La revocazione della donazione per sopravvenenza di figli spetta solo se per il primo figlio, non per i successivi

Cass. sez. II, ord. 16/12/2024 n. 32.672, rel. Criscuolo:

<<È sicuramente erronea l’affermazione del giudice di appello che ritiene che la revocazione possa essere disposta anche nel caso in cui sopraggiunga un secondo figlio, e ciò in quanto si tratta di affermazione in contrasto con quanto affermato da questa Corte che ha sostenuto che la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli o discendenti, rispondendo all’esigenza di consentire al donante di riconsiderare l’opportunità dell’attribuzione liberale a fronte della sopravvenuta nascita di un figlio, ovvero della sopravvenuta conoscenza della sua esistenza, in funzione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione che derivano da tale evento, è preclusa ove il donante avesse consapevolezza, alla data dell’atto di liberalità, dell’esistenza di un figlio ovvero di un discendente legittimo. Né tale previsione contrasta con gli artt. 3,30 e 31 Cost., non determinando alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, i quali sono tutelati solo in via mediata ed indiretta, in quanto l’interesse tutelato dalla norma è quello di consentire al genitore di soddisfare le esigenze fondamentali dei figli, sicché è proprio l’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell’essere umano, che può non essere stato valutato adeguatamente dal donante che non abbia ancora avuto figli, diversamente da quello che, avendo già provato il sentimento di amore filiale, si è comunque determinato a beneficiare il donatario, benché conscio degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale (Cass. n. 5345/2017, che ha reputato anche manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 803 c.c., in relazione agli artt. 3 e 30 Cost., nella parte in cui preclude la revocazione per sopravvenuta nascita di un figlio nel caso al momento della donazione il donante abbia già la consapevolezza dell’esistenza di un altro figlio, non determinandosi alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, in quanto è proprio l’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell’essere umano, in quanto il donante che non abbia ancora alcun figlio non può valutare adeguatamente l’interesse alla cura filiale, non avendo ancora provato il sentimento di amor filiale con la dedizione che esso determina ed il superamento che esso provoca di ogni altro affetto, viceversa non sussiste il fondamento applicativo della revocazione, allorché l’atto di liberalità sia stato compiuto da chi già aveva avuto modo di provare l’affetto filiale, e che, quindi, si è determinato a beneficiare il donatario pur nella consapevolezza degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale)>>.

 

Il minore è già erede con la dichiarazione di accettazione beneficiata, per cui una volta maggiorenne non può più rinunciarvi, anche se non è stato fatto l’inventario

Cass. sez. un., sent. 06/12/2024, (ud. 22/10/2024, dep. 06/12/2024), n.31310, rel. Bertuzzi:

<<8. Merita di essere qui confermato, in adesione alle motivate conclusioni del Procuratore Generale, l’indirizzo interpretativo che riconosce al minore la qualità di erede, per effetto della dichiarazione di accettazione del suo legale rappresentante, anche se non accompagnata dall’inventario, e nega per l’effetto la facoltà di una valida rinuncia successiva.

La ragione principale risiede nel rilievo, del tutto pacifico, che l’accettazione beneficiata è sempre accettazione dell’eredità, esprimendo la relativa dichiarazione la volontà del chiamato di succedere nel patrimonio del defunto. Come già detto, la legge ripudia l’idea che l’intenzione di avvalersi del beneficio di inventario possa essere trattata alla stregua di una condizione sospensiva dell’accettazione, tale da esprimere la volontà del dichiarante di essere erede solo se risponderà dei debiti del de cuius nei limiti del valore dei beni ricevuti. L’accettazione con beneficio d’inventario comporta, pertanto, l’acquisto della qualità di erede. Gli art. 485 e seguenti cod. civ. disciplinano le condizioni ed i casi in cui può ottenersi o meno il beneficio, ma non si interessano della condizione di erede, che danno per acquisita.

È noto, inoltre, che il negozio di accettazione dell’eredità è irretrattabile: chi accetta l’eredità l’acquista in modo definitivo, non essendo la relativa dichiarazione revocabile, in base al principio ” semel heres semper heres ” (Cass. n. 1735 del 2024; Cass. n. 15663 del 2020).

