Proprietà fondiaria: distanza tra costruzioni e distanza dal confine e le rispettive diverse discipline

Cass. sez. II, 19/03/2025 n. 7.290, rel. Picaro:

<< Gli originari attori, infatti, hanno agito in giudizio, contro l’attuale ricorrente, lamentando che il muro di contenimento di un terrapieno artificiale realizzato sul confine con la loro proprietà ed il garage di quest’ultima, erano lesivi della distanza dal confine di cinque metri imposta dalla normativa locale (individuata negli articoli 32 e 33 delle norme tecniche di attuazione del PRG del Comune di Osimo e nell’art. 61 sub 2 e sub 3 del regolamento edilizio del Comune di Osimo in vigore), chiedendone l’arretramento, e domandando altresì il risarcimento dei danni subiti a causa della violazione di tale distanza legale, ed hanno ottenuto l’accoglimento di tali loro richieste, dal giudice di primo grado, con la motivazione dell’inapplicabilità del criterio codicistico della prevenzione, perché derogato dalla normativa locale sulla distanza dal confine da osservare, e dal giudice di secondo grado, con la motivazione della mancata prova in concreto della prevenzione da parte di Sp.Lo., senza che mai sia stato attribuito rilievo al fatto se i fabbricati delle parti fossero, o meno frontistanti.

La ragione del mancato rilievo attribuito a tale accertamento, va individuata nella giurisprudenza consolidata di questa Corte, che riconosce che le norme dei regolamenti edilizi che stabiliscono le distanze tra le costruzioni, e di esse dal confine, sono volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive tra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l’assetto urbanistico di una data zona e la densità edificatoria in relazione all’ambiente, sicché, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che le costruzioni si fronteggino e dall’esistenza di un dislivello tra i fondi su cui esse insistono (Cass. 26.4.2024 n.11193; Cass. 11.9.2018 n. 22054; Cass. 18.2.2014 n. 3854; Cass. 24.9.2008 n. 24013; Cass. 4.10.2005 n. 19350; Cass. 28.9.2004 n. 19449; Cass. 23.9.1989 n. 1517). Era quindi necessario accertare, trattandosi di distanza dal confine prevista dalla normativa locale, e non di distanza tra costruzioni, la violazione della distanza legale di cinque metri dal confine delle costruzioni della ricorrente, senza che avesse rilievo verificare se le costruzioni delle parti fossero o meno frontistanti>>.

Poi:

<< La ricorrente richiama, a sproposito, la giurisprudenza di questa Corte, che in materia di violazione di distanze tra costruzioni, ascrive all’attore l’onere di provare la preesistenza del suo fabbricato rispetto a quello del convenuto (Cass. 8.1.2016 n. 144; Cass. 7.8.2002 n. 11899; Cass. 16.5.1991 n. 5472), mentre nel caso in esame si tratta di violazione della distanza di costruzioni dal confine, per cui una volta accertata la violazione da parte dei fabbricati della attuale ricorrente della distanza assoluta dal confine imposta (cinque metri), non doveva essere fornita prova della preesistenza della costruzione degli originari attori da parte degli stessi, essendo tale manufatto ininfluente sulla violazione lamentata.

Occorre poi ricordare che, secondo la sentenza delle sezioni unite di questa Corte n. 10318 del 19.5.2016, la portata integrativa delle norme locali sulle distanze legali è estesa anche alla prevenzione, ma i regolamenti locali possono escludere l’operatività della prevenzione prescrivendo una distanza minima dal confine, o negando espressamente la facoltà di costruire in appoggio, o in aderenza.

Nel caso di specie, le norme tecniche di attuazione del PRG del Comune di Osimo, da ritenersi integrative dell’art. 873 cod. civ., nella zona di ubicazione dei fabbricati delle parti, prescrivevano una distanza dal confine pari ad un mezzo dell’altezza dell’edificio ma non meno di 5,00 ml “salvo il caso di costruzioni a confine conformi a quanto previsto al punto C4 del D.M. n. 39/1975”.

Il suddetto punto C4 del D.M. n. 39/1975, intitolato “Edifici contigui”, stabilisce che due edifici non possono essere costruiti a contatto, a meno che essi non costituiscano un unico organismo statico realizzando la completa solidarietà strutturale, e che nel caso in cui due edifici contigui formino organismi distaccati, essi dovranno essere forniti di giunto tecnico.

Ne deriva che, ricadendo il Comune di Osimo in zona sismica di seconda categoria, l’unica deroga consentita all’osservanza della distanza minima delle costruzioni dal confine di cinque metri prevista, era quella dell’esistenza sul confine di due edifici costituenti un unico organismo statico dotato della necessaria solidità strutturale, o dell’esistenza di due edifici contigui forniti di un giunto tecnico, mentre nella normativa locale applicabile nella zona B2-3 del PRG non era prevista una generalizzata facoltà di costruire in aderenza, o sul confine, che consentisse di ritenere compatibile la distanza di cinque metri dal confine imposta, con l’applicazione del principio codicistico della prevenzione (ricavato dagli articoli 873,874,876 e 877 cod. civ.), e per tale ragione la sentenza del Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Osimo, emessa in primo grado, sulla base della CTU espletata, che aveva escluso l’esistenza sul confine di edifici contigui aventi le caratteristiche strutturali indicate dal D.M. n.39/1975, costituente l’unica deroga consentita alla distanza di cinque metri dal confine imposta, aveva correttamente ritenuto non invocabile l’istituto della prevenzione (vedi nel senso dell’inapplicabilità del criterio della prevenzione in ipotesi di distanza dal confine imposta dalla normativa locale, che preveda la possibilità di costruire in aderenza solo col consenso del confinante, quando manchi la prova di tale consenso Cass. 11.7.2016 n. 14139; Cass. 28.3.1988 n. 2607).

