La prova del mancato guadagno dell’avvocato colpito da invalidità temporanea

Utili precisazioni da Cass. 1 febbraio 2023 n. 3.018, sez. 6, rel. Iannello, circa il danno subito da un avvocato caduto a terra nel cortile del proprio condominio.

Riporto il pasaggio della corte di appello sul tema in oggetto, che il ricorso in parte qua non è riuscito a scalfire secondo la SC,  che quindi lo rigetta:

<< La Corte d’appello ha confermato il rigetto, per tale parte, della domanda risarcitoria per difetto di prova, sulla base dei seguenti testuali rilievi (v. pagg. 6 – 7 della sentenza):

“La valutazione equitativa è subordinata alla dimostrata esistenza di un danno risarcibile certo e non solo meramente eventuale o ipotetico, ed alla circostanza dell’impossibilità o estrema difficoltà di prova nel suo preciso ammontare.

“Nel caso di specie non vi è alcuna certezza del danno, sia perché il c.t.u. medico legale non ha rilevato un danno alla capacità lavorativa specifica di avvocato, sia perché, seguendo le stesse argomentazioni dell’appellante, la professione forense non è soggetta ad un guadagno quotidiano legato all’apertura o meno dello studio, come potrebbe essere nel caso di un esercizio commerciale, ma è fatta di ricavi e di lavoro spalmati nel tempo.

“Non e’, quindi, improbabile che un avvocato temporaneamente impossibilitato a muoversi, possa rinviare i propri appuntamenti e le proprie cause per motivi di salute, continuando a lavorare da casa per quanto possibile (redazione degli atti, contatti con i propri collaboratori ecc.) evitando, così, di subire decrementi patrimoniali.

“Non e’, quindi, condivisibile l’assunto dell’appellante per cui il danno sarebbe in re ipsa, essendo, comunque, necessaria la dimostrazione, quantomeno generica, della patita contrazione reddituale….

“Nel caso di specie l’appellante avrebbe avuto la possibilità, mediante la produzione delle sue dichiarazioni dei redditi prima e dopo il sinistro, di dare prova di un’eventuale contrazione del proprio reddito, tenuto conto che il sinistro si è verificato nel (Omissis), la causa è iniziata alla fine del 2007 ed il termine per le produzioni documentali scadeva nel 2008.

“Viceversa, lo stesso non ha mai depositato un solo documento di tipo contabile da cui fosse evincibile il richiesto danno patrimoniale, limitandosi a produrre, solo nel presente grado, e quindi in modo tardivo ed inammissibile, la propria dichiarazione dei redditi relativa al solo anno 2005, peraltro inidonea a provare il lamentato decremento.

“In tal modo il Tribunale non solo non ha avuto la prova del danno, ma nemmeno un parametro su cui orientarsi, così che anche una liquidazione in via equitativa risultava impossibile in quanto svincolata da qualsiasi riferimento certo”  >>.

La determinazione del danno cd differenziale in caso di malattia preesistente (concorrente o coesistente)

Cass. 29 settembre 2022 n. 28.327 , sez. VI, rel. Iannello:

principi generali:

<<In materia di danno differenziale deve darsi continuità ai principi affermati da Cass. 11/11/2019, n. 28986 (e da ultimo ribaditi da Cass. 21/08/2020, n. 17555; 06/05/2021, n. 12052; 27/09/2021, n. 26117), secondo cui in tema di risarcimento del danno alla salute, la preesistenza della malattia in capo al danneggiato costituisce una concausa naturale dell’evento di danno ed il concorso del fatto umano la rende irrilevante in virtù del precetto dell’equivalenza causale dettato dall’art. 41 c.p., sicché di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno. Può costituire concausa dell’evento di danno anche la preesistente menomazione, vuoi “coesistente” vuoi “concorrente” rispetto al maggior danno causato dall’illecito, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica ai sensi dell’art. 1223 c.c..

In particolare, quella “coesistente” e’, di norma, irrilevante rispetto ai postumi dell’illecito apprezzati secondo un criterio controfattuale (vale a dire stabilendo cosa sarebbe accaduto se l’illecito non si fosse verificato) sicché anche di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno; viceversa, secondo lo stesso criterio, quella “concorrente” assume rilievo in quanto gli effetti invalidanti sono meno gravi, se isolata, e più gravi, se associata ad altra menomazione (anche se afferente ad organo diverso) sicché di essa dovrà tenersi conto ai fini della sola liquidazione del risarcimento del danno e non anche della determinazione del grado percentuale di invalidità che va determinato comunque in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni”.

