La determinazione del danno cd differenziale in caso di malattia preesistente (concorrente o coesistente)

Cass. 29 settembre 2022 n. 28.327 , sez. VI, rel. Iannello:

principi generali:

<<In materia di danno differenziale deve darsi continuità ai principi affermati da Cass. 11/11/2019, n. 28986 (e da ultimo ribaditi da Cass. 21/08/2020, n. 17555; 06/05/2021, n. 12052; 27/09/2021, n. 26117), secondo cui in tema di risarcimento del danno alla salute, la preesistenza della malattia in capo al danneggiato costituisce una concausa naturale dell’evento di danno ed il concorso del fatto umano la rende irrilevante in virtù del precetto dell’equivalenza causale dettato dall’art. 41 c.p., sicché di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno. Può costituire concausa dell’evento di danno anche la preesistente menomazione, vuoi “coesistente” vuoi “concorrente” rispetto al maggior danno causato dall’illecito, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica ai sensi dell’art. 1223 c.c..

In particolare, quella “coesistente” e’, di norma, irrilevante rispetto ai postumi dell’illecito apprezzati secondo un criterio controfattuale (vale a dire stabilendo cosa sarebbe accaduto se l’illecito non si fosse verificato) sicché anche di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno; viceversa, secondo lo stesso criterio, quella “concorrente” assume rilievo in quanto gli effetti invalidanti sono meno gravi, se isolata, e più gravi, se associata ad altra menomazione (anche se afferente ad organo diverso) sicché di essa dovrà tenersi conto ai fini della sola liquidazione del risarcimento del danno e non anche della determinazione del grado percentuale di invalidità che va determinato comunque in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni”.

In tema di liquidazione del danno alla salute, l’apprezzamento delle menomazioni policrone “concorrenti” in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall’illecito va compiuto stimando, prima, in punti percentuali, l’invalidità complessiva, risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall’illecito e poi quella preesistente all’illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro, con la precisazione che in tutti quei casi in cui le patologie pregresse non impedivano al danneggiato di condurre una vita normale lo stato di “validità” anteriore al sinistro dovrà essere considerato pari al cento per cento; procedendo infine a sottrarre dal valore monetario dell’invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente, fermo restando l’esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa secondo la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa, ove lo impongano le circostanze del caso concreto>>.

La differenza tra menomazioni preessitenti concorrenti e coesistenti era stata spiegata da Cass. 2019 n° 28.986, rel. Rossetti.

La SC passa a spiegare la ragione del’assunto:

<<Le ragioni che rendono necessaria l’adozione di tale corretto metodo di calcolo, in funzione del diritto all’integrale risarcimento del danno ascrivibile a responsabilità dei sanitari, sono le seguenti.

Sono le funzioni vitali perdute dalla vittima e le conseguenti privazioni a costituire il danno risarcibile, non il grado di invalidità, che ne è solo la misura convenzionale; tali privazioni (e le connesse sofferenze) progrediscono con intensità geometricamente crescente rispetto al crescere dell’invalidità; la misura convenzionale cresce invece secondo progressione aritmetica.

Ciò si riflette nel metodo di liquidazione che, dovendo obbedire al principio di integralità del risarcimento (art. 1223 c.c.), opera necessariamente, sia quando è disciplinato dalla legge, sia quando avvenga coi criteri introdotti dalla giurisprudenza, con modalità tali che il quantum debeatur cresce in modo più che proporzionale rispetto alla gravità dei postumi: ad invalidità doppie corrispondono perciò risarcimenti più che doppi.

Tale principio resterebbe vulnerato se, nella stima del danno alla salute patito da persona già invalida, si avesse riguardo solo all’incremento del grado percentuale di invalidità permanente ascrivibile alla condotta del responsabile.

Un punto di invalidità è uguale a quello cui si somma solo nella sua espressione numerica (che progredisce aritmeticamente), non nel sostrato reale (l’entità delle rinunce corrispondenti) che concorre a rappresentare, né, parallelamente, nella sua traduzione monetaria>>

La Cassazione sulla liquidazione del danno (da errore di medico del Pronto Soccorso) in forma di rendita vitalizia ex art. 2057 cc

Molto interessante pronuncia della SC sull’oggetto, di rara applicazione pratica: si tratta di Cass. sez. 3 , rel. Pellecchia, n° 31.574 del 25 ottobre 2022.

Qui solo alcuni passaggi (ma la sentenza è piena di spunti interessanti, anche sul versante assicurativo):

<<L‘art. 2057 c.c. dispone che “quando il danno alle persone ha carattere permanente la liquidazione può essere fatta dal giudice, tenuto conto delle condizioni delle parti e della natura del danno, sotto forma di una rendita vitalizia. In tal caso il giudice dispone le opportune cautele”.

La norma censurata trova applicazione qualora il giudice di merito accerti l’esistenza di un danno alla persona di carattere permanente, e prevede la possibilità che la liquidazione di tale danno possa avvenire attraverso il meccanismo della rendita vitalizia. Quest’ultima costituisce una forma di risarcimento per equivalente (c.c. 13 gennaio 1993 n. 357), ed è fonte di un rapporto a esecuzione periodica, in cui la durata prevista è ” componente essenziale dell’utilità alla quale è ordinato il rapporto “.

Ben si comprende la funzione di tale previsione se la si pone in relazione con il carattere permanente del danno: la liquidazione ex art. 2057 c.c. mira infatti a ” realizzare una tendenziale corrispondenza fra permanenza del danno e permanenza del risarcimento “, configurando la liquidazione della rendita non come diritto della parte, ma come facoltà del giudice (Cass. 20.2.1958, n. 553; Cass., 24.5.1967, n. 1140), imponendogli al contempo di predisporre le opportune cautele.

