Responsabilità solidale dei condomini per danno da parte comune

Cass. sez. III, ord. 11/10/2024 n. 26.521, rel. Guizzi, con affermazioni esatte ma consolidate (interessante comunque è la ratio della solidarietà) in una domanda di danno da infiltrazioni:

<<8.1.2. Questa Corte, infatti, con riferimento all’azione risarcitoria per danni da cosa in custodia di proprietà condominiale, ha ritenuto applicabile la regola della responsabilità solidale ex art. 2055, comma 1, cod. civ., individuando nei singoli condomini, e non nel condominio, i soggetti solidalmente responsabili (Cass. Sez. 2, sent. 29 gennaio 2015, n. 1674, Rv. 634159 – 01) e, quindi, titolari dal lato passivo del rapporto fatto valere in giudizio dal danneggiato.

In particolare, nel caso sottoposto a questa Corte ed oggetto dell’arresto appena menzionato, è stata ritenuta erronea l’affermazione del giudice di merito, il quale aveva escluso la solidarietà sul rilievo che “nella disciplina positiva del condominio” vi sarebbe sempre “un collegamento immediato tra le obbligazioni e le quote che esprimono la proprietà” (qualunque sia il titolo dell’obbligazione), per cui, “secondo il combinato disposto degli arti 1118 e 1123 cod. civ. i diritti e le obbligazioni dei condomini sono proporzionati al valore del bene in proprietà solitaria, sicché all’adempimento delle obbligazioni i condomini sono tenuti sempre in proporzione alle rispettive quote”.

Questa Corte, tuttavia, è giunta all’opposta conclusione senza smentire il principio generale – da essa precedentemente enunciato, nella sua più autorevole composizione – secondo cui, “in difetto di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ.” (Cass. Sez. Un, sent. 8 aprile 2008, n. 9148, Rv. 602479 – 01).

Nondimeno, nel caso dei danni che originino da parti condominiali, tale “espressa previsione normativa” – ha affermato questo giudice di legittimità – si identifica nell’art. 2055 cod. civ., sussistendo tre elementi (che questa Corte individua in “premesse storiche, ragioni sistematiche e considerazioni particolari alla fattispecie della responsabilità per danni derivanti da cose in custodia”) idonei a confortare “la tesi dell’applicabilità” del principio di solidarietà “anche in ambito condominiale” (Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

Sul piano storico si è rilevato, infatti, che già nel codice civile 1865 (che pure, come tutti i codici liberali dell’800, richiedeva una specifica fonte convenzionale o legale della solidarietà, essendo ispirato al favor debitoris; cfr. art. 1188), “la previsione della solidarietà passiva nelle ipotesi di delitto o quasi – delitto” (cfr. art. 1156) “impediva che l’opposto principio della parziarietà dell’obbligazione, concepito come una sorta di beneficio, potesse operare anche a vantaggio di chi, essendo autore di un illecito aquiliano, non ne era ritenuto degno”. A maggior ragione, dunque, nel codice del 1942, la regola dell’attuazione solidale dell’obbligazione risarcitoria da fatto illecito – sancita dall’art. 2055 cod. civ. – è destinata a ricevere applicazione generalizzata, giacché essa è “mera norma di rimando all’art. 1294 cod. civ.” (così, nuovamente, Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

A quello storico, questa Corte ha fatto seguire, poi, un argomento di natura sistematica, ovvero che l’applicabilità dell’art. 2055 cod. civ. realizza, anche in questo caso, la sua funzione tipica, quella di operare “un rafforzamento del credito evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota)”, coerente con il fatto che il condomino danneggiato si pone “quale terzo rispetto allo stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso (con conseguente inapplicabilità dell’art. 1227, comma 1, cod. civ.)”, non potendo ritenersi soggetto che abbia “concorso a cagionare il danno” (cfr., ancora una volta, Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

Infine, il terzo argomento fa leva sulle caratteristiche intrinseche della responsabilità per danni prevista dall’art. 2051 cod. civ., giacché essa presuppone l’individuazione di uno o più soggetti cui sia imputabile la custodia, tale soggetto non potendo “essere identificato né nel condominio, interfaccia idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli altri condomini, ma pur sempre ente di sola gestione di beni comuni, né nel suo amministratore, essendo questi un mandatario dei condomini. Solo questi ultimi, invece, possono considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 cod. civ.” (così, testualmente, Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

8.1.3. Orbene, sulla base di tali considerazioni, deve ritenersi che la Corte territoriale abbia errato nell’escludere la titolarità, dal lato passivo, nel rapporto controverso, della condomina AUSL Umbria 2, con conseguente accoglimento del primo motivo di ricorso.

8.2. I motivi secondo e terzo sono assorbiti dall’accoglimento del primo.

9. In conclusione, il primo motivo di ricorso va accolto e la sentenza impugnata cassata in relazione, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, per la decisione sul merito e sulle spese, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità, alla stregua del seguente principio di diritto:

in caso di azione ex art. 2051 cod. civ. esperita da un condomino in relazione a danni alla sua proprietà individuale che originino da parti comuni, la domanda risarcitoria può essere proposta, ex art. 2055 cod. civ., nei riguardi di un singolo condomino e non necessariamente dell’intero condominio” >>.

Conclusione non contestuale del contratto donativo (art. 782.2 c. c.)

Si dilunga Cass. sez. II, ord. 13/12/2024 n. 32.333, rel. Picaro, sulla non frequente fattispecie concreta in oggetto. L’operatore ne prende accurata nota: serve la notifica formale.

