Risarcimento in forma specifica vs rirsarcimento per equjivalente

Il punto della disciplina sul tema in oggetto è fatto da Cass. 20.04.2023 sez. III n° 10.686:

<<la disposizione dell’art. 2058 c.c. prevede che il danneggiato possa chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile (1 co.), consentendo tuttavia al giudice di disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore; ciò significa che, in relazione al danno subito da un veicolo, nel primo caso la somma dovuta è calcolata sui costi necessari per la riparazione, mentre nel secondo è riferita alla differenza fra il valore del bene integro (ossia nel suo stato ante sinistro) e quello del bene danneggiato (cfr. Cass. n. 5993/1997 e Cass. n. 27546/2017), ovvero nella “differenza fra il valore commerciale del veicolo prima dell’incidente e la somma ricavabile dalla vendita di esso, nelle condizioni in cui si è venuto a trovare dopo l’incidente, con l’aggiunta ulteriore della somma occorrente per le spese di immatricolazione e accessori del veicolo sostitutivo di quello danneggiato” (Cass. n. 4035/1975);

le due modalità di liquidazione si pongono, fra loro, in un rapporto di regola ed eccezione, nel senso che la reintegrazione in forma specifica (che vale a ripristinare la situazione patrimoniale lesa mediante la riparazione del bene) costituisce la modalità ordinaria, che può tuttavia essere derogata dal giudice -con valutazione rimessa al suo prudente apprezzamento (“può disporre”)- in favore del risarcimento per equivalente, laddove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per la parte obbligata;

quanto all’eccessiva onerosità, la giurisprudenza di legittimità l’ha ritenuta ricorrente “allorquando il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo” (Cass. n. 2402/1998, Cass. n. 21012/2010 e Cass. n. 10196/2022), non mancando di rilevare che, se la somma occorrente per la reintegrazione in forma specifica “supera notevolmente il valore di mercato dell’auto, da una parte essa risulta eccessivamente onerosa per il debitore danneggiante e dall’altra finisce per costituire una locupletazione del danneggiato” (Cass. n. 24718/2013, in motivazione, a pag. 5);

ritiene il Collegio che, nel bilanciamento fra l’esigenza di reintegrare il danneggiato nella situazione antecedente al sinistro e quella di non gravare il danneggiante di un costo eccessivo, l’eventuale locupletazione per il danneggiato costituisca un elemento idoneo a orientare il giudice nella scelta della modalità liquidatoria e, al tempo stesso, un dato sintomatico della correttezza dell’applicazione dell’art. 2058,2 co. c.c.;

invero, va considerato che il danneggiato può avere serie ed apprezzabili ragioni per preferire la riparazione alla sostituzione del veicolo danneggiato (ad es., perché gli risulta più agevole la guida di un mezzo cui è abituato o perché vi sono difficoltà di reperirne uno con caratteristiche similari sul mercato o perché vuole sottrarsi ai tempi della ricerca di un veicolo equipollente e ai rischi di un usato che potrebbe rivelarsi non affidabile) e che una piena soddisfazione delle sue ragioni risarcitorie può comportare un costo anche notevolmente superiore a quello della sostituzione;

per altro verso, al debitore non può essere imposta sempre e comunque (a qualunque costo) la reintegrazione in forma specifica, dato che l’obbligo risarcitorio deve essere comunque parametrato a elementi oggettivi e che, pur tenendo conto dell’interesse del danneggiato al ripristino del bene e della possibilità che i costi di tale ripristino si discostino anche in misura sensibile dal valore di scambio del bene, non può consentirsi che al danneggiato venga riconosciuto più di quanto necessario per elidere il pregiudizio subito (ostandovi il principio -sotteso all’intero sistema della responsabilità civile- secondo cui il risarcimento deve essere integrale, ma non può eccedere la misura del danno e comportare un arricchimento per il danneggiato);

come si è visto, la giurisprudenza di legittimità ha individuato il punto di equilibrio delle contrapposte esigenze facendo riferimento alla necessità che il costo delle riparazioni non superi “notevolmente” il valore di mercato del veicolo danneggiato; si tratta di un criterio che si presta a tutelare adeguatamente la posizione dell’obbligato rispetto ad eccessi liquidatori, ma non anche a tener conto della necessità di non sacrificare specifiche esigenze del danneggiato a veder ripristinato il proprio mezzo; esigenze che -come detto- debbono trovare tutela nella misura in cui risultino idonee a realizzare la migliore soddisfazione del danneggiato e, al tempo stesso, non ne comportino una indebita locupletazione;

in tale ottica, deve dunque ritenersi che, ai fini dell’applicazione dell’art. 2058,2 co. c.c., la verifica di eccessiva onerosità non possa basarsi soltanto sull’entità dei costi, ma debba anche valutare se la reintegrazione in forma specifica comporti o meno una locupletazione per il danneggiato, tale da superare la finalità risarcitoria che le è propria e da rendere ingiustificata la condanna del debitore a una prestazione che ecceda notevolmente il valore di mercato del bene danneggiato;>>

che però poi precisa:

<<tuttavia, per completezza di disamina, non può non considerarsi che, laddove il danneggiato decida -com’e’ suo diritto- di procedere alla riparazione anziché alla sostituzione del mezzo danneggiato, non risulta giustificato (perché si tradurrebbe in una indebita locupletazione per il responsabile) il mancato riconoscimento di tutte le voci di danno che competerebbero in caso di rottamazione e sostituzione del veicolo; invero, a fronte di un danno accertato, l’opzione del giudice in favore del criterio liquidativo per equivalente deve necessariamente comportare il riconoscimento di tutte le voci di danno che sarebbero spettate al danneggiato se non avesse scelto di riparare il mezzo e, quindi, anche di costi che non siano stati effettivamente sostenuti, ma che sono necessariamente da considerare nell’ambito di una liquidazione per equivalente che, per essere tale, deve comprendere tutti gli importi occorrenti per elidere il danno mediante la sostituzione del veicolo danneggiato; non si tratta, a ben vedere, di liquidare danni non verificatisi, ma di utilizzare in modo coerente, in relazione al danno cristallizzatosi al momento del sinistro, la tecnica liquidatoria prescelta; tecnica che risulta comunque tale da comportare, per l’obbligato, un esborso inferiore a quello cui sarebbe stato tenuto in caso di risarcimento in forma specifica; in tal modo pervenendosi a tutelare il danneggiante rispetto ad esborsi eccessivi conseguenti a scelte del danneggiato, senza tuttavia riconoscergli una locupletazione per il fatto che il danneggiato abbia preferito riparare il mezzo (e senza “punire” quest’ultimo per il fatto di avere compiuto tale legittima scelta, come avverrebbe se gli si riconoscesse meno di quanto avrebbe ricevuto se avesse rottamato l’auto);>> (grassetti nell’originale).

Tribunale di Milano con sentenza dettagliatissima sulla (non operatività della) compensatio lucri cum damno tra risarcimento del danno e indennizzo da polizza infortuni

Sull’oggetto v. l’ampio esame condotto da Trib. Milano 11/04/2023, n. 2894, Rg 4337/2020, giudice D. Spera, che esclude la compensazione, dopo accurto esame della disciplina delle polizze infrotunui, non espressamente regolate dal cc.

L’assicurtore aveva ricnuncviato alla rivalsa.

sulla polizza sub iudice. <<In definitiva, ritiene il Tribunale che la polizza stipulata dalle parti, per come in concreto articolata, risponda ad una finalità previdenziale: il sig. P.B. ha inteso cautelarsi contro il rischio di morte o invalidità permanente, sopportando il pagamento di una serie di premi e assicurandosi la possibilità di poter celermente disporre, in caso di verificazione di un evento traumatico, di una somma di denaro certa nel suo ammontare e proporzionata – in quanto ancorata ad un prescelto capitale assicurato – non già al danno effettivamente patito, ma alla propria capacità di spesa e alla propria propensione all’investimento previdenziale.
Il contratto assicurativo stipulato dal sig. P.B., quindi, lungi dall’assolvere una funzione di neutralizzazione di un pregiudizio subito, intende precipuamente garantire all’assicurato (o ai suoi familiari in caso di decesso) una provvidenza dallo stesso stimata come idonea. E ciò dovrebbe valere sia nel caso di infortunio letale, sia nel caso di trauma solo invalidante: non si vede del resto per quale ragione la finalità previdenziale (riconosciuta dalleSezioni Unite n. 5119/2002 solo per gli esiti mortali) dovrebbe mutare a seconda dell’evento – letale o non letale – che in concreto si verifica …   Sulla base delle considerazioni che precedono, si può dunque ritenere che la polizza “Fortuna” non possa essere ricondotta al genus delle assicurazioni contro i danni, stante l’ontologica diversità tra la res e la persona.
La stessa polizza però non può neppure essere ricondotta tout court al ramo delle assicurazioni sulla vita, sebbene con essa condivida la medesima finalità previdenziale, non trattandosi di assicurazione stipulata sulla “vita propria o su quella di un terzo” come prevede l’art. 1919 c.c.
Deve piuttosto ritenersi che trattasi di un contratto assicurativo dal contenuto atipico, ma riconducibile al modello generale di cui all’art. 1882, seconda parte, c.c., essendo evidente che – come affermato dalla dottrina e come ritenuto da pronunce giurisprudenziali antecedenti alla sentenza delle Sezioni Unite n. 5119/2002 – un infortunio è certamente “un evento attinente alla vita umana”..>>

<<Sulla base delle considerazioni che precedono, si può dunque ritenere che la polizza “Fortuna” non possa essere ricondotta al genus delle assicurazioni contro i danni, stante l’ontologica diversità tra la res e la persona.
La stessa polizza però non può neppure essere ricondotta tout court al ramo delle assicurazioni sulla vita, sebbene con essa condivida la medesima finalità previdenziale, non trattandosi di assicurazione stipulata sulla “vita propria o su quella di un terzo” come prevede l’art. 1919 c.c.
Deve piuttosto ritenersi che trattasi di un contratto assicurativo dal contenuto atipico, ma riconducibile al modello generale di cui all’art. 1882, seconda parte, c.c., essendo evidente che – come affermato dalla dottrina e come ritenuto da pronunce giurisprudenziali antecedenti alla sentenza delle Sezioni Unite n. 5119/2002 – un infortunio è certamente “un evento attinente alla vita umana” . (…)Alla luce delle esposte considerazioni, la polizza “Fortuna”, pur non rientrando nei due genera assicurativi disciplinati dal codice (rispettivamente agli artt. 1904 e ss. agli artt. 1919 e ss. c.c.), cionondimeno, condivide con l’assicurazione sulla vita la stessa natura previdenziale, trovando
tale contratto assicurativo ragione – per com’è articolato dalle parti attraverso la previsione della rinuncia alla rivalsa – nella precauzione di introdurre una forma di provvidenza, volta non tanto ad elidere il danno, ma a garantire all’assicurato una maggiore tranquillità economica al verificarsi di un evento avverso.       Per l’effetto, si deve ritenere che la polizza “Fortuna” stipulata dal sig. Bassi, stante la sua natura sostanzialmente previdenziale, soggiace prevalentemente alle norme dettate per l’assicurazione sulla vita, giustificandosi così l’inoperatività del principio indennitario, con la conseguenza che dalla somma liquidata a titolo di risarcimento in favore dell’attore non dev’essere scomputato l’indennizzo corrisposto dalla Zurich Insurance PL >>