La giurisprudenza consolidata di questa Corte, infatti, ritiene che mentre nei casi in cui la normativa locale si limiti ad imporre una distanza tra costruzioni più severa rispetto a quella di tre metri sempre tra costruzioni prevista dall’art. 873 cod. civ., non devono ritenersi derogate la facoltà di costruire in aderenza, o sul confine ed il connesso principio della prevenzione (vedi Cass. sez. un. 19.5.2016 n. 10318), la facoltà di costruire in aderenza debba essere specificamente autorizzata da una norma del piano regolatore locale ove quest’ultimo stabilisca anche o soltanto la distanza minima dei fabbricati dal confine (in tal senso, Cass. 26.4.2024 n.11193; Cass. 14.5.2018 n. 11664; Cass. 6.11.2014 n.23693; Cass. 9.4.2010 n. 8465; Cass. 30.10.2007 n.22896; Cass. 20.4.2005 n. 8283), ed in assenza di una specifica previsione ad opera della normativa locale della facoltà di costruire in aderenza, o sul confine, che deroghi alla distanza imposta dal confine, non possono applicarsi le regole ed i principi previsti dal codice civile per la disciplina delle distanze su fondi finitimi, ivi compreso il principio della prevenzione.>>

Perdita della possibilità di procreare e danno risarcibile al figlio per l’impossibilità di avere uno o più fratelli

Cass. sez. III, 11/03/2025 n.6517, rel. Porreca:

<<Se è vero che la perdita della capacità di procreare del genitore cagiona al figlio del danneggiato principale la lesione dell’interesse, costituzionalmente protetto dall’art. 29 Cost., a stabilire un legame affettivo con uno o più fratelli e, quindi, un danno non patrimoniale risarcibile, tuttavia è necessario che vi siano elementi, anche presuntivi, sufficienti a far ritenere che tale legame sarebbe stato acquisito e che la sua mancanza abbia determinato un concreto pregiudizio. Non viene in gioco, anche ai fini dell’emersione del “danno-conseguenza”, il numero dei fratelli o delle sorelle, come se la mancanza di una pluralità di questi significhi strutturalmente un pregiudizio; il pregiudizio, perché sia risarcibile, deve concernere la relazione parentale effettivamente risultata attesa e quindi persa nella singolare concretezza della vicenda di vita, ossia nel richiamato contesto specifico di famiglia nonché nella connessa dimensione individuale da illuminare in relazione a quello e alla plausibile evoluzione psicologica, per quanto si palesi ricostruibile al momento dell’accertamento (nella specie, i Giudici hanno escluso il risarcimento del danno, in favore della figlia, per la perdita della possibilità di avere uno o più fratelli a seguito di una infezione manifestatasi dopo il parto, a seguito della quale la madre aveva dovuto sottoporsi a un successivo intervento di isterectomia che l’aveva resa sterile, atteso che i ricorrenti non avevano effettuato le specifiche allegazioni richieste, che avrebbero potuto implicare valutazioni fattuali e presuntive, in chiave probabilistica)>> (massima in DeJure)

Dalla motivazione:

<< ritiene questo Collegio che vada in primo luogo sottolineato come la fattispecie di un rapporto parentale già instaurato e quello di un tale rapporto futuro ed eventuale, non siano paragonabili, perché la seconda ipotesi attiene al danno da perdita di chance, ovvero di un’apprezzabile e non prettamente aleatoria “possibilità” del rapporto parentale – come non a caso indicato dallo stesso precedente di questa Corte sopra richiamato – viceversa soggetto per natura a mutevoli accadimenti e intendimenti;

in secondo luogo, pur nell’ottica residuata da quanto ancora sub iudice, deve in ogni caso sussistere l’allegazione non solo del progetto di famiglia più numerosa, ma anche, inevitabilmente in termini di coerenza sistematica, del connesso tipo di pregiudizio i cui si chiede il ristoro, rispetto allo specifico soggetto familiare che lo domanda;

al riguardo i ricorrenti valorizzano il perfezionato matrimonio concordatario con finalità procreativa, e discorrono di “gioia di un fratello o una sorella germani”, con pregiudizio “più evidente allorquando la piccola Clara diverrà adolescente prima ed adulta poi, stante che le verrà a mancare quel rapporto di fratellanza e/o sorellanza, connotato da saldo, genuino ed unico sostegno emotivo, conforto personale, che sarebbe di certo un valido sostegno una volta che la stessa prenderà atto delle proprie condizioni e limitazioni personali in relazione al contesto sociale in cui dovrà confrontarsi, a maggior ragione quando un giorno, come è naturale che sia, perderà entrambi i genitori, la propria famiglia di origine” (pag. 17);

al riguardo occorre rimarcare che:

i) l’elemento dato dalla menzionata tipologia di matrimonio nulla di univoco può indicare rispetto all’allegazione e prova del progetto di vita in concreto sviluppato ovvero afferente alla comunità familiare a venire plausibilmente ipotizzabile nell’ipotesi specifica, idoneo, di conseguenza, a costituire indice del preteso pregiudizio relativo alla perdita di quel potenziale rapporto di fratellanza;

ii) come ancora una volta sottolineato dalla Procura Generale, neppure viene in gioco, anche ai fini dell’emersione del “danno-conseguenza”, il numero dei fratelli o delle sorelle, come se la mancanza di una pluralità di questi significhi strutturalmente un pregiudizio;

iii) rimanendo nella logica fatta propria dalla Corte distrettuale, e divenuta definitiva, secondo cui il danno in parola deve dirsi predicabile in astratto, una volta affermato quello da perdita della capacità di procreare, salva prova delle conseguenze da ristorare in concreto, il pregiudizio, perché sia risarcibile, deve concernere la relazione parentale effettivamente risultata attesa e quindi persa nella singolare concretezza della vicenda di vita, ossia nel richiamato contesto specifico di famiglia nonché nella connessa dimensione individuale da illuminare in relazione a quello e alla plausibile evoluzione psicologica, per quanto si palesi ricostruibile al momento dell’accertamento;

