La sostituzione testamentaria deve essere esplicita , non essendo ravvisabile nella disposizione per cui l’erede istituito a sua volta avrà “l’obbligo morale” di devolvere i beni ai pretesi eredi in subordine (con un ripassino sulla interpretazione testamentaria)

Cass. sez. II sent. 01/03/2024 n. 5.487, rel. Giannaccari:
Premessa sull’interpretazione del testamento:

<<Secondo l’insegnamento di questa Corte, nell’interpretazione del testamento il giudice deve accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall’art.1362 c.c., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria, quale sia stata l’effettiva volontà del testatore comunque espressa, considerando congiuntamente, e in modo coordinato, l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale mortis causa, salvaguardando il rispetto del principio di conservazione del testamento (Cass. 14.10.2013, n.23278). Soltanto qualora dal testo dell’atto non emerga con certezza l’effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, l’interprete può, in via sussidiaria, ricorrere alla valutazione di elementi estrinseci al testamento, seppure sempre riferibili al testatore, quali ad esempio la sua cultura, la mentalità, il suo ambiente di vita, le sue condizioni fisiche (Cass. Civ., Sez. II, 24.4.2018, n.10075).

Si è quindi precisato che (così Cass. 20204/2005) qualora dall’indagine di fatto riservata al giudice di merito risulti già chiara, in base al contenuto dell’atto, la volontà del testatore, non è consentito – alla stregua del primario criterio ermeneutico della letteralità – il ricorso ad elementi tratti “aliunde” ed estranei alla scheda testamentaria>>.

La disposizione istitutiva:

Io sottoscritta, Br.Gi. – nata il (Omissis) a L (P) e residente a V, Corso (Omissis) – nelle mie piene facoltà mentali, nomino mio erede universale mio marito Ma.Ma.. Impongo al mio erede l’obbligo morale di riscrivere testamento con il quale, come da reciproci accordi, tutto il patrimonio venga assegnato, dopo la sua morte, nel modo seguente…[addirittura con determinazione delle risopettive quote, dice la SC!].

Ebbene, la SC non ravvisa in questa disposizione contenente un obbligo morale di “riscrivere il testamento” (perchè poi RIscrivere?) una sostituzione ex art. 688 cc:

<< La Corte d’appello ha ritenuto che l’istituzione di erede riguardasse solo il coniuge, con interpretazione plausibile, che ha tenuto conto, in primo luogo del dato letterale, mancando nell’atto una previsione espressa di devoluzione dell’eredità ai cognati.

La de cuius non aveva espressamente istituito eredi i cognati, in forza del meccanismo della sostituzione ex art.688 c.c., ma aveva fatto riferimento all’obbligo morale del marito di “riscrivere il testamento”, nel rispetto dei “reciproci accordi”.

Nell’interpretare la volontà della testatrice, la Corte di merito si è soffermata sull’appropriatezza del lessico nella parte in cui distingue l’istituzione di erede del coniuge dal suo obbligo morale di beneficiare i cognati nell’esercizio delle sue ultime volontà, ovvero nel “riscrivere il testamento”.

Del resto, la volontà del testatore, che deve guidare l’interprete nell’interpretazione del testamento, non può confliggere con le disposizioni di legge in materia di sostituzione ordinaria, che richiede una doppia istituzione di eredità in modo espresso, mentre, nel caso in esame, la testatrice non ha sostituito i cognati all’erede ma ha disposto che l’erede doveva riscrivere il testamento secondo accordi pregressi accordi intercorsi tra di loro.

La sostituzione deve essere oggetto di un‘esplicita disposizione del testatore, il quale provvede ad una designazione in subordine per il caso in cui l’istituito non possa acquistare l’eredità o il legato; in tale ipotesi, è lo stesso testatore ad indicare il criterio di soluzione per il caso in cui il designato alla successione non possa o non voglia succedere, prevalendo sia sulla rappresentazione che sull’accrescimento.

Il caso di specie non è riconducibile all’ipotesi in cui il testatore nomini un erede in via primaria ed un altro erede in via subordinata, realizzando la chiamata in sostituzione una chiamata originaria ed autonoma, che dipende dalla prima designazione solo in termini alternativi, nel senso che essa ha effetto se la prima designazione non si realizza>>.

Soluzione corretta ma non la motivazione. Che la sostituizione debba essere esplicita non risulta dalla legge e nemmeno dalla sua ratio: deve piuttosto essere inequivoca, anche se magari implicita.     E nel caso una disposizione in subordine non esisteva per nulla.

Annullabilità del testamento per incapacità del de cuius

Cass. sez. II, ord. 06/03/2024 n. 5.993, rel. Criscuolo:

<<3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 591 co. 2, n. 3, c.c. e del principio di diritto espresso da Cass. n. 9081/2010 e Cass. n. 27351/2014. La Corte d’Appello è giunta a confermare l’annullamento del testamento sul presupposto che fosse sufficiente che la capacità di intendere del testatore alla data dell’atto fosse esclusa o grandemente scemata (come riferito dalla CTU espletata in primo grado), ritenendo quindi equivalente la riduzione, ancorché grave, della capacità alla sua esclusione.

Con specifico riferimento alla deduzione del vizio di incapacità del testatore ex art. 591 c.c., l’elaborazione di questa Corte – anche nei precedenti richiamati con la censura in esame – ha, nel corso degli anni, precisato che, in tema di annullamento del testamento, l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (Cass. n. 3934/2018).