4.1.2. Tanto premesso, osserva il collegio come non appaia in alcun modo predicabile il lamentato vizio di extrapetizione della pronuncia d’appello, rientrando tra i poteri del giudice non soltanto quello di optare per la citata modalità di liquidazione del risarcimento in presenza dei presupposti previsti dalla legge, ma anche quello di disporre, all’esito, ed in via altrettanto officiosa, le “cautele” che ritiene necessarie. La ricorrente non censura la scelta della Corte territoriale di liquidare il danno in forma di rendita, di tal che dalla legittimità di tale scelta (pur se operata per la prima vota in grado di appello) discende il corollario rappresentato dal dovere del giudice di disporre tutte “le opportune cautele” funzionali a garantire l’adempimento de die in diem dell’obbligo di versare al danneggiato il rateo di rendita, così come stabilito dall’art. 2057, secondo periodo, c.c.. – così come accaduto, del tutto legittimamente, nel caso di specie>.

Interessante è la critica dei danneggiati (rectius , dei genitori per conto del figlio leso) sulla scelta della Cote di appello di disporre di ufficio la rendita vitalizia, che sarebbe penalizzante per la minor vita del figliolo causata proprio dall’errore medico: <<Con il primo motivo del ricorso incidentale, i signori M. e M. deducono, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la “manifesta ed irriducibile contraddittorietà della sentenza in relazione alla costituzione della rendita vitalizia in favore di M.F.”.

Secondo i ricorrenti incidentali, la sentenza sarebbe contraddittoria in quanto, pur avendo rigettato la richiesta di riduzione dell’entità del risarcimento riconosciuto al figlio Filippo a causa della sua minore aspettativa di vita, ritenendola determinata proprio dalle colpevoli omissioni delle controparti, avrebbe poi in concreto consentito loro di giovarsi della propria condotta, applicando un criterio di liquidazione che, implicitamente, consentiva la predetta riduzione, tenuto conto della ridotta aspettativa di vita del minore.

Inoltre, la Corte d’appello non avrebbe spiegato adeguatamente la ragione per cui la costituzione di una rendita di modesta entità mensile fosse maggiormente indicata a far fronte alle concrete esigenze del minore, il quale, trovandosi in stato vegetativo permanente, affetto da paralisi cerebrale, encefalopatia epilettica resistente a terapia, grave scoliosi nEurologica evolutiva già sottoposta a due interventi nel 2014-2015, aveva necessità di un’assistenza specialistica continuativa.>>

Replica della SC:

<<5.2.1. La doglianza con cui si lamenta la “contraddittorietà” della sentenza in relazione alla costituzione di una rendita in favore dell’avente diritto è infondata. E’ invece fondata la censura con la quale si prospetta un error in iudicando nella concreta determinazione della detta rendita.

5.3. Il primo motivo, difatti, pur prescindendo dai non marginali profili di inammissibilità che esso presenta nell’evocare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, non appare meritevole di accoglimento nella parte in cui censura la scelta in sé di procedere ad una liquidazione del danno in forma di rendita.

L’art. 2057 c.c., infatti, rimette al prudente apprezzamento del giudice la scelta della forma di liquidazione del danno permanente alla persona, perché capitale e rendita si equivalgono per l’ordinamento civilistico. Il giudice è dunque libero di optare ex officio per lo strumento di cui all’art. 2057 c.c., purché determini la rendita in modo tecnicamente corretto.

Pertanto, nessuna contraddittorietà emerge dalla decisione con cui la Corte d’appello, da un lato, ha ritenuto corretta la quantificazione del danno compiuta dal primo giudice, e dall’altro ha ritenuto di liquidare tale pregiudizio in forma di rendita.

Presupposto esplicito della censura mossa dai ricorrenti incidentali è quello per cui la liquidazione in forma di rendita, cessando con la morte del beneficiario, “agevolerebbe” il responsabile del fatto illecito in tutti i casi in cui proprio la gravità delle lesioni provochi una ridotta aspettativa di vita per la vittima, determinando una riduzione dello stesso risarcimento, e così, de facto, “soddisfacendo le domande e le eccezioni avversarie, senza poi spiegare il motivo per il quale una somma una tantum sia inidonea a far fronte ai bisogni del minore, a differenza della costituzione di una rendita” (così ai ff. 24 e 25 del ricorso).

5.3.1. Tale presupposto, tuttavia, non è conforme a diritto.

Qualora il danno sia stato liquidato in forma di rendita, dopo aver determinato la somma capitale, occorre tenerne distinte due diverse componenti: il coefficiente per la costituzione della rendita (ovvero il criterio di calcolo), e la durata della stessa.

Il coefficiente di costituzione della rendita deve corrispondere – secondo quanto di qui a breve si dirà – all’età effettiva del danneggiato al momento del sinistro – ed avrà riferimento alla durata media della vita – calcolato sul presupposto che, secondo le statistiche mortuarie attuali, un ventenne ha una aspettativa di vita di sessant’anni, un quarantenne di quaranta ed un sessantenne di venti.

Nel caso di specie, la Corte territoriale ha tenuto fermo, confermandolo, l’importo liquidato in prime cure (1.219.355 Euro) come base di calcolo: allorché si tratti di determinare il capitale da cui ricavare la rendita, la minore speranza di vita della vittima non viene in rilievo, e nessun vantaggio ne trarrebbe il responsabile, qualora quella minor speranza di vita sia stata determinata, come nella specie, dalla sua condotta illecita.

Tuttavia, una volta determinato il capitale con riferimento alla durata media della vita, e non a quella presumibile nel caso concreto, una volta detratti gli eventuali acconti versati prima della sentenza (che andranno rivalutati e detratti dal capitale stesso posto a base di calcolo della rendita), e una volta convertito tale capitale in rendita, il diritto a ricevere quest’ultima matura de die in diem, ed ogni rateo di rendita compensa il pregiudizio sofferto dalla vittima nel corrispondente arco di tempo.

