I passi di un protocollo tecnologico di comunicazione, necessitati in relazione all’obiettivo, non sono proteggibili col diritto di autore

la corte di appello del 3 cirCuito riforma una sentenza di primo grado che aveva accolto nua domanda per presunta illecita riproduizione di un codice di trasmissione tecnologica..

Si tratta di PYROTECHNICS MANAGEMENT, INC. v. *XFX PYROTECHNICS LLC; FIRETEK, 29.06,.2022, No. 21-1695.

Si trattava di tecnologia che regolava l’uso di fuochi di artificio e precisamente:

A Pennsylvania company, Pyrotechnics manufactures
and sells hardware and software that control fireworks displays
under the “FireOne” brand. fireTEK App. 71–72. The FireOne
system includes two main devices: a control panel and a field
module. The control panel accepts user input, creates digital
messages, and converts the digital messages to analog signals
that it sends to a field module over two wires. On receipt of the
analog signal, the field module decodes the message and
performs the assigned task—for example, the message may
instruct the field module to ignite a particular firework.
Sometimes the field module sends a response message to the
control panel. Since around 1995, Pyrotechnics’s control
panels and field modules have used a proprietary protocol to
communicate with each other. Pyrotechnics developed the
protocol to enable the FireOne system to precisely—and
safely—control complex fireworks displays, which can
involve tens or hundreds of field modules.

Il protocollo tecnologico per far comunicare il control panel e il field module (non è chiaro se fosse software in senso tecnico, parrebbe di no)  era stato copiato tramite reverse engineering. Ma il protocollo stesso, secondo la corte di appello, era stato scritto solo in relazione al purpose o function (dialogo tra le due componenti della macchina) e cioè senza margini di libertà espressiva.

Passo centrale:

A work’s idea, we said, is its
purpose or function.” Id. “[E]verything that is not necessary
to that purpose or function [is] part of the expression of the
idea. Where there are various means of achieving the desired
purpose, then the particular means chosen is not necessary to
the purpose; hence there is [protectable] expression, not idea.”
Id. (emphasis omitted) (citations omitted). We observed in
Whelan that, though perhaps “difficult to understand in the
abstract,” the rule becomes clearer in its application.
Id. at 1248
n.28. That is true here.
The District Court identified the “purpose or function”
of the protocol as “to communicate between the FireOne
control panel and . . . field module.”
Pyrotechnics Mgmt., 2021
WL 925812, at *9. But the Court also described the protocol’s
“idea” generically as “controlling pyrotechnics displays.”
Id.
at *3–4, *10. The District Court’s disparate designations
conflict with
Whelan: “the purpose or function of a utilitarian
work [
is] the work’s idea.” 797 F.2d at 1236 (emphasis omitted
in part).
The District Court correctly identified the purpose and
function of the protocol. While the purpose of the
FireOne
system
—including the control panel and the field module,
together—is to control fireworks displays, the
protocol enables
Pyrotechnics’s control panel and field module to communicate
with each other. This purpose is underscored by Pyrotechnics’s
repeated references to the “
communication protocol” and the
communication code.” See, e.g., fireTEK App. 64–65
(statements of Pyrotechnics’s counsel), 73–75 (statements of
Pyrotechnics’s President) (emphasis added). Under
Whelan,
this communicative purpose is also the protocol’s idea.

E’ allora ovvio che in tale contesto fattuale una protezione non era concedibile, pena il cozzare con il § 102.B del tit. 17 US Code per cui <<In no case does copyright protection for an original work of authorship extend to any idea, procedure, process, system, method of operation, concept, principle, or discovery, regardless of the form in which it is described, explained, illustrated, or embodied in such work>>

Da noi non c’è regola generale così esplicita , ma l’esito sarebbe stato uguale.

Si  v. però il cenno nella disciplina del software: << Restano esclusi dalla tutela accordata dalla presente legge le idee e i principi che stanno alla base di qualsiasi elemento di un programma, compresi quelli alla base delle sue interfacce. >>, ART. 2.8 L. AUT.; e l’art. 64 ter.3)

 

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Copyright, fair use, diritto di parola e diritto vs. la piattaforma di conoscere il soggetto che diffonde anonimamente post satirici

Chi carica post vagamente satirici con fotografie ritraenti un private-equity billionaire in comapgian di ragazze, compie delle stesse un fair use, quindi non rientrante nel copyright sulle foto stesse.

Ne segue che il diritto di far cadere l’anonimato non gli spetta,   perchè <<has not made out a prima facie case of copyright infringement>>, secondo l’interprteazione del § 512.h DMCA “Subpoena To Identify Infringer”.

E’ del resto chiaro che i sei tweet satirici ACCOMPAFGNATORI DELLE FOto,  erano espressione del diritto di parola/critica: << The six tweets flagged by Bayside are best interpreted as vaguely satirical commentary criticizing the opulent lifestyle of wealthy investors generally (and Brian Sheth, specifically). For example, one tweet reads: “Good morning from Mrs. Brian Sheth #2. Life is good when you’re a 44-year old private equity billionaire.” The tweet accuses Brian Sheth of having a mistress and links his infidelity to the broader class of “private equity billionaires,” suggesting that wealth (or working in private equity) corrupts. Unmasking MoneyBags thus risks exposing him to “economic or official retaliation” by Sheth or his associates. McIntyre v. Ohio Elections Commission, 514 U.S. 334, 341–42 (1995). And MoneyBags’s interest in anonymity is heightened further by his other tweets, which discuss issues of political importance such as sexual harassment, tax enforcement, and corporate regulations>> (Brian Seth è il milionario e Bayside il soggetto reclamante diritto di autore sulle foto, forse ricollegabile allo stesso Seth).

