E’ uso legittimo della cosa comune (art. 1102 cc) chiudere con serratura il ballatoio in comproprietà?

T. chiude con cancello a serratura (pare, non è chiaro) un ballatoio comune e gli altri comproprietario agiscojo in giudizio. Poteva farlo? Risponde Cass. n° 8.177 del 14.03.2022 , rel. Carrato.

Premesse generali sull’art. 1102 cc: <<In via preliminare si osserva come non sia discutibile – alla stregua della univoca giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., tra le più recenti, Cass. n. 7466/2015 e Cass. n. 6458/2019) – il principio generale secondo cui la nozione di pari uso della cosa comune, agli effetti dell’art. 1102 c.c., non va intesa in termini di assoluta identità dell’utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario, in quanto l’identità nel tempo e nello spazio di tale uso comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio, pure laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento dell’oggetto della comunione.

Tuttavia, l’applicazione di tale principio deve essere correlato alle specifiche fattispecie al fine di valutare se, ancorché la fruizione da parte di ciascun comproprietario non debba essere intesa in termini di assoluta parità, colui che intende farne un uso più intenso deve comunque comportarsi in modo che gli altri comproprietari non subiscano un possibile aggravamento dell’utilizzazione precedente, nel senso che l’esercizio di una condotta “più intensa” non debba implicare una modalità di utilizzazione, da parte degli altri, del bene in comproprietà che possa determinare la configurazione di una possibile incomodità che, seppur non intollerabile, non consente una prosecuzione agevole di siffatta utilizzazione.

Pertanto, l’onere probatorio – rilevante ai fini dell’art. 2697 c.c. – circa l’insussistenza di quest’ultima evenienza, al fine di poter rilevare la legittima esplicazione di un’utilizzazione più intensa ma senza impedire agli altri comproprietari di “farne parimenti uso secondo il loro diritto” (con l’adozione, perciò, di accorgimenti che salvaguardino l’esercizio di un normale uso paritario), incombe, qualora venga prospettata tale illegittimità, su chi ritenga di aver posto in essere il suddetto utilizzo più intenso in modo lecito.>>

Quindi, con riferimento al caso di specie: <<pacifica la comproprietà del ballatoio dedotto in controversia ed incontestata l’apposizione del cancelletto lungo il suo percorso da parte della B., spettava a quest’ultima – diversamente da quanto ritenuto dalla Corte bresciana nell’impugnata sentenza – fornire la prova, per contrastare il “petitum” originariamente dedotto e riscontrato dagli attori, di non aver impedito, tramite detta apposizione, agli stessi attori (odierni ricorrenti) di continuare ad utilizzare il ballatoio secondo il loro diritto di comproprietà, permettendone l’ordinaria accessibilità ed il godimento comune senza ostacoli, con la possibilità di un attraversamento senza particolari disagi.

A tale principio dovrà uniformarsi il giudice di rinvio.

Occorre peraltro evidenziare che, per quanto emergente dallo svolgimento della vicenda processuale, la circostanza che il cancelletto rimanesse sempre aperto o fosse privo di strumenti di chiusura era stata addotta tardivamente dalla B., a fronte, peraltro, dell’allegazione contraria, operata dai sigg. A. – M., che l’avevano dedotta fin dall’introduzione del giudizio, per come oltretutto comprovata anche dall’acquisita documentazione fotografica.

In ogni caso, ove anche fosse stato dimostrato che il cancelletto rimaneva ordinariamente aperto, la B. – in presenza della possibilità che la stessa lo potesse chiudere senza darne conto agli altri due comproprietari del terrazzo o, più in generale, gestendone le modalità di utilizzo secondo la sua esclusiva volontà – era tenuta a consentire (con accollo in capo alla stessa dell’assolvimento del relativo onere probatorio in sede processuale) agli A. – M. la continuazione dell’accesso al ballatoio in modo libero da ostacoli, permettendo agli stessi – nell’ottica dell’indispensabile soddisfacimento del dovere di reciproca collaborazione e fisiologica solidarietà tra tutti i comproprietari (cfr., da ultimo, Cass. n. 11464/2021) – di poter anche ricevere eventuali loro ospiti nei limiti della normalità, provvedendo – quantomeno – alla consegna in favore dei medesimi della chiave di apertura del cancelletto per ogni evenienza eventualmente ostativa (in tal senso aveva pronunciato anche la sentenza di questa Corte n. 8394/2000, richiamata nella stessa sentenza di appello, con la quale si esigeva tale consegna per l’esercizio della facoltà di uno dei comproprietari di installare un cancello sul passaggio comune; cfr., altresì, per l’applicazione del corrispondente principio in materia di servitù, Cass. n. 31114/2017 e n. 21928/2019)>>.

Quest’ultimo è il punto difficile: può il comproprietario chiudere con cancello a serraratura , dandone però la chiave ai restanti  comproprietari? La chiusura comporta un onere , dovendo costoro aggiungere la nuova chiave al mazzo di casa , portarsela sempre dietro e usarla ogni volta che vanno e vengono da casa. Ci pare un onere eccessivo, per cui riterrei illeggittimito tale uso (tranne forti ragioni contrarie , ad es. per serie ragioni di sicurezza dell’abitazione).

Contratto di spedalità ed efficacia protettiva per i terzi

Un soggetto affetto da morbo di Parkinson si ricovera in ospedale per un percorso di riabilitaizone motoria ma , dopo tre giorni, scompare nel nulla.

La moglie agisce contro l’ospedale per violazione dell’obbligo di vigilanza e proteizone.  FA valere l’estensione a sè dei doveri contrattuali , sulla base della teoria degli effetti protettivi per il terzo (poi: e.p.) .

La Cassazione con sentenza 11.320 , sez. 3, del 7 aprile 2022, rel. Spaziani, confermando l’appello, rigetta la domanda giudiziale. Dice che eventualmente c’è spazio per danno aquiliano ma non per danno ex contractu: l’estensione protettiva a favore di terzi è ammessa infatti solo nel caso di danno al feto in caso di prestazione di assistenza al parto resa alla gestante e in nessun altro, pena il vanificare il principio della relatività del contratto ex art. 1372 cc.