In applicazione di tale regola deve escludersi che, ad accettazione dell’eredità avvenuta da parte del legale rappresentante del minore, nella forma beneficiata come richiesto dalla legge, il minore stesso possa essere considerato, fino ad un anno dopo il compimento della maggiore età, mero chiamato all’eredità e non erede, e che gli sia concessa la facoltà di rinuncia, come se la dichiarazione di accettazione beneficiata del suo legale rappresentante non fosse mai stata resa, in base ad una non consentita equiparazione tra la dichiarazione di accettazione beneficiata non seguita dall’inventario e l’accettazione pura e semplice fatta dal legale rappresentante del minore.

La dichiarazione di accettazione ai sensi dell’art. 484 cod. civ., al contrario, in quanto accettazione dell’eredità, è atto idoneo e sufficiente a far acquistare al rappresentato la qualità di erede.

Secondo lo schema legale, il rappresentante del minore può rinunciare o accettare l’eredità, nella forma beneficiata. Se accetta, il minore è erede.

L’art. 489 cod. civ. è il logico sviluppo di questo presupposto. La disposizione stabilisce che il minore non decade dal beneficio di inventario se, entro un anno dal compimento della maggiore età, si conforma alle norme in materia, cioè provvede a redigere l’inventario ed osserva i relativi obblighi.

La previsione normativa presuppone che l’inventario non sia stato eseguito. In caso contrario, la concessione di un termine per porlo in essere non avrebbe senso, risolvendosi nell’obbligo di ripetere un adempimento già realizzato (Cass. n. 9142 del 1993). Né tale necessità sussisterebbe nel caso in cui l’inventario fosse stato eseguito dal legale rappresentante al di là del termine fissato dall’art. 485 cod. civ., essendo pacifico in giurisprudenza che tale ultima disposizione non si applica con riguardo all’eredità del minore.

L’art. 489 cod. civ. appare riferirsi sicuramente anche al caso in cui il legale rappresentante del minore abbia accettato l’eredità con beneficio di inventario, ma non lo abbia eseguito. Tale inadempimento, per volontà della legge, non è causa di impedimento al prodursi degli effetti del beneficio, ripugnando alla legge che il minore sia destinatario di una eredità dannosa ovvero, per usare le parole della legge, si trovi nella posizione di erede puro e semplice. Lo strumento attraverso cui la legge persegue tale risultato, è, sostanzialmente, la sterilizzazione del termine per la redazione dell’inventario durante il periodo della minore età e l’allungamento ad un anno, dal raggiungimento della maggiore età, per predisporlo. In caso vi provveda, egli usufruirà del beneficio che limita la sua responsabilità, in caso contrario sarà considerato erede puro e semplice, essendo ogni ostacolo a considerarlo tale superato dal raggiungimento della maggiore età. Correttamente l’inoperatività nei confronti del minore della disposizione di cui all’art. 485 cod. civ. è stata motivata in ragione della deroga che, con riguardo al tempo dell’inventario, risulta introdotta dall’art. 489 cod. civ.

Appare coerente con tali premesse il mancato riferimento, in quest’ultima disposizione, alla possibilità per il minore, una volta raggiunta la maggiore età, in caso di mancata redazione dell’inventario, di rinunciare all’eredità. La citata disposizione prospetta i possibili epiloghi, in termini alternativi, esclusivamente sul piano della responsabilità per i debiti ereditari, senza interessarsi e quindi incidere sulla sua condizione di erede, che dà per acquisita in forza della precedente accettazione fatta dal suo legale rappresentante. Parlando la norma di decadenza dal beneficio, essa fa intendere che l’incapace è già erede. Lo spettro di efficacia dell’art. 489 cod. civ. è, pertanto, limitato al termine per conseguire il beneficio, non al termine per accettare o rinunziare all’eredità.

Non condivisibile appare, perciò, l’argomento prospettato dall’orientamento qui disatteso, secondo cui non potendo il minore, per la regola generale accolta dall’ordinamento, essere erede puro e semplice e non potendo, in mancanza di inventario, considerarsi erede beneficiato, l’unica conclusione possibile sarebbe quella di riconoscergli la posizione di mero chiamato all’eredità. Tale tesi non considera che il termine per l’inventario è prorogato fino ad un anno dalla maggiore età e che la legge ripropone, con riguardo ad esso, l’alternativa tra erede puro e semplice ed erede beneficiato, secondo il meccanismo già utilizzato dall’art. 485 cod. civ. La differenza tra l’art. 485 e 489 cod. civ. va pertanto ravvisata, per il tema che qui interessa, esclusivamente nel termine per la redazione dell’inventario, che, con una disposizione di indubbio favore, è prorogato per i minori fino ad un anno della maggiore età>>.

