Il rideposito del marchio con minime varianti per gli stessi prodotti è in mala fede (ancora su “The Flower Thrower” di Bansky)

Nedim Malovic in IPKat ci notizia della decisione  Cancellation Division EUIPO CANCELLATION No C 47 807 (INVALIDITY)  21.12.2023, Full Colour Black Limited,  v. Pesta Control office ltd:

<<The above-mentioned circumstances surrounding the application for the contested mark, as well as the chronology of the subsequent events, indicate that the EUTM proprietor’s filing strategy was used with the intention to circumvent the obligation to prove genuine use of the mark. Such conduct cannot be considered as a legitimate business activity having a justifiable commercial logic but, on the contrary, is incompatible with the objectives pursued by the EUTMR and may be considered as an ‘abuse of law’ (by analogy, 07/07/2016, T-82/14, LUCEO, EU:T:2016:396, § 52, 22/07/2019, R 1849/2017-2, MONOPOLY, § 78).

While it is true that there is no requirement for an EUTM applicant to declare or to show its intent to use a mark at the moment of its filing, there is also no justification for protecting trade marks unless they are actually used on the market according to the genuine use requirements prescribed by relevant (national/EU) law. Therefore, registrations that are intended to prevent third parties from registering or using identical/similar rights for identical/similar goods and/or services in the future (in relation to all or some of the identified goods and/or services), without any honest commercial logic, may be an indicator of the applicant’s dishonest intention (29/09/2021, T-592/20, Agate / Agate, EU:T:2021:633, § 69) and therefore considered made in bad faith.

All of these circumstances imply that the intention of the EUTM proprietor was indeed to take advantage of the EU trade mark rules by artificially creating the situation where it would not have to prove genuine use of its mark for the contested goods and services which are identical to those covered by its previous, identical EUTM registration.

Taking into account all the factual circumstances relevant to the present case, it is concluded that the filing of the application of the contested EUTM, insofar as it includes the goods and services already covered by an earlier EUTM registration, namely those mentioned above, was made without any commercial logic and thus, in bad faith.

As to the remaining contested goods and services that are not strictly identical to those covered by the EUTM proprietor’s earlier marks, the Cancellation Division considers that bad faith has not been proven, so the request for a declaration of invalidity should be rejected also as far as it is based on this ground (by analogy, 18/05/2023, R 836/2022-4, Cayenne, § 69)>>.

Sono state invece rigettate altre ragioni di nullità (mancanza di distintività ed altri motivi di malafede).

Sulla (non) risarcibilità del c.d. danno tanalogico e del danno non patrimoniale: sintesi del diritto vivente

Quasi una lectio magistralis in Cass. sez. 3 del 27.12.2023 n. 35.998, rel. Porreca, sul tema in oggetto:

<< – in ipotesi di condotta colpevole del sanitario cui sia conseguita la perdita anticipata della vita, perdita che si sarebbe comunque verificata, sia pur in epoca successiva, per la pregressa patologia del paziente, non è concepibile, né logicamente né giuridicamente, un danno da “perdita anticipata della vita” trasmissibile “iure successionis”, non essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico (Cass., 19/09/2023, n. 26851);

– è possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con riferimento al diritto “iure proprio” degli eredi, rappresentato dal pregiudizio da minor tempo vissuto dal congiunto (Cass., n. 26851 del 2023, cit.);

– in ipotesi di morte del paziente dipendente (anche) dall’errore medico, qualora l’evento risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, tale ultima dovendosi ritenere lo stato patologico non riferibile alla prima, l’autore del fatto illecito risponde “in toto” dell’evento eziologicamente riconducibile alla sua condotta, in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, potendo l’eventuale efficienza concausale dei suddetti eventi naturali rilevare esclusivamente sul piano della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, ascrivendo all’autore della condotta un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose da rapportare, invece, all’autonoma e pregressa situazione patologica del danneggiato (Cass., n. 26851 del 2023, cit., in cui si richiama l’ormai costante giurisprudenza sul punto);

e’ stato sottolineato (Cass., n. 26851 del 2023, pag. 17) che quando la vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del giudizio da parte degli eredi “non è concepibile, né logicamente né giuridicamente, un “danno da perdita anticipata della vita” trasmissibile iure successionis (Cass., 04/03/2004, n. 4400, Cass. n. 5641 del 2018, … e Cass., Sez. U., n. 15350 del 2015,…), non essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico.

Esemplificando, causare la morte d’un ottantenne sano, che ha dinanzi a sé cinque anni di vita sperata, non diverge, ontologicamente, dal causare la morte d’un ventenne malato che, se correttamente curato, avrebbe avuto dinanzi a sé ancora cinque anni di vita.

