Negata la contraffazione di “Top Gun Maverick” rispetto all’originario articolo giornalistico “Top Gun”

Interessante sentenza segnalata da Hayleigh Bosher richiamando il sito Variety.com  del US Central District California , Shosh Yonay, et al. v. Paramount Pictures Corporation, et al., Case 2:22-cv-03846-PA-GJS del 5 aprile 2024 sulla domanda di contraffazione svolta dagli eredi di Ehud Yonay autore dell’articolo TOP Gun che ispirò la prima versione del film (regolarmente accosentita dal giornalista) e oggi pure il sequel (non acconsentita, , nemmeno come credits, non valendo l’originario consenso per gli eredi)

Per la corte non c’è la substanzial similarity dell’exstrinsic test , dopo aver esaminato i segg. profili: a) Plot, Sequence of Events, and Pacing; b. Theme and Mood; c. Dialogue and Characters; d. Setting; e. Selection and Arrangement.

Qui conta l’analisi del giudice circa le somiglianze delel aprti espressive, non delle m,ere idee  o siotuiazioni., tenuto conto del camvbio dio gemnre artistico (articolo giornlastici –> film)

Spetta l’indennizzo da ingiustificato arricchimento al ricercatore medico, che abbia creato un software per la PA, seppur con contratto nullo perchè privo dei requisiti di forma

Cass. sez. IV, sentenza 18 marzo 2024 n. 7.178 rel. Cavallari:

‹L’ideatore di un software che abbia eseguito la sua prestazione sulla base di
un contratto concluso con una P.A. nullo per mancanza della forma scritta o per
violazione delle norme che regolano la procedura finalizzata alla sua conclusione,  ove chieda alla stessa P.A. di essere remunerato per l’attività svolta in suo favore, può proporre l’azione di ingiustificato arricchimento. Il giudice ha il potere di determinare in via equitativa il relativo indennizzo, il quale non può
coincidere con il compenso che comunemente sarebbe stato corrisposto per la
detta prestazione, ma deve ristorare la diminuzione patrimoniale subita
dall’autore dell’opera e, quindi, i costi ed esborsi sopportati e il sacrificio di
tempo, di energie mentali e fisiche del detto autore, al netto della percentuale
di guadagno›

Il ricercatore ottiene ragione dopo che l’appello gliela aveva negata per la proponibilità dell’azione contrattuale e/o di quella da equo premio inventivo ex art. 64 cond propr. ind.

Ipotesi negate invece dalla SC (la seconda giustamente; sulla prima non mi pronuncio). La SC nega rilevanza pure all’azione di danno ex art. 156 ss l. autore (che protegge il software), dato che deriva da clausola generale, la quale -secondo l’rientamento ora sancito da Cass. SU n. 33954 del 5 dicembre 2023- non impedisce il funziomento del requisito della sussidiadietà ( p. 10).

Clausola bancaria di massimo scoperto e determinatezza del periodo di riferimento

Cass.  civile sez. I, ord. 15/01/2024  n. 1.373, rel. Vella:

<<In secondo luogo che, in tema di conto corrente bancario, può ritenersi nulla per indeterminatezza la clausola negoziale che prevede la commissione di massimo scoperto qualora detta indeterminatezza sia effettiva e radicale, come nel caso in cui essa ne indichi semplicemente la misura percentuale, senza contenere alcun riferimento al valore sul quale tale percentuale deve essere calcolata (Cass. 19825/2022).

6. – Nel caso in esame, i canoni ermeneutici evocati da parte ricorrente risultano effettivamente violati.

6.1. – Occorre innanzitutto dare atto che nell’art. 9 delle condizioni generali di contratto, specificamente approvato per iscritto e rubricato “chiusura periodica del conto e regolamento degli interessi, commissioni e spese”, si legge (tra l’altro) che “I rapporti di dare e avere relativi al conto, sia con saldo debitore o creditore, vengono regolati con identica periodicità, portando in conto con valuta ‘data regolamento’ dell’operazione gli interessi, le commissioni e le spese ed applicando le trattenute fiscali di legge.

Il saldo risultante dalla chiusura periodica produce interessi secondo le medesime modalità”.