In senso conforme, e sempre nella giurisprudenza più recente, si sottolinea come sia stato ribadito che, nel caso di infermità tipica, permanente ed abituale, l’incapacità del testatore si presume e l’onere della prova che il testamento sia stato redatto in un momento di lucido intervallo spetta a chi ne afferma la validità; qualora, invece, detta infermità sia intermittente o ricorrente, poiché si alternano periodi di capacità e di incapacità, non sussiste tale presunzione e, quindi, la prova dell’incapacità deve essere data da chi impugna il testamento (Cass. n. 25053/2018). È stato, poi, puntualizzato che il giudice del merito può trarre la prova dalle sue condizioni mentali, anteriori o posteriori, sulla base di una presunzione; posto che la relativa prova può essere fornita con qualsiasi mezzo, una volta dimostrata una condizione di permanente e stabile demenza nel periodo immediatamente susseguente alla redazione del testamento, spetta a chi afferma la validità del testamento la prova della sua compilazione in un momento di lucido intervallo (Cass. n. 26873/2019; Cass. n. 27351/2014; Cass. n. 9508/2005).

Va, poi, ricordato che la giurisprudenza di questa Corte, sia pure nella vigenza della vecchia e meno rigorosa formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., aveva affermato che l’apprezzamento del giudice del merito circa l’incapacità d’intendere e di volere, prevista dall’art 591, n. 3, cod. civ., al fine di dedurre l’incapacità di disporre per testamento, costituisce indagine di fatto e valutazione di merito, non censurabile in sede di legittimità, se fondata su congrua motivazione, immune da vizi logici ed errori di diritto (Cass. n. 162/1981; Cass. n. 1851/1980; Cass. n. 3205/1971).

Peraltro, ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del testamento, il giudice del merito non può ignorare il contenuto dell’atto di ultima volontà e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle relative disposizioni, nonché ai sentimenti e ai fini che risultano averle ispirate. Nell’ambito di tale valutazione, il dato clinico, comunque necessario, costituisce uno degli elementi su cui il giudice deve basare la propria decisione, non potendosi mai prescindere dalla considerazione della specifica condotta dell’individuo e della logicità della motivazione dell’atto testamentario (Cass. n. 8690/2019; Cass. n. 230/2011; Cass. n. 5620/1995)>>.

Decorrenza del termine prescrizionale ed efficacia del c.d. settlment presso la Commissione UE ai fini del risarcimento del danno antitrust da cartello illecito

Cass. sez. I sent. 28/02/2024 n. 5.232, rel. Falabella, in un caso regolato dal d lgs n. 3 dl 2017 anche se relativo a condotta anteriore :

-I-

<<Il danno di cui si fa questione nella presente sede rientra tra quelli comunemente denominati lungolatenti, i quali sono caratterizzati dalla presenza di un segmento temporale, di significativa – e perciò non trascurabile – entità, che separa l’insorgenza del danno dalla sua percezione. La lungolatenza del danno fa sì che il titolare del diritto possa dirsi in stato di inerzia, rispetto all’esercizio del diritto risarcitorio, solo a partire dal momento in cui sia adeguatamente edotto delle circostanze dell’illecito concorrenziale: sicché l’azione risarcitoria da intesa anticoncorrenziale si prescrive, in base al combinato disposto degli art. 2935 e 2947 c.c., in cinque anni dal giorno in cui chi assume di aver subito il danno abbia avuto, usando l’ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia (così Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305). Ai fini della decorrenza del termine, quindi, non rileva il momento in cui l’agente compie l’illecito o quello in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all’altrui diritto, quanto, piuttosto, il momento in cui la condotta ed il conseguente danno si manifestano all’esterno, divenendo oggettivamente percepibili e riconoscibili (Cass. 6 dicembre 2011, n. 26188; nello stesso senso, cfr. Cass. 5 luglio 2019, n. 18176). Il principio è stato ribadito di recente dalla Corte di giustizia: si è evidenziato, per la precisione, proprio con riferimento all’illecito concorrenziale accertato dalla Commissione il 19 luglio 2016, di cui qui si dibatte, che i termini di prescrizione applicabili alle azioni per il risarcimento del danno per le violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione non possano iniziare a decorrere prima che la violazione sia cessata e che la persona lesa sia venuta a conoscenza, o si possa ragionevolmente presumere che sia venuta a conoscenza, del fatto di aver subito un danno a causa di tale violazione, nonché dell’identità dell’autore della stessa (Corte giust. UE 22 giugno 2022, C-267/20, cit., 61).

Appare allora comprensibile come la prescrizione, nel caso di intese restrittive della concorrenza, decorra, almeno di regola, dal momento in cui l’autorità competente accerta l’illecito: infatti, è caratteristica propria di tali accordi il fatto di rimanere riservati alle imprese che li assumono: con la conseguenza che il consumatore ne rimane esposto anche se in concreto li ignora (sul punto, già Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305, cit., in motivazione)>>.

Il conseguente principio di diritto:

< “In tema di risarcimento del danno da illecito antitrust, la domanda risarcitoria proposta dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 3 del 2017 per una violazione del diritto della concorrenza che è cessata prima dell’entrata in vigore della dir. 2014/104/UE, recepita da detto decreto legislativo, è assoggettata ratione temporis alla nuova disciplina sempre che il termine di prescrizione applicabile in virtù delle norme previgenti non sia spirato prima della data di scadenza del termine di recepimento della medesima direttiva; nel caso di illecito antitrust consistente in intesa anticoncorrenziale, rileva, dunque, che in base al diritto italiano, il termine di prescrizione della relativa azione comincia a decorrere non dal momento in cui il fatto si verifica nella sua materialità e realtà fenomenica, ma da quando esso si manifesta all’esterno con tutti i connotati che ne determinano l’illiceità”.

