Danno morale e danno da perdita di chance: riepilogo del diritto vivente

Cass. n. 25910 del 5 settembre 2023 , rel Rubino sez. III, sull’oggetto (segnalazione e link da studiolegalezardo.it)in un caso di intervento chirurgico di
mastectomia sottocutanea bilaterale con contestuale ricostruzione del
seno (finalizzata alla espansione mammaria).

sulla presumibilità del danno morale :

<<Per quanto concerne il danno morale, la corte d’appello, dopo aver
confermato l’accertamento di una rilevante invalidità permanente in capo alla Gianotti, comportante un rilevantissimo danno estetico ed
anche considerevoli limitazioni funzionali subiti da una giovane donna
nel pieno della sua vita relazionale e sessuale, si è solo
apparentemente conformata all’ormai consolidatosi orientamento di
legittimità secondo il quale, in tema di danno non patrimoniale da
lesione della salute, il danno morale consiste in uno stato d’animo di
sofferenza interiore che rileva autonomamente, a prescindere dalle
vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato (che pure può
influenzare), insuscettibile di accertamento medico-legale (Cass. nn.
901 e 7513/2018; Cass. n. 9006 del 2022).
Ha però subito dopo, in poche righe, rigettato la domanda volta al
risarcimento del danno morale, affermando che si trattasse di
pregiudizi solo allegati dall’appellante ma non provati – dovendosi
intendere rinunciate le istanze istruttorie non reiterate in sede di
precisazione delle conclusioni di primo grado – consistenti nelle
sofferenze patite in conseguenza dell’isolamento sociale e
dell’abbandono delle attività lavorative, attinenti, questi ultimi, alla
sfera dinamico relazionale della lesione subita e già valorizzate nella
liquidazione del danno biologico.
Questa affermazione, nella sua scarna lapidarietà, e nella mancanza di
ogni riscontro motivazionale dell’aver effettivamente valutato sotto
questo diverso, seppur connesso profilo, la situazione emotiva della
vittima, si pone in contrasto con il principio della integrale valutazione
del pregiudizio non patrimoniale complessivamente subito, ed in
particolare con quello secondo il quale, ai fini dell’accertamento della
sussistenza di un danno morale, in tema di danno non patrimoniale
discendente da lesione della salute, se è vero che all’accertamento di
un danno biologico non può conseguire in via automatica il
riconoscimento del danno morale (trattandosi di distinte voci di
pregiudizio della cui effettiva compresenza nel caso concreto il
danneggiato è tenuto a fornire rigorosa prova), la lesione dell’integrità
psico-fisica può rilevare, sul piano presuntivo, ai fini della
dimostrazione di un coesistente danno morale, alla stregua di un
ragionamento inferenziale cui deve, peraltro, riconoscersi efficacia
tanto più limitata quanto più basso sia il grado percentuale di invalidità
permanente, dovendo ritenersi normalmente assorbito nel danno
biologico di lieve entità (salvo rigorosa prova contraria) tutte le
conseguenze riscontrabili sul piano psicologico, ivi comprese quelle
misurabili sotto il profilo del danno morale (Cass. n. 6444 del 2023).
La corte d’appello ha invece implicitamente escluso che un rilevante
pregiudizio estetico e funzionale con deturpazione permanente del
seno, in una giovane donna, potesse risultare elemento rilevante, in
via presuntiva, ai fini dell’affermazione del danno morale, idoneo cioè
a determinare una apprezzabile compromissione dell’equilibrio
emotivo-affettivo del soggetto. Non ha valutato affatto se ad esso
potessero presumibilmente associarsi conseguenze in termini di
sofferenza interiore, omettendo di indagare in ordine alla pur
presumibile predicabilità di tale stato d’animo conseguente alla lesione
di un diritto costituzionalmente protetto.
Ha poi circoscritto il contesto probatorio sul quale fondare la
valutazione del danno morale alle sole prove orali, la cui istanza non
era stata adeguatamente reiterata, senza prendere in considerazione
la situazione della giovane come processualmente accertata e valutarla
nella sua idoneità a produrre anche uno stato di sofferenza interiore in
termini di ansia, infelicità, disaccettazione di se stessa e del proprio
corpo così significativamente e irreparabilmente vulnerato
dall’intervento sanitario>>.

Sulla pedita di chance:
<<Pertanto, la prova del danno da perdita di chance si sostanzia:
– nella dimostrazione della esistenza e della apprezzabile
consistenza di tale possibilità perduta, da valutarsi non in termini
di certezza, ma di apprezzabile probabilità – nel caso di specie,
in termini di affermazione economica o nel mondo del lavoro nel
campo prescelto – prova che può essere data con ogni mezzo, e
quindi anche a mezzo di presunzioni;
– nell’accertamento del nesso causale tra la condotta colpevole e
l’evento di danno – nella specie, le possibilità lavorative perdute
a causa delle condizioni fisiche permanenti, estetiche e
funzionali, della persona della danneggiata, con recisione delle
concrete possibilità di affermazione nel campo prescelto. Di tal
che il nesso tra condotta ed evento si caratterizza, nel territorio
della perdita di chance, per la sua sostanziale certezza eziologica
(i. e., dovrà risultare causalmente certo che, alla condotta
colpevole, sia conseguita la perdita di quella migliore possibilità),
mentre l’incertezza si colloca esclusivamente sul piano
eventistico (è incerto, in altri termini, che, anche in assenza della
condotta colpevole, la migliore possibilità si sarebbe comunque
realizzata).
Ne consegue che il soggetto che agisce per ottenere il risarcimento del
danno da perdita di chance è tenuto ad allegare e provare l’esistenza
dei suoi elementi costitutivi, ossia di una plausibile occasione perduta,
del possibile vantaggio perso e del correlato nesso causale (nei termini
sopraesposti), fornendo la relativa prova pure mediante presunzioni,
ed eventualmente ricorrendo anche ad un calcolo di probabilità (Cass.
n. 7110/2023).
In definitiva, il danno da chance perduta consiste non nella perdita di
un vantaggio, economico e/o non economico (ben potendo un danno
perdita di chance legittimamente predicarsi anche su di un piano non
patrimoniale: Cass. 7513/2018), che sia certo ed attuale, ma nella
perdita della concreta possibilità di conseguire un vantaggio sperato.
Nel rigettare la domanda della Giannotti, pertanto, la corte d’appello,
per un verso, non si conforma ai principi suesposti nel ritenere che la
valutazione in termini di danno risarcibile della chance debba essere
compiuta col metro della certezza e non piuttosto con quello della
possibilità qualificata secondo i canoni della apprezzabilità, serietà,
consistenza (Cass. 7513/2018)– così confondendo, sovrapponendoli, il
piano della causalità con quello dell’evento di danno – e, per altro
verso, omette totalmente di considerare alcune evidenze documentali
che ben avrebbe potuto, all’esito di una complessiva valutazione di tipo
inferenziale, ritenere, sia pur non determinanti o conclusive, pur
tuttavia esistenti in punto di fatto, e tali da non poter essere ignorate.
In particolare, tali fatti consistono, quanto alla limitazione della
capacità lavorativa generica, nel riconoscimento della invalidità civile
nella misura del 67%, come da verbale della Commissione medica
prodotto in atti; quanto al percorso fino a quel momento intrapreso
dalla giovane, nel book fotografico in atti predisposto dall’agenzia per
modelle con la quale la Gianotti collaborava; quanto alle prospettive
lavorative future, nelle le dichiarazioni provenienti dalla stessa agenzia
in ordine all’attività svolta all’epoca dalla ragazza – circostanze tutte da
valutare nella loro idoneità a comprovare non un avviato percorso
lavorativo in ordine al quale poter lamentare la perdita certa di una
capacità reddituale già in atto, ma la perdita della possibilità di
affermarsi nel campo che la ricorrente aveva prescelto all’epoca dei
fatti, della cui riuscita non poteva essere certa al momento dell’intervento sanitario, ma rispetto al quale aveva della apprezzabili
probabilità di conseguire un risultato diverso e migliore, che dopo
l’accaduto le sono state del tutto precluse>>.