<<L’art. 782 comma 2 cod. civ., prevede che, nel caso in cui non vi sia contestualità tra proposta ed accettazione, quest’ultima deve necessariamente rivestire la forma dell’atto pubblico e stabilisce che la donazione non è perfetta se non dal momento in cui l’atto di accettazione sia notificato al donante, in deroga al generale principio che non indica il mezzo attraverso il quale l’accettante deve portare a conoscenza del proponente la propria accettazione (art. 1326 cod. civ.).

La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente interpretato l’art. 782 comma 2 cod. civ., nel senso che la notifica dell’atto di accettazione è un elemento costitutivo del negozio, prima del quale non si produce alcun effetto traslativo e che tale notifica non ammette equipollenti, non potendosi, dunque, considerare soddisfatto il relativo requisito con l’utilizzo di mezzi diversi dalla stessa.

D’altra parte, lo stesso tenore letterale del comma in esame impone una siffatta interpretazione, in quanto il riferimento testuale non è alla conoscenza della volontà di accettare, ma proprio alla notifica al donante dell’atto pubblico posteriore di accettazione.

Si tratta di un contratto a formazione progressiva, per il quale è prevista una particolare solennità (atto pubblico) e formalità (notifica) della volontà di accettare, che si giustificano per gli effetti che il perfezionamento del contratto determina, prima fra tutte l’irrevocabilità dell’atto di liberalità. In altri termini, è necessario il perfezionarsi di una ben precisa sequenza procedimentale di formazione e di incontro delle volontà, in considerazione della particolare natura dell’atto di donazione, soprattutto con riferimento all’irrevocabilità degli effetti traslativi del diritto di proprietà su beni immobili.

Data la particolarità del contratto di donazione, la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente interpretato la notifica di cui all’art. 872 cod. civ., come atto formale nel senso che non sono ammessi equipollenti. Una copiosa giurisprudenza in tal senso si è formata soprattutto con riferimento alla donazione in favore di persona giuridica, nel regime precedente l’abrogazione dell’art. 872 cod. civ., comma 4, allorché si è affermata l’irrilevanza della notificazione della mera richiesta di autorizzazione governativa ad accettare, rilevante, invece, al diverso fine di rendere irrevocabile per un anno la dichiarazione del donante. In tali casi si è ritenuto necessario, ai fini del perfezionamento del contratto, ai sensi dell’art. 782 cod. civ., che il donatario notificasse al donante l’atto pubblico contenente la manifestazione della volontà di accettare, che non poteva derivare da forme alternative di pubblicità o dall’effettiva conoscenza dell’accettazione (Cass. n. 15121/2001; Cass. n.9611/1991; Cass. sez. un. n. 6481/1988; Cass. n.2834/1982; Cass. n.3247/1971).

In linea di continuità con i precedenti citati e con la sentenza n.9476 del 23.3.2022 di questa Corte, deve affermarsi, pertanto, che la prova della conoscenza da parte del donante dell’accettazione del donatario, non può essere equiparata alla notificazione dell’atto di accettazione, formalità necessaria per il perfezionarsi degli effetti che, ai sensi dell’art. 782 cod. civ., comma 3, determinano l’irrevocabilità della dichiarazione.

D’altra parte, l’opposta interpretazione seguita dalla Corte d’Appello, che ha ritenuto che la prova rappresentata dall’avviso di ricevimento della notificazione ex art. 4 della L. 20.11.1982 n. 890 possa essere sostituita attraverso l’utilizzo di elementi presuntivi, oltre a contrastare con quella disposizione, svilirebbe del tutto la previsione codicistica, non potendosi distinguere dal generale precetto dell’art. 1326 cod. civ., in tema di proposta e accettazione. Infatti, ai fini del configurarsi del perfezionamento del contratto (art. 1326 cod. civ.), è sufficiente che il proponente conosca l’accettazione dell’altra parte in qualsiasi modo, anche – ad esempio – mediante esibizione, e senza consegna (art. 1335 cod. civ.), del documento che la contiene, il che può anche essere testimonialmente provato (Cass. n. 6105/2003).

La norma perderebbe di autonomo significato anche in relazione agli artt. 1334 e 1335 cod. civ., posto che, per determinare nel destinatario, la conoscenza di un atto unilaterale recettizio, negoziale o non, la legge non impone modalità predeterminate (raccomandata con ricevuta di ritorno o altri mezzi particolari), sicché, salvi i casi in cui una forma determinata sia espressamente prescritta per legge o per volontà delle parti, deve ritenersi idoneo, al predetto fine, qualsiasi strumento di comunicazione, purché esso sia congruo in concreto a farne apprendere compiutamente e nel suo giusto significato il contenuto (in tal senso vedi Cass. n.2262/1984).

Nel caso dell’accettazione non contestuale della donazione, però, come si è detto, è il codice stesso, all’art. 872 comma 2 cod. civ., a prevedere una ben individuata e particolare modalità per portare a conoscenza del donante l’accettazione, quale appunto la notificazione, diversa dalla presa di conoscenza “a forma libera” di cui all’art. 1335 cod. civ.

Affermare, che in luogo della notifica dell’atto pubblico di accettazione, da provare necessariamente attraverso l’avviso di ricevimento della notifica, sia sufficiente la prova presuntiva dell’avvenuta notificazione, o addirittura di una generica conoscenza dell’accettazione in capo al donante, costituirebbe una violazione oltre che del canone di interpretazione della legge “letterale” anche di quello “sistematico”, finendo con l’operare una

non consentita interpretatio abrogans dell’art. 782 comma 2 cod. civ.

La notificazione di cui all’art. 782 comma 2 cod. civ., pertanto, si identifica con quella effettuata ai sensi dell’ordinamento processuale, e non costituisce un atto a forma libera che, come tale, può concretizzarsi in qualsivoglia atto idoneo a porre il debitore nella consapevolezza dell’avvenuta accettazione, essendo necessario che risulti ritualmente notificato l’atto pubblico di accettazione ai fini dell’efficacia della donazione, che del resto è un negozio solenne.