– II –

sull’efficacia nel giudizio risarcitorio del cd settlment, regolato dall’art 10 bis reg. 773/2004:
<<2.5 In sostanza, la Corte di appello, pur avendo discettato del valore vincolante delle decisioni della Commissione, ha basato il proprio giudizio circa l’esistenza dell’illecito concorrenziale su altro. Per la precisione, la pronuncia impugnata risulta fondarsi: a) sulla mancata contestazione, da parte dell’impresa, degli addebiti formulati dalla Commissione; b) sulla condotta processuale da detta impresa tenuta nel giudizio di merito, in cui Iveco non aveva parimenti contestato i fatti che integravano l’illecito concorrenziale; c) sulle risultanze istruttorie del procedimento tenutosi avanti alla Commissione; d) sulla mancata acquisizione di alcuna prova contraria (che la Corte di appello ha implicitamente ritenuto potesse essere offerta da parte dell’odierna ricorrente).

Tale impianto argomentativo non risulta puntualmente aggredito dalla ricorrente che ha lamentato, in sintesi, l’impropria valorizzazione di un vincolo di conformazione del giudice nazionale rispetto alla decisione della Commissione e all’istruttoria svoltasi avanti ad essa: e tanto porta a ritenere inammissibili i quattro mezzi di censura di cui qui si dibatte>>.

Poi:

<<2.6. – Peraltro, il rilievo attribuito dalla Corte distrettuale ai richiamati elementi – rispetto ai quali, si ripete, non sono state portate specifiche censure – non prospetta, in sé, alcun profilo di illegittimità.

In termini generali, il contegno processuale della parte è sempre suscettibile di essere apprezzato nell’ambito del giudizio civile (art. 116, comma 2, c.p.c.) e determina, anzi, una relevatio ab onere probandi quando si traduce nella mancata contestazione dei fatti allegati da controparte, sempre che questa sia costituita (art. 115, comma 1, c.p.c.).

Il comportamento tenuto dalla ricorrente avanti alla Commissione, consistente nel riconoscimento degli addebiti da questa formulati, si innesta, poi, su di un accertamento preliminare dello stesso organo che è di per sé munito di valore probatorio. Come si è visto, la comunicazione degli addebiti è una fase preparatoria obbligatoria del procedimento di settlement. La formulazione degli addebiti, destinata a tradursi nella decisione finale in caso di adesione alla transazione, riflette un accertamento che ben può essere valorizzato dal giudice nazionale, in assenza di indicazioni contrarie.  (…)

Non si vede, poi, come negare valore agli elementi istruttori acquisiti nel corso del procedimento antitrust avanti alla Commissione, che la Corte di appello ha tenuto in conto sul presupposto – così deve intendersi, non ravvisandosi evidenze e deduzioni di contrario segno – che essi siano refluiti nel giudizio civile di danno. Non esiste alcun limite quanto all’utilizzo probatorio di tali elementi processuali. Questa Corte ha avuto modo già di rilevare che sono senz’altro apprezzabili, da parte del giudice civile, le prove desumibili dagli atti di indagine dell’AGCM nel caso di illecito concorrenziale demandato alla competenza di tale autorità (Cass. 27 febbraio 2020, n. 5381, cit., in motivazione) e tale conclusione è da confermare con riguardo alle risultanze di cui si discorre>>.

Diritto di installazione dell’antenna sulla proprietà altrui come servitù coattiva di passaggio

Cass. Sez. II Sent. del 08/11/2023, n.  31.101, rel. Amato:

propongo due massime sul medesimo insegnamento:

<<In tema di servitù di passaggio di antenna a favore di radioamatore, il diritto all’installazione dell’impianto sulla proprietà esclusiva altrui deriva direttamente dall’art. 21 Cost., di talché, nei casi in cui quest’ultimo non possa utilizzare spazi propri o comuni vi è l’obbligo, da parte dei proprietari di un immobile, di consentire la collocazione di antenne sulle porzioni in loro dominio esclusivo, senza diritto all’indennizzo e senza previa autorizzazione scritta, ma nei limiti del rispetto dei diritti proprietari, ai sensi dell’art. 91, comma 3, 92, comma 7, e 209, comma 2, d.lgs. n. 259 del 2003. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO GENOVA, 27/10/2017)>>   (CED Cassazione)

oppure:

<<Con riguardo ad un edificio in condominio ed all’installazione d’apparecchi per la ricezione di programmi radio-televisivi, il diritto di collocare nell’altrui proprietà antenne televisive, riconosciuto dalla L. 6 maggio 1940, n. 554, artt. 1 e 3 e del D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, art. 231 (ora assorbiti nel D.Lgs. n. 259 del 2003), è subordinato all’impossibilità per l’utente di servizi radiotelevisivi di utilizzare spazi propri, giacché altrimenti sarebbe ingiustificato il sacrificio imposto ai proprietari. Trattandosi di un fatto costitutivo del diritto all’installazione, l’onere di provare – se del caso anche con una C.T.U. – che non sia possibile utilizzare uno spazio proprio o condominiale per l’installazione, resta a carico del soggetto che intenda effettuarla>> (Massima redazionale: non è specificato di chi,  ma credo di OneLegale, avedola ivi reperita)

Nuova convivenza more uxorio e revisione dell’assegno divorzile (art. 9 legge divorzio n° 878/1070): va individuato il peso della componente assistenziale dell’assegno