i ricorrenti, pertanto, con correlato profilo di aspecificità del ricorso, non indicano né dimostrano in quale atto processuale, ovvero quando e come sarebbero state effettuate queste necessarie quanto puntuali allegazioni – ossia quelle appena delineate oltre che complessivamente quelle stesse che la difesa istante in questa sede prospetta – le quali avrebbero potuto implicare appropriate valutazioni fattuali e presuntive, in chiave probabilistica, e che avrebbero, quindi, dovuto costituire il precisato perimetro della discussione davanti al giudice di appello, prima che del confronto con le censure da specificare davanti a questa Corte; il secondo motivo è logicamente assorbito; il terzo motivo è in parte assorbito, in parte infondato; la regolazione delle spese sull’assunto della fondatezza delle proprie istanze è logicamente assorbito prima che neppure definibile come tale, non integrando sul piano logico una censura; quanto al resto, va ribadito che la facoltà di disporre la compensazione delle spese di lite tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale neppure è tenuto a dare ragione, con un’espressa motivazione, del mancato uso di tale sua facoltà, sicché la pronuncia di condanna alle suddette spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in sede di legittimità, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (v., ad esempio, Cass., 26/04/2019, n. 11329);>>

Contribuisce alla capacità di provvedere a sè stesso, rendendo così non necessaria l’amministrazione di sostegno, anche l’esistenza di aiuti familiari stabili

Cass. sez. I, 26/02/2025 n. 5.088, rel. Tricomi:

In generale:

<<L’amministrazione di sostegno, introdotta dalla legge n. 6 del 2004, art. 3 innovando il sistema delle tutele previste in favore dei soggetti deboli, persegue la finalità di offrire, a chi si trovi – all’attualità – nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi per una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica” non necessariamente di ordine mentale (Cass. n. 12998/2019), uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la “capacità di agire” e che – a differenze dell’interdizione e dell’inabilitazione – sostenga la libertà decisionale delle persone deboli, aiutandole a svolgere i compiti quotidiani senza sostituire la loro volontà, sulla base di un decreto adottato da un giudice, e sia idoneo a adeguarsi alle esigenze del beneficiario, in ragione della sua flessibilità e della maggiore agilità della relativa procedura applicativa.

Secondo principi consolidati “In tema di amministrazione di sostegno, nel caso in cui l’interessato sia persona pienamente lucida che rifiuti il consenso o, addirittura, si opponga alla nomina dell’amministratore, e la sua protezione sia già di fatto assicurata in via spontanea dai familiari o dal sistema di deleghe (attivato autonomamente dall’interessato), il giudice non può imporre misure restrittive della sua libera determinazione, ove difetti il rischio una adeguata tutela dei suoi interessi, pena la violazione dei diritti fondamentali della persona, di quello di autodeterminazione e la dignità personale dell’interessato.” (Cass. n. 22602/2017), ciò perché “L’amministrazione di sostegno, ancorché non esiga che la persona versi in uno stato di vera e propria incapacità di intendere o di volere, nondimeno presuppone una condizione attuale di menomata capacità che la ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi mentre è escluso il ricorso all’istituto nei confronti di chi si trovi nella piena capacità di autodeterminarsi, pur in condizioni di menomazione fisica, in funzione di asserite esigenze di gestione patrimoniale, in quanto detto utilizzo implicherebbe un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona, tanto più a fronte della volontà contraria all’attivazione della misura manifestata da un soggetto pienamente lucido.” (Cass. n. 29981/2020) opposizione che deve essere opportunamente considerata, a meno che non sia provocata da una grave patologia psichica tale da rendere l’interessato inconsapevole del bisogno di assistenza (Cass. n. 325421/2022).

Inoltre, ove ricorrano i presupposti per disporre l’amministrazione di sostegno, la valutazione della congruità e conformità del contenuto dell’amministrazione di sostegno alle specifiche esigenze del beneficiario, riservata all’apprezzamento del giudice di merito, richiede che questi tenga essenzialmente conto, secondo criteri di proporzionalità e di funzionalità, del tipo di attività che deve essere compiuta per conto dell’interessato, della gravità e durata della malattia o della situazione di bisogno in cui versa l’interessato, nonché di tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie, in modo da assicurare che il concreto supporto sia adeguato alle esigenze del beneficiario senza essere eccessivamente penalizzante (v. Cass. n. 13584/2006, n. 22332/2011; Cass. n. 18171/2013; Cass. n. 6079/2020; nel senso che l’ambito dei poteri dell’amministratore debba puntualmente correlarsi alle caratteristiche del caso concreto, v. Corte Cost. n. 4 del 2007)>>.

Andando al punto specifico:

<<Ciò rende evidente che la censura, da un lato prospetta erroneamente, alla luce dei principi ricordati, una sovrapponibilità immediata e diretta tra una condizione di infermità e la sottoponibilità ad amministrazione di sostegno, sulla scorta della quale insiste a dolersi della mancata attivazione di poteri officiosi volti ad accertare la prospettata infermità, nonostante il Tribunale congruamente escluso la sussistenza di elementi da cui desumere la ricorrenza di una patologia; dall’altro – e ciò risulta decisivo per disattendere la doglianza – omette di considerare l’altro polo su cui si fonda la ratio decidendi, e cioè l’accertata insussistenza della impossibilità per Ve.Fr. a provvedere ai propri interessi, perché questi ha dimostrato di gestire i suoi interessi avvalendosi dell’assistenza di una rete familiare e professionale di sostegno da lui stesso individuata, in maniera non pregiudizievole per i suoi interessi. Questa specifica e decisiva ratio non viene presa in alcuna considerazione nella censura, con evidenti ricadute anche in termini di inammissibilità del motivo, atteso che, in assenza del pregiudizio per la possibilità di poter curare i propri interessi, non può trovare ingresso la misura di protezione.>>

Ancora sulla responsabilità delle piattaforme per violazione di copyright e sul safe harbour ex § 512 DMCA

Il 9 circuito 13.01.2025, 21-2949(L) Capitol Records v. Vimeo nega la resp. di Vimeo specificando la red flag data dalla competenza di un dipendente.