Dettagliata analisi di cui riporto il passo centrale, §§ 4.3-4.5:

<<4.3. Il principio secondo il quale nell’ambito delle prestazioni sanitarie il perimetro del contratto con efficacia protettiva dei terzi deve essere circoscritto alle relazioni contrattuali intercorse tra la gestante e la struttura sanitaria (o il professionista) che ne segua la gestazione e il parto, già enunciato in più risalenti decisioni di questa Corte (Cass. n. 6914 del 2012 e Cass. n. 5590 del 2015), è stato di recente reiteratamente ribadito, ora sul presupposto che solo in questa fattispecie vi sarebbe identità tra l’interesse dello stipulante e l’interesse del terzo (Cass. n. 19188 del 2020), ora sulla considerazione del carattere “relazionale” della responsabilità contrattuale (in base al quale l’estensione soggettiva dell’efficacia del contratto potrebbe ammettersi solo nei casi limite in cui i terzi siano portatori di un interesse strettamente connesso a quello “regolato già sul piano della programmazione negoziale”: Cass. n. 14258 del 2020), ora, infine, sulla base del dato sistematico desunto dalla disciplina di altre fattispecie di responsabilità civile nelle quali, come in quella sanitaria, si può determinare l’eventualità che dall’inadempimento dell’obbligazione dedotta nel contratto possano derivare, in via riflessa o mediata, pregiudizi in capo a terzi estranei al rapporto contrattuale (Cass. n. 14615 del 2020); tra queste ipotesi, quella più rilevante concerne l’infortunio subito dal lavoratore per inosservanza del dovere di sicurezza da parte del datore di lavoro (art. 2087 c.c.), in relazione alla quale non si dubita che l’azione contrattuale spetti unicamente al lavoratore infortunato, mentre i suoi congiunti, estranei al rapporto di lavoro, ove abbiano riportato iure proprio danni patrimoniali o non patrimoniali in seguito all’infortunio medesimo, sono legittimati ad agire in via extracontrattuale (tra le più recenti, cfr. Cass. n. 2 del 2020).

4.4. All’orientamento in esame, progressivamente consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte, occorre dare in questa sede ulteriore continuità, aggiungendo agli argomenti surricordati ulteriori rilievi, fondati sulla struttura e sui limiti del vincolo obbligatorio.

Sotto il profilo strutturale, deve rilevarsi che la già evidenziata “relazionalità” della responsabilità contrattuale trova fondamento nel carattere relativo degli elementi costitutivi soggettivi del rapporto obbligatorio (la posizione di credito e la posizione di debito) quali posizioni strumentali che danno luogo ad una relazione intersoggettiva dinamica (rapporto giuridico) non propriamente ravvisabile al cospetto delle situazioni finali, proprie dei diritti assoluti. Il carattere strumentale della posizione passiva di debito, correlativa ad una posizione soggettiva attiva avente natura di diritto relativo, conferisce l’attributo della relatività anche agli elementi costitutivi oggettivi del rapporto obbligatorio (l’interesse e la prestazione): la prestazione, pertanto, deve corrispondere all’interesse specifico del creditore (art. 1174 c.c.) e non a quello di terzi, salvo che questi ultimi non siano portatori di un interesse assolutamente sovrapponibile a quello del primo; la circostanza che il contenuto della prestazione sia soggetto a criteri legali (oltre che contrattuali) di determinazione, costituiti in primo luogo dalla buona fede (art. 1175 c.c.) e dalla diligenza (art. 1176 c.c.), non vale a configurare obbligazioni ulteriori aventi ad oggetto prestazioni di salvaguardia dei terzi (secondo la teoria dei cc.dd. “obblighi accessori di protezione” – Schutzpflichten e Nebenspflichten – che costituisce la premessa concettuale, nell’ambito della disciplina generale dell’obbligazione, della teoria del “contratto con effetti protettivi di terzi”) ma solo a conformare l’oggetto dell’obbligazione in funzione della realizzazione dell’interesse concreto dedotto nel contratto. Sussiste, in altre parole, una corrispondenza biunivoca tra l’interesse creditorio (art. 1174 c.c.) e la causa del contratto, intesa quale causa concreta: l’interesse creditorio, per un verso, concorre ad integrare la causa concreta del contratto; per altro verso, è da quest’ultima determinato, quando l’obbligazione ha titolo nel contratto medesimo.

Sotto il profilo dei limiti del vincolo obbligatorio, non va sottaciuto che secondo il diffuso intendimento sociale, recepito dal diritto positivo, esso è improntato a criteri di normalità, i quali, da un lato, sul piano oggettivo, impongono di individuare limiti di ragionevolezza al sacrificio del debitore (esonerandolo, ad es., salvo che l’inadempimento non dipenda da dolo, dal risarcimento del danno imprevedibile: art. 1225 c.c.), mentre, dall’altro lato, sul piano soggettivo, inducono ad escludere, di regola, che la tutela contrattuale possa essere invocata dai soggetti terzi rispetto al contratto che abbiano riportato un pregiudizio in seguito all’inadempimento, ancorché siano legati al creditore da rapporti significativi di parentela o dal rapporto di coniugio.

Deve pertanto ribadirsi che, mentre il paziente, in quanto titolare del rapporto contrattuale di spedalità, è legittimato ad agire per il ristoro dei danni cagionatigli dall’inadempimento della struttura sanitaria con azione contrattuale, al contrario, fatta eccezione per il circoscritto ambito dei rapporti afferenti a prestazioni inerenti alla procreazione, la pretesa risarcitoria vantata dai congiunti per i danni da essi autonomamente subiti, in via mediata o riflessa, in conseguenza del medesimo contegno inadempiente, rilevante nei loro confronti come illecito aquiliano, si colloca nell’ambito della responsabilità extracontrattuale ed è soggetta alla relativa disciplina.

4.5. Per aver fatto corretta applicazione di tale principio, traendone le dovute implicazioni in ordine alla ripartizione dell’onere della prova tra le parti del rapporto controverso, la sentenza impugnata appare, dunque, perfettamente conforme a diritto.

Giuridicamente corretta, infatti, alla luce di tali premesse, si mostra l’affermazione secondo la quale l’attrice avrebbe dovuto fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale della struttura, vale a dire il fatto colposo (consistente nel contegno omissivo conseguente alla violazione di un dovere di sorveglianza giustificato da una minorazione cognitiva del paziente, rimasta indimostrata), il pregiudizio che da questo fatto sarebbe conseguito alla ricorrente e il nesso causale tra il fatto colposo e il danno.