Se dunque la vittima venisse a mancare ante tempus, con la sua morte cesserebbe il pregiudizio permanente e, cessando il pregiudizio, non sarebbe concepibile la ulteriore pretesa di continuare ad esigere un risarcimento. (…)  5.3.5. Parimenti destituita di fondamento deve ritenersi l’affermazione per cui, attraverso la liquidazione di una rendita, il danneggiante si avvantaggerebbe delle conseguenze del proprio atto illecito – perché la vita media di chi ha subito danni alla persona sarà verosimilmente più breve rispetto a quella delle persone sane – che appare fondarsi su un evidente paralogismo, come si è già osservato in precedenza e come meglio si dirà nel corso dell’esame del secondo motivo del ricorso incidentale. Capitale e rendita costituiscono, difatti, due diverse forme di erogazione del medesimo valore, essendo il denaro un bene per definizione fruttifero, del quale sarà fruibile il valore d’uso (la rendita), ovvero il valore di scambio (il capitale), non diversamente da quanto accade per il godimento di un bene immobile, che potrà essere venduto o locato ricavando redditi diversi, ma che costituiscono pur sempre forme alternative di realizzazione del suo valore.

5.3.6. Riparare il pregiudizio derivante da una grave lesione della salute attraverso la costituzione di una rendita quale forma privilegiata di risarcimento consente di cogliere appieno la proiezione diacronica di tutte le componenti del danno che, di giorno in giorno, il danneggiato avrebbe subito dal momento dell’evento in poi. Ne consegue – va ripetuto – che, ove venga (correttamente) adottata tale forma risarcitoria, il valore della rendita dovrà essere computato tenendo conto non delle concrete speranze di vita del danneggiato, bensì della vita media futura prevedibile secondo le tavole di mortalità elaborate dall’ISTAT, a nulla rilevando che, nel caso concreto, egli abbia speranza di sopravvivere solo per pochi anni, ovvero che non risulti oggettivamente possibile determinarne le speranze di sopravvivenza, qualora tale ridotta speranza di sopravvivenza sia conseguenza dell’illecito.>>.

Istruzioni processuali sul fatto che la rendita vitalizia può essere disposta anceh di ufficio, pure in apppello , § 5.3.4.

Voci di danno risarcibili:

<<5.3.10. Ne consegue che il responsabile, versando una somma periodica al danneggiato, non lucra alcuno “sconto” sul risarcimento, in quanto:

a) se la durata della vita del danneggiato è maggiore rispetto alla durata della vita media, sarà il danneggiato stesso a realizzare un lucro;

b) se la durata della vita del danneggiato sarà, in concreto o presumibilmente, inferiore alla durata della vita media, e ciò a causa delle lesioni, il responsabile sarà tenuto a risarcire il danno sotto forma di rendita – la cui base di calcolo si fonderà non sulla speranza di vita in concreto, bensì su quella media di un soggetto sano – oltre al danno parentale subito dai genitori in conseguenza dell’illecito;

c) se il danneggiato avrà una vita di durata inferiore alla media, ma ciò avviene per cause del tutto indipendenti dalle lesioni, il responsabile che cessa di pagare la rendita non realizza alcun “vantaggio” patrimoniale, poiché, il risarcimento cessa perché cessa il danno.>>

Possibilità di adeguamento della rendita al § 5.3.16.

Nel caso specifico era incredibilmente emerso che il medico che commise l’errore in realtà era si un dipendente dell’azienda sanitaria ma non era un medico. Il che però non fa uscire il fatto dalla copertura dell’assicurazione, come pretendeva la compagnia: Tale interpretazione della corte di appello sul punto non è censurabile in cass., § 4.2.

Danno da errore medico: sottile distinzione tra perdita di chance di sopravvivenza e perdita del bene vita

Cass. n. 31.136 del 21.10.2022, sez. 3, rel Rubino, pone in (troppo) poche righe un concetto importante in un caso di errore medico (mancato trasferimento del paziente da medicina generale in un reparto di unità coronarica e  successivo decesso), cassando la sentenza di appello

Premessa:

<16. – Va invece accolto il terzo motivo, per le ragioni che seguono.

Le considerazioni della corte d’appello sul comportamento inadeguato, imprudente e imperito dei medici non si accompagnano ad un rigoroso ragionamento controfattuale, volto all’accertamento del nesso di causalità tra il comportamento da questi tenuto e il decesso del paziente, da porre alla base dell’affermazione, seppur in termini probabilistici e non di assoluta certezza, che ove spostato in un reparto in grado di fornire le cure adeguate il paziente si sarebbe salvato. La sentenza afferma che “la preclusione di tali interventi sanitari, operabili esclusivamente in un reparto UTIC, ascrivibile all’omissione contestata, ha indubbiamente concorso, alla stregua del criterio di probabilità relativa (…) al tragico epilogo determinatosi” per poi aggiungere ” le probabilità di sopravvivenza del B. in un reparto specializzato sarebbero state sicuramente superiori a quelle che allo stesso venivano concesse in un reparto inidoneo in quanto sprovvisto della necessaria strumentazione, quale quello di medicina legale“.

Data questa premessa, conclude però, incoerentemente, con l’accoglimento della domanda risarcitoria ritenendo provata l’esistenza del nesso causale tra il comportamento dei medici e il danno consistente nella morte del paziente>.

L’errore del secondo giudice:

<< I riferimenti contenuti nella sentenza impugnata al comportamento dei medici, che non hanno sottoposto il paziente che già presentava una estesa ischemia miocardica alle cure necessarie e al monitoraggio diagnostico adeguato, conseguibili solo con lo spostamento del paziente in un reparto di terapia intensiva, fanno intendere, conformemente alle risultanze della c.t.u. pure riportate in sentenza, che gli sia stata negata la possibilità di ottenere un risultato migliorativo, che avrebbe avuto qualche chance di conseguire ( [NB: questa parentesi tonda probabilmente è non voluta; in alternativa non è voluta la successiva] conformemente alla nozione di perdita di chance, da valutarsi non in relazione alla concreta possibilità del B. di guarire, cioè in relazione non al risultato atteso, ma in relazione alla perdita della possibilità di conseguire il risultato utile e sperato: infatti, non è il risultato perduto, ma la perdita della possibilità di realizzarlo l’oggetto della pretesa risarcitoria nella perdita di chance (Cass. n. 2261 del 2022; Cass. n. 12906 del 2021; Cass. n. 28993 del 2019).

