lavorativa generica (totale, nel caso in esame) al danno biologico, rigettando la domanda di risarcimento del danno patrimoniale.

A questo compito dovrà provvedere il giudice di rinvio, che potrà giovarsi della consolidata giurisprudenza di questa Corte in base alla quale “un danno patrimoniale risarcibile può essere legittimamente riconosciuto anche a favore di persona che, subita una lesione, si trovi al momento del sinistro senza un’occupazione lavorativa e, perciò, senza reddito, in quanto tale condizione può escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato all’invalidità permanente che, proiettandosi appunto per il futuro, verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima” (così la sentenza 9 novembre 2021, n. 32649). Tale risarcimento spetta al soggetto già percettore di reddito da lavoro, ma anche a chi non lo sia mai stato e, in difetto di prova rigorosa del reddito effettivamente perduto o non ancora goduto dalla vittima, potrà essere liquidato con il criterio (residuale) del triplo della pensione sociale, oggi assegno sociale, in assenza di un ragionevole parametro di riferimento (v. la sentenza in ultimo citata, nonché le ordinanze 4 maggio 2016, n. 8896, e 12 ottobre 2018, n. 25370, le quali ribadiscono il carattere residuale del criterio della liquidazione con il triplo della pensione sociale)>>.

Danno alla persona (casalinga) da malpractice sanitaria

Cass. 15.06.2023 n. 17.129 , sez. 3, rel. Scoditti:

<<Ai fini della liquidazione del danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico, la prova che la vittima attendesse a tale attività può essere ricavata in via presuntiva ex art. 2727 cod. civ. dalla semplice circostanza che non avesse un lavoro, mentre spetta a chi nega l’esistenza del danno dimostrare che la
vittima, benché casalinga, non si occupasse del lavoro domestico
(Cass. n. 22909 del 2012), ed avuto riguardo all'”id quod plerumque
accidit” in relazione alla necessità per ogni persona di occuparsi,
quantomeno per le proprie personali esigenze, di una aliquota di lavoro
domestico (Cass. n. 24471 del 2014).

Pur nell’ambito della presunzione semplice, resta fermo che chi invoca il danno da riduzione della capacità di lavoro, sofferto da persona che – come la casalinga – provveda da sé al lavoro domestico, ha l’onere di dimostrare che gli
esiti permanenti residuati alla lesione della salute impediscono o
rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in
futuro) lo svolgimento del lavoro domestico (Cass. n. 16392 del 2010),
senza che sia necessaria la prova di avere dovuto ricorrere all’ausilio
di un collaboratore domestico (Cass. n. 16896 del 2010).
Nel caso di specie la prova presuntiva del danno patrimoniale
derivante dalla riduzione della capacità di lavoro domestico è stata
desunta dal giudice di merito, sulla base di un giudizio di fatto non
sindacabile in sede di legittimità, dal tipo di patologia che aveva attinto
la mano destra e dalla concreta incidenza pertanto dell’organo leso al
livello dello svolgimento del lavoro domestico>>

La SC poi prcisa che l’applicazione delle tabelle milanesi (più favorevoli di quelle romane) è questione di diritto e non di fatto, per cui avviene ex officio (iura novit curia).

Ben si può condannare il Comune ai danni per non aver fatto quianto possibile per eliminare il disturbo da riumnori niotturni proocati dalal clientela dei bar

Giustamente Cass. sez. III del 23 maggio 2023 n. 14.209, rel. Vicenti, cassa l’appello Brescia che aveva negato il danno perchè allegante vioalazioni del Comune esorbitanti i suoi poteri .

E’ ora che la giurisprudenza interventa in modo deciso sul grave problema della rimorosità prodotta dai clienti dei locali che tengono aperto fino a tardi alla sera. In attesa che intervenga il legislatore (improbabile)

<<3.2. – Ciò premesso, è errata la premessa da cui muove la Corte territoriale, poiché la tutela del privato che lamenti la lesione, anzitutto, del diritto alla salute (costituzionalmente garantito e incomprimibile nel suo nucleo essenziale (Cost., art. 32)), ma anche del diritto alla vita familiare (convenzionalmente garantito (art. 8 CEDU: cfr., tra le altre, Cass. n. 2611/2017; Cass. n. 19434/2019; Cass. n. 21649/2021)) e della stessa proprietà (che rimane diritto soggettivo pieno sino a quando non venga inciso da un provvedimento che ne determini l’affievolimento (Cass. n. 1636/1999)), cagionata dalle immissioni (nella specie, acustiche) intollerabili, ex art. 844 c.c., provenienti da area pubblica (nella specie, da una strada della quale la Pubblica Amministrazione è proprietaria), trova fondamento, anche nei confronti della P.A., anzitutto nelle stesse predette norme a presidio dei beni oggetto dei menzionati diritti soggettivi.

La P.A. stessa, infatti, è tenuta ad osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni e, quindi, il principio del neminem laedere, con ciò potendo essere condannata sia al risarcimento del danno (artt. 2043 e 2059 c.c.) patito dal privato in conseguenza delle immissioni nocive che abbiano comportato la lesione di quei diritti, sia la condanna ad un facere, al fine di riportare le immissioni al di sotto della soglia di tollerabilità, non investendo una tale domanda, di per sé, scelte ed atti autoritativi, ma, per l’appunto, un’attività soggetta al principio del neminem laedere (tra le più recenti: Cass., S.U., n. 21993/2020; Cass., S.U., n. 25578/2020; Cass., S.U., n. 23436/2022; Cass., S.U., n. 27175/2022; Cass., S.U., n. 5668/2023).