Opinion della European Copyright Society sulla originalità del design a fini di protezione tramite copyright

Il 3 dicembre 2024 la ECS ha diffuso un suo dettagliato parere sul tema, titolato The Protection of Works of Applied Art under EU Copyright Law . Opinion of the European Copyright Society in MIO/konektra (Cases C-580/23 and C-795/23).

Parere assai articolato e documentato, che si porrà come testo importante per affrontare la non semplice questioni della tutela d’autore per il design.

Riporto solo un pezzo della parte IV Conclusion – Answers to the questions referred to the CJEU:

<<We have explained the approach above at [19]-[51]. As established in the Court’s jurisprudence, for there to be a protectable work, there must be expression (not merely ideas), and that expression needs to involve free and creative choices as a result of which the author has stamped their personality on the work. In general, in the case of works of applied arts, the presence of functional constraints will often severely limit the freedom of choice, and the
utilitarian goals may well mean that the designer will rarely make creative choices. Importantly, the mere presence of alternative choices is not of itself sufficient to show creativity. Even where there is freedom to choose the expressive elements, and that freedom is exercised creatively, it is also possible that the resulting designs will not bear the imprint of the author. As the Court
made clear in Cofemel, just because the production is aesthetically appealing or attractive does not imply either that creative choices have been made, or that the result bears the personal imprint of the author.
In assessing these elements, “factors surrounding the creative process” might offer indications as to what functional constraints existed, how much freedom there was, and whether the decisions made by the author were creative. As explained at [42]-[43], while the author’s explanation of the choices s/he/they made is not irrelevant (and could assist a tribunal in understanding the author’s perception of the design freedom and the character of the choices), it is also not determinative. Ultimately, the tribunal will need to decide whether, as a result of
making creative choices, the objective features of the resulting production reflect the author’s personal touch”

La doppia vendita costituisce inadempimento del veniditre verso il primo acquirente

Cass. sez. II, ord. 26/09/2024  n. 25.768, rel. Trapuzzano, in un caso di vendita di autoveicolo e assente l’elemento -sempre presente nelle analoghe liti su immobili- della trascrizione:

<<La vendita successiva ad un terzo dello stesso bene già venduto costituisce, infatti, inadempimento all’obbligo contrattuale che il venditore implicitamente assume nei confronti del primo compratore, allorché esprime la volontà di trasferirgli la piena ed esclusiva disponibilità della cosa – impedita, invece, dalla seconda alienazione della medesima -, che, pertanto, legittima la domanda di risoluzione del primo contratto.

Ed invero, con riguardo al contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà, nella volontà espressa dal venditore di trasferire a taluno la piena ed esclusiva disponibilità della cosa è implicito l’obbligo di non trasferirla ad altri, con la conseguenza che costituisce inadempimento contrattuale la condotta del proprietario di un bene che, dopo averlo trasferito ad un’altra persona, lo vende successivamente ad un terzo, comportando detta successiva vendita impedimento ad opera del venditore a che il primo acquirente acquisti un concreto potere, pieno ed esclusivo, di godimento e disponibilità della cosa trasferitagli, e così l’inadempimento della cennata correlativa obbligazione contrattuale, con il correlato diritto al risarcimento del danno ed alla risoluzione del contratto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1403 del 21/03/1989)>>.

Si sarebbe però dovuto approfondire il ruolo della consegna della res, rimasto in ombra nell’ordinanza.

La determinazione del danno biologico in caso di premorienza (nel corso del giudizio di appello, ma non a seguito dell’illecito azionato) e il rapporto tra danno morale e danno biologico

Cass. sez. III, ord. 26/11/2024 n. 30.461, rel. Cricenti:

<<La questione posta con tale motivo riguarda la liquidazione del danno biologico per il caso di premorienza. Si è detto che il danneggiato è morto durante il procedimento di appello. Il che ha comportato che il danno biologico non poteva più essere liquidato sulla base della sua aspettativa di vita, ma piuttosto sulla base dell’effettivo vissuto (9 anni).

Per operare tale liquidazione il giudice di appello ha utilizzato le tabelle milanesi, che, per il caso di premorienza, prevedono un valore decrescente di risarcimento, sul presupposto che l’invalidità permanente incide in maniera maggiore all’inizio, e minore alla fine.

Secondo la ricorrente questo criterio è illogico ed è già stato giudicato come illegittimo da questa Corte, dovendosi invece propendere per una liquidazione proporzionale e non già decrescente.

Il motivo è fondato.