Danno non patrimoniale e danno da perdita del rapporto parentale: ripasso generale

Cass. n° 26.140 del 7 settembre 2023, sez. 3, rel. Gianniti, sull’oggetto (segnalazione e link da avv. Flavi Zardo in linkedin), sui due concetti in oggetto (si v. anche Cass. 5 settembre 2023 n. 25.910 rel. Rubino).

Sub 1:

<<Sul piano del diritto positivo – come anche di recente precisato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le tante, Cass. n. 2788 del 2019; n. 901 e n. 7513 del 2018, n. 7766 del 2016, anche in relazione a Corte cost. n. 325/2014) – l’ordinamento riconosce e disciplina (soltanto) le fattispecie del danno patrimoniale (nelle due forme del danno emergente e del lucro cessante: art. 1223 cod. civ.) e del danno non patrimoniale (art. 2059 cod. civ.; art. 185 cod. pen.).
Quanto al danno non patrimoniale, ne è stata originariamente affermata, su di un piano generale di ricostruzione analitica della fattispecie, la natura “unitaria” e “onnicomprensiva” dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 26972 del 2008). In particolare, l’unitarietà del danno non patrimoniale va intesa nel senso che qualsiasi pregiudizio non patrimoniale sarà soggetto alle medesime regole ed ai medesimi criteri risarcitori (artt. 1223, 226, 2056, 2059 c.c.); mentre la onnicomprensività del danno non patrimoniale va intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative “in peius” della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, con il concorrente limite di evitare duplicazioni (attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici)><.

In tale prospettiva, egli [♦il g. di merito] <<deve tenere conto, oltre che di quanto statuito dalla Corte costituzionale (n. 235 del 2014, punto 10.1 e ss.), di quanto disposto dal legislatore nazionale in sede di riforma degli artt. 138 e 139 c.d.a., modificati dall’art. 1, comma 17, della legge 4 agosto 2017, n. 124, la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostituiva della precedente, “danno biologico”), e il cui contenuto letterale impongono al giudice di distinguere, su di un piano generale ed al di là della specifica sedes materiae, il danno dinamico-relazionale dal danno morale.
Conseguentemente, nella valutazione del danno alla salute, in particolare – ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto, giusta l’insegnamento della Corte costituzionale di cui alla sentenza 233/2003 – il giudice di merito deve valutare la fenomenologia della lesione non patrimoniale: sia nell’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale, che si colloca nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso), che nell’aspetto dinamico-relazionale della vita del danneggiato (c.d. danno relazionale, che si colloca nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”)>>.

<<Anche (ma non solo) alla luce della novella legislativa poc’anzi ricordata – novella di cristallina chiarezza anche sul piano strettamente lessicale – occorre pertanto riaffermare il principio per cui esiste (è sempre esistita, anche prima del ricordato intervento normativo) una ontologica differenza tra danno morale e danno dinamico-relazionale, in quanto il danno alla persona, nella sua dimensione umana ancor prima che giuridica, postula il riconoscimento, da un lato, della sofferenza interiore, dall’altro, delle mutate dinamiche relazionali di una vita che cambia a seguito dell’illecito (illuminante, in tal senso, è il disposto normativo di cui all’art. 612 bis del codice penale, in tema di presupposti palesemente alternativi del reato cd. di stalking). Si tratta di danni diversi e perciò entrambi autonomamente risarcibili, sempre che, e solo se, provati caso per caso, all’esito, si ribadisce, di articolata ed esaustiva istruttoria (c.d. comprovabilità del danno non patrimoniale), tenendo conto che il danno dinamico relazionale può formare oggetto di prova rappresentativa diretta, mentre il risarcimento del danno morale può rappresentare soltanto l’esito terminale di un ragionamento deduttivo, che tenga conto (oltre che delle presunzioni) del notorio e delle massime di esperienza.
Al riguardo, giova anche osservare che il c.d. danno presuntivo è concetto autonomo e distinto rispetto al c.d. danno in re ipsa – la cui giuridica predicabilità deve peraltro ritenersi del tutto esclusa in seno all’attuale sistema della responsabilità civile: Cass. s.u. 26972/2008, cit.
Se, infatti, per quest’ultimo non è richiesta alcuna allegazione da parte del danneggiato, sorgendo il diritto al risarcimento del danno per il sol fatto del ricorrere di una determinata condizione di fatto, il primo richiede un’allegazione ed una dimostrazione, seppur presuntiva, che è sempre suscettibile di essere superata da una eventuale prova contraria allegata da controparte>>

sub 2:

<<Come noto, a fronte della morte di un soggetto causata da un fatto illecito di un terzo, il nostro ordinamento riconosce ai parenti del danneggiato un risarcimento iure proprio, di carattere patrimoniale e non patrimoniale, per la sofferenza patita e per le modificate consuetudini di vita, in conseguenza dell’irreversibile venir meno del godimento del rapporto parentale con il congiunto. Tale forma risarcitoria intende ristorare il familiare del pregiudizio subito sotto il duplice profilo, morale, consistente nella sofferenza psichica che questi è costretto a sopportare a causa dell’impossibilità di proseguire il proprio rapporto di comunanza familiare, e relazionale, inteso come significativa modificazione delle abitudini di vita – destinate, a volte, ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto che l’ha subita.
Quanto alla prova del danno, non v’è dubbio che, in linea generale, spetti alla vittima dell’illecito altrui dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa e, dunque, l’esistenza del pregiudizio subito: onere di allegazione che potrà essere soddisfatto anche ricorrendo a presunzioni semplici e massime di comune esperienza (Cass. s.u. 26792/2008, cit.).
Ebbene, nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), è orientamento unanime di questa Corte (Cass. n. 11212 del 2019; n. 31950 del 2018; n. 12146 del 14 giugno 2016) che l’esistenza stessa del rapporto di parentela faccia presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è, per comune esperienza, connaturale all’essere umano. Naturalmente, trattandosi di una praesumptio hominis, sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra vittima e superstite (Cass. n. 3767 del 2018)>>

In paricolare:

<<In tale quadro emergerà il significato e il valore dimostrativo dei meccanismi presuntivi che, al fine di apprezzare la gravità o l’entità effettiva del danno, richiamano il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino) secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole (sul piano presuntivo e salva la prova contraria) nell’ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall’altro non può che rimanere aperta, di volta in volta, alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benché di più lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all’eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o relazionale>>.

Element concreti per stabilire  presunzioni di danno parentale:
<<Così come ragionevole apparirà la considerazione, in via presuntiva, della gravità del danno in rapporto alla sopravvivenza di altri congiunti o, al contrario, al venir meno dell’intero nucleo familiare del danneggiato; ovvero, ancora, dell’effettiva convivenza o meno del congiunto colpito con il danneggiato (cfr., in tema di rapporto tra nonno e nipote, Cass. n. 21230 e n. 12146 del 2016), o, infine, di ogni altra evenienza o circostanza della vita – come l’età della vittima, l’età dei superstiti (e la correlata eventuale presenza di famiglie autonome), il grado di parentela, le abitudini ed il grado rapporto di frequentazione (e, in particolare, le visite quotidiane e le vacanze trascorse insieme), i pranzi domenicali e festivi ed i momenti celebrativi passati insieme, l’eventuale abitazione in immobili contigui, il ruolo in concreto svolto dal de cuius nelle dinamiche della storia familiare dei parenti superstiti (tenuto anche conto del loro modello di famiglia di riferimento), gli eventuali atti di liberalità – che il prudente apprezzamento del giudice di merito sarà in grado di cogliere>>.