Cass. sez. I  dep. 12/02/2024), n. 3.761, rel. Parise:

<<Occorre rimarcare che, poiché si verte in tema di revisione ex art. 9 citato, la convivenza more uxorio costituisce un fatto sopravvenuto rispetto all’equilibrio anteriore, consegnato, per la sua regolazione, a un giudicato rebus sic stantibus che potrebbe configurarsi come non più attuale e idoneo a regolare il modificato assetto di interessi post-coniugali. E’ stato infatti chiarito da questa Corte, sempre in tema di revisione dell’assegno divorzile, che il giudice, a fronte della prova di circostanze sopravvenute sugli equilibri economici della coppia, non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o dell’entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti già compiuta in sede di sentenza divorzile, ma, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 18287 del 2018 deve verificare se, ed in che misura, le circostanze, sopravvenute e provate dalle parti, abbiano alterato gli equilibri sanciti dall’assetto economico patrimoniale dato dalla sentenza di divorzio (Cass. 7666/2022). [cosa ovvia!!!]

7. Tanto precisato, va innanzitutto osservato che, essendo stato l’assegno già riconosciuto in sede di giudizio divorzile, non può mettersi ora in discussione che, in allora, l’assegno non fosse dovuto, e ciò perché ne era stata riconosciuta la debenza con la citata sentenza n.18/2010: sia per la finalità assistenziale, sia per quella perequativa-compensativa, in base a quanto risulta implicitamente accertato dalla Corte di merito con il decreto oggetto dell’odierna impugnazione. Di conseguenza, non può operarsi, nel presente giudizio, una diversa ponderazione dei presupposti necessari per il riconoscimento ab origine dell’assegno divorzile e, anche, delle correlate condizioni economiche delle parti già effettuata, ovviamente con i dati e le risultanze dell’epoca, con la citata sentenza del 2010, con l’ulteriore corollario che il ricorrente non può ora negare il ruolo endo-familiare dell’ex moglie svolto durante la vita matrimoniale.

8. In quest’ottica e così inquadrato l’ambito di cognizione, entro il quale deve svolgersi il presente giudizio, i motivi secondo e terzo, che sono sostanzialmente diretti a contestare la sussistenza e la dimostrazione del contributo familiare dell’ex moglie, sono inammissibili, e così anche il quarto, con il quale il ricorrente, sempre al fine di negare che occorra “compensare” il suddetto contributo, assume anche che debba valorizzarsi il regime patrimoniale scelto dagli ex coniugi in costanza di matrimonio.

9. Per contro, certamente, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenze nn. 18287 del 2018 e 32191 del 2021, il giudice di merito deve verificare se, ed in che misura, le circostanze, sopravvenute e provate dalle parti, abbiano alterato gli equilibri sanciti dall’assetto economico patrimoniale dato dalla sentenza di divorzio, nonché deve anche verificare se persista il presupposto indefettibile della mancanza di mezzi adeguati (Cass. S.U. 32191/2021 citata), sempre in dipendenza del fatto sopravvenuto.

Infatti, come in ogni altra ipotesi di revisione dell’assegno divorzile, si richiede la presenza di “giustificati motivi” e si impone la verifica di una sopravvenuta, effettiva e significativa modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi sulla base di una rinnovata valutazione comparativa delle rispettive situazioni reddituali e patrimoniali (cfr. Cass. 354/2023).

Ove, pertanto, le ragioni invocate per la revisione siano tali da giustificare la revoca o la riduzione dell’assegno divorzile, è indispensabile accertare con rigore l’effettività dei mutamenti e verificare l’esistenza del nesso di causalità tra gli stessi e la nuova situazione economica instauratasi.

10. Nel caso di specie, la Corte d’appello si è limitata ad effettuare un’operazione matematica di dimezzamento dell’assegno divorzile originariamente riconosciuto, senza precisare quale fosse il “peso” della componente assistenziale non più dovuta, ove individuabile in base alla sentenza di divorzio [nds: e se non lo è? l’art. 5 l. div. non lo prevede come obbligarorio], ma, soprattutto e prima ancora, senza accertare quale fosse l’incidenza della sopravvenienza sull’adeguatezza dei mezzi della beneficiaria e quale la rinnovata comparazione delle rispettive situazioni reddituali e patrimoniali degli ex coniugi.

Resta da aggiungere che l’aspetto della nuova condizione economica dell’ex moglie, come fatto impeditivo derivante dalla sopravvenuta convivenza more uxorio, doveva essere specificamente allegato e dimostrato dall’ex marito, poiché l’onere probatorio sul punto grava sulla parte che neghi il diritto all’assegno (Cass.3645/2023). Pertanto, la Corte di merito, una volta ritenuta provata la sussistenza di un nuovo progetto di vita del beneficiario con il nuovo partner, avrebbe dovuto accertare, in presenza di allegazioni e offerta di prova dell’ex marito, se e in che termini fossero discese, dalla nuova relazione more uxorio, reciproche contribuzioni economiche (Cass.3645/2023). A tale riguardo l’odierno ricorrente deduce, con sufficiente specificità, di aver fornito, nel giudizio di merito, indizi ed elementi istruttori sintomatici di una più che ampia disponibilità di mezzi adeguati in capo alla richiedente l’assegno (cfr. pag.7 ricorso per i riferimenti a vacanze, crociere, frequenti viaggi in aereo per far visita al figlio – residente in Spagna alle Isole Canarie -, acquisto, in proprietà piena ed esclusiva, di un immobile produttivo di reddito, in quanto già locato a terzi).>>