Così il distretto nord della California 21 giugno 2022, Case 4:20-mc-80214-VC , IN RE DMCA § 512(H) SUBPOENA TO TWITTER, INC., di cui dà notizia www.eef.org in un’inteessante fattispecie all’intersezione tra copyright , privacy e diritto di parola.

Non esiste un diritto all’aborto protetto dalla Costituzione USA: la Corte Suprema rivede la propria posizione espressa in Roe v. Wade del 1973

Il 24 giugno 2022 , n. 19-1392, Dobbs e altri v. JACKSON WOMEN’S HEALTH ORGANIZATION e altri, la corte suprema USA  ha rovesciato il principio di Roe v. Wade del 1973 , afferma chge non esiste un doiritto costitizionalment prtoetto all’aborto er quinbdi son possibili legislaizoni statali che lo limitino/escludono.

Il testo anche qui .

Sentenza ponderosa di 213 pagg.

Dissenzienti BREYER, SOTOMAYOR e KAGAN .

E’ al solito molto chiaro il Syllabus iniziale.

La Cassazione sulla riserva da (ri-)valutazione delle partecipazoni col metodo del patrimonio netto (art. 2426 n. 4/3 cc)

Nel caso di cambio di metodo di stima (da costo di acquisto a patrimonio  netto pro quota)  delle partecipazooni in società collegate o controllate, l’art. 2426 n. 4.3 impone di costituire una riserva non distribuibile.

Si pone allora il problema se questa possa essere usata a copertura perdite e anzi se costuisca componente reddituale per compensare perdite di esercizio e permettere la distribuzione di dividendi (così la censura di alcuni soci alla società).

L’interssante argomento (son pochissime le decisioni della SC in tema di valutazioni di bilancio) è esplorato da Cass. sez. I 12.05.2022 n. 15.087, rel. Nazzicone.

La SC si occupa della prima parte del problemA : <<Entrambi i ricorsi, pur articolando vari motivi, propongono la seguente questione: se ed a quali condizioni sia legittimo l’utilizzo a copertura delle perdite di esercizio – in tal modo rendendo lecita la ripartizione di utili ai soci, cui invece, ai sensi dell’art. 2433 c.c., comma 3, non potrebbe farsi luogo in presenza di perdite “fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente” – della riserva non distribuibile costituita, ai sensi dell’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, mediante la valutazione alla stregua del criterio del patrimonio netto, in luogo che in base al criterio del costo di acquisto prescritto dal n. 1 della medesima disposizione, delle partecipazioni in società controllate, la quale abbia fatto emergere una plusvalenza iscritta nella detta riserva.>>, § 4.

La scelta è discrezionale per il CdA: <<La valutazione secondo il metodo del patrimonio netto, invece, lascia emergere la c.d. sostanza economica del bene, come può essere più proficuo in talune evenienze, onde la riserva viene iscritta nel bilancio dall’organo amministrativo che opta per tale criterio. Ma torna la logica prudenziale, laddove la legge impone la costituzione di una “riserva non distribuibile” ai soci: in quanto potrebbe, allora, operarsi una distribuzione di utili solo sperati e, di fatto, la restituzione di patrimonio ai soci e la lesione dell’integrità del capitale sociale.

La regola è dunque dettata per evitare il rischio di indebite fuoriuscite di ricchezza dal patrimonio della società, ed, in particolare, la distribuzione di ricchezza tra i soci, impoverendo il patrimonio dell’ente e ponendo così a repentaglio le ragioni dei creditori, i quali invece hanno diritto ad essere soddisfatti con priorità rispetto ai soci (così Cass. 23 marzo 2004, n. 5740).

Al riguardo, questa Corte ha già avuto modo di rilevare l’esistenza di un potere discrezionale di rivalutazione da parte degli amministratori, ma sempre secondo i criteri di legge, statuendo che non è in sé illecita, in tema di azione di responsabilità contro gli amministratori, la mancata rivalutazione in bilancio delle partecipazioni in imprese controllate o collegate, pure consentita dall’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, perché si tratta di una scelta discrezionale rimessa all’organo gestorio, che ha la facoltà, e non l’obbligo, di valutare le menzionate immobilizzazioni finanziarie con il metodo del patrimonio netto, seguendo le modalità indicate dalla norma, invece di iscriverle al costo di acquisto (Cass. 28 maggio 2020, n. 10096).>> § 4.2.