Solo in un remoto precedente questa Corte ha ritenuto ammissibile in alternativa alla notifica rituale un’altra forma di conoscenza egualmente idonea allo scopo e che valesse a documentare la cognizione dell’accettazione in capo al donante (Cass. n.2515/1962). In quell’occasione, tuttavia, la fattispecie era del tutto particolare in quanto anche se non era stato notificato a mezzo di ufficiale giudiziario l’atto pubblico posteriore di accettazione della donazione con una successiva scrittura privata, sottoscritta dal donante e dal donatario, si era fatto espresso riferimento alla donazione ed all’avvenuta accettazione della stessa, e, nel presupposto della perfezione del contratto di donazione, si era precisata la volontà di eseguirlo con determinate modalità ed oneri, a carico del donatario.

Peraltro, in altro precedente dello stesso anno si era invece affermato che: “In tema di donazione, quando il legislatore, dell’art. 1057 c.c., comma 2, abrogato e dell’art. 782 c.c., comma 2, vigente, parla di notificazione dell’atto di accettazione della donazione, intende riferirsi alla notificazione prevista dal codice di rito, cioè a quella forma di attività, diretta a portare a conoscenza altrui un atto che è posto in essere dall’organo all’uopo specificamente predisposto dalla legge, vale a dire dall’ufficiale giudiziario (Cass n. 1520/1962).

Tale orientamento è stato confermato anche in altri precedenti nei quali si è affermata altrettanto esplicitamente la necessità della notificazione dell’accettazione, da eseguirsi per mezzo di ufficiale giudiziario, ai fini del perfezionamento della donazione (Cass. n. 11050/1993; Cass. n. 1026/1977).

Le sentenze della Suprema Corte richiamate dall’impugnata sentenza per giustificare al contrario il ricorso alla prova presuntiva (Cass. n. 6578/1979 e Cass. n.511/2019) non sono invece pertinenti, in quanto si riferiscono rispettivamente ad un contratto di colonia e ad un contratto di lavoro a termine, e non al contratto solenne di donazione con accettazione distinta dalla liberalità, per il quale è prescritta espressamente per il perfezionamento la notificazione.

Naturalmente la notificazione al donante dell’accettazione per essere rituale oltre che dall’ufficiale giudiziario ex art. 137 c.p.c., può essere eseguita anche a mezzo del servizio postale ex art. 149 c.p.c. Infatti, anche in questo caso, interviene l’ufficiale giudiziario, che scrive la relata di notifica sull’originale e sulla copia dell’atto facendovi menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento e quest’ultimo dev’essere allegato all’originale (art. 149 c.p.c., comma 2).

Con il compimento del procedimento di notificazione si consegue la certezza legale della conoscenza dell’atto pubblico da parte del destinatario, ad ulteriore conferma della differenza con la disciplina di cui all’art. 1335 cod. civ., dove si è ammessi a provare di essere, senza colpa, nell’impossibilità di averne notizia.

In definitiva il collegio intende riaffermare il seguente principio di diritto: “La notificazione dell’accettazione della donazione, prevista dall’art. 782 comma 2 cod. civ., per i casi in cui proposta ed accettazione siano contenuti in atti pubblici distinti deve eseguirsi in modo rituale e costituisce requisito indispensabile per la perfezione del relativo contratto che, pertanto, prima del suo verificarsi non può considerarsi ancora concluso” (in tal senso Cass. 23.3.2022 n. 9476)>>.

La revocazione della donazione per sopravvenenza di figli spetta solo se per il primo figlio, non per i successivi

Cass. sez. II, ord. 16/12/2024 n. 32.672, rel. Criscuolo:

<<È sicuramente erronea l’affermazione del giudice di appello che ritiene che la revocazione possa essere disposta anche nel caso in cui sopraggiunga un secondo figlio, e ciò in quanto si tratta di affermazione in contrasto con quanto affermato da questa Corte che ha sostenuto che la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli o discendenti, rispondendo all’esigenza di consentire al donante di riconsiderare l’opportunità dell’attribuzione liberale a fronte della sopravvenuta nascita di un figlio, ovvero della sopravvenuta conoscenza della sua esistenza, in funzione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione che derivano da tale evento, è preclusa ove il donante avesse consapevolezza, alla data dell’atto di liberalità, dell’esistenza di un figlio ovvero di un discendente legittimo. Né tale previsione contrasta con gli artt. 3,30 e 31 Cost., non determinando alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, i quali sono tutelati solo in via mediata ed indiretta, in quanto l’interesse tutelato dalla norma è quello di consentire al genitore di soddisfare le esigenze fondamentali dei figli, sicché è proprio l’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell’essere umano, che può non essere stato valutato adeguatamente dal donante che non abbia ancora avuto figli, diversamente da quello che, avendo già provato il sentimento di amore filiale, si è comunque determinato a beneficiare il donatario, benché conscio degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale (Cass. n. 5345/2017, che ha reputato anche manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 803 c.c., in relazione agli artt. 3 e 30 Cost., nella parte in cui preclude la revocazione per sopravvenuta nascita di un figlio nel caso al momento della donazione il donante abbia già la consapevolezza dell’esistenza di un altro figlio, non determinandosi alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, in quanto è proprio l’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell’essere umano, in quanto il donante che non abbia ancora alcun figlio non può valutare adeguatamente l’interesse alla cura filiale, non avendo ancora provato il sentimento di amor filiale con la dedizione che esso determina ed il superamento che esso provoca di ogni altro affetto, viceversa non sussiste il fondamento applicativo della revocazione, allorché l’atto di liberalità sia stato compiuto da chi già aveva avuto modo di provare l’affetto filiale, e che, quindi, si è determinato a beneficiare il donatario pur nella consapevolezza degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale)>>.