In tema di liquidazione del danno alla salute, l’apprezzamento delle menomazioni policrone “concorrenti” in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall’illecito va compiuto stimando, prima, in punti percentuali, l’invalidità complessiva, risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall’illecito e poi quella preesistente all’illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro, con la precisazione che in tutti quei casi in cui le patologie pregresse non impedivano al danneggiato di condurre una vita normale lo stato di “validità” anteriore al sinistro dovrà essere considerato pari al cento per cento; procedendo infine a sottrarre dal valore monetario dell’invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente, fermo restando l’esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa secondo la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa, ove lo impongano le circostanze del caso concreto>>.

La differenza tra menomazioni preessitenti concorrenti e coesistenti era stata spiegata da Cass. 2019 n° 28.986, rel. Rossetti.

La SC passa a spiegare la ragione del’assunto:

<<Le ragioni che rendono necessaria l’adozione di tale corretto metodo di calcolo, in funzione del diritto all’integrale risarcimento del danno ascrivibile a responsabilità dei sanitari, sono le seguenti.

Sono le funzioni vitali perdute dalla vittima e le conseguenti privazioni a costituire il danno risarcibile, non il grado di invalidità, che ne è solo la misura convenzionale; tali privazioni (e le connesse sofferenze) progrediscono con intensità geometricamente crescente rispetto al crescere dell’invalidità; la misura convenzionale cresce invece secondo progressione aritmetica.

Ciò si riflette nel metodo di liquidazione che, dovendo obbedire al principio di integralità del risarcimento (art. 1223 c.c.), opera necessariamente, sia quando è disciplinato dalla legge, sia quando avvenga coi criteri introdotti dalla giurisprudenza, con modalità tali che il quantum debeatur cresce in modo più che proporzionale rispetto alla gravità dei postumi: ad invalidità doppie corrispondono perciò risarcimenti più che doppi.

Tale principio resterebbe vulnerato se, nella stima del danno alla salute patito da persona già invalida, si avesse riguardo solo all’incremento del grado percentuale di invalidità permanente ascrivibile alla condotta del responsabile.

Un punto di invalidità è uguale a quello cui si somma solo nella sua espressione numerica (che progredisce aritmeticamente), non nel sostrato reale (l’entità delle rinunce corrispondenti) che concorre a rappresentare, né, parallelamente, nella sua traduzione monetaria>>

Lesione del rapporto parentale da errore medico

Cass. 30 agosto 2022 n. 25.541, sez. 3, rel. Pellecchia così ragiona.

Censura in ricorso: <Sostiene che la Corte d’Appello avrebbe errato nel riconoscere agli attori il diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale per la sola esistenza del legame di parentela con il G.. Osserva in particolare che, per consolidata giurisprudenza, detto danno, lungi dal poter essere considerato in re ipsa, richiede una puntuale allegazione>.

Risposta dells SC , § 4.3:  <Come noto, a fronte della morte o di una gravissima menomazione dell’integrità psicofisica di un soggetto causata da un fatto illecito di un terzo, il nostro ordinamento riconosce ai parenti del danneggiato un danno iure proprio, di carattere patrimoniale e non patrimoniale, per la sofferenza patita in conseguenza all’irreversibile venir meno del godimento del rapporto parentale con il congiunto.

Tale voce risarcitoria intende ristorare il familiare dal pregiudizio subito sotto il duplice profilo morale, consistente nella sofferenza psichica che questi è costretto a sopportare a causa dell’impossibilità di proseguire il proprio rapporto di comunanza familiare, e dinamico-relazionale, quale sconvolgimento di vita destinato ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto che l’ha subita (Cass. civ. sez. III n. 28989 dell’11 novembre 2019).

Quanto alla prova del danno, non v’e’ dubbio che, in linea generale, spetti alla vittima dell’illecito altrui dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa e, dunque, l’esistenza del pregiudizio subito: onere di allegazione che in alcuni casi potrà essere soddisfatto anche ricorrendo a presunzioni semplici e massime di comune esperienza.>>.

Ebbene, nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), è orientamento unanime di questa Corte che <<l’esistenza stessa del rapporto di parentela faccia presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza e, di norma, connaturale all’essere umano (Cass. civ. sez. III n. 11212 del 24 aprile 2019; Cass. civ. sez. III n. 31950 dell’11 dicembre 2018; Cass. civ. sez. III n. 12146 del 14 giugno 2016).