Nel momento di trarre le fila del proprio ragionamento, però, la corte d’appello confonde i due piani, quello della chance, ovvero della perdita della possibilità del conseguimento di un risultato utile soltanto sperato, e quello dell’accertamento del nesso causale pieno in relazione alla perdita del bene vita, ovvero dell’accertamento, come più probabile che non, che il comportamento corretto e tempestivo dei sanitari, ovvero l’immediato trasferimento del paziente nell’unità specializzata, avrebbe potuto evitare il danno (la morte) e far conseguire il risultato sperato (la guarigione del paziente) e predica, a quella che descrive in fatto come mera perdita della possibilità di conseguire un miglior risultato, le conseguenze risarcitorie proprie dell’accertamento diretto del nesso di causa tra il comportamento omissivo dei medici e la morte del paziente con l’integrale risarcimento, a carico dei medici e della ASL, del danno da perdita del rapporto parentale subito dalla moglie e dai figli del B..>>

Questa presunta differenza di beni della vita azionati comporta differenza di diritti azionati e dunque, dal punto di vista del difensore, che non si può passare dall’uno all’altro (è mutatio libelli)

Il tema è al centro della monografia Bruno Tassone, Causalità e perdita di chances, Giappichelli, 2 ed., 2020

Danno da occupazione abusiva dell’immobile: in re ipsa o da provare?

E’ nel secondo senso Cass. sez. un. 15.11.2022 n. 33.645, rel. Scoditti.

 

La decisione va condivisa.

Premessa: si tratterebbe di danno emergente e non mancato guadagno : << 4.2. Entrambe le ordinanze interlocutorie pongono la questione
della configurabilità del c.d. danno
in re ipsa nell’ipotesi di
occupazione
sine titulo dell’immobile, ma il punto di divergenza fra gli
orientamenti che esse esprimono riguarda non il mancato guadagno,
bensì la perdita subita. Entrambe le ordinanze escludono infatti che
un danno
in re ipsa sia configurabile in relazione al lucro cessante e si
può convenire sul dato che nella giurisprudenza di legittimità le
occasioni di guadagno perse devono essere oggetto di specifica
prova, naturalmente anche a mezzo di presunzioni. La problematica
del danno
in re ipsa emerge in entrambe le ordinanze in relazione alla
facoltà di godere del proprietario quale individuazione dell’esistenza di
un danno risarcibile per il sol fatto che di tale facoltà il proprietario sia
stato privato a causa dell’occupazione abusiva dell’oggetto del suo
diritto
>>

<<4.5. La questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione
del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno
risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche
risarcitoria. Ritengono le Sezioni Unite che al quesito debba darsi
risposta positiva, nei termini emersi nella richiamata linea evolutiva
della giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, secondo cui la
locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno
presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della
presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il
pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022,
n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865). Tale esito interpretativo, per
quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente
al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in
conseguenza di un fatto illecito. La linea da perseguire è infatti,
secondo le Sezioni Unite, quella del punto di mediazione fra la teoria
normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della Seconda
Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla Terza
Sezione Civile. Al fine di salvaguardare tale punto di mediazione,
l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per
l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta
la distinzione fra le due forme di tutela>>

<<4.9. Nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è
al contrario richiesta, come si è visto, l’allegazione della concreta
possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa. Ciò
significa che il non uso, il quale è pure una caratteristica del
contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento>>

PRINCIPI DI DIRITO:

<<  –  “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento
del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del

diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del
godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”;
–   “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di
un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il
risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare,
esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso
mediante il parametro del canone locativo di mercato”;
–   “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di
un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento
del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito,
quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe
concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore
al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo
più conveniente di quello di mercato”.
>>

(Si tratterà però spesso di lucro cessante, a dispetto di quanto premettono le SU come sopra riportato)

Importante la precisazione per cui la relevatio ab onere probandi ex art. 115 cpc riguarda solo i fatti noti al convenuto: <<Sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass.
31 agosto 2020, n. 18074; 4 gennaio 2019, n. 87; 18 luglio 2016, n.
14652; 13 febbraio 2013, n. 3576). Poiché non si compie l’effetto di
cui all’art. 115, comma 1, cod. proc. civ., per i fatti ignoti al
danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a
prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di
normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi
di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che
l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente
più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno. Ne consegue sul
piano pratico la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di
contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto
dall’art. 115 comma 1, nelle controversie aventi ad oggetto la perdita
subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur
in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il
mancato guadagno>>

Regola spesso violata nella prassi giudiziaria

Danno non patrimoniale da omessa diagnosi tempestiva: non valgono le tabelle giurisprudenziali

Si legge in Cass. sez 3, del 3 ottobre 2022 n. 28.632, rel. Scarano:

<<Atteso che nella liquidazione equitativa (financo nella sua forma c.d. “pura”) non può prescindersi dalla considerazione che – come detto – essa consiste in un giudizio di prudente contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso concreto, si è da questa Corte posto in rilievo come pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale il giudice sia chiamato a dare in motivazione conto della operata valutazione di ciascuno di essi, in modo da rendere evidente il percorso logico seguito nella propria determinazione e consentire il sindacato del rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento, con la conseguenza che laddove non risultino indicate le ragioni dell’operato apprezzamento né richiamati gli specifici criteri utilizzati nella liquidazione, la sentenza incorre nel vizio di nullità per difetto di motivazione (v. Cass., 13/9/2018, n. 22272), non potendo al riguardo valorizzarsi del tutto generiche ed apodittiche indicazioni.>.