<<Tali principi hanno trovato conferma nella motivazione della sentenza di cui a Cass. n. 28989 del 2019 (che richiama sua volta quelli già espressi in Cass. nn. 901, 7513 e 23469 del 2018), collocata all’interno del cd. “progetto sanità” della terza sezione civile della Corte di legittimità, ove si afferma che, in tema di danno non patrimoniale, se costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di un risarcimento per danno biologico (o per danno parentale) e per danno cd. esistenziale, non costituisce, per converso, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del risarcimento per danno morale e per danno da perdita del rapporto parentale inteso nel suo aspetto dinamico-relazionale.
3.4. Rimangono, in ogni caso, fermi i principi (affermati da Cass. n. 21060 del 2016 e n. 16992 del 2015) che presiedono all’identificazione delle condizioni di apprezzabilità minima del danno, nel senso di una rigorosa dimostrazione (come detto, anche in via presuntiva) della gravità e della serietà del pregiudizio e della sofferenza patita dal danneggiato, tanto sul piano morale-soggettivo, quanto su quello dinamico-relazionale, senza che tale serietà e apprezzabilità, peraltro, sconfini necessariamente in un vero e proprio radicale ed eccezionale sconvolgimento delle proprie abitudini di vita, che inciderà, se del caso, sulla personalizzazione del risarcimento, e che costituisce a sua volta onere dell’attore allegare e provare, in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche.
Come d’altronde rimane altresì ferma la netta distinzione (affermata ad es. da Cass. n. 21084 del 2015) tra il descritto danno da perdita, o lesione, del rapporto parentale e l’eventuale danno biologico che detta perdita o lesione abbiano ulteriormente cagionato al danneggiato, atteso che la morte di un prossimo congiunto può causare nei familiari superstiti, oltre al danno parentale, consistente nella perdita del rapporto e nella correlata sofferenza soggettiva, anche un danno biologico vero e proprio, in presenza di una effettiva compromissione dello stato di salute fisica o psichica di chi lo invoca (Corte cost. 372/1994), l’uno e l’altro dovendo essere oggetto di separata considerazione come elementi del danno non patrimoniale, ma nondimeno suscettibili – in virtù del principio della cd. “onnicomprensività” della liquidazione – di liquidazione finale unitaria>>

Danno non patrimoniale anche per le persone giuridiche?

Cass. sez. III del 10 Luglio 2023, n. 19.551, rel. Condello, dice di si.

Oltre al risaputo inasegnamento per cui il danno non patrimoniale va allegato e provato, trattandosi di danno conseguenza, la Sc si sofferma sulla meno scontata (anche se di fatto ormai dissodata) questione del titolo.

<< 3.2. Anche nei confronti delle persone giuridiche, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, ex art. 2059 c.c., comprensivo di qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione dai diritti immateriali della personalità, compatibile con l’assenza di fisicità e costituzionalmente protetti, quali sono il diritto al nome, all’identità e all’immagine dell’ente (tra le altre, Cass., sez. 3, 04/06/2007, n. 12929; Cass., sez. 1, 25/07/2013, n. 18082; Cass., sez. L, 01/10/2013, n. 22396; Cass., sez. 1, 16/11/2015, n. 23401; Cass., sez. 3, 13/10/2016, n. 20643, con riferimento alla prova del danno non patrimoniale per lesione della reputazione sociale di un ente collettivo).

Questa Corte ha già da tempo precisato (Cass., sez. 3, 04/06/2007, n. 12929) che un tale pregiudizio non patrimoniale deve essere valutato come diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente che si esprime, per l’appunto, nella sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca. Tale danno non patrimoniale va liquidato alla persona giuridica o all’ente in via equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. Con la precisazione che non e’, quindi, configurabile, neppure per il danno all’immagine della persona giuridica o dell’ente collettivo, una risarcibilità come mero danno-evento, e ciò in conformità alla ricostruzione operata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. U, 22/07/2015, n. 15350), che esclude, in ogni caso, la sussistenza di un danno non patrimoniale in re ipsa, sia che esso derivi da reato (Cass., sez. 3, 12/04/2011, n. 8421), sia che sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass., sez. 6-1, 26/09/2013, n. 22100; Cass., sez. 3, 15/07/2014, n. 16133), sia che derivi dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti>>.

Passa poi ad applicare la regola al caso de quo:

<<4. (…) In particolare, la Corte d’appello, con un percorso argomentativo del tutto in linea con l’orientamento giurisprudenziale sopra riportato, ha evidenziato che la società ‹‹non ha, ad esempio, allegato di avere avuto una qualche contezza dai suoi interlocutori commerciali della effettiva lettura e quindi della consapevolezza del contenuto dei messaggi diffamatori, non apparendo affatto remota l’eventualità che simili comunicazioni recapitate da uno sconosciuto nella casella di posta elettronica vengano cestinate senza neppure essere aperte; né è azzardato ipotizzare che quelle stesse mails non abbiano affatto raggiunto la meta giacché i messaggi di posta elettronica indirizzati ad una moltitudine di destinatari sono molto spesso bloccati dai filtri cd. anti-spam predisposti dai gestori della posta elettronica in arrivo››. In altri termini, i giudici di merito, alla luce delle risultanze istruttorie, hanno ritenuto, con accertamento di fatto non sindacabile in questa sede, che l'(Omissis) s.p.a. ‹‹non avesse offerto alcun elemento dal quale ricavare che i suoi interlocutori istituzionali avessero effettiva contezza delle recriminazioni dell’ex dipendente e che a causa di ciò l’immagine della società ne fosse risultata, apprezzabilmente, sminuita››, non avendo neppure allegato che, per effetto della condotta diffamatoria posta in essere dal F., ‹‹un qualche affare o relazione commerciale fossero stati impediti o anche soltanto ostacolati››.

La decisione, neanche censurata sotto il profilo motivazionale, è conforme ai principi enunciati da questa Corte (tra le tante, Cass., sez. 3, 04/06/2007, n. 12929), che, distinguendo tra evento lesivo e danno-conseguenza, puntualizza come anche nella lesione della ‹‹reputazione sociale››, intesa come immagine di serietà ed affidabilità dell’ente collettivo proiettata all’esterno, il danno conseguenza deve essere provato, ben potendosi pervenire anche attraverso elementi presuntivi alla dimostrazione della conseguenza pregiudizievole derivata – ex art. 1223 c.c. – all’ente collettivo dalla deminutio della propria immagine determinata dall’invio delle e-mail.

Anche in questa sede la società ricorrente non fornisce alcuna specifica indicazione sul pregiudizio effettivamente patito in rapporto alla lesione della propria immagine subita nella concreta vicenda in esame, né indica eventuali elementi presuntivi, allegati nel giudizio di merito ed ivi trascurati, idonei a consentire inferenze sulla reputazione sociale dell’operatore economico, cosicché l’apprezzamento svolto dai giudici di appello, in difetto di validi riscontri probatori, non è minimamente scalfito dalla mera affermazione che ‹‹le email dal contenuto gravemente denigratorio del F. hanno evidentemente ed irrimediabilmente insinuato nei loro destinatari dubbi più o meno forti che, in quanto tali, hanno in ogni caso compromesso in peius l’immagine dell’odierna ricorrente, minandone la credibilità e irridendo l’immagine della stessa›› (pag. 35 del ricorso).