Naturalmente, trattandosi di una praesumptio hominis sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra vittima e superstite (Cass. civ. sez. VI – 3 n. 3767 del 15 febbraio 2.018).

La Corte d’appello, dunque, ha correttamente richiamato ed applicato l’insegnamento di questa Corte ritenendo che il fatto illecito costituito dalla uccisione del congiunto abbia dato luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché ha colpito soggetti (i figli del G.), legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare.

Giova a tal proposito osservare che il c.d. danno presuntivo è concetto autonomo e distinto rispetto al c.d. danno in re ipsa: se, infatti, per quest’ultimo non è richiesta alcuna allegazione da parte del danneggiato, sorgendo il diritto al risarcimento del danno per il sol fatto del ricorrere di una determinata condizione, il primo richiede un’allegazione, seppur presuntiva, che è sempre suscettibile di essere superata da una eventuale prova contraria allegata da controparte. [NOTA: sostituirei allegazione con prova]

In altri termini, affermare, come ha fatto la Corte d’Appello, che la presenza di un legame di parentela qualificato sia elemento idoneo a fondare la presunzione, secondo l’id quod plerumque accidit, dell’esistenza del danno in capo ai familiari del defunto, è cosa distinta dal riconoscere a quest’ultimi la risarcibilità del danno in re ipsa, per il sol fatto della sussistenza di un legame familiare.>

Sulla determinazione del danno :

<diversa è la questione allorquando si passi alla determinazione equitativa del danno, in quanto, al fine di consentire una personalizzazione dello stesso, è necessario che il danneggiato fornisca la prova di circostanze concrete che consentano di aumentare il valore tabellare rilevante ai fini della quantificazione del danno.

Sebbene, infatti, sia stato affermato che “ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale mediante il criterio tabellare il danneggiato ha esclusivamente l’onere di fare istanza di applicazione del detto criterio, spettando poi al giudice di merito di liquidare il danno non patrimoniale mediante la tabella conforme a diritto” è altrettanto vero che eventuali correttivi saranno ammissibili solo in ragione della particolarità della situazione di cui sia stata fornita adeguata motivazione (Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 05-05-2021) 10-11-2021, n. 33005).

Nel caso di specie, non avendo i familiari allegato alcuna circostanza ulteriore, il giudice ha correttamente liquidato il danno, alla luce di una valutazione equitativa che ha tenuto adeguatamente in considerazione la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, l’età della vittima, l’età dei superstiti, il grado di parentela>

Risrcimento del danno da immissioni sonore intollerabili

Cass. 13.04.2022 n. 11.930, dez. 6, rel. Guizzi S.G., interviene sul tema. Tema  delicato perchè concerne un aspetto fondametnale della vita troppo trascurato e che merita invece: – ben maggiore attenzione a tutti i livelli (anche di norme tecniche per l’edilizia publica a privata); – pesanti risarcimenti, anche punitivi, non essendoci quasi mai un serio motivo per disturbare -spesso pesantamente- la tranquillità del prossimo, cosa che in altre parole potrebbe essere evitata con un minimo di accortezze (o di costi, se la fonte di inquinamento acustico è un’impresa)

C’è prima una precisazione sul risarcimento del danno nella moidalità equitativa:

<<che questa Corte ha ripetutamente affermato che “l’esercizio, in concreto, dei potere discrezionale contento ai giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità qualora la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e -valutativo seguito” (tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 13 ottobre 2017, n. 24070, Rv. 645831-01; in senso analogo Cass. Sez. 1, sent. 15 marzo 2016, n. 5090, Rv. 639029-01), essendosi anche precisato che, “al fine eli evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è necessario che il giudice indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum”” (Cass. Sez. 3, sent. 31 gennaio 2018, n. 9327 Rv. 617.590-01), ovvero che esso “spieghi le ragioni del processo logico sul quale essa è fondata, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo adottato” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 14 luglio 2015, n. 14645, Rv. 63609001);

– che, tuttavia, ciò non esige – con specifico riferimento alla liquidazione equitativa del danno ex artt. 844 e 2059 c.c., (come torna, invece, a sottolineare la ricorrente, nella propria memoria) –  l’adozione di criteri predeterminati, quali il ricorso ad una percentuale dell’invalidità temporanea o al valore reddituale dell’immobile, giacché la liquidazione del danno ex art. 2056 c.c., è essenzialmente da parametrare alle circostanze del singolo caso;