Danno emergente, lucro cessante e danno non patrimoniale a società commerciale in caso di violazioni di marchio

Cass. sez. 1 del 8 marzo 2023 n. 6876, rel. Catallozzi, Da Peng srl c. Giorgio Armani spa:

<< – ciò posto, si osserva che il danno risarcibile per atto di concorrenza sleale comprende, in applicazione dei criteri generali di cui agli artt. 1223 e 2056 c.c., sia il danno emergente, sia il lucro cessante;

– il primo può consistere nelle spese vanificate dall’illecito (per esempio, le spese pubblicitarie il cui ritorno è stato compromesso dall’attività illecita del concorrente), nelle spese affrontate per ovviare all’illecito (per esempio, le spese sostenute per la scoperta dell’altrui condotta pregiudizievole e per acquisirne la prova; quelle per informare il pubblico dell’altrui illecito) e in quelle imposte dall’esigenza di ovviare al pregiudizio subito dagli asset aziendali per la perdita di valore e/o, della capacità produttività e di penetrazione nel mercato;

– il secondo si risolve essenzialmente nel mancato guadagno del titolare eziologicamente legato alla concorrenza dell’autore della violazione, in relazione alla compressione dei ricavi dovuta alla diminuzione delle vendite – eventualmente anche di prodotti gemellati – o alla erosione del prezzo di mercato del prodotto;

– tali voci di danno vanno tenute distinte dal danno non patrimoniale, consistente nella lesione alla reputazione di un soggetto – ivi incluso una persona giuridica – derivante dalla diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali l’ente interagisca, allorquando l’atto lesivo che determina la proiezione negativa sulla reputazione dell’ente sia immediatamente percepibile dalla collettività o da terzi (cfr. Cass. 26 gennaio 2018, n. 2039; Cass. 25 luglio 2013, n. 18082; sulla risarcibilità del danno non patrimoniale, cfr. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972);

– la distinzione delle diverse voci risarcitorie si impone non solo per esigenze di una loro corretta qualificazione, ma anche per evitare il rischio di duplicazione delle poste risarcitorie;

– va, infatti, scongiurato il pericolo che la generica allegazione della lesione dell’immagine e del prestigio imprenditoriale dia luogo al riconoscimento di poste risarcitorie distinte, seppur relative al medesimo pregiudizio;

– tale pericolo appare particolarmente concreto in ragione della sottile linea di demarcazione tra danno morale da lesione alla reputazione e danno patrimoniale da discredito, da individuarsi, il primo, nel pregiudizio alla corretta identificazione del soggetto che ne è titolare nella sua comunità di riferimento e, il secondo, nel pregiudizio alla produttività e al posizionamento sul mercato;

– la tutela risarcitoria per atti di concorrenza sleale va accordata anche con riferimento alla realizzazione di atti preparatori rispetto a quelli presi in considerazione dall’art. 2598 c.c., avuto riguardo all’esigenza di prevenzione dell’illecito evidenziata dalla previsione del rimedio inibitorio, qualora sia dimostrata l’esistenza di un danno ad essa eziologicamente collegata;

– l’esecuzione di un’attività prodromica – soprattutto se inequivocabilmente orientata alla realizzazione di condotte concorrenziali sleali – può, dunque, di per sé, assumere rilevanza ai fini risarcitori pur in assenza dell’effettivo compimento dell’atto ritenuto illecito, nei limiti in cui la stessa arrechi pregiudizio al concorrente;

– qualora, poi, come nel caso in esame, il pregiudizio riguardi l’immagine e l’apprezzamento che i consumatori nutrono per i prodotti commercializzati con un determinato segno distintivo, la vittima ha diritto al risarcimento non solo del danno emergente e del danno non patrimoniale, in presenza dei presupposti indicati in precedenza, ma anche del danno da lucro cessante, laddove la condotta illecita abbia determinato una contrazione dei suoi ricavi o, comunque, una incidenza sul relativo importo;

– da ciò consegue che la decisione della Corte di appello, nella parte in cui ha ritenuto compatibile l’esistenza di un danno da lucro cessante con una condotta illecita confusoria realizzata mediante il compimento di soli atti prodromici (e in assenza, dunque, della commercializzazione dei relativi prodotti), non si pone in contrasto con le regole di diritto che presiedono alla liquidazione dei danni da concorrenza sleale; >> .

Un paio di osservazioni:

i) ex art. 20.2 cpi anche la detenzione a fini di successiva commercializzazione rientra nella esclusiva;

ii) il danno non patrimoniale in un ente, contrattualmente creato per fare profitto, rimane da spiegare

La prova del mancato guadagno dell’avvocato colpito da invalidità temporanea

Utili precisazioni da Cass. 1 febbraio 2023 n. 3.018, sez. 6, rel. Iannello, circa il danno subito da un avvocato caduto a terra nel cortile del proprio condominio.

Riporto il pasaggio della corte di appello sul tema in oggetto, che il ricorso in parte qua non è riuscito a scalfire secondo la SC,  che quindi lo rigetta:

<< La Corte d’appello ha confermato il rigetto, per tale parte, della domanda risarcitoria per difetto di prova, sulla base dei seguenti testuali rilievi (v. pagg. 6 – 7 della sentenza):

“La valutazione equitativa è subordinata alla dimostrata esistenza di un danno risarcibile certo e non solo meramente eventuale o ipotetico, ed alla circostanza dell’impossibilità o estrema difficoltà di prova nel suo preciso ammontare.