Ribadisce inoltre che serve la conoscenza della illiceità dei file contestati, non di una generica possibile/probabile illiceità all’interno di tutti i materiali ospitati.

<<However, we also acknowledged in Vimeo I that it is “entirely possible that an employee of the service provider who viewed a video did have expertise or knowledge with respect to the market for music and the laws of copyright.” Id. at 97 (emphasis added). Thus, as an alternative way to establish red flag knowledge, a plaintiff could produce evidence to demonstrate that an employee (1) was not an “ordinary person” unfamiliar with these fields, and (2) was aware of facts that would make infringement objectively obvious to a person possessing such specialized knowledge. See id.
We noted, though, that “[e]ven an employee who was a copyright expert cannot be expected to know when use of a copyrighted song has been licensed,” id., and, as discussed below, even a copyright expert may similarly struggle to identify instances of fair use.
Thus, in order to carry their burden of demonstrating that Vimeo had actual or red flag knowledge of the specific instances of infringement, Plaintiffs needed to show that Vimeo employees were aware of facts making it obvious to (a) a person who has no specialized knowledge or (b) a person that Plaintiffs have demonstrated does possess specialized knowledge that: (1) the videos contained copyrighted music; (2) the use of the music was not licensed; and (3) the use did not constitute fair use>>.

Poi

<<The fact that licensing music, as a general matter, can be challenging or confusing does not make it obvious that music accompanying a particular user-uploaded video was not licensed. Even if a person without specialized knowledge would have intuited a likelihood that many of the posted videos were not authorized, that would not make it obvious that a particular video lacked authorization to use the music.

This is all the more true in view of the uncontested fact that, since 2011, Vimeo had run a store from which users could purchase licenses to use music in videos. Accordingly, Vimeo employees were aware of the existence of simplified opportunities available to purchase licenses. Furthermore, because Plaintiffs have not proved that Vimeo employees had specialized knowledge of the music industry, those employees’ awareness that music found on their videos was under copyright did not show that they knew whether the music they heard on user videos came from EMI or another label. Plaintiffs’ evidence does not support it being apparent to Vimeo employees that the music they heard on any particular video came from a label that did not offer licenses through Vimeo’s store or otherwise.

Plaintiffs also rely on the contention that EMI’s cease-and-desist letter, sent to Vimeo in 2008, put Vimeo employees on notice that any EMI music used on the website was unauthorized. Plaintiffs cite EMI Christian Music Grp., Inc. v. MP3tunes, LLC, 844 F.3d 79, 93 (2d Cir. 2016), where we explained that the defendant’s subjective awareness that there had been no legal online distribution of Beatles songs could support red flag knowledge that any online electronic copies of Beatles songs on defendant’s servers were unlicensed. But the same logic does not necessarily apply here. As the district court pointed out, an awareness that EMI sent a letter in the past demanding removal of its music gave no assurance that EMI did not thereafter make contracts licensing the use of its music, especially in view of evidence that some users who posted the videos containing EMI music asserted that EMI had provided them with authorization to use the music. The DMCA does not require service providers to perform research on mere suspicion of a user’s infringement to determine the identity of the music in the user’s video, identify its source, and determine whether the user acquired a license. See Vimeo I, 826 F.3d at 98-99 (explaining, in the context of a contention of willful blindness, that requiring service providers “constantly to take stock of all information their employees may have acquired that might suggest the presence of infringements in user postings, and to undertake monitoring investigations whenever some level of suspicion was surpassed, . . . would largely undo the value of § 512(m)”).
Even if we concluded that Vimeo had red flag knowledge that EMI’s music in user videos was not authorized or licensed, that would be insufficient to satisfy Plaintiffs’ burden. Plaintiffs needed in addition to show that it would be apparent to a person without specialized knowledge of copyright law, or, alternatively, persons who have been demonstrated to possess specialized knowledge of copyright law, that the particular use of the music in the Videos-in-Suit was not fair use>>.

(segnalazione e link offerti dal blog di Eric Goldman)

Non necessità di omologa per l’accordo a latere rispetto alle condizioni di separazione/divorzio e censura in Cassazione dell’interpretazione del contratto

Cass. sez. I, ord. 28/01/2025, n. 1.985, rel. Tricomi:

<<3.2.- Questa Corte ha già affermato che l’accordo transattivo relativo alle attribuzioni patrimoniali, concluso tra le parti in occasione di un giudizio di separazione o di divorzio, ed estraneo all’oggetto del giudizio di divorzio (status, assegno di mantenimento per il coniuge o per i figli, casa coniugale), seppure avente causa nella crisi coniugale, ha natura negoziale e produce effetti senza necessità di essere sottoposto neppure al giudice per l’omologazione (Cass. n. 24621/2015); ha, altresì, chiarito che la soluzione dei contrasti interpretativi tra una pattuizione a latere ed il contenuto di una separazione omologata o sentenza di divorzio, spetta al Giudice di merito ordinario, il quale dovrà fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 s.s. c.c. in tema di interpretazione dei contratti (Cass. n. 1324/2025).