6.2. – Anche dalle condizioni economiche di conto corrente emerge in modo chiaro la periodicità trimestrale della chiusura, da riferire evidentemente non solo alla capitalizzazione, ma anche alla chiusura periodica del conto, poiché, in mancanza, nemmeno potrebbe sussistere la capitalizzazione, sicché i due parametri non possono che essere congruenti.

6.3. – Dall’insieme delle menzionate disposizioni emerge allora, in modo inequivocabile, che la chiusura periodica del conto avveniva ogni trimestre e che, in occasione di ciascuna di esse, dovevano regolarsi tutti i rapporti di dare e avere tra cliente e banca, ivi compresi, perciò, quelli relativi alle “commissioni”, richiamate sia nella rubrica che nell’articolato.

6.4. – Ebbene, trattandosi pacificamente di una “commissione”, una corretta applicazione del disposto di cui all’art. 1363 c.c. avrebbe necessariamente comportato l’accertamento della determinatezza o quantomeno determinabilità della clausola relativa alle c.m.s., applicabili appunto trimestralmente.

6.5. – Anche il criterio interpretativo prescritto dall’art. 1362 c.c., relativo alla comune volontà delle parti – da scrutinare alla luce del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto – avrebbe dovuto deporre in tal senso, attraverso la verifica che, in concreto, le commissioni di massimo scoperto sono state applicate trimestralmente (come da estratti conto prodotti), senza che tale periodicità sia mai stata messa in discussione dalle parti nel corso del rapporto (mentre, è appena il caso di aggiungere, ciò non si sarebbe verificato ove le stesse avessero inteso applicare le commissioni di massimo scoperto con una diversa periodicità).

6.6. – Del pari avrebbe dovuto indurre il tribunale a ravvisare la determinatezza della clausola in questione un’interpretazione secondo buona fede del contratto, ai sensi dell’art. 1366 c.c., tale da non privare la stessa di senso effettivo, tenuto coerentemente conto della natura e dell’oggetto del contratto medesimo.

6.7. – Ad analoghe conclusioni conduce il canone interpretativo di cui all’art. 1367 c.c., in base al quale “nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”, poiché, a fronte di una chiusura periodica del conto corrente pacificamente trimestrale, il principio di conservazione del contratto avrebbe dovuto indurre a ritenere determinata la commissione di massimo scoperto nella sua periodicità trimestrale, piuttosto che ravvisarne la nullità.

6.8. – A ciò si aggiunga, in relazione al canone ermeneutico ex art. 1368 c.c., che la pratica generalmente in uso al momento della stipulazione del contratto de quo era notoriamente quella di contabilizzare trimestralmente le commissioni di massimo scoperto, come emerge dalle allegate pronunce di merito dell’epoca.

6.9. – Alla luce di quanto precede appare insomma evidente che la clausola in questione, relativa alle commissioni di massimo scoperto, non aveva ragione di essere ritenuta nulla per indeterminatezza>>.

Diritto di critica e diffamazione: la verità putativa nel giornalismo d’inchiesta

Cass. civ., Sez. I, Ord. 03/11/2023, n. 30.522, rel. Ioffrida:

<<In tema di diffamazione a mezzo stampa, nel cd. giornalismo d’inchiesta – che ricorre allorquando il giornalista non si limiti alla divulgazione della notizia ma provveda egli stesso alla raccolta della stessa dalle fonti, attraverso un’opera personale di elaborazione, collegamento e valutazione critica, al fine di informare i cittadini su tematiche di interesse pubblico – il requisito della verità (anche putativa) va inteso in un’accezione meno rigorosa, implicando una valutazione non tanto dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto il rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede gravanti sul giornalista. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, in relazione a un articolo contenente un’inchiesta giornalistica sulla gestione dei voli di Stato, aveva ritenuto diffamatorie le notizie divulgate in merito all’alto ufficiale posto a capo della relativa organizzazione – definito, tra l’altro “dominus” e “boiardo dei cieli” -, omettendo di considerare che le suddette notizie erano state autonomamente acquisite dall’autore, attraverso fonti riservate ed ufficiali e riesaminando documenti pubblici o già noti, e che i relativi elementi di indagine erano stati, poi, posti a base di provvedimenti giurisdizionali successivi)>>

Questa la massima di Onelegale.