Dinanzi al rilievo che, alla luce della corretta ripartizione dell’onere probatorio nell’ambito di una fattispecie inquadrabile nella responsabilità aquiliana, quello spettante alla ricorrente non era stato affatto assolto, del tutto aspecificamente nel ricorso viene formulata, poi, la censura di mancata applicazione del criterio di vicinanza della prova; questo criterio, infatti, quale mezzo di definizione della regola finale di giudizio di cui all’art. 2697 c.c., trova applicazione nel processo quando una delle parti sia in condizione di avere una più compiuta conoscibilità delle circostanze da provare e una migliore accessibilità ai mezzi per dimostrarne la sussistenza (Cass. n. 7023 del 2020), sicché l’uso di tale canone è bensì consentito quando sia necessario dirimere un’eventuale sovrapposizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, impeditivi o modificativi (Cass. n. 7830 del 2018) ma esso non può essere invocato al fine di sollevare integralmente la parte dall’onere di provare i fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio>>.

Due osservazioni.

1) sarebbe cambiato qualcosa, se fosse andata la moglie ad accompagnarlo e a concordare la prestazione curativa con l’ente, anzichè il paziente da solo (come parrebbe)?

2) per Castronovo, in una pregevole nota alla sentenza (Effetti di protezione per i terzi al contrario, Foro it., 202276, 2067 ss) , sostenitore del concetto di origine tedesca degli e.p. ,  il caso de quo non può rientravi perchè esso riguarda il caso di interessi occasionalmente vicini a quelli del creditore, che siano messi a repentaglio dall’esecuzione della prestazione resa a quest’ultimo (caso di scuola: l’artigiano che, riparando una res del proprietario di casa, ferisca la colf che stia pure ivi lavorando). Invece nel caso de quo gli interessi (del creditore e del terzo) <non sono sullo stesso piano> :  la lesione dell’interesse connesso (quello della moglie) dipende dall’inadempimento dell’obbligo principale. E’ vero che una differenza c’è : nel primo caso (quello di scuola) si può ledere l’interesse connesso ancbe se quello principale viene perfettamente sodddisfatto , mentre nel caso inesame la lesione di quello secondario (del terzo, cioè della moglie) è possibile solo se c’è inadempimento di quello principale.

Mi domando però se la ratio di estensione della protezione al terzo non ricorra anche nel nostro caso: e la risposta potrebbe essere positiva. Il debitore può immaginarsi con facilità l’esistenza di interessi familiari connessi a quello in capo al paziente. Non sfugge però che potrebbe dirsi lo stesso in molti altri casi, il che rischierebbe di vanificare la relatività dell’effaciacia contrattuale. Bisognerebbe allora trovare un elemento limitante: ma non nel caso de quo, ove qualunque debitore di prestazioni mediche/di vigilanza sa che solitamente un  paziente ha dei parenti conviventi.

Usura nella compravendita immobiliare, giustizia contrattuale e nell’impugnazione di lodo arbitrale ex art. 829.3 cpc

App. Milano n. 1978/2022, del 08 giugno 2022, RG 1978/2021, RCS c. Kryalos, giudice Raineri, decide l’impuignazione del noto lodo arbitrale RCS v. Blackrock sugli immobili sede del Corriere.

Alcuni passaggio significativi:

– l’usura non si applica alla compravendita di beni e cioè ad operazioni che non siano finanziarie, § 7 p. 23 ss, nè la sua nuova disciplina ex L. 108 del 1996 fa venir meno l’applicaiblitò della rescissione per lesione, p. 27:

<<8. Le considerazioni sin qui esposte depongono nel senso di escludere la nullità dei contratti intercorsi
fra le parti, vuoi per la ritenuta inapplicabilità del concetto di usura declinato dall’art. 644 c.p., pur nella
attuale formulazione, al caso di specie, vuoi per la inapplicabilità del rimedio della nullità derivata.
Nessuna violazione dell’ordine pubblico può, conclusivamente, rintracciarsi nel Lodo parziale che ha
deciso in conformità.
>>

– circa l’usura reale (rigettata), si v. il passaggio sulla giustizia contrattuale e cioè sulla sindacabilità economica dei contratti da parte di in giudice in applicaizone di un fantomatico principio di proporzionalità nelle prestazioni:

<< Quanto alla iniquità dello scambio, seppure l’esperto chiamato ad esprimersi sul valore di
mercato del compendio immobiliare abbia rilevato un indubbio scostamento fra il (presunto)
valore di mercato ed il prezzo di cessione – non senza avere più e più volte sottolineato
l’intrinseca opinabilità delle sue valutazioni – non può omettersi di evidenziare che, prima di
definire la compravendita con Blackstone, RCS aveva condotto di propria iniziativa, con
l’assistenza di un
advisor finanziario di primario standing (Banca IMI) e sotto il costante
monitoraggio del Collegio sindacale, un’attività di sollecitazione del mercato, rivolgendosi ad
oltre trenta investitori, scelti in ragione della loro rappresentatività di tutte le tipologie di
potenziali acquirenti, nessuno dei quali aveva proposto condizioni economiche migliori. E il
confronto del prezzo pattuito nell’APA con le offerte ricevute da RCS durante il procedimento
competitivo dimostrava, altresì, che tutte le alternative di mercato si assestavano, in modo
totalmente autonomo e genuino, su valori sostanzialmente omogenei.
La difesa di Kryalos non ha omesso di citare, in proposito, le dichiarazioni rese dalla stessa
RCS, le quali depongono inequivocabilmente nel senso del pieno compiacimento del Gruppo
per la conclusione dell’operazione di cessione alle condizioni convenute, ritenute del tutto
soddisfacenti ed in linea con i riferimenti forniti dal perito indipendente, nonché con gli
obiettivi contenuti nel Piano industriale della società
22. >>

– buona fede e correttezza non servono come base per permettere tale controllo del giudice alla luce di un principio di proprizionalità tra le prestazioni, p. 34

– infine il punto più interessante è quello sul cocnetto di <<ordine pubblico>> violato dal lodo, unico motivo impugnatorio se le parti non hanno espressamente previsto la sua impugnabilità per vioolazione di legge (art. 829.c cpc).