L’imputazione delle riserve a copertura delle perdite : <<Ma se il capitale è tuttora elemento preservato dal legislatore, in vista delle funzioni che gli competono, allora va confermato il principio secondo cui esso può essere eliso dalle perdite solo dopo l’assorbimento delle riserve, intaccate però dalle perdite sulla base di un ordine successivo, il quale comporta l’imputazione delle medesime secondo una progressione rigida: dalla riserva meno vincolata e più disponibile alla riserva più vincolata e, quindi, meno disponibile. (….) Si tratta di principio posto a tutela di un interesse più generale, che trascende quello del singolo socio, essendo dettato, in particolare, a protezione dell’affidamento che i terzi abbiano fatto sulla consistenza del capitale sociale, che, perciò, non può essere intaccato prima che siano state esaurite le altre voci del patrimonio stesso.

Deve, dunque, confermarsi il principio, secondo cui le riserve appostate al passivo dello stato patrimoniale di una società di capitali possono essere imputate a riduzione delle perdite (salvo diversa specifica previsione normativa) solo in un ordine di progressiva minore disponibilità, da ultimo residuando, in tal caso secondo le maggioranze dell’assemblea straordinaria, l’operazione di riduzione del capitale sociale.>>

 – La riserva non distribuibile ex art. 2426 c.c., comma 1, n. 4.: << … Quella in esame è dunque, giocoforza, una riserva che deve essere intaccata – per il principio di imputazione delle riserve dalla meno vincolata alla più vincolata – solo dopo che altre riserve prive del vincolo di non distribuibilità siano state già erose dalle perdite.

Nell’ambito delle poste del patrimonio netto, pertanto, se si può aderire all’opinione secondo cui la riserva da plusvalenza del valore delle controllate è utilizzabile a copertura delle perdite, tuttavia proprio per evitare l’effetto indiretto di derogare di fatto al regime della indistribuibilità è necessario che, per la regola della graduazione delle voci iscritte al patrimonio netto, difettino in bilancio poste del netto più liberamente disponibili. Onde essa potrà essere utilizzata per ridurre o eliminare le perdite soltanto dopo ogni altra riserva distribuibile iscritta in bilancio, ma prima del capitale; in mancanza, si verificherebbe la “liberazione” della riserva dal suo status di maggiore tutela, prima che le altre riserve siano state utilizzate a tal fine, in dispregio della ratio della disposizione.  …. In sostanza, in tal caso le riserve derivanti dal metodo del patrimonio netto o da quello del fair value sono utilizzabili solo dopo le riserve disponibili e la riserva legale, in quanto riserve da utili realizzati, anteposte a quelle da utili non realizzati. Pertanto, il principio prudenziale ha consigliato di prevedere sì la facoltà di utilizzare, per la copertura delle perdite di esercizio, le riserve indisponibili derivanti da dette plusvalenze: ma pur sempre dopo l’imputazione a riduzione delle perdite di ogni altra riserva in bilancio, ivi compresa la riserva legale>>, § 4.6.

Si afferma (§ 2.1) che il principio contabile nazionale n. 21 dell’OCI (valutazione delle parteipazioni) è fonte normativa: non viene però chiarito tramite quale atto normativo.

Non c’è responsabilità di Uber per gli assalti a passeggeri compiuti da falsi Uber drivers

Così la Corte di appello californiana, 2 app. dist.-division one, 01 giungo 2022, B310131 (Los Angeles County Super. Ct. No. 19STCV11874).

Questione molto interessante, anche a livello teorico. Il punto è se U. doveva una protezione speciale alle attrici (vittime di adescamenti e aggressione da parte di falsi guidatori U.) ad es. fornendo accurate informazioni sull’esistenza di tali rischi nonchè predisponendo soluzioni (informatiche o altro)  per evitarli.

La domanda giudiziale:  << Through the SAC, the Jane Does seek to hold Uber liable for failing to warn them about or implement other measures to protect them against rapists employing the fake Uber scheme in the portions of West Hollywood and Los Angeles where the Uber entities knew rapists had repeatedly implemented the scheme. The SAC alleges the Uber entities “have not taken . . . any affirmative precautions to warn Uber users in” these or any other areas “of the continuous fake Uber sexual assault scheme” (capitalization omitted), and have not implemented additional safety features to help Uber app users assure they are entering the car of their authorized Uber driver>>, p. 8.

La regola nel diritto usa: <<The general rule that one has no duty, absent a special relationship, to protect others against harm at the hands of third parties is rooted in the idea that, “[g]enerally, the ‘person who has not created a peril is not liable in tort merely for failure to take affirmative action to assist or protect another’ from that peril.” (Brown, supra, 11 Cal.5th at p. 214, italics added, quoting Williams v. State of California (1983) 34 Cal.3d 18, 23.) A necessary corollary to this is that when a defendant has affirmatively “created a peril” that foreseeably leads to the plaintiff’s harm (Williams, supra, at p. 23), the defendant can, even absent a special  elationship, be held liable for failing to also protect the plaintiff from that peril. This scenario does not represent a true exception to the general rule that there is no duty to protect. Rather, it involves more than a mere failure to protect (nonfeasance), and instead involves both misfeasance— the defendant has “ma[de] the plaintiff’s position worse, i.e., defendant has created a risk”—and the nonfeasance of failing to protect against that risk once created. (Weirum v. RKP General, Inc. (1975) 15 Cal.3d 40, 49 (Weirum).)>>, p. 17