Il principio di diritto enuniciato in sentenza: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, il c.d. giornalismo d’inchiesta ricorre anche quando il giornalista non si limiti alla divulgazione della notizia, come nel giornalismo ordinario di informazione, ma provveda egli stesso alla raccolta autonoma e diretta della notizia, tratta da fonti riservate e non, anche documentali e ufficiali, con un lavoro personale di organizzazione, collegamento e valutazione critica, al fine di informare i cittadini su tematiche di interesse pubblico. Esso, proprio per il suo ruolo civile e utile alla vita democratica di una collettività, implica la necessità di valutarne gli esiti, non tanto alla luce dell’attendibilità e della veridicità della notizia, quanto piuttosto dell’avvenuto rispetto da parte del suo autore dei doveri deontologici di lealtà e buona fede“.

Sulla priorità dei disegni/modelliu UE costituita previo modello utilità

Teoricamente itnressante questione decisa da Corte di giustizia 27.02.2024, C-382/21 P, EUIPO v. Kaikai , segnalata da Marcel Pemsel su IPKat.

La lite è centrata sulla decorrenza del dies a quo per una valida priorità di una domanda di disegno/modello ex reg. 6/2006, il cui art. 41 dice: <<1. Chiunque abbia regolarmente depositato una domanda di registrazione di un disegno o modello o di un modello d’utilità in uno o per uno degli Stati che aderiscono alla convenzione di Parigi o all’accordo che istituisce l’Organizzazione mondiale del commercio, ovvero il suo avente causa, fruisce, per un periodo di sei mesi dalla data di deposito della prima domanda, di un diritto di priorità per effettuare il deposito di una domanda di registrazione di disegno o modello comunitario per il medesimo disegno o modello o per il medesimo modello di utilità.

2. È riconosciuto come fatto costitutivo del diritto di priorità qualsiasi deposito avente valore di deposito nazionale regolare a norma della legislazione dello Stato nel quale è stato effettuato o in forza di accordi bilaterali o multilaterali>>.

Il dubbio giuridico nasce dal fatto che : i) Kai kai aveva rivendicato priorità per un  previo deposito come modello di utilità (almeno così pare: arg. da § 28) e nel termine di 12 mesi, non di 6 mesi; ii) il cit. art. 41 parla di termine semestrale e solo per modelli di utilità, non per invenzioni. iii) la Conv. Unione di Parigi pone invece un termine dui 12 mesi per invenzioni e modelli di utilità,

Ebbene, la CG riformando il Trib., afferma l’applicabilità del solo art. 41 reg. UE 6/2002:  per cui la priorità richiesta era stata giustamente negata dall’EUIPO

Del resto, prosegue la CG,  la norma di Conv. Unione (art. 4) non si applica direttamente nell’ordinamento europeo, che non ne è parte: ciò nemmeno considerando che di fatto l’ha recepita con i TRIPs, i quali non hanno efficacia diretta, § 63.

Per la precisione:

<<68   Ne consegue che le norme enunciate all’articolo 4 della Convenzione di Parigi sono prive di effetto diretto e, pertanto, non sono idonee a creare in capo ai singoli diritti che questi possano far valere direttamente in forza del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza del 25 ottobre 2007, Develey/UAMI, C‑238/06 P, EU:C:2007:635, punti 39 e 43).

69 Pertanto, il diritto di priorità ai fini del deposito di una domanda di disegno o modello comunitario è disciplinato dall’articolo 41 del regolamento n. 6/2002 e gli operatori economici non possono avvalersi direttamente dell’articolo 4 della Convenzione di Parigi.

70 Tuttavia, poiché l’accordo ADPIC vincola l’Unione e dunque prevale sugli atti di diritto derivato dell’Unione, questi ultimi devono essere interpretati, per quanto possibile, in conformità alle disposizioni di tale accordo (v., per analogia, sentenze del 10 settembre 1996, Commissione/Germania, C‑61/94, EU:C:1996:313, punto 52, e del 1º agosto 2022, Sea Watch, C‑14/21 e C‑15/21, EU:C:2022:604, punti 92 e 94 nonché giurisprudenza ivi citata). Il regolamento n. 6/2002 deve quindi essere interpretato, per quanto possibile, conformemente all’accordo ADPIC e, di conseguenza, alle norme enunciate dagli articoli della Convenzione di Parigi, segnatamente l’articolo 4, incorporate in tale accordo (v., per analogia, sentenze del 15 novembre 2012, Bericap Záródástechnikai, C‑180/11, EU:C:2012:717, punti 70 e 82, nonché dell’11 novembre 2020, EUIPO/John Mills, C‑809/18 P, EU:C:2020:902, punti 64 e 65).