“Nel caso di specie non vi è alcuna certezza del danno, sia perché il c.t.u. medico legale non ha rilevato un danno alla capacità lavorativa specifica di avvocato, sia perché, seguendo le stesse argomentazioni dell’appellante, la professione forense non è soggetta ad un guadagno quotidiano legato all’apertura o meno dello studio, come potrebbe essere nel caso di un esercizio commerciale, ma è fatta di ricavi e di lavoro spalmati nel tempo.

“Non e’, quindi, improbabile che un avvocato temporaneamente impossibilitato a muoversi, possa rinviare i propri appuntamenti e le proprie cause per motivi di salute, continuando a lavorare da casa per quanto possibile (redazione degli atti, contatti con i propri collaboratori ecc.) evitando, così, di subire decrementi patrimoniali.

“Non e’, quindi, condivisibile l’assunto dell’appellante per cui il danno sarebbe in re ipsa, essendo, comunque, necessaria la dimostrazione, quantomeno generica, della patita contrazione reddituale….

“Nel caso di specie l’appellante avrebbe avuto la possibilità, mediante la produzione delle sue dichiarazioni dei redditi prima e dopo il sinistro, di dare prova di un’eventuale contrazione del proprio reddito, tenuto conto che il sinistro si è verificato nel (Omissis), la causa è iniziata alla fine del 2007 ed il termine per le produzioni documentali scadeva nel 2008.

“Viceversa, lo stesso non ha mai depositato un solo documento di tipo contabile da cui fosse evincibile il richiesto danno patrimoniale, limitandosi a produrre, solo nel presente grado, e quindi in modo tardivo ed inammissibile, la propria dichiarazione dei redditi relativa al solo anno 2005, peraltro inidonea a provare il lamentato decremento.

“In tal modo il Tribunale non solo non ha avuto la prova del danno, ma nemmeno un parametro su cui orientarsi, così che anche una liquidazione in via equitativa risultava impossibile in quanto svincolata da qualsiasi riferimento certo”  >>.

Diffamzione negata nella lite Renzi c. RCS (Corriere della sera), direttore e articolista

Trib. Firenze n° 572/2023 del 27.02.2023, RG 8569/2020, rel. Zanda,  decide in modo sfavorevole a Matteo Renzi la lite da lui promossa contro i convenuti in oggetto per articolo sui soldi che egli avrebbe percepito dalla Fondazione Open di Carrai.

<<La domanda è risultata infondata.
Nell’articolo giornalistico del 4.12.2019 sotto il paragrafo “PRESTITI” viene riportato dal giornalista in modo fedele il contenuto del doc. 6 prodotto da parte convenuta, ovvero di quella segnalazione fatta dalla Guardia di Finanza alla Procura, sul giroconto disposto da Marco Carrai di euro 50.000,00 cui aveva fatto seguito poche settimane dopo, il bonifico a Matteo Renzi di un prestito infruttifero di euro 20.000,00.
L’articolo quindi rispetta il canone della verità in quanto l’articolo esprime esattamente il contenuto della nota informativa dell’ufficio di Intelligence finanziario.
La dicitura finale “regalo fatto a Renzi” non è diffamatoria perché nel titolo del paragrafo è chiaramente scritto “prestiti” ed in ogni caso un prestito infruttifero potrebbe essere ritenuto una forma di donazione per gli interessi mancati, interessi che normalmente si collegano ai prestiti, anche tra privati, per cui si ritiene che non risultino integrati gli elementi oggettivo e soggettivo della diffamazione aggravata.
Anche per quanto riguarda la prima e ultima parte dell’articolo non si rinviene alcuna notizia diffamatoria e falsa in danno dell’attore in quanto dagli atti penali è emerso che la Procura stava svolgendo all’epoca indagini sulla Fondazione Open, per l’ipotesi delittuosa di finanziamento illecito ai partiti; in particolare risultavano già emessi vari decreti di perquisizione sugli immobili dell’indagato rapp.te legale Open avv.to Alberto Bianchi di Pistoia, sulla base della ipotesi investigativa che la Fondazione Open fosse non già un organismo avente gli scopi dichiarati, ma fosse un’articolazione politica destinata a supportare la campagna politica di Renzi Matteo, sia per la sua attività di sindaco di Firenze che per quella successiva, compresa la campagna del SI referendario.
In particolare l’articolo giornalistico risulta recepire fedelmente il contenuto di alcuni atti di indagine di poco anteriori quali ad es. il decreto di perquisizione emesso in data 25.11.19 dalla Procura della Repubblica di Firenze, sullo studio e immobili dell’avv.to Bianchi (doc. 4 prodotto dai convenuti), dal quale si traggono tutte le notizie che il giornalista aveva riportato nel suo articolo senza falsificarne il contenuto, come infondatamente allegato da parte attrice.
Nello stesso doc. 4 a pag. 2 si rinviene anche la notizia che dagli atti di indagine era emerso, sempre dunque nella fase delle indagini preliminari e non a seguito di dibattimento penale, che la Fondazione Open rimborsava le spese dei parlamentari e metteva a loro disposizione carte di credito e bancomat; nel provvedimento sono indicate anche specificamente le segnalazioni della guardia di Finanza al riguardo.
Dunque, il giornalista ha fatto affidamento su una fonte particolarmente qualificata e non aveva alcun ulteriore onere di controllo>>.