– che, piuttosto, va assicurato – in caso di immissioni intollerabili – “un consistente risarcimento” (cfr., in motivazione, Cass. Sez. 6-2, ord. 28 luglio 2021, n. 21649, Rv. 661953-01, nonché già Cass. Sez. 3, sent. 16 ottobre 2015, n. 20927, Rv. 637538-01), e ciò anche in conformità alle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo;

– che essa, infatti, ha sanzionato più volte gli stati aderenti alla convenzione, i quali – in presenza di livelli di rumore significantemente superiori a quello massimo consentito dalla legge – non avevano adottato misure idonee a garantire una tutela effettiva del diritto al rispetto della vita privata e familiare (cfr. Corte Edu: sent. 9 novembre 2010 Dees v. Ungheria; sent. 20 magio 2010, Oluie v. Croazia; sent. 16 novembre 2004, Moreno Golne v. Spagna);

– che, d’altra parte, questa Corte ha pure sottolineato che il principio della tendenziale insindacabilità della liquidazione equitativa del danno in sede di giudizio di legittimità conosce eccezione solo quando i criteri adottati “siano manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 25 maggio 2017, n. 13153, Rv. 644406-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 3, sent. 8 novembre 2007, n. 23304, Rv. 6003/6-01, Cass. Sez. 3, sent. 14 luglio 2004, n. 13066, Rv. 574567-01);

– che, in altri termini, affinché la quantificazione del danno in via equitativa abbia a “non risultare arbitraria” , sufficiente “l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico sul quale è fondata” (Cass. Sez. 6-3, ord. 17 novembre 2020, n. 26051, Rv. 659923-01), sicché la corretta applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., mira, in definitiva, a scongiurare solo la c.d. “equità cerebrina”, ovvero ad assicurare un “modello di valutazione equitativa” a mente del quale “il giudice non può farsi guidare da concezioni personali o da mere intuizioni, col rischio di sconfinare nell’arbitrio”, avendo, invece, “il dovere di ispirarsi a criteri noti e generalmente accolti dall’ordinamento vigente, comportandosi come avrebbe fatto il legislatore se avesse potuto prevedere il caso” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 2 luglio 2021, n. 18795, Rv. 661913-01);>>

Questo minimum motivatorio è stato raggiunto dalal corte di appello: <<che, nella specie, tale onere di “sommaria e congrua” indicazione delle ragioni della quantificazione risulta soddisfatto, avendo la Corte partenopea ritenuto la liquidazione già disposta dal primo giudice “congrua sia in relazione alle modalità della condotta illecita” (attestando la sentenza che i rumori si sentivano anche nei giorni festivi, nelle ore serali e con gli infissi chiusi), “sia in relazione al lunghissimo arco di tempo in cui si è protratta, da correlare quantomeno alla durata del giudizio di primo grado” (radicato con citazione notificata il 22 febbraio 2001 e conclusosi il 12 luglio 2016);

che, dunque, in relazione a tali criteri — – indicativi della particolare intensità, oltre che perduranza nel tempo, della turbativa recata al diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, della Convenzione, ex art. 8 – la sentenza impugnata ha soddisfatto l’onere di sommariamente illustrare il processo valutativo seguito nella liquidazione del danno>>.

Infine il passaggio specifico della motivazione sul sempre superamento della soglia di nornale tollerabilità e del nesso di causa con un certo danno:
<<che, nella specie, la sentenza impugnata non ha fatto coincidere in un unico fatto (il superamento del limite della normale tollerabilità delle immissioni) la prova dell’esistenza del danno evento, o meglio dell’avvenuta lesione del diritto, e quella delle sue conseguenze pregiudizievoli;

– che la sentenza impugnata, infatti, ha motivato il superamento della normale tollerabilità delle immissioni rumorose sulla base delle risultanze dell’espletata CTU (la quale accertava che il rumore prodotto dalle lavorazioni “oscillava tra un minimo di 44,4 decibel ed un massimo di 50,9 decibel, mentre il rumore di fondo della zona, caratterizzata d’a particolare tranquillità, e pari a 37,7 decibel);