L’interpretazione del contratto è rimessa al giudice di merito; in sede di legittimità questa interpretazione è sindacabile solo nei limiti dell’applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale e della logica della sua motivazione (Cass. n. 435/1997). Nell’interpretazione del contratto, funzione fondamentale assume l’elemento letterale. Nel contempo, il senso letterale della singola parola, anche nella sua chiarezza, è insufficiente (come l’art. 1362 primo comma cod. civ. presuppone) a delineare la comune intenzione delle parti (obiettivo dell’interpretazione), la quale emerge solo (come l’incondizionata, affermazione dell’art. 1363 cod. civ. esige) attraverso la connessione degli elementi letterali (“le une per mezzo delle altre”), la relativa integrazione (“il senso che risulta dal complesso dell’atto”), e la valutazione del complessivo comportamento delle parti (art. 1362 secondo comma cod. civ.) (Cass. n. 34687/2023; Cass. n. 6233/2004): passaggi necessari del procedimento interpretativo, di funzione non subordinata, bensì concorrente (Cass. n. 6389/1998).

Questa progressiva dilatazione degli elementi dell’interpretazione contrattuale si sviluppa man mano dalle singole parole alla clausola, alla connessione delle clausole, al complesso dell’atto, ed al comportamento complessivo delle parti (Cass. n. 5960/1999; Cass. n. 8574/1999), il quale non costituisce un canone sussidiario, bensì un parametro necessario ed indefettibile (“si deve valutare”: art. 1362 secondo comma cod. civ.). In tal modo, le disposizioni degli artt. 1362 primo comma, 1363 e 1362, secondo comma, cod. civ. sono fondate sulla stessa logica, che, esprimendo l’intrinseca insufficienza della singola parola (e del suo formale significato: come, in diverso campo ed in diversa misura, segnala l’art. 12 primo comma delle preleggi), prescrive la più ampia dilatazione degli elementi di interpretazione: le singole espressioni letterali devono essere inquadrate nella clausola, questa nelle altre clausole, queste nel complesso dell’atto, e l’atto nel complessivo comportamento delle parti.

Ciò comporta che la censura in sede di legittimità dell’interpretazione di una clausola contrattuale offerta dal giudice di merito imponga al ricorrente l’onere di fornire, con formale autosufficienza, gli elementi alla complessiva unitarietà del testo e del comportamento non adeguatamente considerati dal giudice di merito, nella loro materiale consistenza e nella loro processuale rilevanza (Cass. n. 34687/2023).

Nella specie, si verte in ipotesi di accordo stipulato tra ex coniugi, al momento della separazione e del successivo divorzio, al fine di disciplinare le questioni patrimoniali insorte nella coppia ed il ricorrente ha illustrato in maniera specifica e circostanziata gli elementi di fatto posti a fondamento delle critiche ed ha individuato le regole di ermeneutica contrattuale, letterale e secondo il comportamento delle parti, a suo parere, distintamente violate dalla Corte di appello, di guisa che il motivo risulta pienamente ammissibile>>.

Locazione nulla e ripetibilità dei canoni versati, nonostante l’irripetibilità della controprestazione

Cass. sez. III, 16 Dicembre 2024 n. 32.696.rel. Guizzi:

<<In materia contrattuale, la mancanza di una “causa adquirendi” – a qualunque titolo accertata – determina la possibilità di avvalersi dell’azione di ripetizione dell’indebito anche quando la controprestazione non sia a propria volta ripetibile, stante l’eccezionalità, e conseguente non estensibilità, delle ipotesi legislative di irripetibilità delle prestazioni eseguite, potendo ottenersi, in tali casi, la reintegrazione dello squilibrio economico determinatosi tra le parti attraverso la diversa azione ex art. 2041 c.c., nei limiti di operatività della stessa. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva rigettato la domanda del conduttore di restituzione dei canoni versati in base ad un contratto di locazione dichiarato nullo perché privo della forma scritta e non registrato, dando rilievo al profilo dell’ingiustificato arricchimento del conduttore in difetto di domanda o eccezione riconvenzionale ex art. 2041 c.c. da proporsi da parte del locatore convenuto, rimasto contumace)>>.

(massima ufficiale, come riportata da ilcaso.it).

Per vero nella sentenza il primncio di diritto è: “in caso di nullità del contratto di locazione, il conduttore ha diritto di ripetere, a norma dell’art. 2033 cod. civ., i canoni versati al locatore in esecuzione del contratto, ferma restando la facoltà di quest’ultimo di eccepire, ex art. 2041 cod. civ., la sussistenza di un ingiustificato arricchimento, facendo valere un credito indennitario che va, però, liquidato nei limiti della diminuzione patrimoniale subita nell’erogazione della prestazione e non in misura coincidente con il mancato guadagno che esso avrebbe potuto trarre dall’instaurazione di una valida relazione contrattuale”.

Il passo motivatorio: <<8.1.4. Orbene, da quanto precede deriva che, ricorrendo l’ipotesi della nullità della locazione, in relazione alla pretesa del conduttore di conseguire la restituzione di quanto versato in esecuzione del contratto nullo, il valore della (contro)prestazione – dallo stesso, comunque, fruita – può venire in rilievo solo “in funzione dell’eliminazione dello squilibrio determinatosi a seguito del conseguimento di un’utilità economica da parte del soggetto con correlativa diminuzione di altro soggetto”, e dunque “nei limiti dell’arricchimento e dell’impoverimento, della parte che, rispettivamente, abbia ricevuto o effettuato la prestazione di un contratto nullo; ma ciò può avvenire, non già sulla base della determinazione fattane dalle parti con il contratto nullo, bensì in esito ad una valutazione oggettiva dell’utilità conseguita, entro i limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido”, e ciò perché “l’indennità prevista dall’art. 2041 cod. civ. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dalla parte nell’erogazione della prestazione e non in misura coincidente con il mancato guadagno che la stessa avrebbe potuto trarre dall’instaurazione di una valida relazione contrattuale” (cfr., ancora una volta, Cass. Sez. 3, sent. n. 20383 del 2016, cit.).>>