Ne’, peraltro, l’eventuale ricorso ad una liquidazione equitativa può valere a superare l’accertamento dei giudici di merito, giacché, sebbene proprio alla liquidazione equitativa (ex artt. 1226 e 2056 c.c.) occorra riferirsi nelle ipotesi come quella in esame, essa presuppone comunque che il danno sussista e sia, come tale, provato>>.

Danno morale, danno alla capacità lavorativa specifica e perdita di chance nel danno alla persona da sinistro stradale

Cass. sez. III n° 19.922 del 12.07.2023 , rel. Iannello:

1°:

<<Come evidenziato in sentenza, il primo giudice ha liquidato il danno alla salute in base ad una elaborazione delle c.d. tabelle milanesi successiva alle note sentenze c.d. di San Martino del 2008, fondate dunque su un sistema che “incorpora” nel valore monetario del singolo punto di invalidità anche il pregiudizio morale.

In proposito questa Corte ha di recente chiarito che siffatta operazione è erronea (solo) se frutto di un automatismo liquidatorio non più predicabile, e non se presuppone invece l’accertamento, su base necessariamente presuntiva, della sussistenza di una apprezzabile sofferenza soggettiva in rapporto di diretta proporzionalità alla gravità della menomazione che, come tale, trova corrispondenza nella tecnica liquidatoria sottostante alle tabelle (Cass. n. 25164 del 2020).

Ferma, infatti, “la diversa (e non più discutibile) ontologia del danno morale” e ferma la necessità per la parte che ne pretenda il risarcimento di allegarlo e provarlo, occorre pur sempre considerare che:

a) trattandosi di pregiudizio che attiene ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva può costituire anche l’unica fonte di convincimento del giudice;

b) il danneggiato ha pur sempre l’onere di allegare i fatti noti da cui risalire, in base a ragionamento inferenziale, a quello ignoto della sussistenza ed entità del pregiudizio; tuttavia, considerata la dimensione eminentemente soggettiva del danno morale, ad un così puntuale onere di allegazione non corrisponde un onere probatorio altrettanto ampio;

c) esiste, difatti, nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio morale in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione, posto che in tal caso la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell’organo giudicante;

d) ebbene un attendibile criterio logico-presuntivo funzionale all’accertamento del danno morale quale autonoma componente del danno alla salute è quello della corrispondenza, su di una base di proporzionalità diretta, della gravità della lesione rispetto all’insorgere di una sofferenza soggettiva; tanto più grave infatti sarà la lesione della salute, tanto più il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l’esistenza di un correlato danno morale inteso quale sofferenza interiore, morfologicamente diversa dall’aspetto dinamico relazionale conseguente alla lesione stessa (così Cass. n. 25164 del 2020, cit., cui si rimanda per una più articolata illustrazione dell’esposta struttura argomentativa);

e) da qui deriva la piena utilizzabilità ai fini della liquidazione del danno morale delle tabelle milanesi, nelle versioni successive al 2008, in quanto elaborate comprendendo nella indicazione dell’importo complessivo del danno alla persona anche una quota diretta a risarcire il danno morale, secondo il detto attendibile criterio di proporzionalità diretta, sempre che nel caso concreto tale liquidazione sia giustificata da un corretto assolvimento dell’onere di allegazione e prova nei termini predetti e non invece da un non consentito automatismo (Cass. n. 25164 del 2020, cit., ha pertanto ritenuto già correttamente compreso nella liquidazione del danno secondo le tabelle predette anche il risarcimento del danno morale e conseguentemente ritenuto che costituisce una mera duplicazione della medesima posta risarcitoria la liquidazione di ulteriore importo a titolo di danno morale)>>.

2°:

<<In punto di diritto infatti la decisione si rivela conforme al principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui la riduzione della capacità lavorativa non costituisce un danno di per sé (danno-evento) ma rappresenta una possibile causa del danno da riduzione del reddito (danno-conseguenza); pertanto, una volta provata la riduzione della capacità di lavoro, non può ritenersi automaticamente e meccanicisticamente provata l’esistenza d’un danno patrimoniale, ove il danneggiato non dimostri concretamente, anche per mezzo di presunzioni semplici, l’esistenza d’una conseguente riduzione della capacità di guadagno (in tal senso già Cass. 21/4/1999 n. 3961).

Il danno da perdita di capacità lavorativa specifica, ben lungi dal costituire danno in re ipsa, va pertanto allegato e provato nell’an e nel quantum (sia pure a mezzo di presunzioni semplici) da parte del danneggiato (cfr. Cass. 6/6/2008 n. 15031)>>.

3°:

<<A fondamento della tesi censoria si richiama, dunque, il principio, in effetti più volte affermato da questa Corte ed applicato anche nel richiamato precedente, per cui in tema di danni alla persona l’invalidità di gravità tale da non consentire alla vittima la possibilità di attendere neppure a lavori diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro, e comunque confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, integra non già lesione di un modo di essere del soggetto, rientrante nell’aspetto del danno non patrimoniale costituito dal danno biologico, quanto piuttosto un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance, ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica, e derivante invece dalla riduzione della capacità lavorativa generica, il cui accertamento spetta al giudice di merito in base a valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 cod. civ (Cass. 12 giugno 2015 n. 12211; principio di recente ribadito anche da Cass. 31/1/2018 n. 2348).

Nei casi in cui l’elevata percentuale di invalidità permanente rende altamente probabile, se non addirittura certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica ed il danno che necessariamente da essa consegue, il giudice può procedere all’accertamento presuntivo della predetta perdita patrimoniale, liquidando questa specifica voce di danno con criteri equitativi (Cass. 23/8/2011 n. 17514; 7/11/2005 n. 21497). La liquidazione di detto danno può avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio (Cass. 14/11/2013, n. 25634).

Siffatto principio però non giustifica automaticamente la liquidazione di un danno patrimoniale, tanto meno in termini di danno da perdita di capacità lavorativa specifica, bensì richiede la prospettazione di elementi sulla base dei quali poter svolgere tale giudizio prognostico presuntivo>>.

Capacità lavorativa generica e specifica, danno biologico e danno patrimoniuakle in un caso di malpractice sanitaria con invalidità al 100 per cento

Cass.  n. 16.844 del 13.06.2023, sez. 3, rel. Cirillo:

<<La sentenza, infatti, muove da una premessa corretta – e cioè che la danneggiata “ha subito la perdita totale della capacità lavorativa generica” – per poi pervenire ad una conclusione non coerente con la premessa. Si legge nel successivo passaggio, infatti, che “non vi è prova della perdita di una concreta capacità reddituale della minore ovvero di una capacità lavorativa specifica risarcibile, nella specie non configurabile nemmeno in via potenziale e futura, dovendosi escludere che la danneggiata potrà mai intraprendere un’attività lavorativa”. Di talché, in conclusione, la Corte di merito ha ritenuto sufficiente, ai fini risarcitori, il risarcimento della capacità lavorativa generica “compresa nel danno biologico”.