Di conseguenza : <<The fake Uber scheme may be a foreseeable result of the Uber business model, and the Jane Does’ assailants may not have been able to as easily commit their crimes against the Jane Does, were it not for the Uber app and the Uber business model. But these connections cannot establish that the harm the
Jane Does suffered is a “necessary component” of the Uber entities’ actions. (
Sakiyama, supra, 110 Cal.App.4th at p. 408.) “The violence that harmed [the Jane Does]”—abduction and rape—“[is] not ‘a necessary component’ of” the Uber business model. (See Melton, supra, 183 Cal.App.4th at p. 535.) Nor does such harm become a necessary component of the Uber business model because the Uber entities marketed the Uber app as safe to use, refused to cooperate with sexual assault investigations, or concealed sexual assaults related to the use of the app. Even accepting such allegations as true, the Uber entities still are not alleged to have “[taken] . . . action to stimulate the criminal conduct” (ibid.), as was the case in Weirum, where defendants encouraged plaintiffs to drive as quickly as possible to the designated location. (See Weirum, supra, 15 Cal.3d at p. 48.) To the contrary, like the defendants in Sakiyama, the Uber entities made efforts to prevent the type of conduct that harmed the plaintiffs—namely, they included matching system features in the Uber app that, if utilized, can
thwart efforts like the fake Uber scheme. The conduct based on which the Jane Does seek to impose liability thus does not constitute misfeasance that can give rise to a duty to protect>>, P. 22 .

E se fosse stata portata in corte da noi? Può dirsi che che U. abbia il dovere ex art. 2043 (certo non contrattuale) di avvisare l’utenza che ci son falsi autisti e di implementare meccanismi di autenticazione o altro, per non incapparvi? Una risposta positiva  pare tutt’altro che impossibile. Non parrebbe però utile la disciplina della responsabilità precontrattuale , dato che non c’è stato alcun contatto tra le vittime e U.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Risarcimento del danno, cagionato dalla banca all’investitore per omesso avviso di aumento del rischio, e restituzione dei titoli

Importante insegnamento da Cass. sez. I , 5 maggio 2022, rel. Nazzicone sull’oggetto, anche se  del tutto in linea con le regole comuni sul risarcimento del danno.

Un investitore aveva chiesto i danni alla banca per non essere stato avvertito del peggioramento del rischio portato da un investimento obbligazionario, avvertimento cui la banca si era contrattualmente impegnata in base all’accordo c.d. <Patti Chiari>.

La banca tra le sue difese propone, per il caso di soccombenza, la domanda di restituzione dei titolo de quibus

La corte di appello respinge detta domanda restitutoria ma la Cass. la accoglie. E per la semplice ragione che l’investitore, avendo già ottenuto compensazione in toto del danno, non può trattenersi anche i titoli, se potrebbero in futuro avere qualche valore.  Ciò infatti determinebbe una ultra compensaizone e cioè un suo arricchimento, inammissibile in base all’art. 1223 cc

<<Se, invero, la restituzione costituisce applicazione del principio del ripristino dello status quo ante conseguente ad una pronuncia caducatoria del contratto, come indica l’art. 1422 c.c., in tema di nullità, il quale espressamente richiama la disciplina dell’indebito (salvi gli adattamenti che possano ritenersi necessari nell’ambito di una restituzione conseguita a caducazione del contratto), non è men vero che i principi del risarcimento del danno – i quali richiedono che esso copra l’intero pregiudizio sofferto e non produca, invece, a sua volta un indebito arricchimento del danneggiato (e’ appena il caso di rilevare come qui sia del tutto estraneo il tema dei c.d. danni punitivi) – implicano la necessità, in caso di condanna dell’intermediario al risarcimento del danno patito dall’investitore, commisurato all’integrale perdita di valore dei titoli ad un dato momento (e, quindi, con rimborso della esatta somma investita, detratto solo quanto in precedenza perduto per cause indipendenti dall’inadempimento dell’intermediario) di accogliere nel contempo la domanda restitutoria dei titoli medesimi, perlomeno tutte le volte che il loro residuo valore sia stato considerato pari a zero, ma non vi sia la prova che tale rimanga in via definitiva (ad esempio, per essersi ormai il cliente definitivamente privato dei titoli senza corrispettivo, o per annullamento dei medesimi, o altre evenienze) …

La restituzione dei titoli ha così lo scopo, sotto tale profilo, di commisurare il risarcimento all’effettivo danno patito.

A completamento di tali principi, occorre ora pure considerare, sul piano della esatta liquidazione del danno, come dovuta la restituzione dei titoli, pur al momento della decisione reputati privi di valore residuo e come tali non scomputati dal quantum liquidato: ciò, almeno tutte le volte in cui non sia stato, da parte del giudice del merito, altresì accertato non solo che quei titoli non avessero valore al momento della decisione, ma anche che essi siano insuscettibili di riacquistarlo in futuro in favore del cliente, ad esempio perché annullati, ceduti definitivamente o per altra ragione.