Per la sua importanza , lo riporto tutto:

<< L’importanza della individuazione del significato della nozione di ordine pubblico nel giudizio di
impugnazione risulta, peraltro, ancor più cruciale ove si tenga conto del fatto che sono state ritenute
compromettibili anche le controversie aventi ad oggetto rapporti giuridici regolati da norme imperative.
Questa Corte ritiene di aderire alla tesi, peraltro maggioritaria in dottrina ed in giurisprudenza, della
non coincidenza fra “norme imperative” e “ordine pubblico”. Non solo perché, se vi fosse coincidenza,
l’art. 829 co. 4 c.p.c. sarebbe privo di portata precettiva in quanto l’annullabilità del Lodo per
violazione dell’ordine pubblico garantirebbe già quella censura, ma soprattutto perché, come già
in
limine
osservato, in ambito civilistico, le norme imperative, benché inderogabili perché poste a presidio
di interessi generali, non sempre implicano, ove violate, la nullità del contratto; la quale può essere
esclusa dalla legge, allorché essa preveda diversi esiti con salvezza degli effetti negoziali.
E sarebbe, all’evidenza, contraddittorio sostenere che la violazione delle medesime norme imperative
non determini la nullità di un contratto ed implichi, al contrario, la nullità di un Lodo (sul presupposto
che tutte le norme imperative apparterrebbero all’ordine pubblico).
Per contro, non è neppure corretto affermare che un Lodo che violi norme imperative sia, per ciò solo,
contrario all’ordine pubblico. Affinché si configuri tale contrasto, occorre avere riguardo al “contenuto
concreto” della decisione, nel senso che il Lodo, frutto di una errata applicazione della norma
inderogabile, sarà contrario all’ordine pubblico solo nel caso in cui produca effetti che l’ordinamento
non può recepire.
A titolo di esempio, sarà certamente contrario all’ordine pubblico un Lodo che accerti, crei o modifichi
rapporti giuridici che, se regolati da un contratto, sarebbero illeciti (si pensi al Lodo che accerti il diritto
di schiavitù; la validità di atti dispositivi di beni sottratti al commercio; che condanni a prestazioni
vietate, quali la vendita di organi).
Ma il complesso delle norme imperative – la cui violazione può, ai sensi dell’art. 1418 comma 1 c.c.,
comportare la nullità di un contratto – non ricade necessariamente nella nozione di “ordine pubblico”
nell’accezione declinata dall’art. 829, comma 3, c.p.c.
Del resto è lo stesso legislatore ad aver fornito nella Legge Delega n. 80/2005 – cui è seguita la riforma
dell’arbitrato – una chiave di lettura inequivocabile, subordinando l’impugnabilità del lodo per
violazione di regole di diritto all’esplicita previsione delle parti, salvo diversa previsione di legge e
salvo il contrasto con i principi fondamentali dell’ordine giuridico“.
Orbene, come condivisibilmente argomentato dalla difesa di Kryalos, RCS compie l’errore di
considerare qualunque norma di natura inderogabile suscettibile ad ergersi a norma di ordine pubblico
rilevante ai sensi dell’art. 829, comma 3, c.p.c., laddove sia accompagnata da un richiamo alla tutela di
interessi generali. Il che la spinge a teorizzare una sorta di
nullità riflessa delle pronunce arbitrali quale
conseguenza dalla (pretesa) nullità dell’operazione di compravendita degli immobili per violazione di
norma imperativa o illiceità della causa. Ma l’ordine pubblico
ex art. 829, comma 3, c.p.c. non può
essere confuso con l’interesse collettivo o pubblico, dovendosi esso ricondurre ad un insieme selettivo e
circoscritto di principi essenziali – assai più ristretto di quello assegnato in altri ambiti dell’ordinamento
– cosicché non può ritenersi integrato da mere violazioni di norme imperative, censurabili solo entro i
limiti sanciti dal primo periodo della disposizione (vale a dire per espressa pattuizione delle parti o
previsione di legge).
In altri termini, i principi di ordine pubblico vanno individuati nei principi fondamentali della nostra
Costituzione, o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono
all’esigenza, di carattere universale, di tutelare quei diritti fondamentali dell’uomo la cui lesione si
traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti l’intero assetto ordinamentale
25. Allorché, invece, si
controverta di norme che, ancorché́ non derogabili dalle parti, sono poste a presidio di interessi
economici disponibili – o dettate a tutela di interessi generali o pubblici che governano, purtuttavia,
rapporti tra privati – la loro eventuale violazione non può ergersi a violazione dell’ordine pubblico nel
senso inteso dall’art. 829, comma 3, c.p.c
>>

Cui va aggiunto il (leggermente criptico) passaggio seguente: << Non solo. Proprio in ragione della impossibilità di dedurre errores in iudicando nelle impugnative post
Riforma, deve coerentemente desumersi che solo il “contenuto concreto” del Lodo possa determinare la
contrarietà dello stesso all’ordine pubblico, non già la violazione dei principi di diritto applicati dagli
arbitri al rapporto controverso, ove questa non si sia trasfusa in un dispositivo
ex se lesivo di tale
superiore principio. Poiché, diversamente opinando, si assisterebbe ad una surrettizia introduzione di
errores in iudicando, in palese contrasto con la disciplina di legge >> (forse spiegabile con l’immediatamene seguente prosieguo della motivaizone)

La piattaforma social perde il safe harbour ex § 230 CDA per negligent design (prodotto difettoso) se permette l’uso anonimo

Il distretto dell’Oregon , Portland division, con sentenza 13 luglio 2022, Case 3:21-cv-01674-MO , A.M. v. Omegle.com llc+1, pone un interessante insegnamento.

La piattaforma social perde il safe harbour se il danno ad un utente è causato non solo dal fatto di altro utente , ma anche dal fatto proprio omissivo (anzi, forse è commissivo),  consistente nel design difettoso della propria architettura informatica . Difetto consistente ad es. nel permettere l’anonimato e il non dichiarere/accertare l’età (nel caso, aveva abbinato casualmente maggiorennne e minorenne, risultata poi adescata dal primo).

Astutamente (o acutamente) per bypassare la barriera del § 230 CDA l’avvocato dell’attore aveva azionato la responsabilità del produttore (social) per prodotto difettoso (negligent design della piattaforma).

Quindi non può dirsi sia stato azionata responsabilità per fatto solo del terzo utente.