71 Nell’interpretare l’articolo 41 del regolamento n. 6/2002 conformemente all’articolo 4 della Convenzione di Parigi, occorre altresì tener conto delle disposizioni del TCB, a norma del quale è stata depositata la domanda anteriore su cui si basa la KaiKai per rivendicare un diritto di priorità. Infatti, dal momento che tutti gli Stati membri dell’Unione sono parti del TCB, si può tener conto delle disposizioni di tale trattato ai fini dell’interpretazione di disposizioni di diritto derivato dell’Unione che rientrano nel suo ambito di applicazione (v., in tal senso, sentenza del 1º agosto 2022, Sea Watch, C‑14/21 e C‑15/21, EU:C:2022:604, punto 90 e giurisprudenza ivi citata). In tale contesto, occorre altresì rilevare che, conformemente al suo articolo 1, paragrafo 2, il TCB non pregiudica i diritti previsti dalla Convenzione di Parigi>>.

e poi:

<<Pertanto, dal chiaro tenore letterale di tale articolo 41, paragrafo 1, risulta inequivocabilmente che, ai sensi di tale disposizione, solo due categorie di domande anteriori – vale a dire, una domanda di registrazione di un disegno o modello e una domanda di registrazione di un modello di utilità – possono fondare un diritto di priorità a beneficio di una domanda di registrazione di un disegno o modello comunitario posteriore, e ciò unicamente entro un termine di sei mesi a decorrere dalla data di deposito della domanda anteriore considerata.

77 Ne risulta altresì che detto articolo 41, paragrafo 1, ha carattere esaustivo e che la circostanza che tale disposizione non fissi il termine entro il quale può essere rivendicato il diritto di priorità fondato su una domanda di registrazione di un brevetto non costituisce una lacuna di detta disposizione, bensì la conseguenza del fatto che quest’ultima non consente di fondare tale diritto su questa categoria di domande anteriori.

78 Pertanto, da un lato, una domanda internazionale depositata a norma del TCB può fondare un diritto di priorità, in applicazione dell’articolo 41, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002, solo nella misura in cui la domanda internazionale in questione abbia ad oggetto un modello di utilità e, dall’altro, il termine per rivendicare tale diritto sulla base di una siffatta domanda è quello di sei mesi, espressamente fissato a detto articolo 41, paragrafo 1.>>

Decisione esatta,

Importanti precisazioni sull’obbligazione dei comproprietari per i lavori condominiali eseguiti

Utile messa a punto da parte di Cass. sez. III, ord. 06/12/2023  n. 34.220, rel. Tatangelo, che la condensa nel seg. principio di diritto:

<<l’onere di preventiva escussione dei condomini “morosi” gravante, ai sensi dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., sul creditore solo parzialmente soddisfatto e munito di titolo esecutivo, non ha ad oggetto la sola somma corrispondente alla quota millesimale del condomino moroso sull’importo residuo dell’obbligazione di cui al titolo esecutivo, ma l’intero importo della suddetta “morosità”, cioè l’intera originaria quota dell’obbligazione condominiale imputabile al singolo condomino, detratto quanto eventualmente già pagato al creditore dall’amministratore, in nome e per conto di detto condomino, in virtù dei versamenti dallo stesso effettuati nelle casse condominiali, secondo l’imputazione comunicata ai sensi dell’art. 63, comma 1, disp. att. c.c., e/o quanto versato direttamente dal singolo condomino al terzo”;