V, poi stesso relatore, Cass.  Sez. I, Ord. 08 marzo 2024 n. 6.250, rel. Parise:

<<Va rilevato che, nel giudizio relativo alla negazione o alla revoca dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, a causa dell’instaurazione da parte di quest’ultimo di una convivenza more uxorio, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto, quale elemento indiziario, dell’eventuale coabitazione con l’altra persona, in ogni caso valutando non atomisticamente, ma nel loro complesso, l’insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al processo nei modi ammessi dalla legge, e gli eventuali ulteriori argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale i conviventi si siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale
e materiale (Cass. 14151/2022)>>

Sull’autonomia (e sulla revocabilità) della dispensa da imputazione ex se, inserita nella donazione, rispetto alla donazione stessa

Cass. sez. I del 06/02/2024, n. 3.352, rel. Cavallino:

<<4.1. Si deve considerare che la donazione in conto disponibile e con dispensa dall’imputazione è attribuzione che si aggiunge a quanto spetta al beneficiario a titolo di legittima, per cui l’intento del donante ereditando è quello di conferire al donatario un vantaggio ulteriore, che si concreta nell’esenzione dall’imputazione; con la dispensa dall’imputazione, disciplinata dall’art. 564 co. 2 cod. civ., il legittimario trattiene la donazione e in più ha diritto a ottenere la sua quota di legittima intera e non decurtata dalla donazione. Come evidenziato da Cass. Sez. 2 26-11-1971 n. 3457 Rv. 355068-01 la dispensa dall’imputazione ex se crea a favore del beneficiario una posizione di indiscutibile vantaggio, consentendogli di limitare o, addirittura, di escludere l’efficacia delle liberalità disposte in favore di altri legittimari e di conservare le proprie. Secondo la corretta riflessione della dottrina, la dispensa dall’imputazione comporta l’espansione della legittima, in quanto ha l’effetto di accrescere la quota riservata al legittimario, attribuendo allo stesso il diritto di trattenere la donazione ricevuta e nel contempo di conseguire l’intera quota di legittima. Quindi se, anziché dire che la donazione in conto disponibile con dispensa dall’imputazione grava sulla disponibile, si dice che tale donazione si incorpora nella quota di legittima aumentandone il valore, meglio si spiega come tale disposizione si sottragga all’azione di riduzione.

Tale disposizione con la quale il donante regolamenta la donazione in conto disponibile e con dispensa dall’imputazione, anche se contenuta nell’atto di donazione, è per definizione destinata a produrre effetti dopo la morte del disponente e ha specifica funzione mortis causa, quale atto di ultima volontà, palesemente distinta dalla donazione, negozio tipicamente inter vivos. Per queste ragioni, si deve condividere e dare continuità a quanto già statuito da Cass. Sez. 2 29-10-2015 n.22097 Rv. 636879-01 laddove, richiamando l’insegnamento sulla questione della dottrina prevalente, ha dichiarato che la dispensa dall’imputazione costituisce un negozio autonomo rispetto alla donazione, traendo da tale considerazione la conseguenza che la dispensa relativa all’imputazione di una donazione possa essere indifferentemente effettuata nello stesso atto di donazione o in un successivo testamento o in un successivo atto tra vivi. Non ostano a tale conclusione i precedenti di Cass. Sez. 2 1-10-2003 n. 14590 Rv. 567254-01, Cass. Sez. 2 7-5-1984 n. 2752 Rv. 434793-01 e Cass. Sez. 2 27-7-1961 n. 1845 Rv. 882772, in quanto ai fini della presente decisione è sufficiente osservare che la definizione data in quei precedenti alla dispensa dalla collazione quale clausola accessoria al contratto, come tale non eliminabile ex post per volontà di uno solo dei contraenti, non si attaglia alla dispensa dall’imputazione, destinata a produrre effetti dopo la morte del donante attribuendo al donatario divenuto erede il vantaggio ulteriore riferito all’attribuzione della sua intera quota di legittima, in aggiunta alla donazione già ricevuta.

Non può essere condiviso l’ulteriore rilievo svolto da parte della dottrina, secondo la quale la dispensa dall’imputazione contenuta nell’atto di donazione costituisce negozio a causa di morte a struttura inter vivos e quindi irrevocabile da parte del solo disponente: in senso contrario risulta convincente e deve essere recepito quanto pure osservato in dottrina, in ordine al fatto che la natura e la funzione del negozio non si modificano con riferimento all’atto che lo contiene. Anche nel caso in cui sia contenuta nella donazione, la dispensa dall’imputazione mantiene la sua autonomia rispetto alla donazione e incide solo dopo la morte del de cuius nell’assetto successorio-patrimoniale dei coeredi; la morte non è solo l’occasione degli effetti della dispensa ma è il suo presupposto esclusivo e determinante, così da non potere essere la dispensa concepita in modo avulso dall’eventualità di successione futura a favore di più coeredi.