E poi, soprattutto:

<<Dopo aver dato atto che “contrariamente a quanto avviene per il caso di danno non patrimoniale per lesione all’integrità fisica” per il “danno per omessa tempestiva diagnosi” non soccorrono “le note tabelle di elaborazione giurisprudenziale”, ha espressamente affermato di dover al riguardo valutare “tutte le circostanze del caso concreto ed, in particolare, l’età del paziente al momento della morte (anni 58), il periodo di ritardo intercorso fra il primo accertamento diagnostico (30.10.1997), la diagnosi di tumore (6.10.1998) e l’intervenuto decesso (17.12.1998), le condizioni generali di salute del paziente nei mesi intercorsi tra il primo accertamento e l’effettiva corretta diagnosi, come risultanti dalla documentazione medica esaminata dal CTU”, da cui “in particolare emerge… che il de cuius, di professione tassista, nel periodo sopra considerato avvertiva dolori al torace, dispnea da sforzo, tosse scarsa, che… mai lo hanno costretto ad un blocco totale della sua attività”, come confermato “dalla relazione clinica del 19.11.1998… a riprova del fatto che, nei mesi precedenti ben avrebbe potuto il D., ove avesse avuto piena contezza delle proprie effettive condizioni di salute, gestire in modo autonomo e con piena consapevolezza esistenziale la propria vita, in vista dell’inevitabile esito finale”.

Elementi che questa Corte ha invero ritenuto da prendersi correttamente in considerazione nella liquidazione del danno in via equitativa ex art. 1226 c.c., anche in altra ipotesi del pari non contemplata – diversamente che da quelle di Roma- dalle Tabelle di Milano (cfr., con riferimento al danno da perdita del rapporto parentale, Cass., 29/9/2021, n. 26300; Cass., 21/4/2021, n. 10579).>>

Responsabilità di Uber per l’aggressione ad un suo autista?

Dice di no la corte distr. di West Dist. Washington 27 sett. 2022, Civil Action 2:21-cv-202-BJR, Drammeh v. Uber Techs .

L’autista era stato aggredito e ucciso da due utenti che avevano anche creato (allo scopo, parrebbe) un falso account Uber .

Il punto è l’esistenza o meno di un duty of care di Uber vs. gli autisti.

In genrere nel common law non ci sono doveri di protezione di terzi, tranne che ricorrano due circostanze:

– vi sia tra loro special relationship; o

– che vi sia misfeasance “in the limited circumstances [where] the actor’s own affirmative act creates a recognizable high degree of risk of harm.”. Deve però esswerci azione difettrosa, non omissione che non vbasta.

E’ il punto meno sicuro ma la Corte rigetta:

<<Plaintiffs may be correct that certain omissions can amount to misfeasance if they create a risk of harm that would otherwise not exist. The Washington Supreme Court has stated in dicta that “[a] driver affirmatively create[s] a new risk to a pedestrian by failing to stop his or her car [at a crosswalk].” Robb, 176 Wash.2d at 437. However, none of the omissions identified by Plaintiffs created the risk that resulted in Ceesay’s death. Plaintiffs’ own statistics show that carjacking is a broad societal problem. See Pl. Opp’n, Dkt. 123 at 20. There is no evidence or allegation that anything Defendants did actively encouraged carjackings or “create[d] a special or particular temptation or opportunity for crime.” Hutchins, 116 Wash.2d at 232-33; see also Jane Doe 1 v. Uber Techs., Inc., 79 Cal.App. 5th 410, 425 (finding Uber did not engage in misfeasance and contrasting a case in which a “plaintiff was injured by third parties doing exactly what defendant’s conduct encouraged them to do” (emphasis added)). Even if it were conclusively shown at trial that the risk of carjackings would have been reduced if Defendants had implemented the measures demanded by Plaintiffs, it still would not follow that Defendants created the risk. Washington courts have rejected the idea that “the failure to take [preventative measures] against crime is not in and of itself a special temptation to crime.” Sourakli v. Kyriakos, Inc. 144 Wash.App. 501 (2008). >>

Nemeno ricore la foreseeability dell’evento.

La domanda è respinta.

Non  si menziona (strano che non sia stato invocato) il safe harbour ex § 230 CDA,

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Due proposte della Commissione UE sulla responsabilità civile: da intelligenza artificiale e sostituzione di quella generale da prodotto difettoso

Comunicato della Commissione sull oggetto e cioè sulle seguente due proposte dir dir.:

Proposal for a DIRECTIVE OF THE EUROPEAN PARLIAMENT AND OF THE COUNCIL on liability for defective products,  Brussels, 28.9.2022 – COM(2022) 495 final, 2022/0302 (COD): qui ad es. importante disciplina (in parte anticipata da dottrina o giurisprudenza) sull’onere della prova, art. 9;

Proposal for a DIRECTIVE OF THE EUROPEAN PARLIAMENT AND OF THE COUNCIL on adapting non-contractual civil liability rules to artificial intelligence
(AI Liability Directive)
, Brussels, 28.9.2022 – COM(2022) 496 final, 2022/0303 (COD)
: molto interessanti gli art. 3 (Disclosure of evidence and rebuttable presumption of non-compliance ) e art. 4 (Rebuttable presumption of a causal link in the case of fault). E’ prcisato che la dir. regola la responsabilità aquiliana cioè non da contratto, art. 1.

Sulla liquidazione del danno non patrimoniale ai parenti del cededuto (circostanza ordinarie e circostanze eccezionali, in riduzione o in aumento del quantum tabellare milanese)

Da Cass. sez. VI 8 settembre 2022 n. 26.440, rel. Rossetti , precisazioni (sempre concise e chiare da questo relatore) sull’oggetto,.

Censure del ricorrente contro la sentenza di appello:

<<1. Col primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli articoli 1226 e 2056 c.c.