– che essa, poi, ha autonomamente motivato la ricorrenza del danno conseguenza lamentato dall’attrice, escludendo espressamente che lo  stesso potesse sussistere ipsa”, chiarendo che chi agisce in giudizio al fine di conseguirne il ristoro deve “provare di aver subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi al tal fine avvalere anche di presunzioni”;

– che, infine, queste ultime sono state tratte dalla duplice circostanza, per un verso, che l’appartamento dell’attrice “e’ posto al primo piano e presenta quattro vani (su cinque) che affacciano direttamente sul piazzale della società” convenuta, nonché, per altro verso, che i rumori si sentivano “anche nei giorni festivi”, pure “con gli infissi chiusi” e persino “nelle ore serali”;

– che tale conclusione risulta conforme alle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, la “accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-2, ord. n. 2-1649 del 2021, cit.; in senso analogo anche Cass. Sez. 3, sent. 19 dicembre 2014, n. 26899, Rv. 633753-01), senza che sia necessario dimostrare – come sostenuto dalla ricorrente nella propria memoria – un effettivo mutamento delle abitudini di vita;

– che, invero, la duplice circostanza valorizzata dalla sentenza -vale a dire, che le immissioni interessassero la quasi totalità dei vani dell’appartamento della F. e che le stesse non dessero requie, in nessun momento, a chi lo abitava – consentono di affermare in via presuntiva, secondo un dato di comune esperienza, la ricorrenza eli quella modificazione peggiorativa del diritto al rispetto della vita privata e familiare nella quale si indentifica,, in tale ambito, il danno conseguenza.;>>.

Precisazioni sul rapporto tra danno morale e danno biologico

Cass. , sez. III, 21.03.2022 n. 9.006, rel. Scarano, offre qualche precisaizone sull’oggetto, peraltro di corrente accettazione:

<<successivamente all’emanazione della suindicata L. n. 124 del 2017, si è da questa Corte sottolineato che in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del risarcimento del danno biologico, quale pregiudizio che esplica incidenza sulla vita quotidiana e sulle attività dinamico-relazionali del soggetto, e di un’ulteriore somma a titolo di ristoro del pregiudizio rappresentato dal danno morale, quale sofferenza interiore sub specie di dolore dell’animo, vergogna, disistima di sé, paura, disperazione (v. Cass., 19/2/2019, n. 4878).

A tale stregua, si è da questa Corte precisato che, successivamente alla personalizzazione del danno biologico (specificamente disciplinata in via normativa (art. 138, n. 3 nuovo testo c.d.a.: “qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati, l’ammontare del risarcimento del danno, calcolato secondo quanto previsto dalla tabella unica nazionale… può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 30%”), il danno biologico risultando normativamente definito (art. 138, punto 2 lett. a) quale “”lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato)), il danno morale -ove dedotto e provato- deve formare oggetto di separata valutazione ed autonoma liquidazione, giusta il disposto di cui all’art. 138, punto 2, lett. e), nuovo testo C.d.A. (“al fine di considerare la componente morale da lesione dell’integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico… è incrementata in via progressiva e per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione”), con il quale si è dal legislatore elevato a fonte normativa il principio da questa Corte da tempo affermato dell’autonomia del danno morale rispetto al danno biologico, atteso che il sintagma danno morale non è suscettibile di accertamento medico-legale sostanziandosi nella rappresentazione di uno stato d’animo di sofferenza interiore del tutto prescindente dalle vicende dinamico-relazionali della vita (che pure può influenzare) del danneggiato (v. Cass., 10/11/2020, n. 25164; Cass., 19/2/2019, n. 4878).>>

Sul risarcimento del danno da violazione di copyright (art. 158 legge d’autore)

Interviene con buon dettaglio sul tema in oggetto Cass. sez. I ord. n. 39762 del 13.12.2021 rel. Scotti (caso Mondadori-Saviano: l’attore originario – editore locale campano- aveva lamentato  l’illecita riproduzione di propri articoli).

Vediamo in passaggi più significativi:

– <2.6. Secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di tutela del diritto d’autore, la violazione di un diritto di esclusiva integra di per sé la prova dell’esistenza del danno da lucro cessante e resta a carico del titolare del diritto medesimo solo l’onere di dimostrarne l’entità (Sez. 3, n. 8730 del 15.4.2011, Rv. 617890 01; Sez. 1, n. 14060 del 7.7.2015, Rv. 635790 – 01), a meno che l’autore della violazione fornisca la prova dell’insussistenza nel caso concreto di danni risarcibili nei limiti di cui all’art. 1227 c.c. (come ha avuto cura di precisare Sez. 1, n. 12954 del 22.6.2016, Rv. 640103 – 01)>.