Ne consegue la titolarità dal lato passivo del convenuto Comune di (Omissis) a fronte delle domande, risarcitoria e inibitoria, proposte dagli attori a fronte del dedotto vulnus che le immissioni intollerabili, provenienti dalla strada comunale in cui si trova la loro abitazione, sono idonee a cagionare ai diritti dai medesimi vantati.

3.3. – Posta tale diversa premessa, e’, altresì, errata la decisione della Corte territoriale di ritenere, di per sé, infondate le domande attoree in quanto esorbitanti dai limiti interni della giurisdizione del giudice ordinario.

Anzitutto, la domanda di risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dagli attori in conseguenza delle immissioni acustiche intollerabili, non postula alcun intervento del giudice ordinario di conformazione del potere pubblico e, dunque, non spiega alcuna incidenza rispetto al perimetro dei limiti interni della relativa giurisdizione, ma richiede soltanto la verifica della violazione da parte della P.A. del principio del neminem laedere e, dunque, della sussistenza o meno della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., per aver mancato di osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni quale condotta, connotata da c.d. colpa generica, determinativa di danno ingiusto per il privato.

Anche la domanda volta a far cessare le immissioni intollerabili, come detto, non implica, di per sé, una attribuzione al giudice ordinario di poteri esorbitanti rispetto a quelli previsti dall’ordinamento e, dunque, ad esso inibiti dal principio desumibile dalla L. 20 marzo 1865 n. 2248 All. E., art. 4, comma 2, siccome incidenti sul potere discrezionale riservato alla Pubblica Amministrazione nell’espletamento dei suoi compiti istituzionali.

La circostanza che il primo giudice avesse predeterminato il facere del Comune convenuto imponendo ad esso taluni comportamenti implicanti l’adozione di provvedimenti discrezionali ed autoritativi – come l’effettuazione di un servizio pubblico di vigilanza, organizzandone anche le modalità operative – non impediva, però, ogni diversa delibazione del giudice di secondo grado, coerente con la portata della domanda formulata dagli attori, che fosse volta ad imporre alla P.A. (non già le modalità di esercizio del potere discrezionale ad essa spettante, ma) di procedere agli interventi idonei ed esigibili per riportare le immissioni acustiche entro la soglia di tollerabilità, ossia quegli interventi orientati al ripristino della legalità a tutela dei diritti soggettivi violati>>.

Il danno aquiliano va risarcito al netto del valore capitalizzato dell’assegno di invalidità (ed altri insegnamenti in tema di responsabilità aquiliana da sinistro stradale)

Cass. Civ., Sez. III, Ord., 17 maggio 2023, n. 13540; Pres. Travaglino, Rel. Rubino:

<<Come già affermato da questa Corte, in tema di danno patrimoniale patito dalla vittima di un illecito, dall’ammontare del risarcimento a tale titolo liquidato dal giudice deve essere detratto il valore capitale dell’assegno di invalidità erogato dall’INPS, attese la funzione indennitaria assolta da tale emolumento e la possibilità per l’ente previdenziale di agire in surrogazione nei confronti del terzo responsabile o del suo assicuratore.

Il principio è stato già affermato, in relazione all’assegno ordinario di invalidità corrisposto, ex art. 1 della l. n. 222 del 1984, dall’INPS alla vittima di un incidente stradale, da Cass. n. 4734 del 2019, nella cui motivazione si dà conto delle ragioni per estendere a questa ipotesi, non ricompresa originariamente tra quelle oggetto a suo tempo del giudizio, i principi in tema di compensatio dettati dalle Sezioni Unite del 2018, in particolare da Cass. S.U. n. 12566 del 2018. L’ipotesi era, come nella specie, quella della erogazione di una prestazione previdenziale da parte dell’INPS in conseguenza del sinistro. In quella sede si è precisato, con osservazione puntualmente riferibile anche al caso in esame, che non rileva se l’INPS sia o meno parte in causa nel giudizio odierno; ciò che conta è, invece, che esso abbia il diritto di agire in surroga nei confronti del danneggiante. L’ente previdenziale, infatti, se ha riconosciuto al A.A. il diritto ad un assegno di invalidità in conseguenza del medesimo fatto dannoso, ha comunque diritto ad agire in surroga nei confronti del terzo responsabile o del suo assicuratore (nella specie, la UCI). Tanto basta, dando continuità all’insegnamento delle Sezioni Unite, per riconoscere il diritto della compagnia di assicurazioni ad ottenere che dall’entità globale del danno risarcibile al A.A. venga detratta la somma capitalizzata corrispondente all’introito pensionistico a lui erogato dall’INPS. Che l’INPS, poi, abbia esercitato o meno la surroga non assume rilievo, perchè il diritto si è comunque trasferito; ed è evidente che consentire al danneggiato di cumulare l’assegno di invalidità con l’intero risarcimento significa, di fatto, esporre l’assicuratore del responsabile civile all’obbligo di un doppio pagamento per la medesima parte di danno. Il motivo è pertanto accolto; al giudice di rinvio spetterà il compito di accertare, sulla base della documentazione prodotta, se la prestazione sia stata effettivamente riconosciuta ed erogata dall’INPS e in quale misura e in caso positivo di compiere la relativa operazione di calcolo, erogando al danneggiato il solo danno differenziale>>.