Responsabilità solidale dei condomini per danno da parte comune

Cass. sez. III, ord. 11/10/2024 n. 26.521, rel. Guizzi, con affermazioni esatte ma consolidate (interessante comunque è la ratio della solidarietà) in una domanda di danno da infiltrazioni:

<<8.1.2. Questa Corte, infatti, con riferimento all’azione risarcitoria per danni da cosa in custodia di proprietà condominiale, ha ritenuto applicabile la regola della responsabilità solidale ex art. 2055, comma 1, cod. civ., individuando nei singoli condomini, e non nel condominio, i soggetti solidalmente responsabili (Cass. Sez. 2, sent. 29 gennaio 2015, n. 1674, Rv. 634159 – 01) e, quindi, titolari dal lato passivo del rapporto fatto valere in giudizio dal danneggiato.

In particolare, nel caso sottoposto a questa Corte ed oggetto dell’arresto appena menzionato, è stata ritenuta erronea l’affermazione del giudice di merito, il quale aveva escluso la solidarietà sul rilievo che “nella disciplina positiva del condominio” vi sarebbe sempre “un collegamento immediato tra le obbligazioni e le quote che esprimono la proprietà” (qualunque sia il titolo dell’obbligazione), per cui, “secondo il combinato disposto degli arti 1118 e 1123 cod. civ. i diritti e le obbligazioni dei condomini sono proporzionati al valore del bene in proprietà solitaria, sicché all’adempimento delle obbligazioni i condomini sono tenuti sempre in proporzione alle rispettive quote”.

Questa Corte, tuttavia, è giunta all’opposta conclusione senza smentire il principio generale – da essa precedentemente enunciato, nella sua più autorevole composizione – secondo cui, “in difetto di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ.” (Cass. Sez. Un, sent. 8 aprile 2008, n. 9148, Rv. 602479 – 01).

Nondimeno, nel caso dei danni che originino da parti condominiali, tale “espressa previsione normativa” – ha affermato questo giudice di legittimità – si identifica nell’art. 2055 cod. civ., sussistendo tre elementi (che questa Corte individua in “premesse storiche, ragioni sistematiche e considerazioni particolari alla fattispecie della responsabilità per danni derivanti da cose in custodia”) idonei a confortare “la tesi dell’applicabilità” del principio di solidarietà “anche in ambito condominiale” (Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

Sul piano storico si è rilevato, infatti, che già nel codice civile 1865 (che pure, come tutti i codici liberali dell’800, richiedeva una specifica fonte convenzionale o legale della solidarietà, essendo ispirato al favor debitoris; cfr. art. 1188), “la previsione della solidarietà passiva nelle ipotesi di delitto o quasi – delitto” (cfr. art. 1156) “impediva che l’opposto principio della parziarietà dell’obbligazione, concepito come una sorta di beneficio, potesse operare anche a vantaggio di chi, essendo autore di un illecito aquiliano, non ne era ritenuto degno”. A maggior ragione, dunque, nel codice del 1942, la regola dell’attuazione solidale dell’obbligazione risarcitoria da fatto illecito – sancita dall’art. 2055 cod. civ. – è destinata a ricevere applicazione generalizzata, giacché essa è “mera norma di rimando all’art. 1294 cod. civ.” (così, nuovamente, Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

A quello storico, questa Corte ha fatto seguire, poi, un argomento di natura sistematica, ovvero che l’applicabilità dell’art. 2055 cod. civ. realizza, anche in questo caso, la sua funzione tipica, quella di operare “un rafforzamento del credito evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota)”, coerente con il fatto che il condomino danneggiato si pone “quale terzo rispetto allo stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso (con conseguente inapplicabilità dell’art. 1227, comma 1, cod. civ.)”, non potendo ritenersi soggetto che abbia “concorso a cagionare il danno” (cfr., ancora una volta, Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

Infine, il terzo argomento fa leva sulle caratteristiche intrinseche della responsabilità per danni prevista dall’art. 2051 cod. civ., giacché essa presuppone l’individuazione di uno o più soggetti cui sia imputabile la custodia, tale soggetto non potendo “essere identificato né nel condominio, interfaccia idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli altri condomini, ma pur sempre ente di sola gestione di beni comuni, né nel suo amministratore, essendo questi un mandatario dei condomini. Solo questi ultimi, invece, possono considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 cod. civ.” (così, testualmente, Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

8.1.3. Orbene, sulla base di tali considerazioni, deve ritenersi che la Corte territoriale abbia errato nell’escludere la titolarità, dal lato passivo, nel rapporto controverso, della condomina AUSL Umbria 2, con conseguente accoglimento del primo motivo di ricorso.

8.2. I motivi secondo e terzo sono assorbiti dall’accoglimento del primo.

9. In conclusione, il primo motivo di ricorso va accolto e la sentenza impugnata cassata in relazione, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, per la decisione sul merito e sulle spese, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità, alla stregua del seguente principio di diritto:

in caso di azione ex art. 2051 cod. civ. esperita da un condomino in relazione a danni alla sua proprietà individuale che originino da parti comuni, la domanda risarcitoria può essere proposta, ex art. 2055 cod. civ., nei riguardi di un singolo condomino e non necessariamente dell’intero condominio” >>.

Conclusione non contestuale del contratto donativo (art. 782.2 c. c.)

Si dilunga Cass. sez. II, ord. 13/12/2024 n. 32.333, rel. Picaro, sulla non frequente fattispecie concreta in oggetto. L’operatore ne prende accurata nota: serve la notifica formale.