Onde occorre considerare, nella specifica situazione in esame, che il giudice del merito ha concluso nel senso che qualora la banca, in ipotesi controfattuale, avesse informato il cliente, in luogo che restare inerte, tempestivamente permettendogli di conoscere i rischi sopravvenuti – e, dunque, se la banca avesse adempiuto alla propria obbligazione informativa – il cliente avrebbe venduto i titoli, così incassando, secondo la ricostruzione sottesa alla sentenza impugnata, proprio la somma di Euro 79,00 a titolo obbligazionario, ma ovviamente privandosi, nel contempo, della titolarità dei titoli, in tale ipotetica operazione definitivamente alienati. Ed ha liquidato il danno in conformità.

Donde la regola del risarcimento integrale e non superiore del danno implica che, del pari, nella situazione patrimoniale del cliente i titoli non permangano, in quanto egli, bensì, incassi dalla controparte inadempiente l’equivalente dell’intero prezzo, ma, nel contempo, restituisca i titoli medesimi.

L’accertato valore nullo dei titoli ad una certa data, che abbia indotto la sentenza alla condanna al risarcimento pari all’integrale pagamento del prezzo ipoteticamente conseguibile a tale momento, in punto di fatto attiene unicamente il “valore zero” del titolo alla data della liquidazione, ma non in futuro, in quanto la illiquidità attuale di un prodotto finanziario non vuol dire mancanza di valore anche in epoca successiva. Invero, nonostante la perdita di valore al momento della decisione per il blocco dei pagamenti, i titoli possono, secondo l’id quod plerumque accidit, continuare a costituire oggetto di scambio sul mercato, nella prospettiva di un futuro rimborso, sia pure parziale, del relativo importo, posto che il default potrebbe avere comportato non già l’estinzione del debito, ma soltanto una sospensione delle restituzioni…

La soluzione qui accolta ha, quindi, anche il fine dell’economia processuale, prevenendo future liti.

6.3. – Nell’ambito di una visuale sistematica, può dirsi altresì che la condanna al risarcimento del danno, pari all’intero valore dei titoli in favore dell’investitore al momento del mancato disinvestimento, contenga in sé l’accertamento implicito del sopravvenuto venir meno della causa dell’attribuzione del pagamento di quel valore, e, dunque, anche del diritto a mantenere i titoli nel proprio patrimonio.

In simili casi, la tutela ripristinatoria realizzata a favore del cliente si avvicina sensibilmente ad una tutela “reale”. Se funzionalmente la restituzione del valore investito serve indubbiamente a rimuovere un danno provocato, ciò si realizza con una tecnica che è in fatto ripristinatoria.

Se è vero che permane la distinzione concettuale tra restituzione e risarcimento, in casi come quello all’esame il risultato finale tende a sovrapporsi, in quanto l’obbligazione risarcitoria dovuta della parte inadempiente coincide con la restituzione (di una parte) della somma investita (cfr. spunti in Cass. 11 marzo 2020, n. 7016). La causa dell’attribuzione dei titoli è nel contratto di investimento finanziario, attuato con lo specifico ordine; restituita, però, la somma pari al valore dei titoli che è andato perduto, del pari viene meno la giusta causa di attribuzione della res.>>

Principio di diritto:

In tema di intermediazione finanziaria, allorché sia pronunciata la condanna dell’intermediario al risarcimento del danno patito dall’investitore, in ragione dell’inadempimento ai propri obblighi, quantificato sull’assunto della perdita di integrale valore dei titoli al momento della decisione, va del pari disposta la restituzione dei titoli medesimi, quale espressione del medesimo principio di cui all’art. 1223 c.c., del risarcimento effettivamente corrispondente al danno, ogni qualvolta il loro residuo valore venga reputato, al momento della decisione, pari a zero, ma non risulti altresì in giudizio l’impossibilità di un successivo incremento del valore stesso, per essere stati i titoli annullati, definitivamente ceduti o per qualsiasi altra concreta evenienza“.

Resta oscuro, però: i) come possa dirsi venuto meno (risolto) il rapporto contrattuale (solo così infatti può ordinarsi la restituzione dei titoli), e ii) a chi incomba probatoriamente l’onere di provare che il titolo non avrà più valore.

Sub i) , si potrebbe ravvisare perdita di interesse reciproca sull’esecuzione del contratto inziale e dunque di risoluzione tacitamente accettata da entrambe le aprti (rectius: proposta tacitamente tramtie la domanda giudiziale dall’investitore e tacitamente accettata dalla banca tramite le difese svolte).

Sub ii), spetterà alla banca convenuta.

Diritto al nome e cognomi di entrambi i genitori: depositata la sentenza della Corte Costituzionale

Oggi 31 maggio 2022 è stata depositata la sentenza della corte costitizinale n. 131/2022 sull’oggetto.

Qui ricordo solo l’invito duplice della Corte al legislatore, per evitare che proliferi il numero di cognomi, via via assunti dalle generazioni successive, e per tutelare l’interesse del figlio ad un cognome uguale a quello di fratelli e sorelle:

<< 15.– A corollario delle declaratorie di illegittimità costituzionale, questa Corte non può esimersi dal formulare un duplice invito al legislatore.

15.1.– In primo luogo, si rende necessario un intervento finalizzato a impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome.

Simile intervento si dimostra impellente, ove si consideri che, a partire dal 2006, varie fonti normative hanno contribuito al diffondersi di doppi cognomi.