(segnalazione e testo da Ondif)

Ci sono però altre interessanti considerazioni :

– sull’art. 2054 /2 cc: <<In caso di scontro tra veicoli, l’applicazione della presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054, comma 2 c.c. è una regola sussidiaria, legittimamente applicabile per ripartire le responsabilità non solo nei casi in cui sia certo l’atto che ha causato il sinistro ma sia incerto il grado di colpa attribuibile ai diversi conducenti, ma anche quando non sia possibile accertare il comportamento specifico che ha causato il danno, con la conseguenza che, in tutti i casi in cui sia ignoto l’atto generatore del sinistro, causa presunta dell’evento devono ritenersi in eguale misura i comportamenti di entrambi i conducenti coinvolti nello scontro, anche se solo uno di essi abbia riportato danni (Cass. n. 15376 del 2022). La prova liberatoria per il superamento di detta presunzione può essere acquisita anche indirettamente tramite l’accertamento del collegamento eziologico esclusivo o assorbente dell’evento dannoso col comportamento dell’altro conducente (Cass. 13672 del 2019).

Al contrario, l’accertamento della colpa esclusiva di uno dei conducenti e della regolare condotta di guida dell’altro, libera quest’ultimo dalla presunzione di concorrente responsabilità fissata in via sussidiaria dall’art. 2054, comma 2 c.c.

Nel caso in cui, come nella specie, sia stata accertata in capo ad uno dei due conducenti la precisa violazione di una o più regole di condotta (e’ stata accertata, in capo alla conducente dell’autovettura, la violazione dell’obbligo di dare la precedenza ai veicoli provenienti dall’opposto senso di marcia, ed anche dell’obbligo di usare la massima prudenza), e l’accertamento di responsabilità si fondi, nella decisione di primo grado, su una valutazione ricostruttiva ancorata a precisi elementi istruttori entrati a far parte del materiale probatorio da valutare, l’affermazione della corte d’appello, secondo la quale non era certo che lo svolgimento dei fatti fosse stato in effetti quello ricostruito dal primo giudice, ed era astrattamente possibile che la dinamica dell’incidente fosse stata completamente diversa, esplicita un mero convincimento interiore che ipotizza, senza alcun riferimento ai fatti di causa, una alternativa ed ipotetica ricostruzione della dinamica di carattere meramente declamatorio, senza confrontarsi con la motivazione della sentenza di primo grado né con le risultanze istruttorie acquisite agli atti. In presenza di una serie di elementi obiettivi entrati a far parte del giudizio, non è consentito applicare la presunzione di pari responsabilità se non a mezzo di una motivata ricostruzione della dinamica ancorata alle risultanze istruttorie, delle quali ben può essere fornita una diversa lettura e riconosciuta una diversa rilevanza all’interno della formazione del convincimento, ma dalle quali non si può completamente prescindere per formulare una diversa ricostruzione meramente ipotetica e, sulla base di quella, applicare la presunzione di corresponsabilità a carico dei due soggetti coinvolti nello scontro>>.

– danno non patriminuale alle vittime c.d. riflesse, in generale:

<<12.1. Va tenuto in considerazione, quanto ai criteri da adottare per il riconoscimento e per la quantificazione del danno non patrimoniale alle vittime riflesse, che nel caso di specie oggetto della quantificazione non è il danno da morte del prossimo congiunto, e quindi da perdita del rapporto parentale, ma il danno che subiscono i congiunti in conseguenza delle lesioni – in questo caso gravissime- subite dalla vittima principale, tali da recare dolore e pena ai parenti, e da incidere pesantemente sullo svolgimento della vita quotidiana della intera famiglia.

E’ affermazione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità che ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito, lesioni personali, può spettare anche il risarcimento del danno non patrimoniale concretamente accertato da lesione del rapporto parentale, in relazione ad una particolare situazione affettiva della vittima, non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso.

In tal caso, traducendosi il danno in un patema d’animo ed anche in uno sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto, esso non è accertabile con metodi scientifici e può essere accertato in base a indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (già Cass. n. 8546 del 2008). In tema di danni conseguenti a sinistro stradale, si è detto che il danno “iure proprio” subito dai congiunti della vittima non è limitato al solo totale sconvolgimento delle loro abitudini di vita, potendo anche consistere in un patimento d’animo o in una perdita vera e propria di salute. Tali pregiudizi possono essere dimostrati per presunzioni, fra le quali assume rilievo il rapporto di stretta parentela esistente fra la vittima ed i suoi familiari che fa ritenere, secondo un criterio di normalità sociale, che essi soffrano per le gravissime lesioni riportate dal loro prossimo congiunto (Cass. n. 11212 del 2019; Cass. n. 7748 del 2020). Si è anche puntualizzato, da ultimo, che non sussiste in effetti alcun “limite” normativo per il danno da lesione del rapporto parentale, nel senso che possa sussistere soltanto se gli effetti stabiliti dal danno biologico sul congiunto siano particolarmente elevati (Cass. n. 1752 del 2023).