Tale valutazione, però, non considera che la giurisprudenza di questa Corte alla quale la sentenza impugnata chiaramente si riferisce, pur senza richiamarla formalmente, è stata dettata per percentuali del danno biologico assai più contenute, le quali lasciano evidentemente intatta, in misura maggiore o minore, una residua capacità lavorativa. E’ stato infatti affermato da questa Corte che il danno patrimoniale futuro conseguente alla lesione della salute è risarcibile solo ove appaia probabile, alla stregua di una valutazione prognostica, che la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio, mentre il danno da lesione della “cenestesi lavorativa”, che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa, si risolve in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo e va liquidato in modo unitario come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto (così le ordinanze 9 ottobre 2015, n. 20312, 22 maggio 2018, n. 11750, nonché la sentenza 4 luglio 2019, n. 17931).

Questa giurisprudenza, però, si riferisce – come risulta dalla lettura integrale dei provvedimenti citati e dalle fattispecie ivi regolate – a postumi di invalidità permanente bassi, o comunque contenuti entro una soglia (orientativa) del 25 per cento (v. la sentenza 12 giugno 2015, n. 12211, richiamata e chiarita dalla citata sentenza n. 17931 del 2019).

E’ evidente, invece, che in presenza di un soggetto che è divenuto invalido al 100 per cento fin dalla nascita a causa di una malpractice sanitaria, com’e’ avvenuto nel caso di specie, ogni discussione circa la distinzione tra capacità lavorativa generica e specifica e sulla possibile ricomprensione del danno patrimoniale in quello biologico è del tutto fuor di luogo. P.G., che oggi ha quasi trent’anni, non solo non è in grado di svolgere, all’attualità, alcuna attività lavorativa, ma neppure potrà mai svolgerla in futuro, data la gravità e l’irreversibilità della sua condizione (come del resto ammette la stessa Corte napoletana nel passaggio che sopra si è riportato).    In una situazione del genere non ha senso compiere alcuna previsione di quella che potrà essere, in futuro, l’attività lavorativa svolta dalla danneggiata; ma è palese che la persona danneggiata certamente ha patito, in conseguenza del fatto dannoso, la definitiva e totale perdita della sua capacità di lavoro, pur non potendosi fare riferimento alla capacità di lavoro specifica, posto che la parte non ha mai lavorato. E tale perdita dovrà essere risarcita a titolo (anche) di danno patrimoniale e non certo (soltanto) di danno biologico, proprio per il fatto che la vittima non potrà mai svolgere alcuna attività lavorativa in conseguenza del fatto dannoso.

2.3. La sentenza impugnata, quindi, deve sul punto essere cassata, in considerazione dell’errore commesso dalla Corte d’appello là dove ha automaticamente ricondotto il danno da lesione della capacità lavorativa generica (totale, nel caso in esame) al danno biologico, rigettando la domanda di risarcimento del danno patrimoniale.

A questo compito dovrà provvedere il giudice di rinvio, che potrà giovarsi della consolidata giurisprudenza di questa Corte in base alla quale “un danno patrimoniale risarcibile può essere legittimamente riconosciuto anche a favore di persona che, subita una lesione, si trovi al momento del sinistro senza un’occupazione lavorativa e, perciò, senza reddito, in quanto tale condizione può escludere il danno da invalidità temporanea, ma non anche il danno futuro collegato all’invalidità permanente che, proiettandosi appunto per il futuro, verrà ad incidere sulla capacità di guadagno della vittima” (così la sentenza 9 novembre 2021, n. 32649). Tale risarcimento spetta al soggetto già percettore di reddito da lavoro, ma anche a chi non lo sia mai stato e, in difetto di prova rigorosa del reddito effettivamente perduto o non ancora goduto dalla vittima, potrà essere liquidato con il criterio (residuale) del triplo della pensione sociale, oggi assegno sociale, in assenza di un ragionevole parametro di riferimento (v. la sentenza in ultimo citata, nonché le ordinanze 4 maggio 2016, n. 8896, e 12 ottobre 2018, n. 25370, le quali ribadiscono il carattere residuale del criterio della liquidazione con il triplo della pensione sociale)>>.

Danno alla persona (casalinga) da malpractice sanitaria

Cass. 15.06.2023 n. 17.129 , sez. 3, rel. Scoditti:

<<Ai fini della liquidazione del danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico, la prova che la vittima attendesse a tale attività può essere ricavata in via presuntiva ex art. 2727 cod. civ. dalla semplice circostanza che non avesse un lavoro, mentre spetta a chi nega l’esistenza del danno dimostrare che la
vittima, benché casalinga, non si occupasse del lavoro domestico
(Cass. n. 22909 del 2012), ed avuto riguardo all'”id quod plerumque
accidit” in relazione alla necessità per ogni persona di occuparsi,
quantomeno per le proprie personali esigenze, di una aliquota di lavoro
domestico (Cass. n. 24471 del 2014).

Pur nell’ambito della presunzione semplice, resta fermo che chi invoca il danno da riduzione della capacità di lavoro, sofferto da persona che – come la casalinga – provveda da sé al lavoro domestico, ha l’onere di dimostrare che gli
esiti permanenti residuati alla lesione della salute impediscono o
rendono più oneroso (ovvero impediranno o renderanno più oneroso in
futuro) lo svolgimento del lavoro domestico (Cass. n. 16392 del 2010),
senza che sia necessaria la prova di avere dovuto ricorrere all’ausilio
di un collaboratore domestico (Cass. n. 16896 del 2010).
Nel caso di specie la prova presuntiva del danno patrimoniale
derivante dalla riduzione della capacità di lavoro domestico è stata
desunta dal giudice di merito, sulla base di un giudizio di fatto non
sindacabile in sede di legittimità, dal tipo di patologia che aveva attinto
la mano destra e dalla concreta incidenza pertanto dell’organo leso al
livello dello svolgimento del lavoro domestico>>

La SC poi prcisa che l’applicazione delle tabelle milanesi (più favorevoli di quelle romane) è questione di diritto e non di fatto, per cui avviene ex officio (iura novit curia).

Ben si può condannare il Comune ai danni per non aver fatto quianto possibile per eliminare il disturbo da riumnori niotturni proocati dalal clientela dei bar

Giustamente Cass. sez. III del 23 maggio 2023 n. 14.209, rel. Vicenti, cassa l’appello Brescia che aveva negato il danno perchè allegante vioalazioni del Comune esorbitanti i suoi poteri .

E’ ora che la giurisprudenza interventa in modo deciso sul grave problema della rimorosità prodotta dai clienti dei locali che tengono aperto fino a tardi alla sera. In attesa che intervenga il legislatore (improbabile)

<<3.2. – Ciò premesso, è errata la premessa da cui muove la Corte territoriale, poiché la tutela del privato che lamenti la lesione, anzitutto, del diritto alla salute (costituzionalmente garantito e incomprimibile nel suo nucleo essenziale (Cost., art. 32)), ma anche del diritto alla vita familiare (convenzionalmente garantito (art. 8 CEDU: cfr., tra le altre, Cass. n. 2611/2017; Cass. n. 19434/2019; Cass. n. 21649/2021)) e della stessa proprietà (che rimane diritto soggettivo pieno sino a quando non venga inciso da un provvedimento che ne determini l’affievolimento (Cass. n. 1636/1999)), cagionata dalle immissioni (nella specie, acustiche) intollerabili, ex art. 844 c.c., provenienti da area pubblica (nella specie, da una strada della quale la Pubblica Amministrazione è proprietaria), trova fondamento, anche nei confronti della P.A., anzitutto nelle stesse predette norme a presidio dei beni oggetto dei menzionati diritti soggettivi.