Dapprima la prassi amministrativa (Ministero dell’interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, circolare n. 21 del 30 maggio 2006, recante «Problematiche inerenti all’attribuzione del cognome materno», circolare n. 15 del 12 novembre 2008, recante «Chiarimenti in merito alle istanze di cambiamento del nome e del cognome di cui agli art. 84 e seguenti del D.P.R. n. 396/2000», e circolare n. 14 del 21 maggio 2012, recante «D.P.R. n. 54 del 13 marzo 2012. Modifiche al D.P.R. n. 396/2000 in materia di procedimento di cambiamento del cognome») e, di seguito, la puntiforme modifica dell’art. 89 del d.P.R. n. 396 del 2000, a opera dell’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento recante modifica delle disposizioni in materia di stato civile relativamente alla disciplina del nome e del cognome prevista dal titolo X del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396) hanno allentato i requisiti sulla base dei quali è ammesso il cambio del cognome anche con l’aggiunta di un secondo cognome (che di regola è quello della madre).

A seguire, la sentenza n. 286 del 2016 di questa Corte ha consentito, sulla base di un accordo fra i genitori, l’attribuzione del cognome della madre in aggiunta a quello del padre e, da ultimo, il presente intervento rende l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori regola di carattere generale.

A fronte di tale disciplina, occorre preservare la funzione del cognome, identitaria e di identificazione, a livello giuridico e sociale, nei rapporti di diritto pubblico e di diritto privato, che non è compatibile con un meccanismo moltiplicatore dei cognomi nel succedersi delle generazioni.

La necessità, dunque, di garantire la funzione del cognome, e di riflesso l’interesse preminente del figlio, indica l’opportunità di una scelta, da parte del genitore – titolare del doppio cognome che reca la memoria di due rami familiari – di quello dei due che vuole sia rappresentativo del rapporto genitoriale, sempre che i genitori non optino per l’attribuzione del doppio cognome di uno di loro soltanto.

15.2.– In secondo luogo, spetta al legislatore valutare l’interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle. Ciò potrebbe ben conseguirsi riservando le scelte relative all’attribuzione del cognome al momento del riconoscimento contemporaneo del primo figlio della coppia (o al momento della sua nascita nel matrimonio o della sua adozione), onde renderle poi vincolanti rispetto ai successivi figli riconosciuti contemporaneamente dagli stessi genitori (o nati nel matrimonio o adottati dalla medesima coppia).>>

Circa il diritto intertemporale:

<< 16.– Infine, è doveroso precisare che tutte le norme dichiarate costituzionalmente illegittime riguardano il momento attributivo del cognome al figlio, sicché la presente sentenza, dal giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, troverà applicazione alle ipotesi in cui l’attribuzione del cognome non sia ancora avvenuta, comprese quelle in cui sia pendente un procedimento giurisdizionale finalizzato a tale scopo.

Il cognome, infatti, una volta assunto, incarna in sé il nucleo della nuova identità giuridica e sociale, il che comporta che possibili vicende che incidano sullo status filiationis o istanze di modifica dello stesso cognome siano regolate da discipline distinte rispetto a quelle relative al momento attributivo.

Eventuali richieste di modifica del cognome, salvo specifici interventi del legislatore, non potranno, dunque, che seguire la procedura regolata dall’art. 89 del d.P.R. n. 396 del 2000, come sostituito dall’art. 2, comma 1, del d.P.R. n. 54 del 2012>>

Impugnazione di delibera del Cda da parte del socio: sul concetto di “deliberazioni lesive dei loro diritti” ex art. 2388 c. 4 c.c.

L’ottimo sito ilcaso.it dà notizia dell’interessante decisione cautelare sull’oggetto (Trib. Catanzaro RG 469/2022 del 27.04.22, giudice F. Rinaldi), che decide su  domanda di sospensione dell’esecuzione ex art. 2378/3 cc, pacificamente applciabile anche alle delibere del Cda (v. pure l’espresso richiamo nell’art. 2388).

Il socio ha legittimazione solo se la delibera lede “un suo diritto”.

Importante è la precisazione del Tribunale che ciò non avviene con la semplice violazione di legge o statuto (dovendo in tale caso semmai agire per revocare l’amminsitratore o gli ammiusntratori.).

Bisogna che ci sia invece una violazione diretta di un suo diverso diritto patrimoniale (anzi, non solo tale, direi): il Tribunle richiama l’analoga disposizione di cui all’rt. 2395 cc. Si v. i precedenti in tale senso citati a p. 5

Due sono le censure prospettate in causa e poi respinte.