Pertanto si deve concludere che, anche nel caso in cui sia contenuta nella donazione, la dispensa dall’imputazione mantiene la sua natura di atto unilaterale di ultima volontà sempre revocabile in forza del principio posto dall’art. 671 cod. civ., senza assumere struttura bilaterale così da potere essere sciolta solo per mutuo consenso. Del resto, se si ritenesse diversamente che l’accettazione della donazione da parte del donatario abbia a oggetto anche la dispensa dall’imputazione, così da rendere la dispensa irrevocabile unilateralmente da parte del donante, ci si dovrebbe porre la questione del configurarsi di un patto successorio istitutivo; ciò in quanto l’accordo tra il donante-futuro dante causa e il donatario-futuro erede, comprendendo anche la dispensa dall’imputazione così resa irrevocabile, sarebbe accordo avente a oggetto anche la futura successione con riguardo all’assetto delle attribuzioni di legittima e disponibile, in violazione del divieto posto dall’art. 458 cod. civ.>>

Debiti tributari del de cuius e responsabilità dell’erede

Cass.  Sez. V, Sent. 16 gennaio 2024  n. 1.640, Rel. Leuzzi:

<Con riferimento alla posizione dell’erede né l’art. 36-bis D.P.R. n. 600 del 1973, né l’art. 6, co. 5, L. n. 212 del 2000, prevedono deroghe in ordine all’esposto quadro di regole, né contemplano avvertimenti specifici. Viene, piuttosto, in apice il principio generale in ragione del quale l’erede è chiamato a rispondere di tutti i debiti facenti capo al de cuius non soltanto con i beni oggetti del patrimonio dell’estinto, ma, altresì, nel caso in cui questi ultimi non siano sufficienti al loro assolvimento, con il proprio patrimonio personale. In forza degli artt. 752 e ss c.c. e per espressa previsione dell’art. 65, co. 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, l’erede risponde in solido col dante delle obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte di quest’ultimo>>.

(notizia e link al testo da Ondif)

Interpretazione testamentaria e distinzione tra istituzione di erede (con divisione del testatore) e assegnazione di legato (in sostituzione di legittima)

Cass . sez. II, 11/01/2024  n. 1.149, rel. Pirari:

<<3.2 La censura, pur complicata dalla complessità della sua stesura e dal non necessario frazionamento delle singole argomentazioni, è fondata.

Essa impinge la sentenza impugnata in merito all’interpretazione data alla scheda testamentaria di Gi.Fr. – che, come dalla stessa riportato, aveva lasciato a ciascuno dei quattro figli la nuda proprietà di un cespite specificamente individuato e alla moglie il diritto di usufrutto su ciascuno di essi e la proprietà dei restanti suoi beni -, allorché ha qualificato i lasciti nei confronti dei figli in termini di legato in sostituzione di legittima ex art. 551 cod. civ., anziché di istituzione di erede, arguendolo dall’inciso, pure contenuto nel testamento, secondo cui, in caso di premorienza della moglie, i medesimi beni sarebbero stati devoluti in parti uguali ai figli, e fatto derivare da ciò l’infondatezza dell’azione di riduzione esercitata dalle ricorrenti, non avendo esse rinunciato ai legati ed essendo inammissibile, una volta confluiti i beni nel loro patrimonio, la resipiscenza tardiva sul punto, esercitata, in particolare, attraverso la rinuncia operata solo con la memoria ex art. 183 cod. proc. civ., depositata il 26/4/2013, oltretutto asseritamente prescritta in quanto intervenuta dopo dieci anni dall’apertura della successione del 12 ottobre 2002.

Avverso tali considerazioni, le ricorrenti sono insorte, lamentando, innanzitutto, la violazione delle norme in tema di interpretazione del contratto, quindi insistendo per la qualificazione del lascito in termini di istituzione di erede, con volontà divisoria, come arguibile anche da un atto successivo al testamento che invitava il fratello alla collazione, o, al più, di legato in conto di legittima, con conseguente ammissibilità dell’azione di riduzione senza previa rinuncia al legato, e, a cascata, l’erroneità della statuizione di tardività della rinuncia, anche in ragione dell’affermata e non comprovata, acquisizione del possesso dei beni da parte loro, ancorché contestata e contraddetta dai certificati di residenza, e della prescrizione, siccome decorrente, a loro dire, dalla conoscenza della scheda testamentaria e non dall’apertura della successione.

Orbene, andando con ordine, occorre, in primo luogo, ricordare come, secondo l’insegnamento di questa Corte, nell’interpretazione del testamento il giudice debba accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall’art. 1362 cod. civ., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria, quale sia stata l’effettiva volontà del testatore comunque espressa, badando al significato pratico e concreto delle espressioni usate, al quale deve dare prevalenza rispetto a quello meramente letterale, tenendo presente, nei casi dubbi, il complesso delle disposizioni e quegli elementi estrinseci che siano stati idonei ad influire sulla determinazione della volontà del testatore e a rivelare le ragioni, il contenuto delle disposizioni e le finalità con esse perseguite (Cass., Sez. 2, 26/2/1970, n. 469) e, dunque, considerando congiuntamente, e in modo coordinato, l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale mortis causa, e salvaguardando il rispetto del principio di conservazione del testamento (Cass., Sez. 2, 14/10/2013, n. 23278, Rv. 628013; Cass., Sez. 2, 14/01/2010, n. 468, Rv. 610814; Cass., Sez. 2, 21/02/2007, n. 4022, Rv. 595401).

Andando più nello specifico, è proprio attraverso l’utilizzo delle comuni regole ermeneutiche che va individuata la distinzione tra erede e legatario ai sensi dell’art. 588 cod. civ. e che può ravvisarsi l’istituzione di erede ex re certa allorché la volontà del testatore sia stata quella di attribuire uno o più beni determinati come quota del suo patrimonio e non già come lascito autonomo senza conferimento della qualità di erede, ossia il legato (Cass., Sez. 2, 27/10/1980, n. 5773), tenendo conto che l’assegnazione di beni determinati dà luogo ad una successione a titolo universale qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto oppure ad un legato se egli abbia voluto attribuirgli singoli, individuati, beni (Cass., Sez. 2, 25/10/2013, n. 24163, Rv. 628231; Cass., Sez. 2, 1/03/2002, n. 3016, Rv. 552709).