 

Il minore è già erede con la dichiarazione di accettazione beneficiata, per cui una volta maggiorenne non può più rinunciarvi, anche se non è stato fatto l’inventario

Cass. sez. un., sent. 06/12/2024, (ud. 22/10/2024, dep. 06/12/2024), n.31310, rel. Bertuzzi:

<<8. Merita di essere qui confermato, in adesione alle motivate conclusioni del Procuratore Generale, l’indirizzo interpretativo che riconosce al minore la qualità di erede, per effetto della dichiarazione di accettazione del suo legale rappresentante, anche se non accompagnata dall’inventario, e nega per l’effetto la facoltà di una valida rinuncia successiva.

La ragione principale risiede nel rilievo, del tutto pacifico, che l’accettazione beneficiata è sempre accettazione dell’eredità, esprimendo la relativa dichiarazione la volontà del chiamato di succedere nel patrimonio del defunto. Come già detto, la legge ripudia l’idea che l’intenzione di avvalersi del beneficio di inventario possa essere trattata alla stregua di una condizione sospensiva dell’accettazione, tale da esprimere la volontà del dichiarante di essere erede solo se risponderà dei debiti del de cuius nei limiti del valore dei beni ricevuti. L’accettazione con beneficio d’inventario comporta, pertanto, l’acquisto della qualità di erede. Gli art. 485 e seguenti cod. civ. disciplinano le condizioni ed i casi in cui può ottenersi o meno il beneficio, ma non si interessano della condizione di erede, che danno per acquisita.

È noto, inoltre, che il negozio di accettazione dell’eredità è irretrattabile: chi accetta l’eredità l’acquista in modo definitivo, non essendo la relativa dichiarazione revocabile, in base al principio ” semel heres semper heres ” (Cass. n. 1735 del 2024; Cass. n. 15663 del 2020).

In applicazione di tale regola deve escludersi che, ad accettazione dell’eredità avvenuta da parte del legale rappresentante del minore, nella forma beneficiata come richiesto dalla legge, il minore stesso possa essere considerato, fino ad un anno dopo il compimento della maggiore età, mero chiamato all’eredità e non erede, e che gli sia concessa la facoltà di rinuncia, come se la dichiarazione di accettazione beneficiata del suo legale rappresentante non fosse mai stata resa, in base ad una non consentita equiparazione tra la dichiarazione di accettazione beneficiata non seguita dall’inventario e l’accettazione pura e semplice fatta dal legale rappresentante del minore.

La dichiarazione di accettazione ai sensi dell’art. 484 cod. civ., al contrario, in quanto accettazione dell’eredità, è atto idoneo e sufficiente a far acquistare al rappresentato la qualità di erede.

Secondo lo schema legale, il rappresentante del minore può rinunciare o accettare l’eredità, nella forma beneficiata. Se accetta, il minore è erede.

L’art. 489 cod. civ. è il logico sviluppo di questo presupposto. La disposizione stabilisce che il minore non decade dal beneficio di inventario se, entro un anno dal compimento della maggiore età, si conforma alle norme in materia, cioè provvede a redigere l’inventario ed osserva i relativi obblighi.

La previsione normativa presuppone che l’inventario non sia stato eseguito. In caso contrario, la concessione di un termine per porlo in essere non avrebbe senso, risolvendosi nell’obbligo di ripetere un adempimento già realizzato (Cass. n. 9142 del 1993). Né tale necessità sussisterebbe nel caso in cui l’inventario fosse stato eseguito dal legale rappresentante al di là del termine fissato dall’art. 485 cod. civ., essendo pacifico in giurisprudenza che tale ultima disposizione non si applica con riguardo all’eredità del minore.

L’art. 489 cod. civ. appare riferirsi sicuramente anche al caso in cui il legale rappresentante del minore abbia accettato l’eredità con beneficio di inventario, ma non lo abbia eseguito. Tale inadempimento, per volontà della legge, non è causa di impedimento al prodursi degli effetti del beneficio, ripugnando alla legge che il minore sia destinatario di una eredità dannosa ovvero, per usare le parole della legge, si trovi nella posizione di erede puro e semplice. Lo strumento attraverso cui la legge persegue tale risultato, è, sostanzialmente, la sterilizzazione del termine per la redazione dell’inventario durante il periodo della minore età e l’allungamento ad un anno, dal raggiungimento della maggiore età, per predisporlo. In caso vi provveda, egli usufruirà del beneficio che limita la sua responsabilità, in caso contrario sarà considerato erede puro e semplice, essendo ogni ostacolo a considerarlo tale superato dal raggiungimento della maggiore età. Correttamente l’inoperatività nei confronti del minore della disposizione di cui all’art. 485 cod. civ. è stata motivata in ragione della deroga che, con riguardo al tempo dell’inventario, risulta introdotta dall’art. 489 cod. civ.

Appare coerente con tali premesse il mancato riferimento, in quest’ultima disposizione, alla possibilità per il minore, una volta raggiunta la maggiore età, in caso di mancata redazione dell’inventario, di rinunciare all’eredità. La citata disposizione prospetta i possibili epiloghi, in termini alternativi, esclusivamente sul piano della responsabilità per i debiti ereditari, senza interessarsi e quindi incidere sulla sua condizione di erede, che dà per acquisita in forza della precedente accettazione fatta dal suo legale rappresentante. Parlando la norma di decadenza dal beneficio, essa fa intendere che l’incapace è già erede. Lo spettro di efficacia dell’art. 489 cod. civ. è, pertanto, limitato al termine per conseguire il beneficio, non al termine per accettare o rinunziare all’eredità.