Affermazione poco coerente con la disciplina comune civilsitica e che andrebbe spiegata.

– <2.7. Questa Corte, con l’ordinanza n. 21833 del 29.7.2021, ha recentemente affrontato in modo sistematico l’interpretazione delle regole fissate dall’art. 158 l.d.a. in tema di determinazione e quantificazione del danno conseguente alla violazione del diritto d’autore, chiarendo che:

a) il risarcimento del danno è liquidato nel rispetto degli artt. 1223,1226 e 1227 c.c., disposizione questa fin anche pleonastica, che serve solo a manifestare espressamente l’esigenza del rispetto delle regole comuni di liquidazione del danno, quanto a nesso causale, potere di liquidazione equitativa e concorso del fatto dello stesso debitore;

b) il lucro cessante è valutato dal giudice ai sensi dell’art. 2056 c.c., comma 2, ossia “con equo apprezzamento delle circostanze del caso”, dunque ancora una volta ex art. 1226 c.c., cui si aggiunge però l’indicazione di un parametro esplicito, relativo agli “utili realizzati in violazione del diritto”;

c) è prevista infine la possibilità di liquidazione “in via forfettaria sulla base quanto meno dell’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l’autore della violazione avesse chiesto al titolare l’autorizzazione per l’utilizzazione del diritto”.

La norma prevede quindi due criteri alternativi, iscritti entrambi nella cornice di una liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.; anche se non è scandito esplicitamente un ordine rigido di preferenza fra i due criteri, l’espressione utilizzata dal Legislatore (“quanto meno”) sta ad indicare che il criterio del cosiddetto “prezzo del consenso” di cui al terzo periodo del comma 2, (detto anche della “royalty virtuale”) rappresenta una soglia minima della liquidazione.

Si è dunque osservato che due criteri si pongono come cerchi concentrici, in cui il secondo permette una liquidazione minimale, mentre il primo, che associa nella funzione risarcitoria anche una componente deterrente e dissuasiva, permette di attribuire al danneggiato i vantaggi economici che l’autore del plagio abbia in concreto conseguito, certamente ricomprendenti anche l’eventuale costo riferibile all’acquisto dei diritti di sfruttamento economico dell’opera, ma ulteriormente aumentati dai ricavi conseguiti dal plagiario sul mercato.>

Che la royalty ragionevole sia il minimo , la legge non lo dice e pure questo è poco coerente con la disciplioa comune, in assenza di dato testuale; per cui l’affermaziuobne andrebbe meglio argomentata.

– <2.13. Si è detto in precedenza che il criterio del prezzo del consenso ha natura sussidiaria e residuale.

In tal senso si impone una interpretazione del diritto nazionale armonizzata con la Direttiva Europea che per le violazioni dolose o colpose pretende che l’entità del risarcimento da riconoscere al titolare tenga conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali la perdita di guadagno subita dal titolare dei diritti o i guadagni illeciti realizzati dall’autore della violazione e considera solo come alternativa – da esperirsi ad esempio, in caso di difficoltà di determinazione dell’importo dell’effettivo danno subito la parametrazione dell’entità dal risarcimento alla royalty virtuale.

Il diritto Europeo esige infatti un risarcimento effettivo e proporzionalmente adeguato, calibrato su di una accurata considerazione di tutti gli elementi specifici e pertinenti del caso, tra i quali debbono essere inclusi il mancato guadagno subito dalla parte lesa e i benefici realizzati illegalmente dall’autore della violazione.

Che gli utili realizzati dal contraffattore siano un criterio fondamentale nella liquidazione completa ed effettiva del danno è dimostrato anche dal paragrafo 2 dell’art. 13 della Direttiva che permette agli Stati membri di disporre il recupero dei profitti fin anche nel caso di violazioni non dolose o colpose (violazioni c.d. inconsapevoli).

Le disposizioni della legge nazionale sono ispirate allo stesso criterio, come sopra ricordato, con l’inequivoco impiego della formula “quanto meno”, che colora il criterio alternativo del prezzo del consenso con il tratto della residualità.