Nella illustrazione del motivo imputano alla Corte d’appello di avere commesso i seguenti errori:

a) avere erroneamente ritenuto che la vittima avesse al momento della

morte 79 anni, mentre in realtà ne aveva dieci di meno;

b) avere erroneamente ritenuto che la vittima al momento della morte non fosse in buona salute, in contrasto con quanto risultava dagli atti ed in particolare dalla consulenza tecnica d’ufficio;

c) avere liquidato una somma di denaro identica per tutti i figli della donna, nonostante il rilevante divario di età tra il più giovane di essi ((OMISSIS)) ed il più anziano ((OMISSIS));

d) avere erroneamente ritenuto che la “prevedibilità” della morte imminente d’una persona cara costituisca una circostanza idonea a ridurre la misura standard del risarcimento del danno non patrimoniale;

e) avere liquidato il risarcimento del danno non patrimoniale in misura inferiore al minimo “tabellare”, in violazione del principio secondo cui tale riduzione può avvenire solo in presenza di circostanze “eccezionali”, nel caso di specie assenti;

f) avere liquidato a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale importi assai inferiori a quelli accordati dal medesimo ufficio giudiziario in casi analoghi.>>

Per la SC quelle sub a) è inammissibile perchè errore revocatorio, e quelle sub b) e sub f) perchè relative a giudizio di fatto

Le altre sono ammissibili e fondate: <<La Corte d’appello ha ritenuto (p. 8 della sentenza impugnata) di liquidare il danno non patrimoniale patito dagli odierni ricorrenti in conseguenza della morte della loro madre applicando il criterio noto come “tabella milanese” (e non vi è questione tra le parti circa la legittimità dell’adozione di tale criterio).

E’ la stessa Corte d’appello, poi, a riferire che quel criterio prevede che spetti al figlio, nel caso di uccisione della madre per colpa altrui, un risarcimento a titolo di ristoro del danno non patrimoniale variabile tra 163.990 e 327.990 Euro (p. 8, secondo capoverso, della sentenza impugnata).

Ciò posto quanto al criterio applicabile, la Corte d’appello ha ritenuto di stimare il danno di cui si discorre nella misura di Euro 50.000 per ciascuno dei quattordici [sic!] figli della vittima, spiegando tale liquidazione coi seguenti argomenti:

a) la vittima era anziana;

b) la vittima era malata;

c) i figli della vittima erano adulti e conducevano “una vita ormai avviata”.

1.4. Così giudicando, la Corte d’appello di Catanzaro ha effettivamente violato l’art. 1226 c.c..>>

Infatti La liquidazione di pregiudizi sine materia come il danno da uccisione d’un prossimo congiunto, secondo l’ormai costante giurisprudenza di questa Corte, <<può dirsi “equa” – per i fini di cui all’art. 1226 c.c. quando sia compiuta con un criterio che rispetti due principi:

a) garantisca la parità di trattamento a parità di danni;

b) garantisca adeguata flessibilità per tenere conto delle peculiarità del caso concreto.

“Uniformità pecuniaria di base” e “flessibilità” della liquidazione sono dunque i due momenti indefettibili di ogni liquidazione dei pregiudizi non patrimoniali (ex multis, tra le ultime, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 5865 del 04/03/2021, Rv. 660926 – 01; Sez. 3, Ordinanza n. 18056 del 5/7/2019; Sez. 3 -, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 01).

1.5. Il rispetto del principio della “uniformità pecuniaria di base” esige il ricorso, da parte del giudice di merito, ad un criterio prestabilito e standard di liquidazione: e questo la sentenza impugnata lo ha fatto, dichiarando di applicare la c.d. “tabella milanese”.

1.6. Il rispetto del principio della “flessibilità” della liquidazione esige che:

a) si accertino tutte le circostanze di fatto rilevanti nel caso concerto, per quanto dedotto e provato dalle parti:

b) si sceverino quelle “ordinarie” da quelle “eccezionali”;

c) si attribuisca rilievo soltanto alle seconde, per aumentare o diminuire la misura standard del risarcimento (ex multis, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 5865 del 04/03/2021, Rv. 660926 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 28988 del 11/11/2019, Rv. 655964 – 01).>>

La distinzione tra conseguenze “ordinarie” ed “eccezionali” del fatto illecito consistito nell’uccisione d’un parente <<dipenderà da ciò: andranno reputate “ordinarie” quelle conseguenze che qualunque persona della stessa età, dello stesso sesso e nelle medesime condizioni familiari della vittima, non avrebbe potuto (presumibilmente) non subire.

Andranno, invece, reputate “eccezionali”, e quindi idonee a giustificare una variazione del risarcimento (beninteso, tanto in aumento quanto in diminuzione), quelle circostanze “legate all’irripetibile singolarità dell’esperienza di vita individuale” (così, testualmente, Sez. 3 -, Sentenza n. 2788 del 31/01/2019, Rv. 652664 – 01; nello stesso senso, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 26118 del 27.9.2021; nonché, diffusamente, Sez. 6 3, Ordinanza n. 32372 del 13.12.2018).

1.8. Consegue da quanto esposto che l’età della vittima, l’età del superstite, la convivenza dell’una con l’altro, la costituzione d’un autonomo nucleo familiare da parte del secondo (e dunque tre delle quattro circostanze valorizzate dalla Corte d’appello nell’aestimatio del danno) avrebbero potuto bensì consentire una variazione della liquidazione tra il minimo ed il massimo tabellare, ma non una liquidazione inferiore al minimo.

L’incidenza sul danno di quelle circostanze di fatto (età e convivenza), infatti, debbono presumersi comuni a tutte le vittime della stessa età e nelle stesse condizioni familiari degli odierni ricorrenti, e rappresentano perciò le “conseguenze ordinarie” la cui oscillazione giustifica la divergenza tra minimi e massimi tabellari, come già ritenuto più volte da questa Corte (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 7597 del 18/03/2021, Rv. 660927 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 29495 del 14/11/2019, Rv. 655831 – 0).

Una liquidazione del danno inferiore al minimo tabellare avrebbe dunque presupposto l’accertamento di ulteriori e diverse circostanze di fatto, quali ad esempio l’assenza di un saldo vincolo affettivo, l’esistenza di dissapori intrafamiliari, l’anaffettività del superstite nei confronti del defunto (Sez. 3 -, Ordinanza n. 22859 del 20/10/2020, Rv. 659411 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 14746 del 29/05/2019, Rv. 654307 – 01)>>.