<<D’altra parte il giornalista aveva giustificatamente ravvisato anche un interesse pubblico alla diffusione, perché il finanziamento di un partito, di una corrente partitica, o di un uomo politico, sono fatti di interesse pubblico, e ciò proprio per il controllo sociale e la trasparenza del funzionamento delle attività istituzionali democratiche.     Si ritiene poi che non sussista nemmeno quell’aspetto diffamatorio allegato dall’attore e connesso alla presunzione di innocenza, atteso che nell’articolo è chiaramente affermato che queste notizie non sono contenute in sentenze ma sono riferite agli sviluppi dell’indagine investigativa in corso, per cui il lettore è edotto del fatto che non c’è stata una sentenza di condanna dibattimentale; è poi da notare che in nessun punto dell’articolo Renzi Matteo viene rappresentato come soggetto imputato o indagato, ciò che non è stato nemmeno allegato>>

Precisazione del giudice: <<Sulla differenza tra Fonte-atti d’indagine e fonte-indiscrezioni su atti di indagine e comunque esimente in entrambi i casi si veda cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 39082 del 09/12/202>>

Diffamazione negata nella lite Osservatorio Giovani Editori – Ceccherini c. Repubblica e La Verità

Trib. Firenze sent. 617/2023 del 01 marzo 2023, rel. Zanda, Rg 2099/2019, rigetta la domanda risacitoria da diffamazione contro editore e giornalisti di Repubblica (articolista: Gatti) per un articolo di giornalismo investigativo ritenuto offensivo da Ceccherini , spt. circa l’inziativa “Il Quotidiano in Classe”.

<<È dunque di interesse collettivo sapere che dietro a questo progetto ci sono gli interessi dei grossi gruppi finanziari rappresentati dalle banche europee che hanno supportato il Ceccherini e la sua attività così delicata come quella mirata alle scuole e alla formazione scientifica economica dei ragazzi italiani; è di interesse collettivo conoscere anche la formazione pregressa di un uomo che pur senza titoli di studio particolari, si è rapportato correntemente con noti personaggi del mondo finanziario e della politica italiana, con cui viene ritratto nel pezzo, e ha mantenuto per 20 in piedi il suo progetto Quotidiano in Classe con l’indispensabile avallo della politica italiana; è di interesse pubblico conoscere le criticità sollevate nel brano, come ad esempio il fatto, non smentito in causa, che gli studenti che avevano letto i giornali proposti dal sig. Ceccherini come il Sole 24 ore, non potevano essere gli oltre due milioni millantati dal Ceccherini, dato che quel numero coincideva quasi col numero degli studenti totali; né il Ceccherini ha smentito che dopo l’inchiesta giornalistica quel numero è stato rettificato e dimezzato nei canali informativi di Andrea Ceccherini e del suo Osservatorio; tutto ciò diviene rilevante se si pensa che in quegli anni (2019) arrivavano a concludersi le indagini della Procura di Milano sui vertici del Sole 24 Ore e della Consob per aver amplificato in modo falso proprio i numeri delle vendite del giornale economico, mettendo a rischio l’affidamento dell’azionariato, ed era risultato che l’Osservatorio del Ceccherini era una delle agenzie di co-marketing del Sole 24 Ore>>.

<<Risultano quindi giustificati i dubbi e le perplessità mosse dal giornalista sul proseguire, nonostante questi risultati, dei finanziamenti e affidamenti da parte dei gruppi bancari e finanziari interessati e di società high tech, come Google che pacificamente ha collaborato pur dopo l’articolo assuntivamente diffamatorio, al recente nuovo progetto della lotta alla Fake News, fatto pacifico in causa ed evidenziato fondatamente da parte convenuta a supporto della sua eccezione di mancanza di lesività del fatto per cui è causa>>.

<<E’ evidente che trattandosi di temi così importanti e così delicati e di rilievo collettivo, il pezzo, non contestato specificamente nemmeno in questo giudizio per numeri e dati ivi riprodotti, attraverso, ad es. la produzione di documenti di segno contrario, era rilevante ed è stato pubblicato come inchiesta giornalistica del dott. Gatti per informare il pubblico sui gruppi economico finanziari anche internazionali e su politici di spicco che continuano a promuoverlo e a supportarlo nei progetti, sempre tesi alla formazione e informazione delle fasce giovani dei lettori italiani; appare dunque giustificata la critica del giornalista sul persistere dei suoi progetti per anni se non per decenni nonostante la perdita di interesse dei giovani lettori sul tipo di giornale economico proposto (il Sole 24 Ore), risultato anche coinvolto da inchieste Consob e penali.
In nessun punto del brano si dice che la colpa del crollo dei lettori sia da ascrivere al Ceccherini o all’Osservatorio, come infondatamente scritto dagli attori, e nemmeno viene scritto che il Ceccherini e l’Osservatorio siano iscritti nel registro indagati.
Il brano è stato dunque espressivo di inchiesta giornalistica e non si ritiene che abbia avuto carattere diffamatorio, né che abbia leso la reputazione degli attori; non contiene false notizie e quanto riportato è di indubbio interesse pubblico>>

Ricjhiama poi Cass. 16236/2010 sul bilanciamento e soprattutto Cass. ord. 4036 del 16.02.2021 sul difficile tema della liceità del giornalismo  di inchiesta.