<< Here, Plaintiff’s complaint adequately pleads a product liability lawsuit as to claims one
through four.
2 Omegle could have satisfied its alleged obligation to Plaintiff by designing its
product differently—for example, by designing a product so that it did not match minors and
adults. Plaintiff is not claiming that Omegle needed to review, edit, or withdraw any third-party
content to meet this obligation. As I will discuss in more detail below, the content sent between
Plaintiff and Fordyce does not negate this finding or require that I find Omegle act as a publisher.
The Ninth Circuit held in
Lemmon that a defendant “allow[ing] its users to transmit usergenerated content to one another does not detract from the fact that [a plaintiff] seek[s] to hold
[the defendant] liable for its role in violating its distinct duty to design a reasonably safe
product.” 995 F.3d at 1092. “The duty to design a reasonably safe product is fully independent of
[a defendant’s] role in monitoring or publishing third party content.”
Id. In Lemmon it was
immaterial that one of the decedents had sent a SnapChat with the speed filter on it. Instead,
what mattered is that the claim treated defendant as a product manufacturer by accusing it of
negligently designing a product (SnapChat) with a defect (the interplay between the speed filter
and the reward system).
In this case, it similarly does not matter that there were ultimately chats, videos, or
pictures sent from A.M. to Fordyce. As I stated at oral argument, it is clear that content was
created; however, claims one through four do not implicate the publication of content. Tr. [ECF
32] at 10:6–11:8. What matters for purposes of those claims is that the warnings or design of the
product at issue led to the interaction between an eleven-year-old girl and a sexual predator in his
late thirties
>>

I passi di un protocollo tecnologico di comunicazione, necessitati in relazione all’obiettivo, non sono proteggibili col diritto di autore

la corte di appello del 3 cirCuito riforma una sentenza di primo grado che aveva accolto nua domanda per presunta illecita riproduizione di un codice di trasmissione tecnologica..

Si tratta di PYROTECHNICS MANAGEMENT, INC. v. *XFX PYROTECHNICS LLC; FIRETEK, 29.06,.2022, No. 21-1695.

Si trattava di tecnologia che regolava l’uso di fuochi di artificio e precisamente:

A Pennsylvania company, Pyrotechnics manufactures
and sells hardware and software that control fireworks displays
under the “FireOne” brand. fireTEK App. 71–72. The FireOne
system includes two main devices: a control panel and a field
module. The control panel accepts user input, creates digital
messages, and converts the digital messages to analog signals
that it sends to a field module over two wires. On receipt of the
analog signal, the field module decodes the message and
performs the assigned task—for example, the message may
instruct the field module to ignite a particular firework.
Sometimes the field module sends a response message to the
control panel. Since around 1995, Pyrotechnics’s control
panels and field modules have used a proprietary protocol to
communicate with each other. Pyrotechnics developed the
protocol to enable the FireOne system to precisely—and
safely—control complex fireworks displays, which can
involve tens or hundreds of field modules.

Il protocollo tecnologico per far comunicare il control panel e il field module (non è chiaro se fosse software in senso tecnico, parrebbe di no)  era stato copiato tramite reverse engineering. Ma il protocollo stesso, secondo la corte di appello, era stato scritto solo in relazione al purpose o function (dialogo tra le due componenti della macchina) e cioè senza margini di libertà espressiva.

Passo centrale:

A work’s idea, we said, is its
purpose or function.” Id. “[E]verything that is not necessary
to that purpose or function [is] part of the expression of the
idea. Where there are various means of achieving the desired
purpose, then the particular means chosen is not necessary to
the purpose; hence there is [protectable] expression, not idea.”
Id. (emphasis omitted) (citations omitted). We observed in
Whelan that, though perhaps “difficult to understand in the
abstract,” the rule becomes clearer in its application.
Id. at 1248
n.28. That is true here.
The District Court identified the “purpose or function”
of the protocol as “to communicate between the FireOne
control panel and . . . field module.”
Pyrotechnics Mgmt., 2021
WL 925812, at *9. But the Court also described the protocol’s
“idea” generically as “controlling pyrotechnics displays.”
Id.
at *3–4, *10. The District Court’s disparate designations
conflict with
Whelan: “the purpose or function of a utilitarian
work [
is] the work’s idea.” 797 F.2d at 1236 (emphasis omitted
in part).
The District Court correctly identified the purpose and
function of the protocol. While the purpose of the
FireOne
system
—including the control panel and the field module,
together—is to control fireworks displays, the
protocol enables
Pyrotechnics’s control panel and field module to communicate
with each other. This purpose is underscored by Pyrotechnics’s
repeated references to the “
communication protocol” and the
communication code.” See, e.g., fireTEK App. 64–65
(statements of Pyrotechnics’s counsel), 73–75 (statements of
Pyrotechnics’s President) (emphasis added). Under
Whelan,
this communicative purpose is also the protocol’s idea.

E’ allora ovvio che in tale contesto fattuale una protezione non era concedibile, pena il cozzare con il § 102.B del tit. 17 US Code per cui <<In no case does copyright protection for an original work of authorship extend to any idea, procedure, process, system, method of operation, concept, principle, or discovery, regardless of the form in which it is described, explained, illustrated, or embodied in such work>>

Da noi non c’è regola generale così esplicita , ma l’esito sarebbe stato uguale.

Si  v. però il cenno nella disciplina del software: << Restano esclusi dalla tutela accordata dalla presente legge le idee e i principi che stanno alla base di qualsiasi elemento di un programma, compresi quelli alla base delle sue interfacce. >>, ART. 2.8 L. AUT.; e l’art. 64 ter.3)

 

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Copyright, fair use, diritto di parola e diritto vs. la piattaforma di conoscere il soggetto che diffonde anonimamente post satirici

Chi carica post vagamente satirici con fotografie ritraenti un private-equity billionaire in comapgian di ragazze, compie delle stesse un fair use, quindi non rientrante nel copyright sulle foto stesse.

Ne segue che il diritto di far cadere l’anonimato non gli spetta,   perchè <<has not made out a prima facie case of copyright infringement>>, secondo l’interprteazione del § 512.h DMCA “Subpoena To Identify Infringer”.

E’ del resto chiaro che i sei tweet satirici ACCOMPAFGNATORI DELLE FOto,  erano espressione del diritto di parola/critica: << The six tweets flagged by Bayside are best interpreted as vaguely satirical commentary criticizing the opulent lifestyle of wealthy investors generally (and Brian Sheth, specifically). For example, one tweet reads: “Good morning from Mrs. Brian Sheth #2. Life is good when you’re a 44-year old private equity billionaire.” The tweet accuses Brian Sheth of having a mistress and links his infidelity to the broader class of “private equity billionaires,” suggesting that wealth (or working in private equity) corrupts. Unmasking MoneyBags thus risks exposing him to “economic or official retaliation” by Sheth or his associates. McIntyre v. Ohio Elections Commission, 514 U.S. 334, 341–42 (1995). And MoneyBags’s interest in anonymity is heightened further by his other tweets, which discuss issues of political importance such as sexual harassment, tax enforcement, and corporate regulations>> (Brian Seth è il milionario e Bayside il soggetto reclamante diritto di autore sulle foto, forse ricollegabile allo stesso Seth).