Non condivisibile appare, perciò, l’argomento prospettato dall’orientamento qui disatteso, secondo cui non potendo il minore, per la regola generale accolta dall’ordinamento, essere erede puro e semplice e non potendo, in mancanza di inventario, considerarsi erede beneficiato, l’unica conclusione possibile sarebbe quella di riconoscergli la posizione di mero chiamato all’eredità. Tale tesi non considera che il termine per l’inventario è prorogato fino ad un anno dalla maggiore età e che la legge ripropone, con riguardo ad esso, l’alternativa tra erede puro e semplice ed erede beneficiato, secondo il meccanismo già utilizzato dall’art. 485 cod. civ. La differenza tra l’art. 485 e 489 cod. civ. va pertanto ravvisata, per il tema che qui interessa, esclusivamente nel termine per la redazione dell’inventario, che, con una disposizione di indubbio favore, è prorogato per i minori fino ad un anno della maggiore età>>.

Opinion della European Copyright Society sulla originalità del design a fini di protezione tramite copyright

Il 3 dicembre 2024 la ECS ha diffuso un suo dettagliato parere sul tema, titolato The Protection of Works of Applied Art under EU Copyright Law . Opinion of the European Copyright Society in MIO/konektra (Cases C-580/23 and C-795/23).

Parere assai articolato e documentato, che si porrà come testo importante per affrontare la non semplice questioni della tutela d’autore per il design.

Riporto solo un pezzo della parte IV Conclusion – Answers to the questions referred to the CJEU:

<<We have explained the approach above at [19]-[51]. As established in the Court’s jurisprudence, for there to be a protectable work, there must be expression (not merely ideas), and that expression needs to involve free and creative choices as a result of which the author has stamped their personality on the work. In general, in the case of works of applied arts, the presence of functional constraints will often severely limit the freedom of choice, and the
utilitarian goals may well mean that the designer will rarely make creative choices. Importantly, the mere presence of alternative choices is not of itself sufficient to show creativity. Even where there is freedom to choose the expressive elements, and that freedom is exercised creatively, it is also possible that the resulting designs will not bear the imprint of the author. As the Court
made clear in Cofemel, just because the production is aesthetically appealing or attractive does not imply either that creative choices have been made, or that the result bears the personal imprint of the author.
In assessing these elements, “factors surrounding the creative process” might offer indications as to what functional constraints existed, how much freedom there was, and whether the decisions made by the author were creative. As explained at [42]-[43], while the author’s explanation of the choices s/he/they made is not irrelevant (and could assist a tribunal in understanding the author’s perception of the design freedom and the character of the choices), it is also not determinative. Ultimately, the tribunal will need to decide whether, as a result of
making creative choices, the objective features of the resulting production reflect the author’s personal touch”

La doppia vendita costituisce inadempimento del veniditre verso il primo acquirente

Cass. sez. II, ord. 26/09/2024  n. 25.768, rel. Trapuzzano, in un caso di vendita di autoveicolo e assente l’elemento -sempre presente nelle analoghe liti su immobili- della trascrizione:

<<La vendita successiva ad un terzo dello stesso bene già venduto costituisce, infatti, inadempimento all’obbligo contrattuale che il venditore implicitamente assume nei confronti del primo compratore, allorché esprime la volontà di trasferirgli la piena ed esclusiva disponibilità della cosa – impedita, invece, dalla seconda alienazione della medesima -, che, pertanto, legittima la domanda di risoluzione del primo contratto.

Ed invero, con riguardo al contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà, nella volontà espressa dal venditore di trasferire a taluno la piena ed esclusiva disponibilità della cosa è implicito l’obbligo di non trasferirla ad altri, con la conseguenza che costituisce inadempimento contrattuale la condotta del proprietario di un bene che, dopo averlo trasferito ad un’altra persona, lo vende successivamente ad un terzo, comportando detta successiva vendita impedimento ad opera del venditore a che il primo acquirente acquisti un concreto potere, pieno ed esclusivo, di godimento e disponibilità della cosa trasferitagli, e così l’inadempimento della cennata correlativa obbligazione contrattuale, con il correlato diritto al risarcimento del danno ed alla risoluzione del contratto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1403 del 21/03/1989)>>.

Si sarebbe però dovuto approfondire il ruolo della consegna della res, rimasto in ombra nell’ordinanza.

La determinazione del danno biologico in caso di premorienza (nel corso del giudizio di appello, ma non a seguito dell’illecito azionato) e il rapporto tra danno morale e danno biologico

Cass. sez. III, ord. 26/11/2024 n. 30.461, rel. Cricenti:

<<La questione posta con tale motivo riguarda la liquidazione del danno biologico per il caso di premorienza. Si è detto che il danneggiato è morto durante il procedimento di appello. Il che ha comportato che il danno biologico non poteva più essere liquidato sulla base della sua aspettativa di vita, ma piuttosto sulla base dell’effettivo vissuto (9 anni).

Per operare tale liquidazione il giudice di appello ha utilizzato le tabelle milanesi, che, per il caso di premorienza, prevedono un valore decrescente di risarcimento, sul presupposto che l’invalidità permanente incide in maniera maggiore all’inizio, e minore alla fine.

Secondo la ricorrente questo criterio è illogico ed è già stato giudicato come illegittimo da questa Corte, dovendosi invece propendere per una liquidazione proporzionale e non già decrescente.

Il motivo è fondato.

È principio di diritto che ‘Qualora la vittima di un danno alla salute sia deceduta, prima della conclusione del giudizio, per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto “iure successionis” va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a quella statisticamente probabile, sicché tale danno va liquidato in base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass. 41933/ 2021; Cass. 15112/ 2024).