In questo senso, sia pur con riferimento all’art. 125 c.p.i., comunque riconducibile anch’esso alla matrice della stessa disposizione della Direttiva enforcement, è stato osservato nella recente giurisprudenza di questa Corte che il criterio della “giusta royalty” o “royalty virtuale” segna solo il limite inferiore dei risarcimento del danno liquidato in via equitativa e che però esso non può essere utilizzato a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, il tutto nell’obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale (Sez. 1, n. 5666 del 2.3.2021, Rv. 660575 – 01).

2.14. Tale scansione preferenziale fra i due criteri ben si comprende, ove ci si soffermi a riflettere sull’esigenza di un pieno, completo ed effettivo ristoro risarcitorio del danno subito dal titolare di un diritto di proprietà intellettuale o industriale, perseguito dalla Direttiva Europea e si consideri la ratio del criterio del “prezzo del consenso”.

Questo criterio infatti finisce con l’imporre al contraffattore o al plagiario il pagamento all’esito del contenzioso di quello stesso importo che avrebbe potuto pattuire in via negoziale ove si fosse comportato correttamente, tanto che la giurisprudenza merito, tenuto conto del riferimento normativo al limite minimo indicato dalla norma e dell’esigenza di evitare la “premialità” di tale tecnica liquidatoria per il contraffattore, ritiene equa una congrua maggiorazione dell’importo rispetto alle tariffe di mercato.>

Solo che la legge prescrive il <quanto meno> solo per il prezzo del consenso e non per il risarcimento ordinario.

Risarcimento del danno da chiusura dell’attività di impresa per infiltrazioni nell’immobile

Dopo due gradi con esito negativo , l’imprenditore danneggiato da infiltrazoni nei suoi locali tenta il ricorso in Cassazione. Ma gli va ancora male.

Questo il passaggio principale sulla liquidazione equitativa ex art. 1226 cc, svolto da Cass. n. 31.251 del 03.11.2021, rel. Scarpa A.: <<Alla liquidazione del danno il giudice può procedere anche in via equitativa, in forza del potere conferitogli dagli artt. 1226 e 2056 c.c., restando, peraltro, la cosiddetta equità giudiziale correttiva ed integrativa subordinata alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare e, a un tempo, non comprendendo tale potere giudiziale anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo la liquidazione equitativa già assolto l’onere della parte di dimostrare sia la sussistenza sia l’entità materiale del danno subito>>

E poi: <<Ora, i danni derivanti dalla perdita del guadagno di un’attività commerciale per loro stessa natura evidenziano la pratica impossibilità di una precisa dimostrazione (cfr. Cass. Sez. 3, 24/04/1997, n. 3596; Cass. Sez. 1, 13/01/1987 n. 132). Ciò non di meno, spetta all’attore l’onere di fornire elementi, di natura contabile o fiscale, con riguardo, indicativamente, alla consistenza ed alla redditività dell’esercizio commerciale, al fatturato e agli utili realizzati negli anni precedenti, all’incidenza del pagamento del canone e degli oneri connessi alla locazione. Invero, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., non esime la parte interessata  dall’onere di dimostrare non solo l'”an debeatur” del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi “in re ipsa”, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui, nonostante la riconosciuta difficoltà, possa ragionevolmente disporre (cfr. Cass. Sez. 3, 17/10/2016, n. 20889).>>

Risarcimento del danno a carico del Comune per intollerabililità dei rumori provenienti dalla movida notturna, favorita dalle scelte urbanistiche del Comune stesso

Interessante decisione del Trib. Torino n. 1261/2021 del 15.03.2021,  RG 6130/2018 in tema di azione per condanna ad un facere e ai danni da rumori eccessivi, causati dal pesante disagio di chi abita un quartiere divenuto centro della movida torinese, azione promossa da un gruppo di abitanti

<<La lettura dei provvedimenti prodotti con la comparsa di costituzione e ivi elencati (cfr. paragrafo n. 2) consente di affermare che il Comune di Torino ha compiuto precise scelte a fronte dei fenomeni oggi in esame. L’aggregazione di persone che è causa di degrado, sporcizia, disturbo del riposo e della tranquillità, che produce disagi e pericoli, che provoca lo scadimento della vivibilità urbana, che turba il libero utilizzo degli spazi pubblici è posta dallo stesso Comune in relazione con l’attività degli esercizi commerciali; ai gestori è fatto carico di positive e ben specificate attività di dissuasione, da svolgere anche all’esterno dei locali e nelle loro adiacenze>>.