È principio di diritto che ‘Qualora la vittima di un danno alla salute sia deceduta, prima della conclusione del giudizio, per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto “iure successionis” va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a quella statisticamente probabile, sicché tale danno va liquidato in base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass. 41933/ 2021; Cass. 15112/ 2024).

La liquidazione del danno biologico, tenuto conto della premorienza del danneggiato, va dunque effettuata proporzionalmente e non già assegnando un maggior valore alla invalidità iniziale ed uno minore a quelle finale, ossia prossima al decesso>>.

Sul rapporto danno morale/danno biologico::

<<Dunque, il danno morale non è stato liquidato. E doveva essere preso in considerazione. La tesi, infatti, secondo cui si tratta di una duplicazione del danno biologico è infondata.

È principio di diritto consolidato che il danno morale è una voce autonoma di danno, che ovviamente va accertato e liquidato solo se verificatosi effettivamente, ma che non costituisce una duplicazione illegittima del danno biologico, né può ritenersi rilevante solo ove sia provata una personalizzazione del danno, ossia solo ove il danno abbia avuto conseguenze singolari ed eccezionali sulla vittima. Il danno morale è una voce di danno come il biologico, che può prodursi senza che si produca quest’ultimo (una ingiuria o una reputazione che determinano sofferenza interiore ma nessuna conseguenza sulla salute).

Di conseguenza va ribadito il principio di diritto secondo cui “In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in peius con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile – alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 C.d.A., come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 4 agosto 2017 n. 124) – è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti”. (Cass., 901/ 2018)>>.

In claris non fit interpretatio: talora è regola corretta

Interessante pronuncia su una success fee pattuita dall’avvocato con il convenuto: quindi parametrata non al quantum ottenuto ma al quantum ridotto rispetto alla domanda attorea.

Si tratta di Cass. sez. II, ord. 22/11/2024 n. 30.156, rel. OLiva:

fatto:

<<Il Tribunale ha dato atto che le parti avevano pattuito il compenso in parte in misura fissa, e precisamente in Euro 14.000, ed in parte in misura variabile, mediante una “success fee” pari allo 0,7% del minor importo che fosse stato ritenuto dovuto rispetto alla pretesa iniziale proposta dal Fallimento Antenna Tre Nord Est Spa nei confronti del Ba.. Ha però argomentato, il giudice di merito, che la predetta “success fee” non fosse dovuta, in quanto la pattuizione avrebbe avuto ad oggetto la sola ipotesi di accoglimento parziale della domanda, e non anche quella del suo totale rigetto, ed ha quindi limitato la pretesa degli odierni ricorrenti alla sola somma determinata in misura fissa, dalla quale ha poi detratto gli acconti, giungendo all’importo finale determinato in ordinanza.

I ricorrenti contestano tale statuizione, osservando che la clausola si riferisse ad ogni ipotesi in cui la pretesa della procedura concorsuale fosse stata ridotta, e dunque anche all’eventualità del suo totale rigetto. In effetti, la formulazione letterale della clausola non lascia dubbi, posto che essa prevede la spettanza della “success fee” nella misura dello “.. 0,7% del minor importo stabilito dal Giudice rispetto alla somma di Euro 3.333.460,15 oggetto della domanda” (cfr. pag. 3 del ricorso) e dunque in qualsiasi ipotesi di riduzione della pretesa di cui anzidetto>>.

La SC:

<<Ad avviso del Collegio, il giudice di merito ha operato un’interpretazione controletterale della clausola, in violazione dell’art. 1362 c.c., il quale, allorché nel primo comma prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 10967 del 26/04/2023, Rv. 667678, ed ivi richiami ai precedenti conformi, tra cui Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21576 del 22/08/2019, Rv. 654900 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10290 del 27/07/2001, Rv. 548566).

Nel caso in esame, lettera e spirito della clausola, così come accertati nella loro oggettività dal Tribunale, mirano a parametrare il compenso professionale al valore differenziale tra disputatum e decisum, nel senso di far proprio (anche) nel rapporto interno tra il professionista e il suo cliente un criterio che normalmente rileva (solo) nel rapporto esterno tra le parti, ai limitati fini della liquidazione delle spese che il giudice opera in danno del soccombente.

Ciò posto, poiché il Tribunale ha accertato l’integrale rigetto della domanda proposta dalla procedura fallimentare, l’esito interpretativo della clausola in oggetto non può essere – ostandovi lo spirito della stessa – quello paradossale di azzerare un compenso aggiuntivo che, diversamente, ove cioè la domanda fosse stata accolta in qualsivoglia misura, vi sarebbe comunque stato a favore degli odierni ricorrenti>>.