1° – non costituisce tale lesione la violazione dell’iter procedimentale statutario che porta alla delibera << A ben vedere gli articoli sopra richiamati, che, secondo la prospettazione attorea, sarebbero stati violati con le delibere impugnate, cagionando un danno “diretto” al socio ricorrente, rappresentano delle disposizioni volte a regolare la costituzione ed il sistema di decisione dell’organo ammnistrativo della società convenuta.
Invero, come eccepito anche dalla difesa della occorre osservare – al fine di verificare l’ammissibilità dell’impugnazione proposta dalla ricorrente ex art. 2388 c.c. – che, a fronte della dedotta violazione del disposto degli artt. 10.2. e 10.10 dello Statuto, è configurabile un generale interesse alla regolarità delle deliberazioni consiliari in conformità allo statuto e alla legge ma non anche un diritto del singolo socio direttamente pregiudicato.
Come già evidenziato, infatti, l’art. 10.2 dispone che la delibera che nomina i consiglieri di amministrazione deve indicare il socio che ha nominato l’amministratore mentre l’art. 10.10 dispone che le delibere consiliari sono valide solo se prese con il voto dei due amministratori nominati dai due diversi soci.
Alla luce del chiaro di tali articoli dello Statuto è, pertanto, evidente che l’unico interesse che potrebbe considerarsi leso è quello sociale e non, invece, un eventuale diritto partecipativo o amministrativo del singolo soci
>>

2°  – Nemmeno scelte gestionali scconsiderate costituiscono lesione del diritto del socio : << Infine, ritiene il Tribunale che non è condivisibile neppure l’assunto attoreo secondo il quale la legittimazione del socio ad impugnare ex art. 2388 c.c. discenderebbe dal fatto che sarebbe stato leso il diritto di “ad evitare l’adozione da parte del Consiglio di Amministrazione di scelte imprenditoriali sconsiderate che espongono a gravissimi pregiudizi…” come anche non è condivisibile l’affermazione per la quale la legittimazione deriverebbe dalla necessità di impugnare la nomina di un difensore della che si troverebbe in una situazione di conflitto di interessi.
Come evidenziato anche dalla difesa della società resistente, tali allegazioni non consentono di individuare il diritto patrimoniale, partecipativo o amministrativo leso del singolo socio ricorrente trattandosi, pure sotto questo aspetto, di doglianze espressione di un interesse sociale alla regolarità delle deliberazioni consiliari che devono essere prese in conformità allo statuto e alla legge, con conseguente impossibilità di riconoscere in favore del socio ricorrente il diritto ad impugnare le delibere consiliari oggetto di controversia.
Invero, per quanto già sopra esposto, il nostro ordinamento non consente al singolo socio di una società di capitali di opporsi ad una decisione del consiglio di amministrazione lamentando una qualche violazione da parte degli amministratori di una norma prescrittiva di fonte legale o statutaria che disciplini l’attività sociale in genere ma solo qualora tali violazioni, incorporate in una delibera, pregiudichino proprio il diritto del singolo socio ricorre
>>

Ora, la legge tace sul se debba trattarsi di lesione “diretta” di un diritto del socio e sul tipo di  diritto leso che permetta l’impugnazione.

Se sulla soluzione della seconda questione si può concordare, su quella della prima potrebbe sorgere  qualche dubbio.  La irregolarità procedimentale è in teoria una violazione di un diritto del socio: non si può infatti negare che esista un suo diritto alla corretta esecuzione del contratto di amministrazione , la quale a sua volta implica il dovere di gestire l’impresa secondo le regole di legge e statutarie.

La società è infatti una rete di contratti (nexus of contracts). Tale ricostruzione deve prevalere sul velo della distinzione soggettiva , quando non vi siano esplicite o implicite disposizioni ostative (come ad es, responsabilità limitata, identificazione del soggetto da citare in giudizio o destinatario di dichiarazioni recettizie, divieto di concorrenza etc.).

Però , a ben vedere, ciò toglierebbe d’un tratto il cit. velo della persona giuridica (il rapporto è formalmente tra amministratore e società) e rischierebbe di ingolfare le corti di cause.

Alla fine quindi il giudice catanzarese ha probabilmente deciso bene, almeno in fase cautelare. Un approfondimento maggiore in sede di decisione di merito, invece, potrebbe portare ad esito diverso (la giurisprudenza ivi ricordata è  del tutto contraria a questa ipotesi).

In caso di prelazione da locazione commerciale, il mero silenzio del locatore non equivale a nascondere artificiosamente la già avvenuta vendita

Ricevuta una dichiarazione scritta di interesse all’acquisto da parte dell’inquilino, il locatore, che tace di aver già venduto l’immobile ad altri, non realizza quella malafede che per giurisprudenza diffusa dà titolo al risarcimento aquiliano: malafede di solito consistente nell’accordo proprietà-terzo acquirente, finalizzato a tenere all’oscuro l’inquilino della vendita avvenuta per far decorrere il termiune annuale ex art. 38 legge equo canone 392/1978.

Lo spiega dettagliamente Cass. 29.03.2022 n. 10.136, rel. Iannello, esaminando il secondo motivo e in particolare qui:

<< Il principio richiamato richiede dunque un quid pluris, un
comportamento cioè diverso e più articolato del semplice silenzio; un
contegno cioè che magari ricomprenda il silenzio o l’inerzia del
locatore, ma che tuttavia sia anche in grado di attribuire ad essi, in
ragione di altre circostanze, artificiosamente create, un significato
diverso e univoco da quello meramente neutro che di per sé quelli
hanno: un significato in grado di infondere oggettivamente e
univocamente nel conduttore il convincimento che quella vendita non
sia stata operata e comunque a indurlo a non attivarsi per effettuare
le opportune visure.