La questione è meramente di prova: il parente, secondo i principi generali – e dunque anche per via presuntiva – ha l’onere di dimostrare che è stato leso dalla condizione del congiunto, per cui ha subito un danno non patrimoniale parentale.

L’esistenza stessa del rapporto di parentela può dunque far presumere la sofferenza del familiare, ferma restando la possibilità, per la controparte, di dedurre e dimostrare l’assenza di un legame affettivo, perché la sussistenza del predetto pregiudizio, in quanto solo presunto, può essere esclusa dalla prova contraria, a differenza del cd. “danno in re ipsa”, che sorge per il solo verificarsi dei suoi presupposti senza che occorra alcuna allegazione o dimostrazione – danno che non trova cittadinanza nel nostro ordinamento, giusta l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte (Cass. s.u. 26492 del 2008; Cass. n. 25541 del 2022).

Vanno poi considerate distintamente le varie posizioni e valutare se sia stato individuato il criterio appropriato da seguire per quantificare il danno, se dovuto>>.

– sul danno non patrimoniale ai nonni, in particolare:

<< Alla stregua dei criteri sopra richiamati, ha errato la sentenza impugnata laddove ha negato, tout court, la risarcibilità del danno non patrimoniale in capo ai genitori del B., in quanto non conviventi, là dove da questa mera circostanza di fatto, comunissima nella vita delle persone adulte che formano propri nuclei familiari autonomi, e tuttavia non direttamente incidente sulla permanenza dei legami affettivi, ha tratto la conclusione che essi, in quanto non conviventi, non potessero ritenersi significativamente colpiti dai gravi danni alla persona e dalle sofferenze patiti dal figlio, in misura giuridicamente rilevante, invece di presumere, sulla base dello stretto legame parentale, l’esistenza di un danno non patrimoniale apprezzabile in termini di sofferenza per il dolore altrui, salvo prova contraria sulla inesistenza di un reale rapporto affettivo. La mancata convivenza, per i genitori, può al più incidere sulla componente dinamico relazionale, ma non certo, di per sé, eliminarne la sofferenza morale pura>>.

– sul danno non patrimoniale alla figlia convivente (in gravidanza all’epoca):

<<Ugualmente, e con ancor più censurabile superficialità e noncuranza, ha errato la corte d’appello laddove ha escluso che la figlia del B., diciannovenne all’epoca dei fatti e convivente con la famiglia di origine, possa aver patito alcun pregiudizio non patrimoniale solo “perché incinta all’epoca dei fatti”.

In primo luogo, la sentenza non fa corretta applicazione, anche in questo caso, dei principi sopra indicati, che indicano una presunzione di afflittività in favore dei prossimi congiunti, tanto più se, come in questo caso, conviventi.

Le considerazioni della corte d’appello secondo le quali poi la ragazza, in quanto proiettata verso la sua futura esperienza di madre, non avrebbe sofferto più di tanto per il fatto dannoso, destinato invece necessariamente a proiettare la sua ombra sia sull’evento della nascita che sulla successiva organizzazione della vita familiare, cambiando il modo di vita, la distribuzione dei compiti, le attività della sua famiglia d’origine, e da offuscare la gioia e la condivisione familiare per il bambino in arrivo, appaiono totalmente inconsapevoli delle ripercussioni della mancanza del supporto di un genitore attivo (e probabilmente, della mancanza del supporto di entrambi i genitori, atteso che la madre sarà stata in gran parte assorbita dalla necessità di prestare assistenza al marito), sul quale la ragazza sapeva di poter contare proprio in ragione della convivenza, nel difficile momento della nascita, così giovane, del primo figlio. Esse risultano quindi totalmente prive di logica. Inoltre, con ulteriore contraddizione, la sentenza recupera incomprensibilmente, per negare il risarcimento alla figlia, la rilevanza della figura dei nonni, genitori della vittima principale, benché non conviventi, affermando che la loro esistenza rilevasse al fine di lenire la sofferenza, e quindi il danno, degli altri congiunti>

– danno al nipote nascituro (negato): <<Diversa è la posizione del nipote nascituro, in relazione al quale il motivo di ricorso deve essere rigettato.

In relazione al nipote non ancora nato al momento dell’incidente non sussiste, in difetto dell’attualità del rapporto, una presunzione di afflittività conseguente alla necessaria riconfigurazione del rapporto stesso col nonno, fin dal suo sorgere, conseguente alle menomate condizioni fisiche di questi. L’esistenza di un pregiudizio subito dal nipote per i danni alla persona riportati dal nonno è un danno futuro soltanto eventuale, come tale non risarcibile (per una vicenda in parte assimilabile a quella in esame, v. Cass. n. 12987 del 2022, che ha escluso la risarcibilità dei danni invocati dalla nipote di un uomo deceduto in un sinistro stradale che, all’epoca della perdita del nonno, aveva otto mesi): quando il bambino, venuto alla luce, conoscerà il nonno, il loro rapporto si configurerà fin dall’inizio sulle possibilità fisiche che avrà questi al momento del loro incontro, e non è automatico né presumibile che da una limitata mobilità fisica del nonno il rapporto affettivo tra i due possa essere limitato o deteriorato>>.