Così il distretto nord della California 21 giugno 2022, Case 4:20-mc-80214-VC , IN RE DMCA § 512(H) SUBPOENA TO TWITTER, INC., di cui dà notizia www.eef.org in un’inteessante fattispecie all’intersezione tra copyright , privacy e diritto di parola.

Non esiste un diritto all’aborto protetto dalla Costituzione USA: la Corte Suprema rivede la propria posizione espressa in Roe v. Wade del 1973

Il 24 giugno 2022 , n. 19-1392, Dobbs e altri v. JACKSON WOMEN’S HEALTH ORGANIZATION e altri, la corte suprema USA  ha rovesciato il principio di Roe v. Wade del 1973 , afferma chge non esiste un doiritto costitizionalment prtoetto all’aborto er quinbdi son possibili legislaizoni statali che lo limitino/escludono.

Il testo anche qui .

Sentenza ponderosa di 213 pagg.

Dissenzienti BREYER, SOTOMAYOR e KAGAN .

E’ al solito molto chiaro il Syllabus iniziale.

La Cassazione sulla riserva da (ri-)valutazione delle partecipazoni col metodo del patrimonio netto (art. 2426 n. 4/3 cc)

Nel caso di cambio di metodo di stima (da costo di acquisto a patrimonio  netto pro quota)  delle partecipazooni in società collegate o controllate, l’art. 2426 n. 4.3 impone di costituire una riserva non distribuibile.

Si pone allora il problema se questa possa essere usata a copertura perdite e anzi se costuisca componente reddituale per compensare perdite di esercizio e permettere la distribuzione di dividendi (così la censura di alcuni soci alla società).

L’interssante argomento (son pochissime le decisioni della SC in tema di valutazioni di bilancio) è esplorato da Cass. sez. I 12.05.2022 n. 15.087, rel. Nazzicone.

La SC si occupa della prima parte del problemA : <<Entrambi i ricorsi, pur articolando vari motivi, propongono la seguente questione: se ed a quali condizioni sia legittimo l’utilizzo a copertura delle perdite di esercizio – in tal modo rendendo lecita la ripartizione di utili ai soci, cui invece, ai sensi dell’art. 2433 c.c., comma 3, non potrebbe farsi luogo in presenza di perdite “fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente” – della riserva non distribuibile costituita, ai sensi dell’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, mediante la valutazione alla stregua del criterio del patrimonio netto, in luogo che in base al criterio del costo di acquisto prescritto dal n. 1 della medesima disposizione, delle partecipazioni in società controllate, la quale abbia fatto emergere una plusvalenza iscritta nella detta riserva.>>, § 4.

La scelta è discrezionale per il CdA: <<La valutazione secondo il metodo del patrimonio netto, invece, lascia emergere la c.d. sostanza economica del bene, come può essere più proficuo in talune evenienze, onde la riserva viene iscritta nel bilancio dall’organo amministrativo che opta per tale criterio. Ma torna la logica prudenziale, laddove la legge impone la costituzione di una “riserva non distribuibile” ai soci: in quanto potrebbe, allora, operarsi una distribuzione di utili solo sperati e, di fatto, la restituzione di patrimonio ai soci e la lesione dell’integrità del capitale sociale.

La regola è dunque dettata per evitare il rischio di indebite fuoriuscite di ricchezza dal patrimonio della società, ed, in particolare, la distribuzione di ricchezza tra i soci, impoverendo il patrimonio dell’ente e ponendo così a repentaglio le ragioni dei creditori, i quali invece hanno diritto ad essere soddisfatti con priorità rispetto ai soci (così Cass. 23 marzo 2004, n. 5740).

Al riguardo, questa Corte ha già avuto modo di rilevare l’esistenza di un potere discrezionale di rivalutazione da parte degli amministratori, ma sempre secondo i criteri di legge, statuendo che non è in sé illecita, in tema di azione di responsabilità contro gli amministratori, la mancata rivalutazione in bilancio delle partecipazioni in imprese controllate o collegate, pure consentita dall’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, perché si tratta di una scelta discrezionale rimessa all’organo gestorio, che ha la facoltà, e non l’obbligo, di valutare le menzionate immobilizzazioni finanziarie con il metodo del patrimonio netto, seguendo le modalità indicate dalla norma, invece di iscriverle al costo di acquisto (Cass. 28 maggio 2020, n. 10096).>> § 4.2.

L’imputazione delle riserve a copertura delle perdite : <<Ma se il capitale è tuttora elemento preservato dal legislatore, in vista delle funzioni che gli competono, allora va confermato il principio secondo cui esso può essere eliso dalle perdite solo dopo l’assorbimento delle riserve, intaccate però dalle perdite sulla base di un ordine successivo, il quale comporta l’imputazione delle medesime secondo una progressione rigida: dalla riserva meno vincolata e più disponibile alla riserva più vincolata e, quindi, meno disponibile. (….) Si tratta di principio posto a tutela di un interesse più generale, che trascende quello del singolo socio, essendo dettato, in particolare, a protezione dell’affidamento che i terzi abbiano fatto sulla consistenza del capitale sociale, che, perciò, non può essere intaccato prima che siano state esaurite le altre voci del patrimonio stesso.

Deve, dunque, confermarsi il principio, secondo cui le riserve appostate al passivo dello stato patrimoniale di una società di capitali possono essere imputate a riduzione delle perdite (salvo diversa specifica previsione normativa) solo in un ordine di progressiva minore disponibilità, da ultimo residuando, in tal caso secondo le maggioranze dell’assemblea straordinaria, l’operazione di riduzione del capitale sociale.>>

 – La riserva non distribuibile ex art. 2426 c.c., comma 1, n. 4.: << … Quella in esame è dunque, giocoforza, una riserva che deve essere intaccata – per il principio di imputazione delle riserve dalla meno vincolata alla più vincolata – solo dopo che altre riserve prive del vincolo di non distribuibilità siano state già erose dalle perdite.