“la quota del debito condominiale gravante sul singolo condomino contro il quale il creditore abbia agito in via esecutiva in base all’art. 63 disp. att. c.p.c., in caso di contestazioni espresse in sede di opposizione all’esecuzione – e fermo restando che spetta al condomino intimato l’onere di allegare e provare che detta quota sia diversa da quella indicata dal creditore – va determinata: a) in base alla delibera condominiale di riparto della spesa; b) se una delibera manchi o sia venuta meno, all’esito di una valutazione sommaria del giudice dell’opposizione all’esecuzione, ai soli fini dell’azione esecutiva in corso, tenendo conto delle indicazioni dell’amministratore, degli elementi certi disponibili ed eventualmente, in mancanza, facendo ricorso alla tabella millesimale generale; in tali casi restano tuttavia salve le eventuali successive appropriate azioni di rivalsa interna tra condomini”. >>

La sostituzione testamentaria deve essere esplicita , non essendo ravvisabile nella disposizione per cui l’erede istituito a sua volta avrà “l’obbligo morale” di devolvere i beni ai pretesi eredi in subordine (con un ripassino sulla interpretazione testamentaria)

Cass. sez. II sent. 01/03/2024 n. 5.487, rel. Giannaccari:
Premessa sull’interpretazione del testamento:

<<Secondo l’insegnamento di questa Corte, nell’interpretazione del testamento il giudice deve accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall’art.1362 c.c., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria, quale sia stata l’effettiva volontà del testatore comunque espressa, considerando congiuntamente, e in modo coordinato, l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale mortis causa, salvaguardando il rispetto del principio di conservazione del testamento (Cass. 14.10.2013, n.23278). Soltanto qualora dal testo dell’atto non emerga con certezza l’effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, l’interprete può, in via sussidiaria, ricorrere alla valutazione di elementi estrinseci al testamento, seppure sempre riferibili al testatore, quali ad esempio la sua cultura, la mentalità, il suo ambiente di vita, le sue condizioni fisiche (Cass. Civ., Sez. II, 24.4.2018, n.10075).

Si è quindi precisato che (così Cass. 20204/2005) qualora dall’indagine di fatto riservata al giudice di merito risulti già chiara, in base al contenuto dell’atto, la volontà del testatore, non è consentito – alla stregua del primario criterio ermeneutico della letteralità – il ricorso ad elementi tratti “aliunde” ed estranei alla scheda testamentaria>>.

La disposizione istitutiva:

Io sottoscritta, Br.Gi. – nata il (Omissis) a L (P) e residente a V, Corso (Omissis) – nelle mie piene facoltà mentali, nomino mio erede universale mio marito Ma.Ma.. Impongo al mio erede l’obbligo morale di riscrivere testamento con il quale, come da reciproci accordi, tutto il patrimonio venga assegnato, dopo la sua morte, nel modo seguente…[addirittura con determinazione delle risopettive quote, dice la SC!].

Ebbene, la SC non ravvisa in questa disposizione contenente un obbligo morale di “riscrivere il testamento” (perchè poi RIscrivere?) una sostituzione ex art. 688 cc:

<< La Corte d’appello ha ritenuto che l’istituzione di erede riguardasse solo il coniuge, con interpretazione plausibile, che ha tenuto conto, in primo luogo del dato letterale, mancando nell’atto una previsione espressa di devoluzione dell’eredità ai cognati.

La de cuius non aveva espressamente istituito eredi i cognati, in forza del meccanismo della sostituzione ex art.688 c.c., ma aveva fatto riferimento all’obbligo morale del marito di “riscrivere il testamento”, nel rispetto dei “reciproci accordi”.

Nell’interpretare la volontà della testatrice, la Corte di merito si è soffermata sull’appropriatezza del lessico nella parte in cui distingue l’istituzione di erede del coniuge dal suo obbligo morale di beneficiare i cognati nell’esercizio delle sue ultime volontà, ovvero nel “riscrivere il testamento”.

Del resto, la volontà del testatore, che deve guidare l’interprete nell’interpretazione del testamento, non può confliggere con le disposizioni di legge in materia di sostituzione ordinaria, che richiede una doppia istituzione di eredità in modo espresso, mentre, nel caso in esame, la testatrice non ha sostituito i cognati all’erede ma ha disposto che l’erede doveva riscrivere il testamento secondo accordi pregressi accordi intercorsi tra di loro.

La sostituzione deve essere oggetto di un‘esplicita disposizione del testatore, il quale provvede ad una designazione in subordine per il caso in cui l’istituito non possa acquistare l’eredità o il legato; in tale ipotesi, è lo stesso testatore ad indicare il criterio di soluzione per il caso in cui il designato alla successione non possa o non voglia succedere, prevalendo sia sulla rappresentazione che sull’accrescimento.