Risarcimento in forma specifica vs rirsarcimento per equjivalente

Il punto della disciplina sul tema in oggetto è fatto da Cass. 20.04.2023 sez. III n° 10.686:

<<la disposizione dell’art. 2058 c.c. prevede che il danneggiato possa chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile (1 co.), consentendo tuttavia al giudice di disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore; ciò significa che, in relazione al danno subito da un veicolo, nel primo caso la somma dovuta è calcolata sui costi necessari per la riparazione, mentre nel secondo è riferita alla differenza fra il valore del bene integro (ossia nel suo stato ante sinistro) e quello del bene danneggiato (cfr. Cass. n. 5993/1997 e Cass. n. 27546/2017), ovvero nella “differenza fra il valore commerciale del veicolo prima dell’incidente e la somma ricavabile dalla vendita di esso, nelle condizioni in cui si è venuto a trovare dopo l’incidente, con l’aggiunta ulteriore della somma occorrente per le spese di immatricolazione e accessori del veicolo sostitutivo di quello danneggiato” (Cass. n. 4035/1975);

le due modalità di liquidazione si pongono, fra loro, in un rapporto di regola ed eccezione, nel senso che la reintegrazione in forma specifica (che vale a ripristinare la situazione patrimoniale lesa mediante la riparazione del bene) costituisce la modalità ordinaria, che può tuttavia essere derogata dal giudice -con valutazione rimessa al suo prudente apprezzamento (“può disporre”)- in favore del risarcimento per equivalente, laddove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per la parte obbligata;

quanto all’eccessiva onerosità, la giurisprudenza di legittimità l’ha ritenuta ricorrente “allorquando il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo” (Cass. n. 2402/1998, Cass. n. 21012/2010 e Cass. n. 10196/2022), non mancando di rilevare che, se la somma occorrente per la reintegrazione in forma specifica “supera notevolmente il valore di mercato dell’auto, da una parte essa risulta eccessivamente onerosa per il debitore danneggiante e dall’altra finisce per costituire una locupletazione del danneggiato” (Cass. n. 24718/2013, in motivazione, a pag. 5);

ritiene il Collegio che, nel bilanciamento fra l’esigenza di reintegrare il danneggiato nella situazione antecedente al sinistro e quella di non gravare il danneggiante di un costo eccessivo, l’eventuale locupletazione per il danneggiato costituisca un elemento idoneo a orientare il giudice nella scelta della modalità liquidatoria e, al tempo stesso, un dato sintomatico della correttezza dell’applicazione dell’art. 2058,2 co. c.c.;

invero, va considerato che il danneggiato può avere serie ed apprezzabili ragioni per preferire la riparazione alla sostituzione del veicolo danneggiato (ad es., perché gli risulta più agevole la guida di un mezzo cui è abituato o perché vi sono difficoltà di reperirne uno con caratteristiche similari sul mercato o perché vuole sottrarsi ai tempi della ricerca di un veicolo equipollente e ai rischi di un usato che potrebbe rivelarsi non affidabile) e che una piena soddisfazione delle sue ragioni risarcitorie può comportare un costo anche notevolmente superiore a quello della sostituzione;

per altro verso, al debitore non può essere imposta sempre e comunque (a qualunque costo) la reintegrazione in forma specifica, dato che l’obbligo risarcitorio deve essere comunque parametrato a elementi oggettivi e che, pur tenendo conto dell’interesse del danneggiato al ripristino del bene e della possibilità che i costi di tale ripristino si discostino anche in misura sensibile dal valore di scambio del bene, non può consentirsi che al danneggiato venga riconosciuto più di quanto necessario per elidere il pregiudizio subito (ostandovi il principio -sotteso all’intero sistema della responsabilità civile- secondo cui il risarcimento deve essere integrale, ma non può eccedere la misura del danno e comportare un arricchimento per il danneggiato);

come si è visto, la giurisprudenza di legittimità ha individuato il punto di equilibrio delle contrapposte esigenze facendo riferimento alla necessità che il costo delle riparazioni non superi “notevolmente” il valore di mercato del veicolo danneggiato; si tratta di un criterio che si presta a tutelare adeguatamente la posizione dell’obbligato rispetto ad eccessi liquidatori, ma non anche a tener conto della necessità di non sacrificare specifiche esigenze del danneggiato a veder ripristinato il proprio mezzo; esigenze che -come detto- debbono trovare tutela nella misura in cui risultino idonee a realizzare la migliore soddisfazione del danneggiato e, al tempo stesso, non ne comportino una indebita locupletazione;

in tale ottica, deve dunque ritenersi che, ai fini dell’applicazione dell’art. 2058,2 co. c.c., la verifica di eccessiva onerosità non possa basarsi soltanto sull’entità dei costi, ma debba anche valutare se la reintegrazione in forma specifica comporti o meno una locupletazione per il danneggiato, tale da superare la finalità risarcitoria che le è propria e da rendere ingiustificata la condanna del debitore a una prestazione che ecceda notevolmente il valore di mercato del bene danneggiato;>>

che però poi precisa:

<<tuttavia, per completezza di disamina, non può non considerarsi che, laddove il danneggiato decida -com’e’ suo diritto- di procedere alla riparazione anziché alla sostituzione del mezzo danneggiato, non risulta giustificato (perché si tradurrebbe in una indebita locupletazione per il responsabile) il mancato riconoscimento di tutte le voci di danno che competerebbero in caso di rottamazione e sostituzione del veicolo; invero, a fronte di un danno accertato, l’opzione del giudice in favore del criterio liquidativo per equivalente deve necessariamente comportare il riconoscimento di tutte le voci di danno che sarebbero spettate al danneggiato se non avesse scelto di riparare il mezzo e, quindi, anche di costi che non siano stati effettivamente sostenuti, ma che sono necessariamente da considerare nell’ambito di una liquidazione per equivalente che, per essere tale, deve comprendere tutti gli importi occorrenti per elidere il danno mediante la sostituzione del veicolo danneggiato; non si tratta, a ben vedere, di liquidare danni non verificatisi, ma di utilizzare in modo coerente, in relazione al danno cristallizzatosi al momento del sinistro, la tecnica liquidatoria prescelta; tecnica che risulta comunque tale da comportare, per l’obbligato, un esborso inferiore a quello cui sarebbe stato tenuto in caso di risarcimento in forma specifica; in tal modo pervenendosi a tutelare il danneggiante rispetto ad esborsi eccessivi conseguenti a scelte del danneggiato, senza tuttavia riconoscergli una locupletazione per il fatto che il danneggiato abbia preferito riparare il mezzo (e senza “punire” quest’ultimo per il fatto di avere compiuto tale legittima scelta, come avverrebbe se gli si riconoscesse meno di quanto avrebbe ricevuto se avesse rottamato l’auto);>> (grassetti nell’originale).

Tribunale di Milano con sentenza dettagliatissima sulla (non operatività della) compensatio lucri cum damno tra risarcimento del danno e indennizzo da polizza infortuni

Sull’oggetto v. l’ampio esame condotto da Trib. Milano 11/04/2023, n. 2894, Rg 4337/2020, giudice D. Spera, che esclude la compensazione, dopo accurto esame della disciplina delle polizze infrotunui, non espressamente regolate dal cc.

L’assicurtore aveva ricnuncviato alla rivalsa.

sulla polizza sub iudice. <<In definitiva, ritiene il Tribunale che la polizza stipulata dalle parti, per come in concreto articolata, risponda ad una finalità previdenziale: il sig. P.B. ha inteso cautelarsi contro il rischio di morte o invalidità permanente, sopportando il pagamento di una serie di premi e assicurandosi la possibilità di poter celermente disporre, in caso di verificazione di un evento traumatico, di una somma di denaro certa nel suo ammontare e proporzionata – in quanto ancorata ad un prescelto capitale assicurato – non già al danno effettivamente patito, ma alla propria capacità di spesa e alla propria propensione all’investimento previdenziale.
Il contratto assicurativo stipulato dal sig. P.B., quindi, lungi dall’assolvere una funzione di neutralizzazione di un pregiudizio subito, intende precipuamente garantire all’assicurato (o ai suoi familiari in caso di decesso) una provvidenza dallo stesso stimata come idonea. E ciò dovrebbe valere sia nel caso di infortunio letale, sia nel caso di trauma solo invalidante: non si vede del resto per quale ragione la finalità previdenziale (riconosciuta dalleSezioni Unite n. 5119/2002 solo per gli esiti mortali) dovrebbe mutare a seconda dell’evento – letale o non letale – che in concreto si verifica …   Sulla base delle considerazioni che precedono, si può dunque ritenere che la polizza “Fortuna” non possa essere ricondotta al genus delle assicurazioni contro i danni, stante l’ontologica diversità tra la res e la persona.
La stessa polizza però non può neppure essere ricondotta tout court al ramo delle assicurazioni sulla vita, sebbene con essa condivida la medesima finalità previdenziale, non trattandosi di assicurazione stipulata sulla “vita propria o su quella di un terzo” come prevede l’art. 1919 c.c.
Deve piuttosto ritenersi che trattasi di un contratto assicurativo dal contenuto atipico, ma riconducibile al modello generale di cui all’art. 1882, seconda parte, c.c., essendo evidente che – come affermato dalla dottrina e come ritenuto da pronunce giurisprudenziali antecedenti alla sentenza delle Sezioni Unite n. 5119/2002 – un infortunio è certamente “un evento attinente alla vita umana”..>>

<<Sulla base delle considerazioni che precedono, si può dunque ritenere che la polizza “Fortuna” non possa essere ricondotta al genus delle assicurazioni contro i danni, stante l’ontologica diversità tra la res e la persona.
La stessa polizza però non può neppure essere ricondotta tout court al ramo delle assicurazioni sulla vita, sebbene con essa condivida la medesima finalità previdenziale, non trattandosi di assicurazione stipulata sulla “vita propria o su quella di un terzo” come prevede l’art. 1919 c.c.
Deve piuttosto ritenersi che trattasi di un contratto assicurativo dal contenuto atipico, ma riconducibile al modello generale di cui all’art. 1882, seconda parte, c.c., essendo evidente che – come affermato dalla dottrina e come ritenuto da pronunce giurisprudenziali antecedenti alla sentenza delle Sezioni Unite n. 5119/2002 – un infortunio è certamente “un evento attinente alla vita umana” . (…)Alla luce delle esposte considerazioni, la polizza “Fortuna”, pur non rientrando nei due genera assicurativi disciplinati dal codice (rispettivamente agli artt. 1904 e ss. agli artt. 1919 e ss. c.c.), cionondimeno, condivide con l’assicurazione sulla vita la stessa natura previdenziale, trovando
tale contratto assicurativo ragione – per com’è articolato dalle parti attraverso la previsione della rinuncia alla rivalsa – nella precauzione di introdurre una forma di provvidenza, volta non tanto ad elidere il danno, ma a garantire all’assicurato una maggiore tranquillità economica al verificarsi di un evento avverso.       Per l’effetto, si deve ritenere che la polizza “Fortuna” stipulata dal sig. Bassi, stante la sua natura sostanzialmente previdenziale, soggiace prevalentemente alle norme dettate per l’assicurazione sulla vita, giustificandosi così l’inoperatività del principio indennitario, con la conseguenza che dalla somma liquidata a titolo di risarcimento in favore dell’attore non dev’essere scomputato l’indennizzo corrisposto dalla Zurich Insurance PL >>