Nell’ambito delle poste del patrimonio netto, pertanto, se si può aderire all’opinione secondo cui la riserva da plusvalenza del valore delle controllate è utilizzabile a copertura delle perdite, tuttavia proprio per evitare l’effetto indiretto di derogare di fatto al regime della indistribuibilità è necessario che, per la regola della graduazione delle voci iscritte al patrimonio netto, difettino in bilancio poste del netto più liberamente disponibili. Onde essa potrà essere utilizzata per ridurre o eliminare le perdite soltanto dopo ogni altra riserva distribuibile iscritta in bilancio, ma prima del capitale; in mancanza, si verificherebbe la “liberazione” della riserva dal suo status di maggiore tutela, prima che le altre riserve siano state utilizzate a tal fine, in dispregio della ratio della disposizione.  …. In sostanza, in tal caso le riserve derivanti dal metodo del patrimonio netto o da quello del fair value sono utilizzabili solo dopo le riserve disponibili e la riserva legale, in quanto riserve da utili realizzati, anteposte a quelle da utili non realizzati. Pertanto, il principio prudenziale ha consigliato di prevedere sì la facoltà di utilizzare, per la copertura delle perdite di esercizio, le riserve indisponibili derivanti da dette plusvalenze: ma pur sempre dopo l’imputazione a riduzione delle perdite di ogni altra riserva in bilancio, ivi compresa la riserva legale>>, § 4.6.

Si afferma (§ 2.1) che il principio contabile nazionale n. 21 dell’OCI (valutazione delle parteipazioni) è fonte normativa: non viene però chiarito tramite quale atto normativo.

Non c’è responsabilità di Uber per gli assalti a passeggeri compiuti da falsi Uber drivers

Così la Corte di appello californiana, 2 app. dist.-division one, 01 giungo 2022, B310131 (Los Angeles County Super. Ct. No. 19STCV11874).

Questione molto interessante, anche a livello teorico. Il punto è se U. doveva una protezione speciale alle attrici (vittime di adescamenti e aggressione da parte di falsi guidatori U.) ad es. fornendo accurate informazioni sull’esistenza di tali rischi nonchè predisponendo soluzioni (informatiche o altro)  per evitarli.

La domanda giudiziale:  << Through the SAC, the Jane Does seek to hold Uber liable for failing to warn them about or implement other measures to protect them against rapists employing the fake Uber scheme in the portions of West Hollywood and Los Angeles where the Uber entities knew rapists had repeatedly implemented the scheme. The SAC alleges the Uber entities “have not taken . . . any affirmative precautions to warn Uber users in” these or any other areas “of the continuous fake Uber sexual assault scheme” (capitalization omitted), and have not implemented additional safety features to help Uber app users assure they are entering the car of their authorized Uber driver>>, p. 8.

La regola nel diritto usa: <<The general rule that one has no duty, absent a special relationship, to protect others against harm at the hands of third parties is rooted in the idea that, “[g]enerally, the ‘person who has not created a peril is not liable in tort merely for failure to take affirmative action to assist or protect another’ from that peril.” (Brown, supra, 11 Cal.5th at p. 214, italics added, quoting Williams v. State of California (1983) 34 Cal.3d 18, 23.) A necessary corollary to this is that when a defendant has affirmatively “created a peril” that foreseeably leads to the plaintiff’s harm (Williams, supra, at p. 23), the defendant can, even absent a special  elationship, be held liable for failing to also protect the plaintiff from that peril. This scenario does not represent a true exception to the general rule that there is no duty to protect. Rather, it involves more than a mere failure to protect (nonfeasance), and instead involves both misfeasance— the defendant has “ma[de] the plaintiff’s position worse, i.e., defendant has created a risk”—and the nonfeasance of failing to protect against that risk once created. (Weirum v. RKP General, Inc. (1975) 15 Cal.3d 40, 49 (Weirum).)>>, p. 17

Di conseguenza : <<The fake Uber scheme may be a foreseeable result of the Uber business model, and the Jane Does’ assailants may not have been able to as easily commit their crimes against the Jane Does, were it not for the Uber app and the Uber business model. But these connections cannot establish that the harm the
Jane Does suffered is a “necessary component” of the Uber entities’ actions. (
Sakiyama, supra, 110 Cal.App.4th at p. 408.) “The violence that harmed [the Jane Does]”—abduction and rape—“[is] not ‘a necessary component’ of” the Uber business model. (See Melton, supra, 183 Cal.App.4th at p. 535.) Nor does such harm become a necessary component of the Uber business model because the Uber entities marketed the Uber app as safe to use, refused to cooperate with sexual assault investigations, or concealed sexual assaults related to the use of the app. Even accepting such allegations as true, the Uber entities still are not alleged to have “[taken] . . . action to stimulate the criminal conduct” (ibid.), as was the case in Weirum, where defendants encouraged plaintiffs to drive as quickly as possible to the designated location. (See Weirum, supra, 15 Cal.3d at p. 48.) To the contrary, like the defendants in Sakiyama, the Uber entities made efforts to prevent the type of conduct that harmed the plaintiffs—namely, they included matching system features in the Uber app that, if utilized, can
thwart efforts like the fake Uber scheme. The conduct based on which the Jane Does seek to impose liability thus does not constitute misfeasance that can give rise to a duty to protect>>, P. 22 .

E se fosse stata portata in corte da noi? Può dirsi che che U. abbia il dovere ex art. 2043 (certo non contrattuale) di avvisare l’utenza che ci son falsi autisti e di implementare meccanismi di autenticazione o altro, per non incapparvi? Una risposta positiva  pare tutt’altro che impossibile. Non parrebbe però utile la disciplina della responsabilità precontrattuale , dato che non c’è stato alcun contatto tra le vittime e U.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Risarcimento del danno, cagionato dalla banca all’investitore per omesso avviso di aumento del rischio, e restituzione dei titoli

Importante insegnamento da Cass. sez. I , 5 maggio 2022, rel. Nazzicone sull’oggetto, anche se  del tutto in linea con le regole comuni sul risarcimento del danno.

Un investitore aveva chiesto i danni alla banca per non essere stato avvertito del peggioramento del rischio portato da un investimento obbligazionario, avvertimento cui la banca si era contrattualmente impegnata in base all’accordo c.d. <Patti Chiari>.