Mora dell’assicuraizone, mala gestio della medesima e superaamenot del massimale assicurativo

Dalla sempre ottima penna del Cons. Rossetti (mirabile per chiarezza e sintesi) esce un utile ripasso sull’oggetto (Cass. sez. III, ord. 19/11/2024, n.29.791, rel. Rossetti):

<<1.5. La mora debendi dell’assicuratore della r.c.a. nei confronti del terzo danneggiato è spesso designata nella prassi forense e giudiziaria “mala gestio impropria”: ma deve essere ben chiaro che questa espressione è puramente convenzionale e, essa sì, “impropria”.

Infatti una “cattiva gestione” degli interessi altrui è concepibile unicamente nel rapporto tra assicurato ed assicuratore. Solo nell’ambito di questo rapporto è ipotizzabile una condotta colposa consistente nella malaccorta gestione degli interessi altrui.

Per questa ragione nel rapporto tra assicurato ed assicuratore mora e mala gestio sono concetti non coincidenti: la mora è l’effetto dell’inadempimento d’una obbligazione di dare; la mala gestio è invece l’inadempimento di una obbligazione di fare (la cura degli interessi dell’assicurato). L’assicuratore che incorra nella mala gestio degli interessi dell’assicurato potrà essere tenuto al pagamento di somme eccedenti il massimale non solo a titolo di interessi, ma anche a titolo di capitale (l’esempio di scuola è quello dell’assicuratore che, rifiutando per colpa una vantaggiosa proposta transattiva avanzata dal danneggiato e contenuta nei limiti del massimale, finisca per lasciare l’assicurato, all’esito del giudizio, esposto alla pretesa del danneggiato per l’eccedenza del credito risarcitorio rispetto al limite del massimale).

1.6. Nel rapporto tra assicuratore della r.c.a. e danneggiato (e lo stesso ovviamente dicasi quanto al rapporto tra danneggiato ed impresa designata), per contro, l’assicuratore assume la veste di debitore, non di mandatario o gestore di affari.

In relazione a questo rapporto giuridico non è quindi concepibile nessuna distinzione tra “mora” e “mala gestio”. Anzi, non è nemmeno concepibile una “mala gestio”. Se l’assicuratore della r.c.a. non rispetta il termine di legge per adempiere la propria obbligazione (art. 148 cod. ass.) si dirà che è un debitore in mora, come si direbbe di qualsiasi altro debitore, e non certo che ha “malamente gestito” gli interessi della vittima.

Pertanto la mora dell’assicuratore nell’ambito di tale rapporto non produrrà altre conseguenze che quelle di cui all’art. 1224 c.c.: e cioè l’obbligo di pagamento di somme eccedenti il massimale a titolo di interessi o maggior danno ex art. 1224 c.c. (principio, quest’ultimo, che questa Corte viene ripetendo ormai da vent’anni: così già, con grande chiarezza, Sez. 3, Sentenza n. 10725 del 08/07/2003, nella cui motivazione si afferma che la responsabilità dell’assicuratore in mora nei confronti del danneggiato “ritrae disciplina e contenuto dall’art. 1224 cod. civ., perché è obbligazione da ritardo nell’adempimento di una obbligazione pecuniaria; e dunque, da un lato, trova il suo unico presupposto nella mora; dall’altro richiede la prova, quanto al danno, solo per la parte che eccede gli interessi di mora”, ai sensi dell’art. 1224, secondo comma, c.c.; da ultimo, in tal senso, Sez. 6-3, Ordinanza n. 8676 del 17.3.2022).

1.7. La conseguenza di quanto esposto è che il terzo danneggiato il quale intenda ottenere la condanna dell’assicuratore al pagamento del danno da mora (art. 1224 c.c.) non ha da formulare altra domanda che quella di pagamento degli interessi (Sez. 3, Ordinanza n. 8374 del 28/03/2024).

1.8. Detto dell’onere della domanda, veniamo al contenuto dell’obbligazione dell’assicuratore.

Se l’assicuratore è in mora (ed è in mora dallo spirare dello spatium deliberandi di cui all’art. 148 cod. ass.), è irrilevante che la sua condanna al pagamento degli interessi superi il massimale.