Danno emergente, lucro cessante e danno non patrimoniale a società commerciale in caso di violazioni di marchio

Cass. sez. 1 del 8 marzo 2023 n. 6876, rel. Catallozzi, Da Peng srl c. Giorgio Armani spa:

<< – ciò posto, si osserva che il danno risarcibile per atto di concorrenza sleale comprende, in applicazione dei criteri generali di cui agli artt. 1223 e 2056 c.c., sia il danno emergente, sia il lucro cessante;

– il primo può consistere nelle spese vanificate dall’illecito (per esempio, le spese pubblicitarie il cui ritorno è stato compromesso dall’attività illecita del concorrente), nelle spese affrontate per ovviare all’illecito (per esempio, le spese sostenute per la scoperta dell’altrui condotta pregiudizievole e per acquisirne la prova; quelle per informare il pubblico dell’altrui illecito) e in quelle imposte dall’esigenza di ovviare al pregiudizio subito dagli asset aziendali per la perdita di valore e/o, della capacità produttività e di penetrazione nel mercato;

– il secondo si risolve essenzialmente nel mancato guadagno del titolare eziologicamente legato alla concorrenza dell’autore della violazione, in relazione alla compressione dei ricavi dovuta alla diminuzione delle vendite – eventualmente anche di prodotti gemellati – o alla erosione del prezzo di mercato del prodotto;

– tali voci di danno vanno tenute distinte dal danno non patrimoniale, consistente nella lesione alla reputazione di un soggetto – ivi incluso una persona giuridica – derivante dalla diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali l’ente interagisca, allorquando l’atto lesivo che determina la proiezione negativa sulla reputazione dell’ente sia immediatamente percepibile dalla collettività o da terzi (cfr. Cass. 26 gennaio 2018, n. 2039; Cass. 25 luglio 2013, n. 18082; sulla risarcibilità del danno non patrimoniale, cfr. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972);

– la distinzione delle diverse voci risarcitorie si impone non solo per esigenze di una loro corretta qualificazione, ma anche per evitare il rischio di duplicazione delle poste risarcitorie;

– va, infatti, scongiurato il pericolo che la generica allegazione della lesione dell’immagine e del prestigio imprenditoriale dia luogo al riconoscimento di poste risarcitorie distinte, seppur relative al medesimo pregiudizio;

– tale pericolo appare particolarmente concreto in ragione della sottile linea di demarcazione tra danno morale da lesione alla reputazione e danno patrimoniale da discredito, da individuarsi, il primo, nel pregiudizio alla corretta identificazione del soggetto che ne è titolare nella sua comunità di riferimento e, il secondo, nel pregiudizio alla produttività e al posizionamento sul mercato;

– la tutela risarcitoria per atti di concorrenza sleale va accordata anche con riferimento alla realizzazione di atti preparatori rispetto a quelli presi in considerazione dall’art. 2598 c.c., avuto riguardo all’esigenza di prevenzione dell’illecito evidenziata dalla previsione del rimedio inibitorio, qualora sia dimostrata l’esistenza di un danno ad essa eziologicamente collegata;

– l’esecuzione di un’attività prodromica – soprattutto se inequivocabilmente orientata alla realizzazione di condotte concorrenziali sleali – può, dunque, di per sé, assumere rilevanza ai fini risarcitori pur in assenza dell’effettivo compimento dell’atto ritenuto illecito, nei limiti in cui la stessa arrechi pregiudizio al concorrente;

– qualora, poi, come nel caso in esame, il pregiudizio riguardi l’immagine e l’apprezzamento che i consumatori nutrono per i prodotti commercializzati con un determinato segno distintivo, la vittima ha diritto al risarcimento non solo del danno emergente e del danno non patrimoniale, in presenza dei presupposti indicati in precedenza, ma anche del danno da lucro cessante, laddove la condotta illecita abbia determinato una contrazione dei suoi ricavi o, comunque, una incidenza sul relativo importo;

– da ciò consegue che la decisione della Corte di appello, nella parte in cui ha ritenuto compatibile l’esistenza di un danno da lucro cessante con una condotta illecita confusoria realizzata mediante il compimento di soli atti prodromici (e in assenza, dunque, della commercializzazione dei relativi prodotti), non si pone in contrasto con le regole di diritto che presiedono alla liquidazione dei danni da concorrenza sleale; >> .