Così prosegue: <<1.9. Un cenno a parte merita la valutazione con cui la Corte d’appello ha ritenuto di liquidare ai figli della vittima un importo pari a meno di un terzo del minimo tabellare, in base all’assunto che V.M. al momento della morte fosse “vecchia e malata”, e di conseguenza i suoi figli si sarebbero dovuti aspettare che da un momento all’altro la loro madre venisse a mancare.

Quanto all’età della vittima, si è già detto che essa costituisce un fattore di cui tenere conto nella valutazione del risarcimento standard, e dunque può giustificare l’oscillazione del quantum debeatur tra il massimo ed il minimo tabellare, ma non consente di scendere al di sotto del minimo: sia perché l’età anagrafica è un fatto naturale e non eccezionale; sia perché l’età avanzata d’una madre consente alla statistica, ma non ai suoi figli, di fare previsioni sulla residua speranza di vita: insegna l’Arpinate, infatti, che nemo est tam senex qui se annum non putet posse vivere.

1.9.1. Quanto alla malattia della vittima, giusta o sbagliata che fosse tale valutazione in punto di fatto (questione che non è consentito a questa Corte indagare), questa Corte ha già stabilito il principio che uccidere una persona già malata è pur sempre omicidio, e che non è possibile stabilire in astratto alcun automatismo tra la malattia del defunto, e il minor dolore provato dal familiare superstite.

Se e’, vero, infatti, che con più forte animo s’affrontano di norma le avversità previste ed attese, non è men vero che la malattia d’una persona cara può suscitare nei suoi familiari più intensi affetti, senso di protezione e commozione per la sorte della persona cara (così già Sez. 3, Sentenza n. 5282 del 28/02/(OMISSIS), secondo cui “preoccupanti patologie di un congiunto intensificano, piuttosto che diminuire, il legame emo.zionale con gli altri parentz”).

Pertanto le pregresse condizioni di salute della vittima (beninteso, a condizione che non fossero anch’esse conseguenza del fatto illecito) potranno bensì giustificare un abbattimento della misura standard del risarcimento, ma sulla base di una valutazione ex post e non ex ante e senza alcun automatismo>>.

Principio di diritto: “quando la liquidazione del danno non patrimoniale da uccisione d’un congiunto avvenga in base ad un criterio “a forbice”, che preveda un importo variabile tra un minimo ed un massimo, è consentito al giudice di merito liquidare un risarcimento inferiore al minimo solo in presenza di circostanze eccezionali e peculiari al caso di specie. Tali non sono né l’età della vittima, né quella del superstite, né l’assenza di convivenza tra l’una e l’altro, circostanze tutte che possono solo giustificare la quantificazione del risarcimento all’interno della fascia di oscillazione tra minimo e massimo tabellare“.

Il secondo motivo è assoerbito dal primo ma la SC precisa ugualmente che esso sarebbve sttato infornadato nel merito: <<Nel giudizio di risarcimento del danno, infatti, l’esistenza e l’entità di quest’ultimo debbono essere provati dall’attore. L’esistenza del vincolo parentale non è dunque l’oggetto esclusivo della prova che è onere dell’attore fornire, ma è solo il fatto noto dal quale può essere consentito al giudice risalire, ex art. 2727 c.c., al fatto ignorato dell’esistenza del danno. Ma anche in questo caso senza automatismi, ed avuto riguardo a tutti gli elementi forniti dalle parti.>>

Col quarto motivo i ricorrenti impugnano la sentenza d’appello <<nella parte in cui ha incluso nella liquidazione del danno anche gli interessi compensativi.

Deducono che la Corte d’appello ha violato il principio secondo cui il debitore di una obbligazione di valore è tenuto al pagamento degli interessi compensativi calcolati sul credito originario rivalutato anno per anno.

4.1. Il motivo è fondato.

La Corte d’appello infatti ha liquidato unitariamente il capitale e gli interessi compensativi.

Così facendo, in primo luogo ha adottato una motivazione che non consente di stabilire come sia pervenuta alla liquidazione del danno da mora; quale saggio abbia applicato; su quale capitale l’abbia calcolato. Una motivazione, dunque, imperscrutabile.

In secondo luogo la sentenza d’appello ha in ogni caso violato i principi stabiliti dalla nota sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte 17.2.1995 n. 1712, secondo cui la mora del debitore d’una obbligazione di valore comporta l’obbligo di pagamento degli interessi compensativi, calcolati ad un saggio equitativamente scelto dal giudice, ed applicato sul capitale originario rivalutato anno per anno (ovvero, in alternativa, sulla media aritmetica tra capitale devalutato all’epoca del fatto e capitale rivalutato all’epoca della liquidazione), con decorrenza dalla data dell’illecito, ex art. 1219 c.c..>>

Lesione del rapporto parentale da errore medico

Cass. 30 agosto 2022 n. 25.541, sez. 3, rel. Pellecchia così ragiona.

Censura in ricorso: <Sostiene che la Corte d’Appello avrebbe errato nel riconoscere agli attori il diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale per la sola esistenza del legame di parentela con il G.. Osserva in particolare che, per consolidata giurisprudenza, detto danno, lungi dal poter essere considerato in re ipsa, richiede una puntuale allegazione>.

Risposta dells SC , § 4.3:  <Come noto, a fronte della morte o di una gravissima menomazione dell’integrità psicofisica di un soggetto causata da un fatto illecito di un terzo, il nostro ordinamento riconosce ai parenti del danneggiato un danno iure proprio, di carattere patrimoniale e non patrimoniale, per la sofferenza patita in conseguenza all’irreversibile venir meno del godimento del rapporto parentale con il congiunto.

Tale voce risarcitoria intende ristorare il familiare dal pregiudizio subito sotto il duplice profilo morale, consistente nella sofferenza psichica che questi è costretto a sopportare a causa dell’impossibilità di proseguire il proprio rapporto di comunanza familiare, e dinamico-relazionale, quale sconvolgimento di vita destinato ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto che l’ha subita (Cass. civ. sez. III n. 28989 dell’11 novembre 2019).