Ma la parte più interssante è la condanna per abuso del processo ex art. 96.3 cpc ad euro 42.000 in totale (un mezzo al Gatti e l’altro da ripartire tra i restanti) così motivata:

<<Tutto ciò considerato, se ne ricava che l’odierna azione non mira a contrastare la diffusione di notizie false negative, ma mira solamente a censurare un giudizio critico e negativo espresso sull’agire degli attori, un agire che proprio perché riguardante le scuole pubbliche italiane e i personaggi pubblici promotori, riveste un’indubbia rilevanza pubblica; l’azione proposta contro i giornalisti, l’editore e il direttore di Repubblica è dunque risultata palesemente infondata e temeraria, come ripetutamente eccepito dai convenuti, ciò che determina l’applicazione dell’art. 96 comma 3 c.p.c. con condanna dei convenuti al doppio delle spese legali a titolo di indennizzo per abuso del processo, trattandosi di un’azione che poteva essere evitata usando la normale diligenza;
inoltre si deve tener conto dell’eccessività della pretesa, tenuto conto che qualora la domanda fosse stata fondata, sarebbe spettato agli attori un importo massimo di euro 50 mila, e non le centinaia di migliaia di euro pretese in conclusioni, completamente al di fuori dei limiti del danno tabellato nelle tabelle milanesi; si pensi che per la morte di un figlio si giunge ad una liquidazione di circa 300 mila euro e per la diffamazione si prevede un massimo di 50 mila; quindi l’abuso dello strumento processuale viene in rilievo sia nell’an della domanda che nel quantum, assolutamente fuori tabella, (vd. Sez. 3 – , Ordinanza n. 26545 del 30/09/2021;cass.sez. U – , n. 25041 del 16/09/2021 “L’accertamento della responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., discende esclusivamente da atti o comportamenti processuali concernenti il giudizio nel quale la domanda viene proposta, quali, ai sensi del comma 1, l’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave o, per quanto riguarda il comma 3, l’aver abusato dello strumento processuale” >>.

Uguale esito sempre in Trib. Firenze n° 588/2023 del 28.02.2023, RG 2442/2019, rel. sempre Zanda. Riguarda due articoli pretesamente diffamatori del medesimo soggetto comparsi su La Verità di Belpietro.

Anche qui però la domanda è respinta: sono espressione del diritto costituzionale di liberà di stampa.

Spese di lite aumetnte del 50 % (in totale euro 30.600,00) per la complessità delle difese e per il numero degli articoli pretesamente diffamatori (solo due, però!) che ha comportato appesantimento della causa

Diffamazione a carico di ente commerciale: nella lite risarcitoria ENI c. Travaglio è arrivata la sentenza che rigetta la domanda di ENI

Con sentenza 14.12.2022 n° 18412/2022, RG 65990/2020, rel. Bile Corrado, il Tribunale di Roma rigetta la domanda risarcitoria di ENI vs. Il Fatto Quotidiano e il direttore Travaglio.

Il fatto dedotto consisteva in una lunga serie di articoli assai critici verso l’operato di ENI spt. in Africa, asseritamente diffamanti .

IL Trib. li esamina partitamente ma non ravvisa lesione della reputazione rilevante sotto il profilo aquiliano (art. 2043 cc).

Distingue il diritto di cronca dal diritto di critica, approfondendo il secondo.

Si appoggia alla “vecchia” Cass. 5259 del 1984 e al suo noto c.d decalogo del giornalista.

Ricorda che è ammessa una certa dose di esagerazine e provocazione, come ammesso anche da Corte EDU del 2016, ric. 49132/11..

Nel caso specifico <<dalla lettura emerge che la struttura argomentativa è sempre la stessa. Vengono presentate le vicende avvertendo il lettore che si tratta di questioni ancora oggetto di indagine e sulle quali, allo stato, non si è accertata alcuna responsabilità penale e, al contempo, si esprime un’opinione critica sull’opportunità di una scelta politica>>,.

Rigetta la domanda di sanzione per abuso del processo ex art. 96.3 cpc per assenza di malafede e colpa grave.

Spese di lite assestate ad euro 7.600+15% per spese generali.-

In una delle sue conclusioni ENI chiedeva la condanna di controparte a restituire <<l’ingiusto profitto ottenuto in consguenza dell’illecito>>. Domanda curiosa, perchè la norma esplicita è presente solo nel c.p.i. (ambigua invece nella l. aut.) ,ma non nel c.c.  Qui andrebbe ricostruita con complesso lavoro ermeneutico, a partire dalla pionieristica monografia di  Sacco del 1959 (v. ora l’ampio lavoro di Gatti S., Il problema dell’illecito lucrativo tra norme di settore e diritto privato generale, ESI, 2021)

Nessun cenno al concetto di diffamazione quando applicato ad un ente, per di più commerciale: l’art. 595 cp infatti difficilmente è applicabile a soggetti collettivi.

Per il danno da perdita del rapporto parentale, bisogna provarne l’effettività e la consistenza

Sul punto Cass., sez. VI, n° 36.297 del 13.12.2022, rel.  Scrima:

<<La Corte territoriale ha espressamente richiamato l’orientamento di questa Corte in tema di danno da perdita del rapporto parentale (Cass. 21230/16 e 7743/20), secondo cui è onere dei congiunti provare l’effettività e la consistenza della relazione parentale rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ha, altresì, richiamato il principio giurisprudenziale secondo cui il giudice può discostarsi dalla-misura minima prevista dalle Tabelle di Milano purché dia conto nella motivazione della specifica situazione che giustifica la decurtazione (Cass. n. 29495/19).

Dei richiamati principi la Corte di merito ha fatto corretta applicazione e, in particolare, contrariamente a quanto dedotto dal C., ha correttamente motivato il lamentato discostamento dai valori tabellari con riferimento alla situazione specifica.