La liquidazione del danno biologico, tenuto conto della premorienza del danneggiato, va dunque effettuata proporzionalmente e non già assegnando un maggior valore alla invalidità iniziale ed uno minore a quelle finale, ossia prossima al decesso>>.

Sul rapporto danno morale/danno biologico::

<<Dunque, il danno morale non è stato liquidato. E doveva essere preso in considerazione. La tesi, infatti, secondo cui si tratta di una duplicazione del danno biologico è infondata.

È principio di diritto consolidato che il danno morale è una voce autonoma di danno, che ovviamente va accertato e liquidato solo se verificatosi effettivamente, ma che non costituisce una duplicazione illegittima del danno biologico, né può ritenersi rilevante solo ove sia provata una personalizzazione del danno, ossia solo ove il danno abbia avuto conseguenze singolari ed eccezionali sulla vittima. Il danno morale è una voce di danno come il biologico, che può prodursi senza che si produca quest’ultimo (una ingiuria o una reputazione che determinano sofferenza interiore ma nessuna conseguenza sulla salute).

Di conseguenza va ribadito il principio di diritto secondo cui “In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in peius con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile – alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 C.d.A., come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 4 agosto 2017 n. 124) – è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti”. (Cass., 901/ 2018)>>.

In claris non fit interpretatio: talora è regola corretta

Interessante pronuncia su una success fee pattuita dall’avvocato con il convenuto: quindi parametrata non al quantum ottenuto ma al quantum ridotto rispetto alla domanda attorea.

Si tratta di Cass. sez. II, ord. 22/11/2024 n. 30.156, rel. OLiva:

fatto:

<<Il Tribunale ha dato atto che le parti avevano pattuito il compenso in parte in misura fissa, e precisamente in Euro 14.000, ed in parte in misura variabile, mediante una “success fee” pari allo 0,7% del minor importo che fosse stato ritenuto dovuto rispetto alla pretesa iniziale proposta dal Fallimento Antenna Tre Nord Est Spa nei confronti del Ba.. Ha però argomentato, il giudice di merito, che la predetta “success fee” non fosse dovuta, in quanto la pattuizione avrebbe avuto ad oggetto la sola ipotesi di accoglimento parziale della domanda, e non anche quella del suo totale rigetto, ed ha quindi limitato la pretesa degli odierni ricorrenti alla sola somma determinata in misura fissa, dalla quale ha poi detratto gli acconti, giungendo all’importo finale determinato in ordinanza.

I ricorrenti contestano tale statuizione, osservando che la clausola si riferisse ad ogni ipotesi in cui la pretesa della procedura concorsuale fosse stata ridotta, e dunque anche all’eventualità del suo totale rigetto. In effetti, la formulazione letterale della clausola non lascia dubbi, posto che essa prevede la spettanza della “success fee” nella misura dello “.. 0,7% del minor importo stabilito dal Giudice rispetto alla somma di Euro 3.333.460,15 oggetto della domanda” (cfr. pag. 3 del ricorso) e dunque in qualsiasi ipotesi di riduzione della pretesa di cui anzidetto>>.

La SC:

<<Ad avviso del Collegio, il giudice di merito ha operato un’interpretazione controletterale della clausola, in violazione dell’art. 1362 c.c., il quale, allorché nel primo comma prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 10967 del 26/04/2023, Rv. 667678, ed ivi richiami ai precedenti conformi, tra cui Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21576 del 22/08/2019, Rv. 654900 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10290 del 27/07/2001, Rv. 548566).

Nel caso in esame, lettera e spirito della clausola, così come accertati nella loro oggettività dal Tribunale, mirano a parametrare il compenso professionale al valore differenziale tra disputatum e decisum, nel senso di far proprio (anche) nel rapporto interno tra il professionista e il suo cliente un criterio che normalmente rileva (solo) nel rapporto esterno tra le parti, ai limitati fini della liquidazione delle spese che il giudice opera in danno del soccombente.

Ciò posto, poiché il Tribunale ha accertato l’integrale rigetto della domanda proposta dalla procedura fallimentare, l’esito interpretativo della clausola in oggetto non può essere – ostandovi lo spirito della stessa – quello paradossale di azzerare un compenso aggiuntivo che, diversamente, ove cioè la domanda fosse stata accolta in qualsivoglia misura, vi sarebbe comunque stato a favore degli odierni ricorrenti>>.

Mora dell’assicuraizone, mala gestio della medesima e superaamenot del massimale assicurativo

Dalla sempre ottima penna del Cons. Rossetti (mirabile per chiarezza e sintesi) esce un utile ripasso sull’oggetto (Cass. sez. III, ord. 19/11/2024, n.29.791, rel. Rossetti):

<<1.5. La mora debendi dell’assicuratore della r.c.a. nei confronti del terzo danneggiato è spesso designata nella prassi forense e giudiziaria “mala gestio impropria”: ma deve essere ben chiaro che questa espressione è puramente convenzionale e, essa sì, “impropria”.

Infatti una “cattiva gestione” degli interessi altrui è concepibile unicamente nel rapporto tra assicurato ed assicuratore. Solo nell’ambito di questo rapporto è ipotizzabile una condotta colposa consistente nella malaccorta gestione degli interessi altrui.

Per questa ragione nel rapporto tra assicurato ed assicuratore mora e mala gestio sono concetti non coincidenti: la mora è l’effetto dell’inadempimento d’una obbligazione di dare; la mala gestio è invece l’inadempimento di una obbligazione di fare (la cura degli interessi dell’assicurato). L’assicuratore che incorra nella mala gestio degli interessi dell’assicurato potrà essere tenuto al pagamento di somme eccedenti il massimale non solo a titolo di interessi, ma anche a titolo di capitale (l’esempio di scuola è quello dell’assicuratore che, rifiutando per colpa una vantaggiosa proposta transattiva avanzata dal danneggiato e contenuta nei limiti del massimale, finisca per lasciare l’assicurato, all’esito del giudizio, esposto alla pretesa del danneggiato per l’eccedenza del credito risarcitorio rispetto al limite del massimale).