Infatti quando l’assicuratore della r.c.a. sia tenuto al risarcimento d’un danno che in conto capitale ecceda il massimale, e non adempia nei termini di legge, non può più pretendere che le conseguenze della sua mora restino contenute nel limite del massimale. Quel limite concerne una garanzia per fatto altrui, e cioè il risarcimento del danno causato dall’assicurato. Ma se l’assicuratore della r.c.a. debba versare alla vittima l’intero massimale e non lo faccia nei termini di legge, tale ritardo sarà imputabile a lui, non al fatto dell’assicurato.

Pertanto in virtù del principio di autoresponsabilità (per effetto del quale ciascuno deve sopportare le conseguenze giuridiche delle proprie azioni od omissioni) l’assicuratore in mora nel pagamento dell’intero massimale sarà tenuto a sopportare gli effetti della mora stessa senza limiti di sorta. In questo caso le conseguenze della mora scaturiscono dall’inadempimento dell’assicuratore, e non dall’illecito dell’assicurato (ex permultis, Sez. 3-, Sentenza n. 22054 del 22/09/2017, Rv. 646015-01; Sez. L, Sentenza 2525 del 06/03/1998, Rv. 513435-01; ma il principio è pacifico e risalente: così già Sez. 1, Sentenza n. 6356 del 09/12/1980, Rv. 410099-01)>>.

Sintetizza così la SC:

<<1.9. Conclusivamente:

a) la condanna dell’assicuratore ultramassimale non esige formule sacramentali da parte dell’attore; basta la domanda di condanna al pagamento degli interessi;

b) il massimale segna il limite dell’obbligazione dell’assicuratore quanto al capitale; quanto alla mora, invece, l’assicuratore è un debitore come tutti gli altri, e se ritarda il pagamento della propria obbligazione sarà tenuto a versare al creditore anche gli interessi compensativi;

c) se si seguisse il non condivisibile principio applicato dalla Corte d’Appello si perverrebbe al seguente paradosso: che in tutti i casi in cui il danno eguagli o superi il massimale, un assicuratore potrebbe ritardare per anni l’adempimento, senza andare incontro agli effetti della mora>>.

Il nesso causale in presenza di pluralità di cause

Chiarimento interessante da Cass. sez. III, ord. 07/11/2024  n. 28.722, rel. Pellecchia, per chi si occupa di responsabilità civile:

In generale_:

<<Occorre premettere che in tema di nesso di causalità il nesso di causalità (materiale) -la cui valutazione in sede civile è diversa da quella penale (ove vale il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale che è prossimo alla “certezza”)- consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo la regola dell’ascrivibilità in termini di preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576; Cass., 16/10/2007, n. 21619, in particolare, Cass. n. 16582/2019; Cass. n. 10812/2019; Cass. n. 20829/2018; Cass., 29/2/2016, n. 3893; Cass., 21/4/2016, n. 8035; Cass., 22/2/2016, n. 3428; Cass., 20/2015, n. 3367; Cass., 17/09/2013, n. 21255).

Si è da questa Corte precisato che in sede civile il nesso causale indica la misura della relazione probabilistica concreta (svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra condotta e fatto-evento dannoso (da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata), in base alla quale un evento è da considerarsi causato da un altro allorquando non si sarebbe senza quest’ultimo verificato, pertanto risolvendosi entro “i pragmatici confini della dimensione “storica”, e valendo ad ascrivere all’autore del fatto illecito le conseguenze che da questo discendono, laddove non intervenga un nuovo fatto rispetto al quale il medesimo non abbia il dovere o la possibilità di agire (v. Cass., 16/10/2007, n. 21619. V. altresì Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576)>>.

Specificamente sulla puralità di cause:

<<In tema di accertamento del nesso causale nella responsabilità civile, qualora l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”; pertanto, il nesso di causa è provato quando la tesi a favore (del fatto che un evento sia causa di un altro) è più probabile di quella contraria (che quell’evento non sia causa dell’altro).

In ipotesi come nella specie di concorso di cause, si è da questa Corte ulteriormente posto in rilievo che ove “l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri del “più probabile che non” e della “probabilità prevalente”.

A tale stregua, il giudice di merito è pertanto tenuto anzitutto a eliminare dal novero delle ipotesi valutabili quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’insostenibilità di un’aritmetica dei valori probatori), e successivamente ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili; infine a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente (v. Cass., 2/9/2022, n. 25884).

Da quei fatti il giudice di merito deve dunque indurre ipotesi ricostruttive del nesso di causa escludendo quelle meno probabili, scegliendo, tra quelle rimaste, l’ipotesi che spiega il fatto con maggiore probabilità, sulla base degli indizi raccolti.