Il caso di specie non è riconducibile all’ipotesi in cui il testatore nomini un erede in via primaria ed un altro erede in via subordinata, realizzando la chiamata in sostituzione una chiamata originaria ed autonoma, che dipende dalla prima designazione solo in termini alternativi, nel senso che essa ha effetto se la prima designazione non si realizza>>.

Soluzione corretta ma non la motivazione. Che la sostituizione debba essere esplicita non risulta dalla legge e nemmeno dalla sua ratio: deve piuttosto essere inequivoca, anche se magari implicita.     E nel caso una disposizione in subordine non esisteva per nulla.

Annullabilità del testamento per incapacità del de cuius

Cass. sez. II, ord. 06/03/2024 n. 5.993, rel. Criscuolo:

<<3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 591 co. 2, n. 3, c.c. e del principio di diritto espresso da Cass. n. 9081/2010 e Cass. n. 27351/2014. La Corte d’Appello è giunta a confermare l’annullamento del testamento sul presupposto che fosse sufficiente che la capacità di intendere del testatore alla data dell’atto fosse esclusa o grandemente scemata (come riferito dalla CTU espletata in primo grado), ritenendo quindi equivalente la riduzione, ancorché grave, della capacità alla sua esclusione.

Con specifico riferimento alla deduzione del vizio di incapacità del testatore ex art. 591 c.c., l’elaborazione di questa Corte – anche nei precedenti richiamati con la censura in esame – ha, nel corso degli anni, precisato che, in tema di annullamento del testamento, l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (Cass. n. 3934/2018).

In senso conforme, e sempre nella giurisprudenza più recente, si sottolinea come sia stato ribadito che, nel caso di infermità tipica, permanente ed abituale, l’incapacità del testatore si presume e l’onere della prova che il testamento sia stato redatto in un momento di lucido intervallo spetta a chi ne afferma la validità; qualora, invece, detta infermità sia intermittente o ricorrente, poiché si alternano periodi di capacità e di incapacità, non sussiste tale presunzione e, quindi, la prova dell’incapacità deve essere data da chi impugna il testamento (Cass. n. 25053/2018). È stato, poi, puntualizzato che il giudice del merito può trarre la prova dalle sue condizioni mentali, anteriori o posteriori, sulla base di una presunzione; posto che la relativa prova può essere fornita con qualsiasi mezzo, una volta dimostrata una condizione di permanente e stabile demenza nel periodo immediatamente susseguente alla redazione del testamento, spetta a chi afferma la validità del testamento la prova della sua compilazione in un momento di lucido intervallo (Cass. n. 26873/2019; Cass. n. 27351/2014; Cass. n. 9508/2005).

Va, poi, ricordato che la giurisprudenza di questa Corte, sia pure nella vigenza della vecchia e meno rigorosa formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., aveva affermato che l’apprezzamento del giudice del merito circa l’incapacità d’intendere e di volere, prevista dall’art 591, n. 3, cod. civ., al fine di dedurre l’incapacità di disporre per testamento, costituisce indagine di fatto e valutazione di merito, non censurabile in sede di legittimità, se fondata su congrua motivazione, immune da vizi logici ed errori di diritto (Cass. n. 162/1981; Cass. n. 1851/1980; Cass. n. 3205/1971).

Peraltro, ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del testamento, il giudice del merito non può ignorare il contenuto dell’atto di ultima volontà e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle relative disposizioni, nonché ai sentimenti e ai fini che risultano averle ispirate. Nell’ambito di tale valutazione, il dato clinico, comunque necessario, costituisce uno degli elementi su cui il giudice deve basare la propria decisione, non potendosi mai prescindere dalla considerazione della specifica condotta dell’individuo e della logicità della motivazione dell’atto testamentario (Cass. n. 8690/2019; Cass. n. 230/2011; Cass. n. 5620/1995)>>.