Un paio di osservazioni:

i) ex art. 20.2 cpi anche la detenzione a fini di successiva commercializzazione rientra nella esclusiva;

ii) il danno non patrimoniale in un ente, contrattualmente creato per fare profitto, rimane da spiegare

La prova del mancato guadagno dell’avvocato colpito da invalidità temporanea

Utili precisazioni da Cass. 1 febbraio 2023 n. 3.018, sez. 6, rel. Iannello, circa il danno subito da un avvocato caduto a terra nel cortile del proprio condominio.

Riporto il pasaggio della corte di appello sul tema in oggetto, che il ricorso in parte qua non è riuscito a scalfire secondo la SC,  che quindi lo rigetta:

<< La Corte d’appello ha confermato il rigetto, per tale parte, della domanda risarcitoria per difetto di prova, sulla base dei seguenti testuali rilievi (v. pagg. 6 – 7 della sentenza):

“La valutazione equitativa è subordinata alla dimostrata esistenza di un danno risarcibile certo e non solo meramente eventuale o ipotetico, ed alla circostanza dell’impossibilità o estrema difficoltà di prova nel suo preciso ammontare.

“Nel caso di specie non vi è alcuna certezza del danno, sia perché il c.t.u. medico legale non ha rilevato un danno alla capacità lavorativa specifica di avvocato, sia perché, seguendo le stesse argomentazioni dell’appellante, la professione forense non è soggetta ad un guadagno quotidiano legato all’apertura o meno dello studio, come potrebbe essere nel caso di un esercizio commerciale, ma è fatta di ricavi e di lavoro spalmati nel tempo.

“Non e’, quindi, improbabile che un avvocato temporaneamente impossibilitato a muoversi, possa rinviare i propri appuntamenti e le proprie cause per motivi di salute, continuando a lavorare da casa per quanto possibile (redazione degli atti, contatti con i propri collaboratori ecc.) evitando, così, di subire decrementi patrimoniali.

“Non e’, quindi, condivisibile l’assunto dell’appellante per cui il danno sarebbe in re ipsa, essendo, comunque, necessaria la dimostrazione, quantomeno generica, della patita contrazione reddituale….

“Nel caso di specie l’appellante avrebbe avuto la possibilità, mediante la produzione delle sue dichiarazioni dei redditi prima e dopo il sinistro, di dare prova di un’eventuale contrazione del proprio reddito, tenuto conto che il sinistro si è verificato nel (Omissis), la causa è iniziata alla fine del 2007 ed il termine per le produzioni documentali scadeva nel 2008.

“Viceversa, lo stesso non ha mai depositato un solo documento di tipo contabile da cui fosse evincibile il richiesto danno patrimoniale, limitandosi a produrre, solo nel presente grado, e quindi in modo tardivo ed inammissibile, la propria dichiarazione dei redditi relativa al solo anno 2005, peraltro inidonea a provare il lamentato decremento.

“In tal modo il Tribunale non solo non ha avuto la prova del danno, ma nemmeno un parametro su cui orientarsi, così che anche una liquidazione in via equitativa risultava impossibile in quanto svincolata da qualsiasi riferimento certo”  >>.

Diffamazione a carico di ente commerciale: nella lite risarcitoria ENI c. Travaglio è arrivata la sentenza che rigetta la domanda di ENI

Con sentenza 14.12.2022 n° 18412/2022, RG 65990/2020, rel. Bile Corrado, il Tribunale di Roma rigetta la domanda risarcitoria di ENI vs. Il Fatto Quotidiano e il direttore Travaglio.

Il fatto dedotto consisteva in una lunga serie di articoli assai critici verso l’operato di ENI spt. in Africa, asseritamente diffamanti .

IL Trib. li esamina partitamente ma non ravvisa lesione della reputazione rilevante sotto il profilo aquiliano (art. 2043 cc).

Distingue il diritto di cronca dal diritto di critica, approfondendo il secondo.

Si appoggia alla “vecchia” Cass. 5259 del 1984 e al suo noto c.d decalogo del giornalista.

Ricorda che è ammessa una certa dose di esagerazine e provocazione, come ammesso anche da Corte EDU del 2016, ric. 49132/11..

Nel caso specifico <<dalla lettura emerge che la struttura argomentativa è sempre la stessa. Vengono presentate le vicende avvertendo il lettore che si tratta di questioni ancora oggetto di indagine e sulle quali, allo stato, non si è accertata alcuna responsabilità penale e, al contempo, si esprime un’opinione critica sull’opportunità di una scelta politica>>,.

Rigetta la domanda di sanzione per abuso del processo ex art. 96.3 cpc per assenza di malafede e colpa grave.

Spese di lite assestate ad euro 7.600+15% per spese generali.-

In una delle sue conclusioni ENI chiedeva la condanna di controparte a restituire <<l’ingiusto profitto ottenuto in consguenza dell’illecito>>. Domanda curiosa, perchè la norma esplicita è presente solo nel c.p.i. (ambigua invece nella l. aut.) ,ma non nel c.c.  Qui andrebbe ricostruita con complesso lavoro ermeneutico, a partire dalla pionieristica monografia di  Sacco del 1959 (v. ora l’ampio lavoro di Gatti S., Il problema dell’illecito lucrativo tra norme di settore e diritto privato generale, ESI, 2021)

Nessun cenno al concetto di diffamazione quando applicato ad un ente, per di più commerciale: l’art. 595 cp infatti difficilmente è applicabile a soggetti collettivi.