1.6. Nel rapporto tra assicuratore della r.c.a. e danneggiato (e lo stesso ovviamente dicasi quanto al rapporto tra danneggiato ed impresa designata), per contro, l’assicuratore assume la veste di debitore, non di mandatario o gestore di affari.

In relazione a questo rapporto giuridico non è quindi concepibile nessuna distinzione tra “mora” e “mala gestio”. Anzi, non è nemmeno concepibile una “mala gestio”. Se l’assicuratore della r.c.a. non rispetta il termine di legge per adempiere la propria obbligazione (art. 148 cod. ass.) si dirà che è un debitore in mora, come si direbbe di qualsiasi altro debitore, e non certo che ha “malamente gestito” gli interessi della vittima.

Pertanto la mora dell’assicuratore nell’ambito di tale rapporto non produrrà altre conseguenze che quelle di cui all’art. 1224 c.c.: e cioè l’obbligo di pagamento di somme eccedenti il massimale a titolo di interessi o maggior danno ex art. 1224 c.c. (principio, quest’ultimo, che questa Corte viene ripetendo ormai da vent’anni: così già, con grande chiarezza, Sez. 3, Sentenza n. 10725 del 08/07/2003, nella cui motivazione si afferma che la responsabilità dell’assicuratore in mora nei confronti del danneggiato “ritrae disciplina e contenuto dall’art. 1224 cod. civ., perché è obbligazione da ritardo nell’adempimento di una obbligazione pecuniaria; e dunque, da un lato, trova il suo unico presupposto nella mora; dall’altro richiede la prova, quanto al danno, solo per la parte che eccede gli interessi di mora”, ai sensi dell’art. 1224, secondo comma, c.c.; da ultimo, in tal senso, Sez. 6-3, Ordinanza n. 8676 del 17.3.2022).

1.7. La conseguenza di quanto esposto è che il terzo danneggiato il quale intenda ottenere la condanna dell’assicuratore al pagamento del danno da mora (art. 1224 c.c.) non ha da formulare altra domanda che quella di pagamento degli interessi (Sez. 3, Ordinanza n. 8374 del 28/03/2024).

1.8. Detto dell’onere della domanda, veniamo al contenuto dell’obbligazione dell’assicuratore.

Se l’assicuratore è in mora (ed è in mora dallo spirare dello spatium deliberandi di cui all’art. 148 cod. ass.), è irrilevante che la sua condanna al pagamento degli interessi superi il massimale.

Infatti quando l’assicuratore della r.c.a. sia tenuto al risarcimento d’un danno che in conto capitale ecceda il massimale, e non adempia nei termini di legge, non può più pretendere che le conseguenze della sua mora restino contenute nel limite del massimale. Quel limite concerne una garanzia per fatto altrui, e cioè il risarcimento del danno causato dall’assicurato. Ma se l’assicuratore della r.c.a. debba versare alla vittima l’intero massimale e non lo faccia nei termini di legge, tale ritardo sarà imputabile a lui, non al fatto dell’assicurato.

Pertanto in virtù del principio di autoresponsabilità (per effetto del quale ciascuno deve sopportare le conseguenze giuridiche delle proprie azioni od omissioni) l’assicuratore in mora nel pagamento dell’intero massimale sarà tenuto a sopportare gli effetti della mora stessa senza limiti di sorta. In questo caso le conseguenze della mora scaturiscono dall’inadempimento dell’assicuratore, e non dall’illecito dell’assicurato (ex permultis, Sez. 3-, Sentenza n. 22054 del 22/09/2017, Rv. 646015-01; Sez. L, Sentenza 2525 del 06/03/1998, Rv. 513435-01; ma il principio è pacifico e risalente: così già Sez. 1, Sentenza n. 6356 del 09/12/1980, Rv. 410099-01)>>.

Sintetizza così la SC:

<<1.9. Conclusivamente:

a) la condanna dell’assicuratore ultramassimale non esige formule sacramentali da parte dell’attore; basta la domanda di condanna al pagamento degli interessi;

b) il massimale segna il limite dell’obbligazione dell’assicuratore quanto al capitale; quanto alla mora, invece, l’assicuratore è un debitore come tutti gli altri, e se ritarda il pagamento della propria obbligazione sarà tenuto a versare al creditore anche gli interessi compensativi;

c) se si seguisse il non condivisibile principio applicato dalla Corte d’Appello si perverrebbe al seguente paradosso: che in tutti i casi in cui il danno eguagli o superi il massimale, un assicuratore potrebbe ritardare per anni l’adempimento, senza andare incontro agli effetti della mora>>.

Il nesso causale in presenza di pluralità di cause

Chiarimento interessante da Cass. sez. III, ord. 07/11/2024  n. 28.722, rel. Pellecchia, per chi si occupa di responsabilità civile:

In generale_:

<<Occorre premettere che in tema di nesso di causalità il nesso di causalità (materiale) -la cui valutazione in sede civile è diversa da quella penale (ove vale il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale che è prossimo alla “certezza”)- consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo la regola dell’ascrivibilità in termini di preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576; Cass., 16/10/2007, n. 21619, in particolare, Cass. n. 16582/2019; Cass. n. 10812/2019; Cass. n. 20829/2018; Cass., 29/2/2016, n. 3893; Cass., 21/4/2016, n. 8035; Cass., 22/2/2016, n. 3428; Cass., 20/2015, n. 3367; Cass., 17/09/2013, n. 21255).