Decorrenza del termine prescrizionale ed efficacia del c.d. settlment presso la Commissione UE ai fini del risarcimento del danno antitrust da cartello illecito

Cass. sez. I sent. 28/02/2024 n. 5.232, rel. Falabella, in un caso regolato dal d lgs n. 3 dl 2017 anche se relativo a condotta anteriore :

-I-

<<Il danno di cui si fa questione nella presente sede rientra tra quelli comunemente denominati lungolatenti, i quali sono caratterizzati dalla presenza di un segmento temporale, di significativa – e perciò non trascurabile – entità, che separa l’insorgenza del danno dalla sua percezione. La lungolatenza del danno fa sì che il titolare del diritto possa dirsi in stato di inerzia, rispetto all’esercizio del diritto risarcitorio, solo a partire dal momento in cui sia adeguatamente edotto delle circostanze dell’illecito concorrenziale: sicché l’azione risarcitoria da intesa anticoncorrenziale si prescrive, in base al combinato disposto degli art. 2935 e 2947 c.c., in cinque anni dal giorno in cui chi assume di aver subito il danno abbia avuto, usando l’ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia (così Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305). Ai fini della decorrenza del termine, quindi, non rileva il momento in cui l’agente compie l’illecito o quello in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all’altrui diritto, quanto, piuttosto, il momento in cui la condotta ed il conseguente danno si manifestano all’esterno, divenendo oggettivamente percepibili e riconoscibili (Cass. 6 dicembre 2011, n. 26188; nello stesso senso, cfr. Cass. 5 luglio 2019, n. 18176). Il principio è stato ribadito di recente dalla Corte di giustizia: si è evidenziato, per la precisione, proprio con riferimento all’illecito concorrenziale accertato dalla Commissione il 19 luglio 2016, di cui qui si dibatte, che i termini di prescrizione applicabili alle azioni per il risarcimento del danno per le violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione non possano iniziare a decorrere prima che la violazione sia cessata e che la persona lesa sia venuta a conoscenza, o si possa ragionevolmente presumere che sia venuta a conoscenza, del fatto di aver subito un danno a causa di tale violazione, nonché dell’identità dell’autore della stessa (Corte giust. UE 22 giugno 2022, C-267/20, cit., 61).

Appare allora comprensibile come la prescrizione, nel caso di intese restrittive della concorrenza, decorra, almeno di regola, dal momento in cui l’autorità competente accerta l’illecito: infatti, è caratteristica propria di tali accordi il fatto di rimanere riservati alle imprese che li assumono: con la conseguenza che il consumatore ne rimane esposto anche se in concreto li ignora (sul punto, già Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305, cit., in motivazione)>>.

Il conseguente principio di diritto:

< “In tema di risarcimento del danno da illecito antitrust, la domanda risarcitoria proposta dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 3 del 2017 per una violazione del diritto della concorrenza che è cessata prima dell’entrata in vigore della dir. 2014/104/UE, recepita da detto decreto legislativo, è assoggettata ratione temporis alla nuova disciplina sempre che il termine di prescrizione applicabile in virtù delle norme previgenti non sia spirato prima della data di scadenza del termine di recepimento della medesima direttiva; nel caso di illecito antitrust consistente in intesa anticoncorrenziale, rileva, dunque, che in base al diritto italiano, il termine di prescrizione della relativa azione comincia a decorrere non dal momento in cui il fatto si verifica nella sua materialità e realtà fenomenica, ma da quando esso si manifesta all’esterno con tutti i connotati che ne determinano l’illiceità”.

– II –

sull’efficacia nel giudizio risarcitorio del cd settlment, regolato dall’art 10 bis reg. 773/2004:
<<2.5 In sostanza, la Corte di appello, pur avendo discettato del valore vincolante delle decisioni della Commissione, ha basato il proprio giudizio circa l’esistenza dell’illecito concorrenziale su altro. Per la precisione, la pronuncia impugnata risulta fondarsi: a) sulla mancata contestazione, da parte dell’impresa, degli addebiti formulati dalla Commissione; b) sulla condotta processuale da detta impresa tenuta nel giudizio di merito, in cui Iveco non aveva parimenti contestato i fatti che integravano l’illecito concorrenziale; c) sulle risultanze istruttorie del procedimento tenutosi avanti alla Commissione; d) sulla mancata acquisizione di alcuna prova contraria (che la Corte di appello ha implicitamente ritenuto potesse essere offerta da parte dell’odierna ricorrente).