<<L’art. 782 comma 2 cod. civ., prevede che, nel caso in cui non vi sia contestualità tra proposta ed accettazione, quest’ultima deve necessariamente rivestire la forma dell’atto pubblico e stabilisce che la donazione non è perfetta se non dal momento in cui l’atto di accettazione sia notificato al donante, in deroga al generale principio che non indica il mezzo attraverso il quale l’accettante deve portare a conoscenza del proponente la propria accettazione (art. 1326 cod. civ.).

La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente interpretato l’art. 782 comma 2 cod. civ., nel senso che la notifica dell’atto di accettazione è un elemento costitutivo del negozio, prima del quale non si produce alcun effetto traslativo e che tale notifica non ammette equipollenti, non potendosi, dunque, considerare soddisfatto il relativo requisito con l’utilizzo di mezzi diversi dalla stessa.

D’altra parte, lo stesso tenore letterale del comma in esame impone una siffatta interpretazione, in quanto il riferimento testuale non è alla conoscenza della volontà di accettare, ma proprio alla notifica al donante dell’atto pubblico posteriore di accettazione.

Si tratta di un contratto a formazione progressiva, per il quale è prevista una particolare solennità (atto pubblico) e formalità (notifica) della volontà di accettare, che si giustificano per gli effetti che il perfezionamento del contratto determina, prima fra tutte l’irrevocabilità dell’atto di liberalità. In altri termini, è necessario il perfezionarsi di una ben precisa sequenza procedimentale di formazione e di incontro delle volontà, in considerazione della particolare natura dell’atto di donazione, soprattutto con riferimento all’irrevocabilità degli effetti traslativi del diritto di proprietà su beni immobili.

Data la particolarità del contratto di donazione, la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente interpretato la notifica di cui all’art. 872 cod. civ., come atto formale nel senso che non sono ammessi equipollenti. Una copiosa giurisprudenza in tal senso si è formata soprattutto con riferimento alla donazione in favore di persona giuridica, nel regime precedente l’abrogazione dell’art. 872 cod. civ., comma 4, allorché si è affermata l’irrilevanza della notificazione della mera richiesta di autorizzazione governativa ad accettare, rilevante, invece, al diverso fine di rendere irrevocabile per un anno la dichiarazione del donante. In tali casi si è ritenuto necessario, ai fini del perfezionamento del contratto, ai sensi dell’art. 782 cod. civ., che il donatario notificasse al donante l’atto pubblico contenente la manifestazione della volontà di accettare, che non poteva derivare da forme alternative di pubblicità o dall’effettiva conoscenza dell’accettazione (Cass. n. 15121/2001; Cass. n.9611/1991; Cass. sez. un. n. 6481/1988; Cass. n.2834/1982; Cass. n.3247/1971).

In linea di continuità con i precedenti citati e con la sentenza n.9476 del 23.3.2022 di questa Corte, deve affermarsi, pertanto, che la prova della conoscenza da parte del donante dell’accettazione del donatario, non può essere equiparata alla notificazione dell’atto di accettazione, formalità necessaria per il perfezionarsi degli effetti che, ai sensi dell’art. 782 cod. civ., comma 3, determinano l’irrevocabilità della dichiarazione.

D’altra parte, l’opposta interpretazione seguita dalla Corte d’Appello, che ha ritenuto che la prova rappresentata dall’avviso di ricevimento della notificazione ex art. 4 della L. 20.11.1982 n. 890 possa essere sostituita attraverso l’utilizzo di elementi presuntivi, oltre a contrastare con quella disposizione, svilirebbe del tutto la previsione codicistica, non potendosi distinguere dal generale precetto dell’art. 1326 cod. civ., in tema di proposta e accettazione. Infatti, ai fini del configurarsi del perfezionamento del contratto (art. 1326 cod. civ.), è sufficiente che il proponente conosca l’accettazione dell’altra parte in qualsiasi modo, anche – ad esempio – mediante esibizione, e senza consegna (art. 1335 cod. civ.), del documento che la contiene, il che può anche essere testimonialmente provato (Cass. n. 6105/2003).

La norma perderebbe di autonomo significato anche in relazione agli artt. 1334 e 1335 cod. civ., posto che, per determinare nel destinatario, la conoscenza di un atto unilaterale recettizio, negoziale o non, la legge non impone modalità predeterminate (raccomandata con ricevuta di ritorno o altri mezzi particolari), sicché, salvi i casi in cui una forma determinata sia espressamente prescritta per legge o per volontà delle parti, deve ritenersi idoneo, al predetto fine, qualsiasi strumento di comunicazione, purché esso sia congruo in concreto a farne apprendere compiutamente e nel suo giusto significato il contenuto (in tal senso vedi Cass. n.2262/1984).

Nel caso dell’accettazione non contestuale della donazione, però, come si è detto, è il codice stesso, all’art. 872 comma 2 cod. civ., a prevedere una ben individuata e particolare modalità per portare a conoscenza del donante l’accettazione, quale appunto la notificazione, diversa dalla presa di conoscenza “a forma libera” di cui all’art. 1335 cod. civ.

Affermare, che in luogo della notifica dell’atto pubblico di accettazione, da provare necessariamente attraverso l’avviso di ricevimento della notifica, sia sufficiente la prova presuntiva dell’avvenuta notificazione, o addirittura di una generica conoscenza dell’accettazione in capo al donante, costituirebbe una violazione oltre che del canone di interpretazione della legge “letterale” anche di quello “sistematico”, finendo con l’operare una

non consentita interpretatio abrogans dell’art. 782 comma 2 cod. civ.

La notificazione di cui all’art. 782 comma 2 cod. civ., pertanto, si identifica con quella effettuata ai sensi dell’ordinamento processuale, e non costituisce un atto a forma libera che, come tale, può concretizzarsi in qualsivoglia atto idoneo a porre il debitore nella consapevolezza dell’avvenuta accettazione, essendo necessario che risulti ritualmente notificato l’atto pubblico di accettazione ai fini dell’efficacia della donazione, che del resto è un negozio solenne.