Non è richiesta invero né la certezza né una elevata probabilità, bensì una valutazione delle ipotesi alternative e la scelta di quella più probabile, anche se di poco, rispetto alle altre, che non necessariamente si ponga come di elevata probabilità.

Ciò si spiega per il fatto che le probabilità numeriche di un fatto (che la cosa abbia concorso al danno) non necessariamente ammontano al 100 per cento, ossia: data la tesi X e quella contraria Y, non necessariamente la loro somma porta al 100 per cento (nel senso che la prima è data al 60 per cento e l’altra al 40 per cento, ad esempio).

Ciò accade perché c’è sempre spazio per altre spiegazioni, molto meno probabili, che sono date ad una percentuale minore.

Scartate queste ultime (come indicato da Cass. 25884/2022), può accadere che le rimanenti, ad esempio quella sostenuta dall’attore e quella sostenuta dal convenuto, abbiano l’una il 30 per cento e l’altra il 20 per cento: la regola del più probabile che non, porta ad affermare come fondata la prima delle due, anche se non caratterizzata da una elevata probabilità, come ha preteso la corte di merito, quanto piuttosto di una probabilità maggiore dell’altra ipotesi.

Quindi, nella relativa valutazione il giudice del merito non deve invero limitarsi ad un esame isolato di singoli elementi o degli elementi (indiziari o presuntivi) al riguardo rilevanti, ciascuno insufficiente a fornire ragionevole certezza su una determinata situazione di fatto, ma deve compierne una complessiva ed organica valutazione nel quadro unitario dell’indagine probatoria (v. Cass., 20/6/2019, n. 16581. Cfr., con riferimento alla prova per presunzioni, Cass., 21/12/1987, n. 9504), e il suo ragionamento non deve risultare viziato da illogicità o da errori giuridici, quale appunto è l’esame isolato dei singoli elementi della c.d. catena causale (cfr., con riferimento agli elementi idonei a fondare la prova presuntiva, già Cass., 27/11/1982, n. 6460; Cass. n. 16581/2019; Cass. n. 26304/2021).

In tema di responsabilità civile non può invero negarsi il nesso eziologico fra condotta e danno solo perché vi sono più cause possibili ed alternative ma il giudice deve stabilire quale tra esse sia “più probabile che non”, in concreto e in relazione alle altre, e, quindi, idonea a determinare in via autonoma il danno evento. Qualora tale accertamento non sia possibile, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell’art. 41 c.p., in virtu’ del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l’evento, essendo quest’ultimo riconducibile a tutte, tranne che si verifichi l’esclusiva efficienza causale di una di esse.

Si è da questa Corte sotto altro profilo altresì posto in rilievo che il danneggiato deve essere risarcito di tutte le conseguenze dannose cui rimane esposto in conseguenza di uno specifico antecedente causale (v. Cass., 18/4/2019, n. 10812; Cass., 21/8/2018, n. 20829; Cass., 20/11/2017, n. 27254; Cass., 29/2/2016, n. 3893; Cass., 3/2/2012, n. 1620; Cass., 21/7/2011, n. 15991), si è precisato che tali sono tutte le conseguenze dannose legate all’evento dannoso non solo da un rapporto di regolarità giuridica (v. già Cass., 11/1/1989, n. 65) ma anche da un rapporto di causalità specifica (v. Cass., 2/12/2021, n. 38076; Cass., 29/9/2015, n. 19213; Cass., 29/8/2011, n. 17685; Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 582), cui è rimasto esposto a fronte (anche) dello specifico antecedente causale, determinato dalla condotta colposa (o dolosa) del debitore/danneggiante (come posto in rilievo anche da autorevole dottrina, che lo indica quale “danno diretto”), quest’ultimo dovendo pertanto risponderne (anche) sul piano risarcitorio (cfr. Cass., 18/4/2019, n. 10812; Cass., 21/8/2018, n. 20829; Cass., 20/11/2017, n. 27254; Cass., 29/2/2016, n. 3893; Cass., 3/2/2012, n. 1620; Cass., 21/7/2011, n. 15991)>>.