L’ovvia deduzione è che i provvedimenti del Comune a carico di questo variegato universo commerciale <<sono stati del tutto insufficienti. Se c’è gente ovunque significa che nessuno degli esercenti ha rispettato l’obbligo di controllarne l’afflusso nelle proprie adiacenze: dunque, assai più locali avrebbero dovuto essere sanzionati o chiusi. Se un numero imprecisato di dehors ha invaso il suolo pubblico e vi si svolgono attività, non consentite, di somministrazione di alimenti e bevande, il Comune avrebbe dovuto revocare i relativi atti autorizzativi, sino a liberare le strade e a concentrare le consumazioni all’interno dei locali. Una criticità così elevata avrebbe richiesto un adeguato piano di risanamento acustico, che, a quanto risulta, non è stato neppure intrapreso. Vi è poi, di centrale importanza, la questione del limite orario. L’ordinanza n. 46 del 6 giugno 2016 vieta la vendita e la somministrazione di bevande alcooliche e superalcooliche dalle ore 3.00 alle ore 6.00. Orari analoghi sono stati disposti nell’ordinanza n. 60 del 6 luglio 2017: nelle notti tra il lunedì, martedì, mercoledì e giovedì dalle ore 1.30, il venerdì dalle ore 2.00, il sabato, la domenica e i festivi dalle ore 3.00. Si è già accennato che, a seguito della deliberazione della Giunta comunale del 3 maggio 2018, tali limitazioni non sono più disciplinate attraverso singoli provvedimenti temporanei, ma sono regolamentate in via ordinaria dall’art. 44 ter del regolamento di polizia urbana. È evidente che fissare orari così ampi equivale a permettere tutto: nella sostanza, l’assembramento degli avventori può continuare fino a notte fonda e, verosimilmente, protrarsi, prima che la folla si diradi, ben oltre gli orari pur permissivi.>>.

E’ rigettata la domadna di condanna ad un facere (prob. come inibitoria preventiva, sistematicamente): <<Di sicuro gli orari di chiusura devono essere drasticamente ridotti, ma se ciò debba avvenire per il solo quartiere di San Salvario (con l’effetto che la movida potrebbe spostarsi altrove), o, in concomitanza, per altre determinate zone a rischio, è il Comune di Torino a doverlo decidere, nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche di gestione del territorio. Ciò che il Comune deve fare (e non ha fatto) è un’analisi approfondita della situazione complessiva, verosimilmente quella richiesta dal piano di risanamento acustico, intervenendo, nel frattempo, con misure d’urgenza assai più pregnanti di quelle fin qui adottate. Non è infine il giudice a poter organizzare il servizio di vigilanza di un intero quartiere, andando a incidere sulla distribuzione della Polizia municipale nel suo complesso e sul coordinamento con le altre Forze preposte al controllo della pubblica sicurezza. Qui non si tratta di risolvere i problemi di una strada o di una piazza o di un tratto di lungomare; né di ordinare la collocazione di pannelli antirumore lungo un’autostrada o una linea ferroviaria, ma di decidere l’assetto di un intero territorio, con effetti su tutta la città. Alla responsabilità del Comune di Torino consegue quindi il solo risarcimento dei danni>>.

E dunque sui danni: <<I ricorrenti non hanno allegato alcuna compromissione della salute che sia esitata in malattia, ma hanno parametrato la loro richiesta di risarcimento riferendosi ai criteri tabellari del Tribunale di Milano per la quantificazione del danno biologico: il riferimento non è dunque condivisibile. Né lo è la qualificazione del danno come invalidità temporanea al cinquanta per cento, sulla base di un’età media di quarant’anni. Questo criterio di liquidazione è criticabile sotto vari aspetti. In primo luogo, le tabelle milanesi non calcolano l’invalidità temporanea in base a fasce di età; in secondo luogo, non si vede per quale ragione si dovrebbe considerare un’età “media” invece dell’età di ciascun ricorrente. Ma, soprattutto, il concetto di invalidità temporanea si riferisce a un fatto foriero di danno verificatosi in un dato momento e che, a partire da quel momento, genera conseguenze pregiudizievoli provvisorie e via via meno gravi. Tale situazione non ha nulla in comune con quella in esame, in cui ciascuno dei ricorrenti ha continuato a subire, nel tempo, i medesimi effetti di una situazione pregiudizievole continuativa. Questo peculiare danno di carattere non patrimoniale non può che essere valutato con criterio equitativo, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., non potendo essere provato nel suo preciso ammontare>>.