La P.A. stessa, infatti, è tenuta ad osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni e, quindi, il principio del neminem laedere, con ciò potendo essere condannata sia al risarcimento del danno (artt. 2043 e 2059 c.c.) patito dal privato in conseguenza delle immissioni nocive che abbiano comportato la lesione di quei diritti, sia la condanna ad un facere, al fine di riportare le immissioni al di sotto della soglia di tollerabilità, non investendo una tale domanda, di per sé, scelte ed atti autoritativi, ma, per l’appunto, un’attività soggetta al principio del neminem laedere (tra le più recenti: Cass., S.U., n. 21993/2020; Cass., S.U., n. 25578/2020; Cass., S.U., n. 23436/2022; Cass., S.U., n. 27175/2022; Cass., S.U., n. 5668/2023).

Ne consegue la titolarità dal lato passivo del convenuto Comune di (Omissis) a fronte delle domande, risarcitoria e inibitoria, proposte dagli attori a fronte del dedotto vulnus che le immissioni intollerabili, provenienti dalla strada comunale in cui si trova la loro abitazione, sono idonee a cagionare ai diritti dai medesimi vantati.

3.3. – Posta tale diversa premessa, e’, altresì, errata la decisione della Corte territoriale di ritenere, di per sé, infondate le domande attoree in quanto esorbitanti dai limiti interni della giurisdizione del giudice ordinario.

Anzitutto, la domanda di risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dagli attori in conseguenza delle immissioni acustiche intollerabili, non postula alcun intervento del giudice ordinario di conformazione del potere pubblico e, dunque, non spiega alcuna incidenza rispetto al perimetro dei limiti interni della relativa giurisdizione, ma richiede soltanto la verifica della violazione da parte della P.A. del principio del neminem laedere e, dunque, della sussistenza o meno della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., per aver mancato di osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni quale condotta, connotata da c.d. colpa generica, determinativa di danno ingiusto per il privato.

Anche la domanda volta a far cessare le immissioni intollerabili, come detto, non implica, di per sé, una attribuzione al giudice ordinario di poteri esorbitanti rispetto a quelli previsti dall’ordinamento e, dunque, ad esso inibiti dal principio desumibile dalla L. 20 marzo 1865 n. 2248 All. E., art. 4, comma 2, siccome incidenti sul potere discrezionale riservato alla Pubblica Amministrazione nell’espletamento dei suoi compiti istituzionali.

La circostanza che il primo giudice avesse predeterminato il facere del Comune convenuto imponendo ad esso taluni comportamenti implicanti l’adozione di provvedimenti discrezionali ed autoritativi – come l’effettuazione di un servizio pubblico di vigilanza, organizzandone anche le modalità operative – non impediva, però, ogni diversa delibazione del giudice di secondo grado, coerente con la portata della domanda formulata dagli attori, che fosse volta ad imporre alla P.A. (non già le modalità di esercizio del potere discrezionale ad essa spettante, ma) di procedere agli interventi idonei ed esigibili per riportare le immissioni acustiche entro la soglia di tollerabilità, ossia quegli interventi orientati al ripristino della legalità a tutela dei diritti soggettivi violati>>.

Il danno aquiliano va risarcito al netto del valore capitalizzato dell’assegno di invalidità (ed altri insegnamenti in tema di responsabilità aquiliana da sinistro stradale)

Cass. Civ., Sez. III, Ord., 17 maggio 2023, n. 13540; Pres. Travaglino, Rel. Rubino:

<<Come già affermato da questa Corte, in tema di danno patrimoniale patito dalla vittima di un illecito, dall’ammontare del risarcimento a tale titolo liquidato dal giudice deve essere detratto il valore capitale dell’assegno di invalidità erogato dall’INPS, attese la funzione indennitaria assolta da tale emolumento e la possibilità per l’ente previdenziale di agire in surrogazione nei confronti del terzo responsabile o del suo assicuratore.

Il principio è stato già affermato, in relazione all’assegno ordinario di invalidità corrisposto, ex art. 1 della l. n. 222 del 1984, dall’INPS alla vittima di un incidente stradale, da Cass. n. 4734 del 2019, nella cui motivazione si dà conto delle ragioni per estendere a questa ipotesi, non ricompresa originariamente tra quelle oggetto a suo tempo del giudizio, i principi in tema di compensatio dettati dalle Sezioni Unite del 2018, in particolare da Cass. S.U. n. 12566 del 2018. L’ipotesi era, come nella specie, quella della erogazione di una prestazione previdenziale da parte dell’INPS in conseguenza del sinistro. In quella sede si è precisato, con osservazione puntualmente riferibile anche al caso in esame, che non rileva se l’INPS sia o meno parte in causa nel giudizio odierno; ciò che conta è, invece, che esso abbia il diritto di agire in surroga nei confronti del danneggiante. L’ente previdenziale, infatti, se ha riconosciuto al A.A. il diritto ad un assegno di invalidità in conseguenza del medesimo fatto dannoso, ha comunque diritto ad agire in surroga nei confronti del terzo responsabile o del suo assicuratore (nella specie, la UCI). Tanto basta, dando continuità all’insegnamento delle Sezioni Unite, per riconoscere il diritto della compagnia di assicurazioni ad ottenere che dall’entità globale del danno risarcibile al A.A. venga detratta la somma capitalizzata corrispondente all’introito pensionistico a lui erogato dall’INPS. Che l’INPS, poi, abbia esercitato o meno la surroga non assume rilievo, perchè il diritto si è comunque trasferito; ed è evidente che consentire al danneggiato di cumulare l’assegno di invalidità con l’intero risarcimento significa, di fatto, esporre l’assicuratore del responsabile civile all’obbligo di un doppio pagamento per la medesima parte di danno. Il motivo è pertanto accolto; al giudice di rinvio spetterà il compito di accertare, sulla base della documentazione prodotta, se la prestazione sia stata effettivamente riconosciuta ed erogata dall’INPS e in quale misura e in caso positivo di compiere la relativa operazione di calcolo, erogando al danneggiato il solo danno differenziale>>.

(segnalazione e testo da Ondif)

Ci sono però altre interessanti considerazioni :

– sull’art. 2054 /2 cc: <<In caso di scontro tra veicoli, l’applicazione della presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054, comma 2 c.c. è una regola sussidiaria, legittimamente applicabile per ripartire le responsabilità non solo nei casi in cui sia certo l’atto che ha causato il sinistro ma sia incerto il grado di colpa attribuibile ai diversi conducenti, ma anche quando non sia possibile accertare il comportamento specifico che ha causato il danno, con la conseguenza che, in tutti i casi in cui sia ignoto l’atto generatore del sinistro, causa presunta dell’evento devono ritenersi in eguale misura i comportamenti di entrambi i conducenti coinvolti nello scontro, anche se solo uno di essi abbia riportato danni (Cass. n. 15376 del 2022). La prova liberatoria per il superamento di detta presunzione può essere acquisita anche indirettamente tramite l’accertamento del collegamento eziologico esclusivo o assorbente dell’evento dannoso col comportamento dell’altro conducente (Cass. 13672 del 2019).

Al contrario, l’accertamento della colpa esclusiva di uno dei conducenti e della regolare condotta di guida dell’altro, libera quest’ultimo dalla presunzione di concorrente responsabilità fissata in via sussidiaria dall’art. 2054, comma 2 c.c.