Nel ritenere non provata l’effettività del rapporto parentale, con riguardo alla relazione padre figlia, la Corte territoriale ha in primis valutato la travagliata storia familiare di C.L. e, stante l’assenza di una stabile convivenza – per quanto qui rileva – con entrambi i suoi genitori, ha ancorato tale valutazione a quanto complessivamente risultante agli atti. Tale disamina è stata effettuata disgiuntamente e con ampiezza di argomentazioni in relazione ai rapporti con ognuno dei genitori, risultando così evidente la diversa consistenza di tali rapporti; non può, pertanto, essere condivisa l’argomentazione del ricorrente, il quale ha rilevato come il rapporto parentale di C.L. con la madre sia stato considerato effettivo ed abbia condotto ad un risarcimento determinato sulla base dei valori tabellari, nonostante il “trascorso di vita del tutto simile al padre”.

La Corte di appello ha concluso per la non effettività del rapporto parentale con il padre, non limitando il suo convincimento alle dichiarazioni tenute da C.L. innanzi al Tribunale per i Minorenni in data 27 settembre 2011, bensì considerando anche che, per stessa ammissione del padre, il rapporto con la figlia constava in contatti telefonici e manifestava la sua fragilità nella non partecipazione del C. agli incontri organizzati dai Servizi Sociali e nel fatto che non si fosse mai posto il problema del mantenimento della figlia.

Peraltro, va evidenziato che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prova che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso, né gli è richiesto di dar conto, nella motivazione, dell’esame di tutte le allegazioni e prospettazioni delle parti e di tutte le prove acquisite al processo, essendo sufficiente che egli esponga – in maniera concisa ma logicamente adeguata – gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione e le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo svolto.

Stante la chiarezza e la logicità della motivazione in merito al discostamento tra il danno liquidato in favore di C.L., per la perdita della relazione parentale con la figlia C.L., e quanto astrattamente previsto dalle Tabelle di Milano, non può considerarsi violata la disciplina della liquidazione del danno in via equitativa né risultano sussistenti gli ulteriori vizi dedotti sicché il primo motivo di ricorso è infondato.>>

Danno biologico terminale e danno catastrofale da tenere ben distinti

Precisaizoni da Cass. sez. lavoro n° 36.841 del 15.12.2022, rel. Michelini, sul trattamento di danno generato da evento morte, sopraggiunto dopo apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo (§ 15):

<<con la pronuncia n. 12041/2020 ora citata, cui il Collegio intende dare continuità, si è chiarito che:

a) in caso di malattia professionale o infortunio sul lavoro con esito mortale, che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofale), sicché, mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, nel secondo la natura peculiare del pregiudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della “enormità” del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte (cfr. Cass. n. 23183/2014, n. 15491/2014);

b) si tratta di danni che vanno tenuti distinti e liquidati con criteri diversi;

c) per il danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella del decesso) la liquidazione può ben essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea e deve essere effettuata in relazione alla menomazione dell’integrità fisica patita dal danneggiato sino al decesso; tale danno, qualificabile come danno “biologico terminale”, dà luogo ad una pretesa risarcitoria, trasmissibile “iure hereditatis” da commisurare soltanto all’inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte;

d) invece il danno catastrofale – che integra un danno non patrimoniale di natura del tutto peculiare consistente nella sofferenza patita dalla vittima che lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita – comporta la necessità di una liquidazione che si affidi a un criterio equitativo denominato “puro” – ancorché sempre puntualmente correlato alle circostanze del caso – che sappia tener conto della sofferenza interiore psichica di massimo livello, correlata alla consapevolezza dell’approssimarsi della fine della vita, la quale deve essere misurata secondo criteri di proporzionalità e di equità adeguati alla sua particolare rilevanza ed entità, e all’enormità del pregiudizio sofferto a livello psichico in quella determinata circostanza (vedi, tra le altre, Cass. n. 23183/2014);

e) ai fini della sussistenza del danno catastrofale, la durata di tale consapevolezza non rileva ai fini della sua oggettiva configurabilità, ma per la sua quantificazione secondo i suindicati criteri di proporzionalità e di equità (in termini: Cass. n. 16592/2019; v. pure Cass. n. 23153/2019, n. 21837/2019);

f) per ottenere uniformità di trattamento a livello nazionale, per questa ultima voce di danno si reputa comunemente necessario fare riferimento al criterio di liquidazione adottato dal Tribunale di Milano, per l’ampia diffusione sul territorio, appunto, nazionale e per il riconoscimento attribuito dalla giurisprudenza di legittimità, alla stregua, in linea generale e in applicazione dell’art. 3 Cost., del parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico a norma degli artt. 1226 e 2056 c.c., salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono (cfr. Cass. n. 12408/2011, n. 27562/2017; v. anche Cass. n. 9950/2017);>>

Ecco allora l’rrrore della corte di appello:

<<nel caso di specie, invece, la Corte d’Appello di Genova ha ricondotto a nozione unitaria il pregiudizio del dante causa, quale danno biologico terminale ricomprendente sia il danno da lucida agonia o morale catastrofale, che quello biologico ordinario;

18. la sentenza impugnata risulta, quindi, in contrasto con i principi di diritto su enunciati, perché non tiene conto del criterio di liquidazione individuato da questa Corte di legittimità nelle tabelle che stimano l’inabilità temporanea assoluta con opportuni “fattori di personalizzazione”, quale parametro di conformità della valutazione equitativa del danno alle disposizioni degli artt. 1226 e 2056 c.c., e perché non considera la duplice componente fenomenologica del danno sottoposto al presente giudizio, avuto riguardo sia agli effetti che la lesione del diritto della salute ha comportato nella dimensione dinamico-relazionale del soggetto danneggiato, sia alle conseguenze subite dallo stesso nella sua sfera interiore, sub specie di sofferenza di paura, di angoscia, di disperazione, anche in considerazione del prevedibile esito letale;>>

Ancora la Terza Sezione su nesso causale e concorso di cause nella responsabilità medica

Cass. sez.- 3 del 02.09.2022 n° 25.884. rel. Pellecchia, sull’oggetto.