La banca tra le sue difese propone, per il caso di soccombenza, la domanda di restituzione dei titolo de quibus

La corte di appello respinge detta domanda restitutoria ma la Cass. la accoglie. E per la semplice ragione che l’investitore, avendo già ottenuto compensazione in toto del danno, non può trattenersi anche i titoli, se potrebbero in futuro avere qualche valore.  Ciò infatti determinebbe una ultra compensaizone e cioè un suo arricchimento, inammissibile in base all’art. 1223 cc

<<Se, invero, la restituzione costituisce applicazione del principio del ripristino dello status quo ante conseguente ad una pronuncia caducatoria del contratto, come indica l’art. 1422 c.c., in tema di nullità, il quale espressamente richiama la disciplina dell’indebito (salvi gli adattamenti che possano ritenersi necessari nell’ambito di una restituzione conseguita a caducazione del contratto), non è men vero che i principi del risarcimento del danno – i quali richiedono che esso copra l’intero pregiudizio sofferto e non produca, invece, a sua volta un indebito arricchimento del danneggiato (e’ appena il caso di rilevare come qui sia del tutto estraneo il tema dei c.d. danni punitivi) – implicano la necessità, in caso di condanna dell’intermediario al risarcimento del danno patito dall’investitore, commisurato all’integrale perdita di valore dei titoli ad un dato momento (e, quindi, con rimborso della esatta somma investita, detratto solo quanto in precedenza perduto per cause indipendenti dall’inadempimento dell’intermediario) di accogliere nel contempo la domanda restitutoria dei titoli medesimi, perlomeno tutte le volte che il loro residuo valore sia stato considerato pari a zero, ma non vi sia la prova che tale rimanga in via definitiva (ad esempio, per essersi ormai il cliente definitivamente privato dei titoli senza corrispettivo, o per annullamento dei medesimi, o altre evenienze) …

La restituzione dei titoli ha così lo scopo, sotto tale profilo, di commisurare il risarcimento all’effettivo danno patito.

A completamento di tali principi, occorre ora pure considerare, sul piano della esatta liquidazione del danno, come dovuta la restituzione dei titoli, pur al momento della decisione reputati privi di valore residuo e come tali non scomputati dal quantum liquidato: ciò, almeno tutte le volte in cui non sia stato, da parte del giudice del merito, altresì accertato non solo che quei titoli non avessero valore al momento della decisione, ma anche che essi siano insuscettibili di riacquistarlo in futuro in favore del cliente, ad esempio perché annullati, ceduti definitivamente o per altra ragione.

Onde occorre considerare, nella specifica situazione in esame, che il giudice del merito ha concluso nel senso che qualora la banca, in ipotesi controfattuale, avesse informato il cliente, in luogo che restare inerte, tempestivamente permettendogli di conoscere i rischi sopravvenuti – e, dunque, se la banca avesse adempiuto alla propria obbligazione informativa – il cliente avrebbe venduto i titoli, così incassando, secondo la ricostruzione sottesa alla sentenza impugnata, proprio la somma di Euro 79,00 a titolo obbligazionario, ma ovviamente privandosi, nel contempo, della titolarità dei titoli, in tale ipotetica operazione definitivamente alienati. Ed ha liquidato il danno in conformità.

Donde la regola del risarcimento integrale e non superiore del danno implica che, del pari, nella situazione patrimoniale del cliente i titoli non permangano, in quanto egli, bensì, incassi dalla controparte inadempiente l’equivalente dell’intero prezzo, ma, nel contempo, restituisca i titoli medesimi.

L’accertato valore nullo dei titoli ad una certa data, che abbia indotto la sentenza alla condanna al risarcimento pari all’integrale pagamento del prezzo ipoteticamente conseguibile a tale momento, in punto di fatto attiene unicamente il “valore zero” del titolo alla data della liquidazione, ma non in futuro, in quanto la illiquidità attuale di un prodotto finanziario non vuol dire mancanza di valore anche in epoca successiva. Invero, nonostante la perdita di valore al momento della decisione per il blocco dei pagamenti, i titoli possono, secondo l’id quod plerumque accidit, continuare a costituire oggetto di scambio sul mercato, nella prospettiva di un futuro rimborso, sia pure parziale, del relativo importo, posto che il default potrebbe avere comportato non già l’estinzione del debito, ma soltanto una sospensione delle restituzioni…

La soluzione qui accolta ha, quindi, anche il fine dell’economia processuale, prevenendo future liti.

6.3. – Nell’ambito di una visuale sistematica, può dirsi altresì che la condanna al risarcimento del danno, pari all’intero valore dei titoli in favore dell’investitore al momento del mancato disinvestimento, contenga in sé l’accertamento implicito del sopravvenuto venir meno della causa dell’attribuzione del pagamento di quel valore, e, dunque, anche del diritto a mantenere i titoli nel proprio patrimonio.

In simili casi, la tutela ripristinatoria realizzata a favore del cliente si avvicina sensibilmente ad una tutela “reale”. Se funzionalmente la restituzione del valore investito serve indubbiamente a rimuovere un danno provocato, ciò si realizza con una tecnica che è in fatto ripristinatoria.

Se è vero che permane la distinzione concettuale tra restituzione e risarcimento, in casi come quello all’esame il risultato finale tende a sovrapporsi, in quanto l’obbligazione risarcitoria dovuta della parte inadempiente coincide con la restituzione (di una parte) della somma investita (cfr. spunti in Cass. 11 marzo 2020, n. 7016). La causa dell’attribuzione dei titoli è nel contratto di investimento finanziario, attuato con lo specifico ordine; restituita, però, la somma pari al valore dei titoli che è andato perduto, del pari viene meno la giusta causa di attribuzione della res.>>

Principio di diritto:

In tema di intermediazione finanziaria, allorché sia pronunciata la condanna dell’intermediario al risarcimento del danno patito dall’investitore, in ragione dell’inadempimento ai propri obblighi, quantificato sull’assunto della perdita di integrale valore dei titoli al momento della decisione, va del pari disposta la restituzione dei titoli medesimi, quale espressione del medesimo principio di cui all’art. 1223 c.c., del risarcimento effettivamente corrispondente al danno, ogni qualvolta il loro residuo valore venga reputato, al momento della decisione, pari a zero, ma non risulti altresì in giudizio l’impossibilità di un successivo incremento del valore stesso, per essere stati i titoli annullati, definitivamente ceduti o per qualsiasi altra concreta evenienza“.

Resta oscuro, però: i) come possa dirsi venuto meno (risolto) il rapporto contrattuale (solo così infatti può ordinarsi la restituzione dei titoli), e ii) a chi incomba probatoriamente l’onere di provare che il titolo non avrà più valore.

Sub i) , si potrebbe ravvisare perdita di interesse reciproca sull’esecuzione del contratto inziale e dunque di risoluzione tacitamente accettata da entrambe le aprti (rectius: proposta tacitamente tramtie la domanda giudiziale dall’investitore e tacitamente accettata dalla banca tramite le difese svolte).

Sub ii), spetterà alla banca convenuta.