Nel caso in cui, come nella specie, sia stata accertata in capo ad uno dei due conducenti la precisa violazione di una o più regole di condotta (e’ stata accertata, in capo alla conducente dell’autovettura, la violazione dell’obbligo di dare la precedenza ai veicoli provenienti dall’opposto senso di marcia, ed anche dell’obbligo di usare la massima prudenza), e l’accertamento di responsabilità si fondi, nella decisione di primo grado, su una valutazione ricostruttiva ancorata a precisi elementi istruttori entrati a far parte del materiale probatorio da valutare, l’affermazione della corte d’appello, secondo la quale non era certo che lo svolgimento dei fatti fosse stato in effetti quello ricostruito dal primo giudice, ed era astrattamente possibile che la dinamica dell’incidente fosse stata completamente diversa, esplicita un mero convincimento interiore che ipotizza, senza alcun riferimento ai fatti di causa, una alternativa ed ipotetica ricostruzione della dinamica di carattere meramente declamatorio, senza confrontarsi con la motivazione della sentenza di primo grado né con le risultanze istruttorie acquisite agli atti. In presenza di una serie di elementi obiettivi entrati a far parte del giudizio, non è consentito applicare la presunzione di pari responsabilità se non a mezzo di una motivata ricostruzione della dinamica ancorata alle risultanze istruttorie, delle quali ben può essere fornita una diversa lettura e riconosciuta una diversa rilevanza all’interno della formazione del convincimento, ma dalle quali non si può completamente prescindere per formulare una diversa ricostruzione meramente ipotetica e, sulla base di quella, applicare la presunzione di corresponsabilità a carico dei due soggetti coinvolti nello scontro>>.

– danno non patriminuale alle vittime c.d. riflesse, in generale:

<<12.1. Va tenuto in considerazione, quanto ai criteri da adottare per il riconoscimento e per la quantificazione del danno non patrimoniale alle vittime riflesse, che nel caso di specie oggetto della quantificazione non è il danno da morte del prossimo congiunto, e quindi da perdita del rapporto parentale, ma il danno che subiscono i congiunti in conseguenza delle lesioni – in questo caso gravissime- subite dalla vittima principale, tali da recare dolore e pena ai parenti, e da incidere pesantemente sullo svolgimento della vita quotidiana della intera famiglia.

E’ affermazione consolidata nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità che ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito, lesioni personali, può spettare anche il risarcimento del danno non patrimoniale concretamente accertato da lesione del rapporto parentale, in relazione ad una particolare situazione affettiva della vittima, non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso.

In tal caso, traducendosi il danno in un patema d’animo ed anche in uno sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto, esso non è accertabile con metodi scientifici e può essere accertato in base a indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (già Cass. n. 8546 del 2008). In tema di danni conseguenti a sinistro stradale, si è detto che il danno “iure proprio” subito dai congiunti della vittima non è limitato al solo totale sconvolgimento delle loro abitudini di vita, potendo anche consistere in un patimento d’animo o in una perdita vera e propria di salute. Tali pregiudizi possono essere dimostrati per presunzioni, fra le quali assume rilievo il rapporto di stretta parentela esistente fra la vittima ed i suoi familiari che fa ritenere, secondo un criterio di normalità sociale, che essi soffrano per le gravissime lesioni riportate dal loro prossimo congiunto (Cass. n. 11212 del 2019; Cass. n. 7748 del 2020). Si è anche puntualizzato, da ultimo, che non sussiste in effetti alcun “limite” normativo per il danno da lesione del rapporto parentale, nel senso che possa sussistere soltanto se gli effetti stabiliti dal danno biologico sul congiunto siano particolarmente elevati (Cass. n. 1752 del 2023).

La questione è meramente di prova: il parente, secondo i principi generali – e dunque anche per via presuntiva – ha l’onere di dimostrare che è stato leso dalla condizione del congiunto, per cui ha subito un danno non patrimoniale parentale.

L’esistenza stessa del rapporto di parentela può dunque far presumere la sofferenza del familiare, ferma restando la possibilità, per la controparte, di dedurre e dimostrare l’assenza di un legame affettivo, perché la sussistenza del predetto pregiudizio, in quanto solo presunto, può essere esclusa dalla prova contraria, a differenza del cd. “danno in re ipsa”, che sorge per il solo verificarsi dei suoi presupposti senza che occorra alcuna allegazione o dimostrazione – danno che non trova cittadinanza nel nostro ordinamento, giusta l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte (Cass. s.u. 26492 del 2008; Cass. n. 25541 del 2022).

Vanno poi considerate distintamente le varie posizioni e valutare se sia stato individuato il criterio appropriato da seguire per quantificare il danno, se dovuto>>.

– sul danno non patrimoniale ai nonni, in particolare:

<< Alla stregua dei criteri sopra richiamati, ha errato la sentenza impugnata laddove ha negato, tout court, la risarcibilità del danno non patrimoniale in capo ai genitori del B., in quanto non conviventi, là dove da questa mera circostanza di fatto, comunissima nella vita delle persone adulte che formano propri nuclei familiari autonomi, e tuttavia non direttamente incidente sulla permanenza dei legami affettivi, ha tratto la conclusione che essi, in quanto non conviventi, non potessero ritenersi significativamente colpiti dai gravi danni alla persona e dalle sofferenze patiti dal figlio, in misura giuridicamente rilevante, invece di presumere, sulla base dello stretto legame parentale, l’esistenza di un danno non patrimoniale apprezzabile in termini di sofferenza per il dolore altrui, salvo prova contraria sulla inesistenza di un reale rapporto affettivo. La mancata convivenza, per i genitori, può al più incidere sulla componente dinamico relazionale, ma non certo, di per sé, eliminarne la sofferenza morale pura>>.

– sul danno non patrimoniale alla figlia convivente (in gravidanza all’epoca):

<<Ugualmente, e con ancor più censurabile superficialità e noncuranza, ha errato la corte d’appello laddove ha escluso che la figlia del B., diciannovenne all’epoca dei fatti e convivente con la famiglia di origine, possa aver patito alcun pregiudizio non patrimoniale solo “perché incinta all’epoca dei fatti”.

In primo luogo, la sentenza non fa corretta applicazione, anche in questo caso, dei principi sopra indicati, che indicano una presunzione di afflittività in favore dei prossimi congiunti, tanto più se, come in questo caso, conviventi.

Le considerazioni della corte d’appello secondo le quali poi la ragazza, in quanto proiettata verso la sua futura esperienza di madre, non avrebbe sofferto più di tanto per il fatto dannoso, destinato invece necessariamente a proiettare la sua ombra sia sull’evento della nascita che sulla successiva organizzazione della vita familiare, cambiando il modo di vita, la distribuzione dei compiti, le attività della sua famiglia d’origine, e da offuscare la gioia e la condivisione familiare per il bambino in arrivo, appaiono totalmente inconsapevoli delle ripercussioni della mancanza del supporto di un genitore attivo (e probabilmente, della mancanza del supporto di entrambi i genitori, atteso che la madre sarà stata in gran parte assorbita dalla necessità di prestare assistenza al marito), sul quale la ragazza sapeva di poter contare proprio in ragione della convivenza, nel difficile momento della nascita, così giovane, del primo figlio. Esse risultano quindi totalmente prive di logica. Inoltre, con ulteriore contraddizione, la sentenza recupera incomprensibilmente, per negare il risarcimento alla figlia, la rilevanza della figura dei nonni, genitori della vittima principale, benché non conviventi, affermando che la loro esistenza rilevasse al fine di lenire la sofferenza, e quindi il danno, degli altri congiunti>

– danno al nipote nascituro (negato): <<Diversa è la posizione del nipote nascituro, in relazione al quale il motivo di ricorso deve essere rigettato.