Non necessaria una rigorosa omogeneità delle porzioni nella divisione ereditaria

Cass. sez. II, ord. 24/10/2024 n. 27.602, rel. Criscuolo, sull’art. 727 cc:

fatto processuale:

<<La Corte d’Appello ha ritenuto di condividere i due distinti progetti di divisione approvati dal Tribunale, addivenendo ad un’assegnazione dei beni che non prevede la divisione di ognuno degli immobili caduti in successione tra i due gruppi di condividenti, ma ha previsto che le quote in natura fossero formate in parte con beni interamente inclusi nelle stesse, ovvero, come nel caso del fondo R con delle porzioni oggetto di frazionamento non perfettamente corrispondenti al valore della quota ideale, compensando tale differenza con l’assegnazione a favore del condividente che aveva ricevuto una quota materiale del bene inferiore a quella ideale, con l’assegnazione di altri beni tali da compensare la detta differenza>>.

Valutazione giuridica della SC:

<<Trattasi di soluzione che appare in primo luogo supportata dalla giurisprudenza di questa Corte che ha in più occasioni affermato che il principio stabilito dall’art. 727 c.c., in virtù del quale, nello scioglimento della comunione, il giudice deve formare lotti comprensivi di eguali quantità di beni mobili, immobili e crediti, non ha natura assoluta e vincolante, ma costituisce un mero criterio di massima; ne consegue che resta in facoltà del giudice della divisione predisporre i detti lotti anche in maniera diversa, ove ritenga che l’interesse dei condividenti sia meglio soddisfatto attraverso l’attribuzione di un intero immobile, piuttosto che con il suo frazionamento, e che il relativo giudizio è incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato. (Cass. n. 29733 del 12/12/2017).

Inoltre nella divisione non si richiede necessariamente, in sede di formazione delle porzioni, una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo, nell’ambito di ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l’intero ad una quota ed altri, sempre per l’intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria, o comunque del complesso da dividere. Pertanto, nell’ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, il giudice del merito deve accertare se l’anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio (cfr. ex multis Cass. n. 17862 del 27/08/2020)>>.

Il riconoscimento di debito non è negozio giuridico per cui non richiede specifico intento negozial-ricognitivo (actus legitimus?)

Cass. sez. III, ord. 20/08/2024  n. 22.948, rel. Tassone, circa l’asserito ricoscimento della dovutezza del canone locatizio implicito nel suo pagamento:

<<Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il riconoscimento di un debito non esige formule speciali e può essere contenuto in una dichiarazione di volontà diretta consapevolmente all’intento pratico di riconoscere l’esistenza di un diritto, ma può risultare, implicitamente, anche da un atto compiuto dal debitore per una finalità diversa e senza la consapevolezza dell’effetto ricognitivo (Cass., 9097/2018).

L’atto di riconoscimento, infatti, non ha natura negoziale, né carattere recettizio e non deve necessariamente essere compiuto con una specifica intenzione riconoscitiva. Ciò che occorre è che esso rechi, anche implicitamente, la manifestazione della consapevolezza dell’esistenza del debito e riveli i caratteri della volontarietà (Cass., 30/10/2002, n. 15353).

8.1. Orbene, nel caso di specie, la corte di merito ha fatto corretta applicazione di tali principi, dal momento che ha rilevato che la volontarietà del pagamento non era finalizzata a riconoscere l’esistenza e, soprattutto, l’entità dei debiti, ma era, piuttosto, quella di evitare lo sfratto per morosità, tanto che, del resto, nel giudizio di opposizione alla convalida sono state espletate ben due consulenze tecniche d’ufficio per accertare i rapporti di dare ed avere tra le parti.

Inoltre, diversamente da quanto prospettato dalla ricorrente, che sostanzialmente lamenta di essere stata condannata a pagare canoni e spese che aveva già corrisposto (v. p. 39 del ricorso), nella sentenza impugnata non è ravvisabile alcuna contraddizione nella motivazione dell’impugnata sentenza, che, invece, ricostruisce i rapporti di dare ed avere tra le parti e condanna la società conduttrice a pagare “i canoni e gli oneri accessori ancora da onorare” (così p. 11 dell’impugnata sentenza).

8.2. In ultima analisi, dunque, va rimarcato che la corte territoriale ha espresso una valutazione di idoneità del pagamento a seguito dell’intimazione di sfratto come diretta ad evitare la convalida e che tale valutazione è stata giustificata con una motivazione che, a tutto voler concedere, si sarebbe potuto criticare in iure sub specie di c.d. vizio di sussunzione, critica questa che tuttavia il motivo non svolge e che avrebbe, fra l’altro, richiesto l’indicazione, ove dedotti nel giudizio di merito, delle circostanze specifiche del pagamento, in modo da evidenziare il vizio>>.