Peraltro, mentre in base al primo comma dell’art. 588 c.c. l’istituzione di erede va desunta dal contenuto strettamente obiettivo dell’atto, di guisa che la volontà testamentaria, che pur sempre va ricercata, non ha il potere di determinare un’istituzione di erede che prescinda da un preciso rapporto con l’universalità di beni del testatore o con una quota di esso, con la conseguenza che, sempre che la chiamata venga in universam rem o pro quota si ha istituzione di erede quali che siano i termini, anche se impropri, usati dal testatore e anche nell’eventualità che parte dell’asse sia destinata a legati, viceversa, in base al secondo comma dello stesso articolo, accanto al criterio obiettivo dell’interpretazione desunta dal contenuto dell’atto, viene introdotto quello soggettivo dell’interpretazione ricavata dall’intenzione del testatore di assegnare beni determinati come quota del patrimonio, interpretazione cui è dato pervenire attraverso i comuni canoni della volontà testamentaria, sicché alla stregua del secondo comma dell’art. 588 cod. civ., anche l’assegnazione di determinati beni o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, tutte le volte che risulti che il testatore abbia inteso assegnare quei beni come quota del suo patrimonio, considerandoli, cioè, nel loro rapporto con il tutto (Cass., sez. 2, 8/7/1964, n. 1800).

Il risultato di tale interpretazione non è sindacabile in sede di legittimità ove non si alleghi la violazione di un preciso canone interpretativo o il vizio della motivazione della sentenza (Cass., Sez. 2, 27/10/1980, n. 5773; Cass., Sez. 2, 21/1/1978, n. 269), risolvendosi l’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato (Cass., Sez. 2, 6/10/2017, n. 23393).

Ebbene, le ricorrenti, pur avendo lamentato la violazione dell’art. 1362 cod. civ., non hanno chiarito in quale modo e con quali considerazioni il giudice di merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati, sicché deve operare il principio secondo cui, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass., Sez. 3, 10/2/2015, n. 2465; Cass. 3, Sez., 26/5/2006, n. 10891).

Pertanto, avendo nella specie i giudici motivato adeguatamente sulle ragioni per le quali hanno ritenuto di qualificare le disposizioni testamentarie in termini di legato e non di istituzione ex re certa e non avendo, per converso, le ricorrenti chiarito i termini della lamentata violazione delle norme ermeneutiche applicabili, la censura deve ritenersi sotto questo profilo infondata.

Diversamente deve opinarsi con riguardo alla ritenuta configurabilità del legato in sostituzione di legittima, in luogo di quello in conto di legittima preteso, invece, dalle ricorrenti.

Come questa Corte ha già avuto modo di osservare, al fine della configurabilità del legato in sostituzione di legittima, occorre che dal complessivo contenuto delle disposizioni testamentarie risulti, in modo certo e univoco, la volontà del de cuius di tacitare il legittimario con l’attribuzione di determinati beni, precludendogli la possibilità di mantenere il legato e di attaccare le altre disposizioni per far valere la riserva, laddove, in difetto di tale volontà, il legato deve ritenersi “in conto” di legittima (Cass., Sez. 2, 19/11/2019, n. 30082).

A tali fini, non occorre che la scheda testamentaria usi formule sacramentali, siccome non richieste dalla norma, potendo l’intenzione del testatore di soddisfare il legittimario con l’attribuzione di beni determinati senza chiamarlo all’eredità essere desunta anche dal complessivo contenuto della scheda testamentaria attraverso un’opportuna indagine interpretativa da cui risulti tale intenzione (Cass., Sez. 2, 16/1/2014, n. 824), senza che possano essere considerati elementi estrinseci al testamento se non espressamente richiamati nell’atto stesso (Cass., Sez. 2, 9/9/2011, n. 18583).

Lo stabilire se una disposizione testamentaria a favore di un legittimario integri un legato in sostituzione oppure in conto di legittima costituisce anch’esso accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato ed immune da violazione dei canoni ermeneutici che devono presiedere all’interpretazione delle disposizioni di ultima volontà (v. Cass., Sez. 2, 26/5/1998, n. 5232; Cass., Sez. 2, 10/6/2011, n. 12854; Cass., Sez. 2, 29/7/2005, n. 16083) [no: è questione di diritto; dI fatto è solo  quella sulla ricostruzione del contenuto semantico della scheda].

Ebbene, a tali principi non si sono attenuti i giudici di merito, i quali hanno qualificato le disposizioni testamentarie paterne in termini di legato in sostituzione di legittima alla stregua dell’attribuzione ai figli della sola nuda proprietà di alcuni beni, lasciati in usufrutto alla moglie in uno con le sue restanti proprietà, e della loro devoluzione in parti uguali ai figli soltanto in caso di premorienza della moglie, ossia sulla base di elementi che si rivelano del tutto incoerenti con la qualificazione della disposizione in termini siffatti.

In ragione di quanto detto, il motivo deve, dunque, ritenersi fondato>>.