Tale impianto argomentativo non risulta puntualmente aggredito dalla ricorrente che ha lamentato, in sintesi, l’impropria valorizzazione di un vincolo di conformazione del giudice nazionale rispetto alla decisione della Commissione e all’istruttoria svoltasi avanti ad essa: e tanto porta a ritenere inammissibili i quattro mezzi di censura di cui qui si dibatte>>.

Poi:

<<2.6. – Peraltro, il rilievo attribuito dalla Corte distrettuale ai richiamati elementi – rispetto ai quali, si ripete, non sono state portate specifiche censure – non prospetta, in sé, alcun profilo di illegittimità.

In termini generali, il contegno processuale della parte è sempre suscettibile di essere apprezzato nell’ambito del giudizio civile (art. 116, comma 2, c.p.c.) e determina, anzi, una relevatio ab onere probandi quando si traduce nella mancata contestazione dei fatti allegati da controparte, sempre che questa sia costituita (art. 115, comma 1, c.p.c.).

Il comportamento tenuto dalla ricorrente avanti alla Commissione, consistente nel riconoscimento degli addebiti da questa formulati, si innesta, poi, su di un accertamento preliminare dello stesso organo che è di per sé munito di valore probatorio. Come si è visto, la comunicazione degli addebiti è una fase preparatoria obbligatoria del procedimento di settlement. La formulazione degli addebiti, destinata a tradursi nella decisione finale in caso di adesione alla transazione, riflette un accertamento che ben può essere valorizzato dal giudice nazionale, in assenza di indicazioni contrarie.  (…)

Non si vede, poi, come negare valore agli elementi istruttori acquisiti nel corso del procedimento antitrust avanti alla Commissione, che la Corte di appello ha tenuto in conto sul presupposto – così deve intendersi, non ravvisandosi evidenze e deduzioni di contrario segno – che essi siano refluiti nel giudizio civile di danno. Non esiste alcun limite quanto all’utilizzo probatorio di tali elementi processuali. Questa Corte ha avuto modo già di rilevare che sono senz’altro apprezzabili, da parte del giudice civile, le prove desumibili dagli atti di indagine dell’AGCM nel caso di illecito concorrenziale demandato alla competenza di tale autorità (Cass. 27 febbraio 2020, n. 5381, cit., in motivazione) e tale conclusione è da confermare con riguardo alle risultanze di cui si discorre>>.

Diritto di installazione dell’antenna sulla proprietà altrui come servitù coattiva di passaggio

Cass. Sez. II Sent. del 08/11/2023, n.  31.101, rel. Amato:

propongo due massime sul medesimo insegnamento:

<<In tema di servitù di passaggio di antenna a favore di radioamatore, il diritto all’installazione dell’impianto sulla proprietà esclusiva altrui deriva direttamente dall’art. 21 Cost., di talché, nei casi in cui quest’ultimo non possa utilizzare spazi propri o comuni vi è l’obbligo, da parte dei proprietari di un immobile, di consentire la collocazione di antenne sulle porzioni in loro dominio esclusivo, senza diritto all’indennizzo e senza previa autorizzazione scritta, ma nei limiti del rispetto dei diritti proprietari, ai sensi dell’art. 91, comma 3, 92, comma 7, e 209, comma 2, d.lgs. n. 259 del 2003. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO GENOVA, 27/10/2017)>>   (CED Cassazione)

oppure:

<<Con riguardo ad un edificio in condominio ed all’installazione d’apparecchi per la ricezione di programmi radio-televisivi, il diritto di collocare nell’altrui proprietà antenne televisive, riconosciuto dalla L. 6 maggio 1940, n. 554, artt. 1 e 3 e del D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, art. 231 (ora assorbiti nel D.Lgs. n. 259 del 2003), è subordinato all’impossibilità per l’utente di servizi radiotelevisivi di utilizzare spazi propri, giacché altrimenti sarebbe ingiustificato il sacrificio imposto ai proprietari. Trattandosi di un fatto costitutivo del diritto all’installazione, l’onere di provare – se del caso anche con una C.T.U. – che non sia possibile utilizzare uno spazio proprio o condominiale per l’installazione, resta a carico del soggetto che intenda effettuarla>> (Massima redazionale: non è specificato di chi,  ma credo di OneLegale, avedola ivi reperita)