Si è da questa Corte precisato che in sede civile il nesso causale indica la misura della relazione probabilistica concreta (svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra condotta e fatto-evento dannoso (da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata), in base alla quale un evento è da considerarsi causato da un altro allorquando non si sarebbe senza quest’ultimo verificato, pertanto risolvendosi entro “i pragmatici confini della dimensione “storica”, e valendo ad ascrivere all’autore del fatto illecito le conseguenze che da questo discendono, laddove non intervenga un nuovo fatto rispetto al quale il medesimo non abbia il dovere o la possibilità di agire (v. Cass., 16/10/2007, n. 21619. V. altresì Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576)>>.

Specificamente sulla puralità di cause:

<<In tema di accertamento del nesso causale nella responsabilità civile, qualora l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”; pertanto, il nesso di causa è provato quando la tesi a favore (del fatto che un evento sia causa di un altro) è più probabile di quella contraria (che quell’evento non sia causa dell’altro).

In ipotesi come nella specie di concorso di cause, si è da questa Corte ulteriormente posto in rilievo che ove “l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri del “più probabile che non” e della “probabilità prevalente”.

A tale stregua, il giudice di merito è pertanto tenuto anzitutto a eliminare dal novero delle ipotesi valutabili quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’insostenibilità di un’aritmetica dei valori probatori), e successivamente ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili; infine a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente (v. Cass., 2/9/2022, n. 25884).

Da quei fatti il giudice di merito deve dunque indurre ipotesi ricostruttive del nesso di causa escludendo quelle meno probabili, scegliendo, tra quelle rimaste, l’ipotesi che spiega il fatto con maggiore probabilità, sulla base degli indizi raccolti.

Non è richiesta invero né la certezza né una elevata probabilità, bensì una valutazione delle ipotesi alternative e la scelta di quella più probabile, anche se di poco, rispetto alle altre, che non necessariamente si ponga come di elevata probabilità.

Ciò si spiega per il fatto che le probabilità numeriche di un fatto (che la cosa abbia concorso al danno) non necessariamente ammontano al 100 per cento, ossia: data la tesi X e quella contraria Y, non necessariamente la loro somma porta al 100 per cento (nel senso che la prima è data al 60 per cento e l’altra al 40 per cento, ad esempio).

Ciò accade perché c’è sempre spazio per altre spiegazioni, molto meno probabili, che sono date ad una percentuale minore.

Scartate queste ultime (come indicato da Cass. 25884/2022), può accadere che le rimanenti, ad esempio quella sostenuta dall’attore e quella sostenuta dal convenuto, abbiano l’una il 30 per cento e l’altra il 20 per cento: la regola del più probabile che non, porta ad affermare come fondata la prima delle due, anche se non caratterizzata da una elevata probabilità, come ha preteso la corte di merito, quanto piuttosto di una probabilità maggiore dell’altra ipotesi.

Quindi, nella relativa valutazione il giudice del merito non deve invero limitarsi ad un esame isolato di singoli elementi o degli elementi (indiziari o presuntivi) al riguardo rilevanti, ciascuno insufficiente a fornire ragionevole certezza su una determinata situazione di fatto, ma deve compierne una complessiva ed organica valutazione nel quadro unitario dell’indagine probatoria (v. Cass., 20/6/2019, n. 16581. Cfr., con riferimento alla prova per presunzioni, Cass., 21/12/1987, n. 9504), e il suo ragionamento non deve risultare viziato da illogicità o da errori giuridici, quale appunto è l’esame isolato dei singoli elementi della c.d. catena causale (cfr., con riferimento agli elementi idonei a fondare la prova presuntiva, già Cass., 27/11/1982, n. 6460; Cass. n. 16581/2019; Cass. n. 26304/2021).

In tema di responsabilità civile non può invero negarsi il nesso eziologico fra condotta e danno solo perché vi sono più cause possibili ed alternative ma il giudice deve stabilire quale tra esse sia “più probabile che non”, in concreto e in relazione alle altre, e, quindi, idonea a determinare in via autonoma il danno evento. Qualora tale accertamento non sia possibile, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell’art. 41 c.p., in virtu’ del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l’evento, essendo quest’ultimo riconducibile a tutte, tranne che si verifichi l’esclusiva efficienza causale di una di esse.

Si è da questa Corte sotto altro profilo altresì posto in rilievo che il danneggiato deve essere risarcito di tutte le conseguenze dannose cui rimane esposto in conseguenza di uno specifico antecedente causale (v. Cass., 18/4/2019, n. 10812; Cass., 21/8/2018, n. 20829; Cass., 20/11/2017, n. 27254; Cass., 29/2/2016, n. 3893; Cass., 3/2/2012, n. 1620; Cass., 21/7/2011, n. 15991), si è precisato che tali sono tutte le conseguenze dannose legate all’evento dannoso non solo da un rapporto di regolarità giuridica (v. già Cass., 11/1/1989, n. 65) ma anche da un rapporto di causalità specifica (v. Cass., 2/12/2021, n. 38076; Cass., 29/9/2015, n. 19213; Cass., 29/8/2011, n. 17685; Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 582), cui è rimasto esposto a fronte (anche) dello specifico antecedente causale, determinato dalla condotta colposa (o dolosa) del debitore/danneggiante (come posto in rilievo anche da autorevole dottrina, che lo indica quale “danno diretto”), quest’ultimo dovendo pertanto risponderne (anche) sul piano risarcitorio (cfr. Cass., 18/4/2019, n. 10812; Cass., 21/8/2018, n. 20829; Cass., 20/11/2017, n. 27254; Cass., 29/2/2016, n. 3893; Cass., 3/2/2012, n. 1620; Cass., 21/7/2011, n. 15991)>>.