Obbligo informativo del cliente da parte dell’avvocato

Cass sez. III del 11/12/2023 n. 34.412, rel., Moscarini:

<<Con questa affermazione la Corte del gravame ha determinato una erronea inversione dell’onere della prova esonerando il legale, su cui invece la legge pone il relativo onere, dai suoi precipui obblighi informativi; la ordinanza viola sia la norma sul riparto probatorio e quindi l’art. 2697 c.c. e anche gli artt. 1176 e 2236 c.c. perché omette di considerare che in base alla L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 5 è il professionista ad essere tenuto (e quindi a dover provare), nel rispetto del principio di trasparenza, ad informare il cliente del livello di complessità dell’incarico fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento della conclusione del conferimento alla conclusione dell’incarico; è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l’incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione distinguendo tra oneri, spese forfettarie e compenso professionale; questi obblighi costituiscono pertanto misura della sua diligenza professionale ai sensi dell’art. 1176 e 2236 c.c.>>

Rapporti Oxfam gennaio 2024 sulla disuguaglianza

Appena uscito il rapporto in oggetto per l’Italia, scritto da Mikhail Maslennikov,
Policy Advisor di Oxfam Italia (scaricabile qui ).

Il cap. 2 contiene le osservazioni sul ns paese,

Pure il cap. 1 sul trend mondiale è interssante (sulla concentrazione in corso, soprattutto).

Risporto :

<<I proprietari miliardari esercitano il controllo per assicurare che il potere societario sia in costante crescita, sovente attraverso una più forte concentrazione di mercato, assicurandosi posizioni monopolistiche, consentite dai governi. L’accresciuto potere economico delle grandi società è a sua volta orientato alla massimizzazione degli utili per gli azionisti senza un giusto riconoscimento al contributo di altri soggetti o gruppi coinvolti nella creazione di valore.
Viviamo in un’era di immenso potere monopolistico che consente alle grandi corpo-
ration di controllare i mercati, stabilire le regole del gioco e godere di rendite di posizione senza timore di perdere il giro d’affari. Ciò ha molteplici impatti sulle nostre vite: determina le retribuzioni che percepiamo, il cibo che possiamo permetterci e i farmaci a cui possiamo accedere. Lungi dall’essere casuale, questo potere è stato di fatto concesso dai nostri governi che hanno permesso alle più grandi corporation al mondo di diventare sempre più grandi e di fare sempre più profitti. Apple ha un valore di mercato di 3.000 miliardi di dollari: a titolo esemplificativo, questa cifra è superiore all’intero PIL della Francia, la settima economia più grande del mondo.  I cinque colossi globali più grandi al mondo per capitalizzazione hanno un valore di mercato complessivo superiore al PIL di tutte le economie di Africa, America Latina e Caraibi messe insieme.
L’accresciuta concentrazione di mercato si osserva in qualsiasi settore dell’econo-
mia. A livello globale, nel corso di appena due decenni, tra il 1995 e il 2015, 60
aziende farmaceutiche si sono fuse in 10 colossi del “Big Pharma”.45 Due multinazionali controllano oggi più del 40% del mercato globale delle sementi (25 anni fa erano 10). Le “Big Tech” dominano i mercati: tre quarti dei ricavi globali dalla pubblicità online fluiscono a Meta, Alphabet e Amazon47 e oltre il 90% delle ricerche online viene effettuato tramite Google.

I monopoli incrementano il potere delle grandi società e dei loro proprietari a detrimento di chiunque altro. Anche il Fondo Monetario Internazionale concorda sul fatto che il potere monopolistico stia crescendo e contribuendo ad alimentare le disuguaglianze. I monopoli determinano un trasferimento economico dal lavoro al capitale, redistribuendo “il reddito disponibile dei molti in plusvalenze, dividendi e retribuzioni del management per i pochi”.50 Creando scarsità di offerta per aumentare i prezzi e spingere verso l’alto i profitti, i monopoli redistribuiscono reddito e ricchezza in modo regressivo: dai lavoratori e consumatori al top management e ai titolari dell’impresa.
I margini medi per le mega-società sono aumentati vertiginosamente negli ultimi decenni  e il potere monopolistico ha consentito a grandi aziende in molti settori ad alta concentrazione di mercato di coordinarsi implicitamente per aumentare i prezzi e determinare un incremento dei propri margini a partire dal 2021, 52 in particolar modo nei settori energetico, alimentare e farmaceutico.53
La finanza privata e i gestori patrimoniali – che agiscono in gran parte per conto di clienti facoltosi – svolgono un ruolo enorme nel favorire la concentrazione di potere economico nelle mani di pochi. 54 Le società di private equity, forti dei 5.800 miliardi di dollari di liquidità degli investitori dal 2009, hanno utilizzato l’accesso privilegiato ai mercati per agire come una forza monopolizzante in tutti i settori.55, 56 A loro si aggiungono i grandi fondi di investimento, noti come “Big Three” – BlackRock, State Street e Vanguard – un altro propulsore di potere monopolistico57: complessivamente  gestiscono asset finanziari per 20.000 miliardi di dollari, più di un quinto di tutti i titoli gestiti da fondi di investimento su scala planetaria.
La finanziarizzazione delle imprese, che assegna ai mercati finanziari un ruolo sempre più rilevante nell’economia, ha esacerbato l’attenzione sui profitti a breve termine rispetto a qualsiasi obiettivo di lungo termine.59 Ha indebolito gli investimenti produttivi, agendo invece nell’interesse del capitale e riorientando un numero sempre più grande di imprese non finanziarie verso strumenti e attività improduttive>>

E’ uscito pure quello a livello mondiale (INEQUALITY INC. How corporate power
divides our world and the need for a new era of public actionc – Davos 2024)., ove son sviluppate in maggior dettaglio le analisi sui trend mondiali. V. la pag. Oxfam.org ove i downloads del testo completo oppure delll’executive sum,mary.-

Del full text v. spt. cap. 2 “A new era of monopoly power” e cap. 3 “How corporate power fuels inequality”