Traiamo tre regole:

1) il duplice causale del dr. Scoditti e della 3 sez. (parzialmente esatto, ma solo parzialmetne):

<<Va al riguardo ribadito che, nei giudizi risarcitori da responsabilità medica, si delinea “un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18392, Rv. 645164-01).

Se, al termine dell’istruttoria, restino incerti la causa del danno o quella dell’impossibilità di adempiere per causa non imputabile al debitore della prestazione, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano, rispettivamente, sull’attore o sul convenuto, e il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge, per questi ultimi (ed eventualmente per la struttura sanitaria convenuta) l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 18392 del 2017, cit.; nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 2019, nn. 28990 e 28991, 4 novembre 2017, n. 26824, 7 dicembre 2017, n. 29315, Rv. 646653-01).>>

2° il criterio della prevalenza tra più possiibli:

<<In premessa, il collegio osserva come questa Corte, in tema di prova del nesso causale, abbia più volte affermato che i criteri da applicare sono quelli “della probabilità prevalente” e “del più probabile che non”.

Il primo criterio, della probabilità prevalente (o della prevalenza relativa), da adottarsi nel caso di specie, implica che, rispetto ad ogni enunciato fattuale, venga considerata l’eventualità che esso possa essere vero o falso, e che, accertatane la consistenza indiziaria, l’ipotesi positiva venga scelta come alternativa razionale quando è logicamente più probabile di altre ipotesi, in particolare di quella/e contraria/e, per essere viceversa scartata quando gli elementi di fatto disponibili le attribuiscano una grado di conferma “debole”, tale, cioè, da farla ritenere scarsamente credibile rispetto alle altre. In altri termini, il giudice deve scegliere l’ipotesi fattuale (essendo la valutazione del nesso di causalità un giudizio di fatto di tipo relazionale) ritenendo “vero” l’enunciato che abbia ricevuto il grado di maggiore conferma relativa sulla base dei fatti indiziari disponibili, rispetto ad ogni altro enunciato, senza che rilevi il numero degli elementi di conferma dell’ipotesi prescelta, e senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’impredicabilità di un’aritmetica dei valori probatori.

Il principio risulta concretamente applicabile al caso di specie, nel quale le ipotesi adombrate dalla CTU risultano quattro, due delle quali ritenute “meno probabili” dall’ausiliario.

L’operazione intellettuale cui è chiamato il giudice di merito, in tal caso, si struttura in tre fasi:

a) L’eliminazione, dal novero delle ipotesi valutabili, di quelle meno probabili (non essendo consentito il procedimento logico-aritmetico che conduca alla conclusione: 3&gt;1);

b) L’analisi, tra le rimanenti ipotesi, di quelle ritenute più probabili;

c) La scelta, tra le ipotesi così residuate (nella specie, in numero di due) di quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente.>>

3° conduzione del giudizi ocausale sui fatti : unitario o parcellizzato:

<<ma così violando l’ulteriore principio di diritto, a più riprese affermato da questa stessa Corte di legittimità, a mente del quale, nel giudizio di fatto, l’indagine vada rivolta al metodo di valutazione degli elementi di prova disponibili (i fatti “indizianti” della prova per presunzioni) e sulla scelta tra un generico modello olistico ovvero un rigoroso metodo analitico, evidenziandosi poi come la soluzione da privilegiare non possa che risultare la seconda, atteso che il modello olistico si presterebbe facilmente a sovrapporre alla realtà dei fatti la loro (sola) narrazione, con il rischio che una perfetta coerenza narrativa, pur in ipotesi assolutamente falsa, possa fuorviare il giudice e condurlo ad una decisione ingiusta, mentre il metodo analitico-atomistico si fonda sulla premessa che la base della decisione sia rappresentata dai fatti e soltanto da essi.

La valutazione dei fatti secondo il modello analitico segue, peraltro, un percorso logico distinto in due fasi – che ne consente una parziale combinazione con quello olistico – fondate, dapprima, su di un rigoroso esame di ciascun singolo fatto “indiziante” che emerge dagli atti di causa (onde eliminare quelli privi di rilevanza rappresentativa e conservare quelli che, valutati singolarmente, offrano un contenuto positivo, quantomeno parziale, sotto il profilo dell’efficacia del ragionamento probatorio), e successivamente, su di una valutazione congiunta, complessiva e globale, di tutti quei fatti – alla luce dei principi di coerenza logica, compatibilità inferenziale, congruenza espositiva, concordanza prevalente – onde accertare se la loro combinazione, frutto di sintesi logica e non di grossolana “somma aritmetica”, possa condurre all’approdo della prova presuntiva del factum probandum, che potrebbe non considerarsi raggiunta attraverso una valutazione atomistica di ciascun indizio (quae singula non possunt, collecta iuvant).

Accertata preliminarmente la valenza dimostrativa di ciascun “fatto indiziario” che emerge dall’incarto processuale secondo il modello analitico, si procederà poi all’esame metodologico dell’intera trama fattuale in modo complessivo e unitario, di tal che la possibile ambiguità di ciascun factum probans possa nondimeno risolversi nell’approdo a quel necessario significato dimostrativo, frutto del ragionamento inferenziale, che consenta di ritenere complessivamente raggiunta la prova logico-baconiana del factum probandum. Il procedimento mentale da percorrere, per il giudice, è dunque quello della analisi di ciascun elemento di fatto e della sua collocazione e ri-composizione all’interno di un mosaico del quale ciascun indizio (i.e., ciascun singolo fatto) costituisce la singola tessera>>.