Quanto alla prova del danno, non v’e’ dubbio che, in linea generale, spetti alla vittima dell’illecito altrui dimostrare i fatti costitutivi della propria pretesa e, dunque, l’esistenza del pregiudizio subito: onere di allegazione che in alcuni casi potrà essere soddisfatto anche ricorrendo a presunzioni semplici e massime di comune esperienza.>>.

Ebbene, nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), è orientamento unanime di questa Corte che <<l’esistenza stessa del rapporto di parentela faccia presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, giacché tale conseguenza è per comune esperienza e, di norma, connaturale all’essere umano (Cass. civ. sez. III n. 11212 del 24 aprile 2019; Cass. civ. sez. III n. 31950 dell’11 dicembre 2018; Cass. civ. sez. III n. 12146 del 14 giugno 2016).

Naturalmente, trattandosi di una praesumptio hominis sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete dimostrative dell’assenza di un legame affettivo tra vittima e superstite (Cass. civ. sez. VI – 3 n. 3767 del 15 febbraio 2.018).

La Corte d’appello, dunque, ha correttamente richiamato ed applicato l’insegnamento di questa Corte ritenendo che il fatto illecito costituito dalla uccisione del congiunto abbia dato luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché ha colpito soggetti (i figli del G.), legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare.

Giova a tal proposito osservare che il c.d. danno presuntivo è concetto autonomo e distinto rispetto al c.d. danno in re ipsa: se, infatti, per quest’ultimo non è richiesta alcuna allegazione da parte del danneggiato, sorgendo il diritto al risarcimento del danno per il sol fatto del ricorrere di una determinata condizione, il primo richiede un’allegazione, seppur presuntiva, che è sempre suscettibile di essere superata da una eventuale prova contraria allegata da controparte. [NOTA: sostituirei allegazione con prova]

In altri termini, affermare, come ha fatto la Corte d’Appello, che la presenza di un legame di parentela qualificato sia elemento idoneo a fondare la presunzione, secondo l’id quod plerumque accidit, dell’esistenza del danno in capo ai familiari del defunto, è cosa distinta dal riconoscere a quest’ultimi la risarcibilità del danno in re ipsa, per il sol fatto della sussistenza di un legame familiare.>

Sulla determinazione del danno :

<diversa è la questione allorquando si passi alla determinazione equitativa del danno, in quanto, al fine di consentire una personalizzazione dello stesso, è necessario che il danneggiato fornisca la prova di circostanze concrete che consentano di aumentare il valore tabellare rilevante ai fini della quantificazione del danno.

Sebbene, infatti, sia stato affermato che “ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale mediante il criterio tabellare il danneggiato ha esclusivamente l’onere di fare istanza di applicazione del detto criterio, spettando poi al giudice di merito di liquidare il danno non patrimoniale mediante la tabella conforme a diritto” è altrettanto vero che eventuali correttivi saranno ammissibili solo in ragione della particolarità della situazione di cui sia stata fornita adeguata motivazione (Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 05-05-2021) 10-11-2021, n. 33005).

Nel caso di specie, non avendo i familiari allegato alcuna circostanza ulteriore, il giudice ha correttamente liquidato il danno, alla luce di una valutazione equitativa che ha tenuto adeguatamente in considerazione la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, l’età della vittima, l’età dei superstiti, il grado di parentela>

Prova del danno morale anche con presunzioni

Per Cass. n. 23.586 del 28 luglio 2022, sez. 3, rel. Guizzi, il danno morale è provabile anche con presunzioni.

Si tratava di danno da reato (lesioni e minaccia).

Al § 5.2.1 la premessa sulla ricostruzione dei gernali rapporti tra danno morale e danno bioologicom al’iterno del danno non opatrimniaie.

Poi la parte di interesse:

<< proprio “il ricorso alla prova
presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo” nella sua
individuazione e quantificazione, potendo “costituire anche
l’unica fonte di convincimento del giudice, pur essendo onere
del danneggiato l’allegazione di tutti gli elementi che, nella
concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata
dei fatti noti onde consentire di risalire al fatto ignoto” (così
Cass. Sez. 3, sent. 25164 del 2020,
cit.).

E ciò in quanto esiste,
“nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento
probatorio di tipo presuntivo, in forza del quale al giudice è
consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio in
tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione”, sovente
“ricorrendosi, a tal fine, alla categoria del fatto notorio per
Corte di Cassazione – copia non ufficiale

indicare il presupposto di tale ragionamento inferenziale”,
mentre “il riferimento più corretto” deve avere riguardo “alle
massime di esperienza (i fatti notori essendo circostanze
storiche concrete ed inoppugnabili, non soggette a prova e
pertanto sottratte all’onere di allegazione)” (così, nuovamente,
Cass. Sez. 3, sent. 25164 del 2020,
cit.).
In questa prospettiva, pertanto, “non solo non si ravvisano
ostacoli sistematici al ricorso al ragionamento probatorio
fondato sulla massima di esperienza”, ma “tale strumento di
giudizio consente di evitare che la parte si veda costretta,
nell’impossibilità di provare il pregiudizio dell’essere, ovvero
della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta
a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti
capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati
d’animo interiori da cui possa inferirsi a dimostrazione del
pregiudizio patito” (così, ancora una voltai, Cass. Sez. 3, sent.
25164 del 2020,
cit.).
5.2.3. Orbene, la sentenza impugnata, nell’affermare che il
danno morale subito dagli odierni ricorrenti non potesse essere
provato per presunzioni ha, all’evidenza, disatteso i principi
sopra illustrati.
La pronuncia va, dunque, cassata in relazione, con rinvio al
medesimo Tribunale di Vibo Valentia, in persona di diverso
giudice, affinché decida nel merito alla luce di detti principi, oltre
che per la liquidazione delle spese di giudizio, ivi comprese
quelle della presente fase di legittimità
>>

Giudizio da condividere , soprattutto in relazione all’odioso illecito di minaccia.