Solo in un remoto precedente questa Corte ha ritenuto ammissibile in alternativa alla notifica rituale un’altra forma di conoscenza egualmente idonea allo scopo e che valesse a documentare la cognizione dell’accettazione in capo al donante (Cass. n.2515/1962). In quell’occasione, tuttavia, la fattispecie era del tutto particolare in quanto anche se non era stato notificato a mezzo di ufficiale giudiziario l’atto pubblico posteriore di accettazione della donazione con una successiva scrittura privata, sottoscritta dal donante e dal donatario, si era fatto espresso riferimento alla donazione ed all’avvenuta accettazione della stessa, e, nel presupposto della perfezione del contratto di donazione, si era precisata la volontà di eseguirlo con determinate modalità ed oneri, a carico del donatario.

Peraltro, in altro precedente dello stesso anno si era invece affermato che: “In tema di donazione, quando il legislatore, dell’art. 1057 c.c., comma 2, abrogato e dell’art. 782 c.c., comma 2, vigente, parla di notificazione dell’atto di accettazione della donazione, intende riferirsi alla notificazione prevista dal codice di rito, cioè a quella forma di attività, diretta a portare a conoscenza altrui un atto che è posto in essere dall’organo all’uopo specificamente predisposto dalla legge, vale a dire dall’ufficiale giudiziario (Cass n. 1520/1962).

Tale orientamento è stato confermato anche in altri precedenti nei quali si è affermata altrettanto esplicitamente la necessità della notificazione dell’accettazione, da eseguirsi per mezzo di ufficiale giudiziario, ai fini del perfezionamento della donazione (Cass. n. 11050/1993; Cass. n. 1026/1977).

Le sentenze della Suprema Corte richiamate dall’impugnata sentenza per giustificare al contrario il ricorso alla prova presuntiva (Cass. n. 6578/1979 e Cass. n.511/2019) non sono invece pertinenti, in quanto si riferiscono rispettivamente ad un contratto di colonia e ad un contratto di lavoro a termine, e non al contratto solenne di donazione con accettazione distinta dalla liberalità, per il quale è prescritta espressamente per il perfezionamento la notificazione.

Naturalmente la notificazione al donante dell’accettazione per essere rituale oltre che dall’ufficiale giudiziario ex art. 137 c.p.c., può essere eseguita anche a mezzo del servizio postale ex art. 149 c.p.c. Infatti, anche in questo caso, interviene l’ufficiale giudiziario, che scrive la relata di notifica sull’originale e sulla copia dell’atto facendovi menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento e quest’ultimo dev’essere allegato all’originale (art. 149 c.p.c., comma 2).

Con il compimento del procedimento di notificazione si consegue la certezza legale della conoscenza dell’atto pubblico da parte del destinatario, ad ulteriore conferma della differenza con la disciplina di cui all’art. 1335 cod. civ., dove si è ammessi a provare di essere, senza colpa, nell’impossibilità di averne notizia.

In definitiva il collegio intende riaffermare il seguente principio di diritto: “La notificazione dell’accettazione della donazione, prevista dall’art. 782 comma 2 cod. civ., per i casi in cui proposta ed accettazione siano contenuti in atti pubblici distinti deve eseguirsi in modo rituale e costituisce requisito indispensabile per la perfezione del relativo contratto che, pertanto, prima del suo verificarsi non può considerarsi ancora concluso” (in tal senso Cass. 23.3.2022 n. 9476)>>.

La revocazione della donazione per sopravvenenza di figli spetta solo se per il primo figlio, non per i successivi

Cass. sez. II, ord. 16/12/2024 n. 32.672, rel. Criscuolo:

<<È sicuramente erronea l’affermazione del giudice di appello che ritiene che la revocazione possa essere disposta anche nel caso in cui sopraggiunga un secondo figlio, e ciò in quanto si tratta di affermazione in contrasto con quanto affermato da questa Corte che ha sostenuto che la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli o discendenti, rispondendo all’esigenza di consentire al donante di riconsiderare l’opportunità dell’attribuzione liberale a fronte della sopravvenuta nascita di un figlio, ovvero della sopravvenuta conoscenza della sua esistenza, in funzione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione che derivano da tale evento, è preclusa ove il donante avesse consapevolezza, alla data dell’atto di liberalità, dell’esistenza di un figlio ovvero di un discendente legittimo. Né tale previsione contrasta con gli artt. 3,30 e 31 Cost., non determinando alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, i quali sono tutelati solo in via mediata ed indiretta, in quanto l’interesse tutelato dalla norma è quello di consentire al genitore di soddisfare le esigenze fondamentali dei figli, sicché è proprio l’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell’essere umano, che può non essere stato valutato adeguatamente dal donante che non abbia ancora avuto figli, diversamente da quello che, avendo già provato il sentimento di amore filiale, si è comunque determinato a beneficiare il donatario, benché conscio degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale (Cass. n. 5345/2017, che ha reputato anche manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 803 c.c., in relazione agli artt. 3 e 30 Cost., nella parte in cui preclude la revocazione per sopravvenuta nascita di un figlio nel caso al momento della donazione il donante abbia già la consapevolezza dell’esistenza di un altro figlio, non determinandosi alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, in quanto è proprio l’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell’essere umano, in quanto il donante che non abbia ancora alcun figlio non può valutare adeguatamente l’interesse alla cura filiale, non avendo ancora provato il sentimento di amor filiale con la dedizione che esso determina ed il superamento che esso provoca di ogni altro affetto, viceversa non sussiste il fondamento applicativo della revocazione, allorché l’atto di liberalità sia stato compiuto da chi già aveva avuto modo di provare l’affetto filiale, e che, quindi, si è determinato a beneficiare il donatario pur nella consapevolezza degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale)>>.