In relazione al nipote non ancora nato al momento dell’incidente non sussiste, in difetto dell’attualità del rapporto, una presunzione di afflittività conseguente alla necessaria riconfigurazione del rapporto stesso col nonno, fin dal suo sorgere, conseguente alle menomate condizioni fisiche di questi. L’esistenza di un pregiudizio subito dal nipote per i danni alla persona riportati dal nonno è un danno futuro soltanto eventuale, come tale non risarcibile (per una vicenda in parte assimilabile a quella in esame, v. Cass. n. 12987 del 2022, che ha escluso la risarcibilità dei danni invocati dalla nipote di un uomo deceduto in un sinistro stradale che, all’epoca della perdita del nonno, aveva otto mesi): quando il bambino, venuto alla luce, conoscerà il nonno, il loro rapporto si configurerà fin dall’inizio sulle possibilità fisiche che avrà questi al momento del loro incontro, e non è automatico né presumibile che da una limitata mobilità fisica del nonno il rapporto affettivo tra i due possa essere limitato o deteriorato>>.

Responsabilità in eligendo del Condominio e del suo amministratore per l’infortunio occorso al lavoratore mentre esegue un contratto di appalto

Trib. Palermo n. 1561/2023 del 9 maggio 2023, RG 11995/2019, g.  del lavoro Martino:

<<La mancata adozione di qualsiasi misura di sicurezza da parte dell’impresa esecutrice, come sopra evidenziata, dimostra, infatti, la chiara violazione da parte del committente [cioè l’amministratore del condominio] dei principi di diligenza cristallizzati nelle norme sopra citate e quindi, la responsabilità colposa dello stesso, ai sensi dell’art. 2043 c.c., per l’infortunio mortale occorso a Spatola.
Ove, infatti, il committente, nella fase di progettazione ed esecuzione del progetto di ristrutturazione avesse rispettato i principi e le misure generali di tutela di cui all’articolo 3 del decreto legislativo n. 626 del 1994 ed avesse scelto un’impresa idonea sotto il profilo tecnico-professionale, è ragionevole ritenere che l’evento in questione non si sarebbe realizzato.
Non v’è dubbio altresì che sussista anche la responsabilità del condominio.
Va ricordato infatti che il rapporto tra condominio e amministratore è riconducibile a quello del mandato con rappresentanza (Cass. 16 agosto 2000, n. 10815, Cass. 12 febbraio 1997, n. 1286, inoltre, Cass., S.U., 8 aprile 2008, n. 9148) con la conseguenza che dell’operato dell’amministratore che abbia agito in esecuzione del mandato, risponde il condominio in forza dell’articolo 2049 c.c (sulla responsabilità ai sensi dell’art. 2049 c.c. del mandante per l’illecito del mandatario cfr. Cass 18691 del 22.9.2015, Cass 12945 del 19.12.1995).

Nel caso di specie, sulla scorta della documentazione in atti, è indubbio che Levantino abbia agito nell’espletamento di un incarico del condominio. Ciò emerge dalle dichiarazioni rese dai condomini Inserra e Garonna i quali sentiti a sommarie informazioni nel corso del procedimento penale hanno dichiarato nell’immediatezza del fatto che i lavori di ristrutturazione dell’immobile erano stati decisi in seguito a riunione condominiale sulla base dell’offerta ritenuta più conveniente sotto il profilo economico>>.

Principio importante anche a livello teorico, essendo assai dubbio se possa onerarsi il Condominio di vagliare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa scelta, in mancanza di disposizione di legge.

Solo che tale disposizione c’è : art. 90 c. 9 del Testo unico per la sicurezza sul lavoro d. lgs. 81 del 2008. Si applica a tutti i “committenti” nel cui concetto, in assenza di deroga ex lege, dovrebbe rientra pure il Condominio.

Da vedere la responsabilità del Condominio è contrattuale, in  mancanza di rapporto diretto col lavoratore, oppuire aquiliana, come quella dei medici ospedalieri (dopo la legge Gelli Bianco n. 24 del 2017).

Il motore di ricerca è corresponsabile per associazioni indesiderate ma errate in caso di omonimia?

La risposta è negativa nel diritto USA, dato che Microsoft è coperta dal safe harbour ex § 230 CDA:

Così , confermando il 1° grado, la 1st District court of appeal della Florida, Nos. 1D21-3629 + 1D22-1321 (Consolidated for disposition) del 10 maggio 2023, White c. DISCOVERY COMMUNICATIONS, ed altri.

fatto:

Mr. White sued various nonresident defendants for damages in tort resulting from an episode of a reality/crime television show entitled “Evil Lives Here.” Mr. White alleged that beginning with the first broadcast of the episode “I Invited Him In” in August 2018, he was injured by the broadcasting of the episode about a serial killer in New York also named Nathaniel White. According to the allegations in the amended complaint, the defamatory episode used Mr. White’s photograph from a decades-old incarceration by the Florida Department of Corrections. Mr. White alleged that this misuse of his photo during the program gave viewers the impression that he and the New York serial killer with the same name were the same person thereby damaging Mr. White.

Diritto :

The persons who posted the information on the eight URLs provided by Mr. White were the “information content providers” and Microsoft was the “interactive service provider” as defined by 47 U.S.C. § 230(f)(2) and (3). See Marshall’s Locksmith Serv. Inc. v. Google, LLC, 925 F.3d 1263, 1268 (D.C. Cir. 2019) (noting that a search engine falls within the definition of interactive computer service); see also In re Facebook, Inc., 625 S.W. 3d 80, 90 (Tex. 2021) (internal citations omitted) (“The ‘national consensus’ . . . is that ‘all claims’ against internet companies ‘stemming from their publication of information created by third parties’ effectively treat the defendants as publishers and are barred.”). “By presenting Internet search results to users in a relevant manner, Google, Yahoo, and Microsoft facilitate the operations of every website on the internet. The CDA was enacted precisely to prevent these types of interactions from creating civil liability for the Providers.” Baldino’s Lock & Key Serv., Inc. v. Google LLC, 285 F. Supp. 3d 276, 283 (D.D.C. 2018), aff’d sub nom. Marshall’s Locksmith Serv., 925 F.3d at 1265.
In Dowbenko v. Google Inc., 582 Fed. App’x 801, 805 (11th Cir. 2014), the state law defamation claim was “properly dismissed” as “preempted under § 230(c)(1)” since Google, like Microsoft here, merely hosted the content created by other providers through search services. Here, as to Microsoft’s search engine service, the trial court was correct to grant summary judgment finding Microsoft immune from Mr. White’s defamation claim by operation of Section 230 since Microsoft did not publish any defamatory statement.
Mr. White argues that even if Microsoft is immune for any defamation occurring by way of its internet search engine, Microsoft is still liable as a service that streamed the subject episode. Mr. White points to the two letters from Microsoft in support of his argument. For two reasons, we do not reach whether an internet streaming service is an “interactive service provider” immunized from suit for defamation by Section 230.
First, the trial court could not consider the letters in opposition to the motion for summary judgment. The letters were not referenced in Mr. White’s written response to Microsoft’s motion. They were only in the record in response to a different defendant’s motion for a protective order. So the trial court could disregard the letters in ruling on Microsoft’s motion. See Fla. R. Civ. P. 1.510(c)(5); Lloyd S. Meisels, P.A. v. Dobrofsky, 341 So. 3d 1131, 1136 (Fla. 4th DCA 2022). Without the two letters, Mr. White has no argument that Microsoft was a publisher of the episode.
Second, even considering the two letters referenced by Mr. White, they do not show that Microsoft acted as anything but an interactive computer service. That the subject episode was possibly accessible for streaming via a Microsoft search platform does not mean that Microsoft participated in streaming or publishing the episode

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)