7.11.
Nel caso di specie, la mancata risposta alla lettera del
giugno 2001
avrebbe potuto, dunque, in tale prospettiva, essere
portat
rice di valore indiziario se, in ipotesi, nei mesi successivi, vi
fossero state occasioni d’incontro
tra conduttore ed ex locatori idonee
a rappresentare sia pure implicitamente, ma in modo univoco
l
’apparente persistenza di qualità e rapporti identici a quelli anteriori
alla vendita: ad es. se i venditori avessero continuato a riceversi

canoni o altri oneri legati al rapporto locativo
senza nulla dire (come
ad es. nel caso considerato da Cass. n. 19968 del 201
3, cit.).
Tanto non risulta
affermato però neppure dal ricorrente, avendo
anzi
egli evidenziato che l’occasione nella quale i locatori ebbero a
comunicargli l’intervenuta vendita a distanza di un anno dalla stessa

fu quella del pagamento del canone «annual
, ovvero, è da
intendere, del primo successivo alla vendita.

Non si fa neppure menzione di altre precedenti occasioni di

incontro o interlocuzione con i locatori.

7.13. Non
è, invece, condivisibile nella descritta prospettiva
l’
argomento secondo cui l’invio della predetta lettera del 1° giugno
2001 ai locatori autorizza
va il conduttore ad avere certezza che la
mancata risposta equivalesse a mancata concretizzazione

dell’intenzione di vendita.

Tale d
eduzione si appalesa del tutto generica, non è fondata su
alcuna massima
di esperienza o regola causale che possa giustificare
un
a siffatta implicazione dalla mera mancata risposta; lo stesso
ricorrente per corroborarla evoca gli ottimi rapporti tra le par
ti, i quali
però
costituiscono circostanza di fatto solo affermata ma mancante di
alcun riscontro
in quanto accertato in sentenza o in quanto
comunque sottoposto a dibattito processuale
(per cogliere il quale,
comunque, sarebbe stata necessaria una denunc
ia, rispettosa dei
connessi oneri di specificità, di omesso esame
ex art. 360, comma
primo, num. 5, cod. proc. civ.: denuncia nella specie mancante)
.
Ad essa, quantomeno, è opponibile come altrettanto

astrattamente
valida l’implicazione che, in senso esattamente
contrario, ne trae invece la corte d’appello: quella cioè che, proprio il

silenzio serbato alla lettera, avrebbe potuto e dovuto consigliare
il
conduttore a compulsare i RR.II. per avere, in quel modo, certo e
inconfutabile riscontro del fatto
che quella intenzione di vendere, di
cui lui stesso afferma di avere avuto notizia e che lo avevano spinto a

inviare quella lettera, avesse
, oppure no, avuto seguito.>>, §§ 7.10-7.13.

Mutuo fondiario e mutuo comune: sforamento del limite di finanziabilità

Intervento di Cass. 08.03.2022 n. 7509 , sez. 3,  rel. De Stefano, sull’oggetto.

Qui la sintesi:

<<36. In conclusione, il mutuo fondiario altro non è se non una specie di mutuo tra le tante che possono essere erogate, con la peculiarità che esso è regolato da una disciplina di particolare favore per i mutuanti, la quale è volta a raggiungere sostanzialmente due differenti obiettivi: incentivare gli operatori professionali a erogare credito, potendo fare affidamento su una più rapida e più agevole procedura per l’eventuale suo recupero forzoso, da un lato, ma anche, dall’altro lato, mantenere una sana e prudente gestione, evitando di concedere finanziamenti in modo eccessivo rispetto alle garanzie patrimoniali offerte dai mutuatari.

37. Resta, beninteso, fermo che il limite di finanziabilità posto dall’art. 38 t.u.b. non è mera regola di condotta della banca e rimane impregiudicata quindi la repressione delle condotte di consapevole sua violazione con gli strumenti amministrativi e con il rimedio generale della tutela aquiliana dalla abusiva concessione di credito, se non pure attraverso quello generale del contratto in frode ai creditori, ove dell’una e dell’altro si rinvengano in concreto i presupposti, a garanzia di tutti i soggetti coinvolti.

38. Ma, nei rapporti tra i contraenti, la questione va risolta sul piano della qualificazione giuridica del contratto, sicché, al di là del nomen iuris utilizzato dalle parti, l’operatività del corpus normativo che postula il rispetto di quel limite viene meno ove sia venuto meno il presupposto di tale rispetto (e, così, sia superato il limite).

39. Ne consegue che il mutuo pur qualificato come fondiario, ove non in regola con le disposizioni dell’art. 38 t.u.b. per intervenuto superamento dei limiti di finanziabilità, altro non è che un ordinario mutuo ipotecario; e, da un lato, non sussiste né la nullità del sinallagma né la verifica della possibilità di dar luogo alla conversione in altro tipo di contratto, ma semplicemente si fa luogo alla disapplicazione della speciale disciplina del mutuo fondiario, con conservazione del contratto di mutuo ipotecario originario e della garanzia ipotecaria.>>.

Un mese prima la sez. 1 della Cass. con ord.  4.117 del 09.02.2022, rel. Ceniccola,  aveva rimesso gli atti al Presidente per l’eventuale assegnazione  alle sezioni unite proprio sulla medesima questione .