L’unica differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che, nel primo caso, la vittima muore prima del tempo che gli assegnava la statistica demografica, mentre, nel secondo caso, muore prima del tempo che gli assegnava la statistica e la scienza clinica: ma tale differenza non consente di pervenire ad una distinzione “morfologica” tra le due vicende, così da affermare la risarcibilità soltanto della seconda ipotesi di danno.

E’ possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con riferimento al diritto iure proprio degli eredi, solo definendolo il pregiudizio da minor tempo vissuto ovvero da valore biologico relazionale residuo di cui non si è fruito, correlato al periodo di tempo effettivamente vissuto….

In conclusione, nell’ipotesi di un paziente che, al momento dell’introduzione della lite, sia già deceduto, sono, di regola, alternativamente concepibili e risarcibili iure hereditario, se allegati e provati, i danni conseguenti:

a) alla condotta del medico che abbia causato la perdita anticipata della vita del paziente (determinata nell’an e nel quantum), come danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita effettivamente vissuta), considerato nella sua oggettività, e come danno morale da lucida consapevolezza della anticipazione della propria morte, eventualmente predicabile soltanto a far data dall’altrettanto eventuale acquisizione di tale consapevolezza in vita;

b) alla condotta del medico che abbia causato la perdita della possibilità di vivere più a lungo (non determinata né nell’an né nel quantum), come danno da perdita di chances di sopravvivenza.

In nessun caso sarà risarcibile iure hereditario, e tanto meno cumulabile con i pregiudizi di cui sopra, un danno da “perdita anticipata della vita” con riferimento al periodo di vita non vissuta dal paziente”;

pertanto, “quando sia certo che la condotta del medico abbia provocato (o provocherà) la morte anticipata del paziente, la morte stessa diviene, di regola, evento assorbente di qualsiasi considerazione sulla risarcibilità di chance future, salvo quanto si dirà…

Nell’esigenza di pervenire ad una terminologia chiara e condivisa, va pertanto chiarito che:

a) vivere in modo peggiore, sul piano dinamico-relazionale, la propria malattia negli ultimi tempi della propria vita a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, rappresenta un danno biologico (differenziale);

b) nel contempo, trascorrere quegli ultimi tempi della propria vita con l’acquisita consapevolezza delle conseguenze sulla (ridotta) durata della vita stessa a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, costituisce un danno morale, inteso come sofferenza interiore e come privazione della capacità di battersi ancora contro il male;

c) perdere la possibilità, seria apprezzabile e concreta, ma incerta nell’an e nel quantum, di vivere più a lungo a causa di diagnosi e/o cure tardive da errore medico, è un danno da perdita di chance;

d) la perdita anticipata della vita per un tempo determinato a causa di un errore medico in relazione al segmento di vita non vissuta, è un danno risarcibile non per la vittima, ma per i suoi congiunti, nei termini prima chiariti, quale che sia la durata del “segmento” di esistenza cui la vittima ha dovuto rinunciare.

…deve concludersi che non vi è spazio, in linea generale, per sovrapposizioni concettuali tra istituti speculari (chance e perdita anticipata della vita), salvo che si chiariscano e si accertino, motivando rispetto alla concreta fattispecie, le differenze come sinora ricostruite. Ne consegue, pertanto, che:

a) nel caso di perdita anticipata della vita (una vita che sarebbe comunque stata perduta per effetto della malattia) sarà risarcibile il danno biologico differenziale (nelle sue due componenti, morale e relazionale: art. 138 nuovo testo c.a.p.), sulla base del criterio causale del “più probabile che non”: l’evento morte della paziente, verificatasi in data X, si sarebbe verificata, in assenza dell’errore medico, dopo il tempo (certo) X+Y, dove Y rappresenta lo spazio temporale di vita non vissuta: il risarcimento sarà riconosciuto, con riferimento al tempo di vita effettivamente vissuto – e non a quello non vissuto, che rappresenterebbe un risarcimento del danno da morte (riconoscibile, viceversa, iure proprio, ai congiunti) stante l’irrisarcibilità del danno tanatologico – in tutti i suoi aspetti, morali e dinamico-relazionali, intesi tanto sotto il profilo della (eventuale) consapevolezza che una tempestiva diagnosi e una corretta terapia avrebbero consentito un prolungamento (temporalmente determinabile) della vita che va a spegnersi, quanto sotto quello della invalidità permanente “differenziale” (la differenza, cioè, tra le condizioni di malattia effettivamente sopportate e quelle, migliori, che sarebbero state consentite da una tempestiva diagnosi e da una corretta terapia);

b) il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece risarcito, equitativamente, volta che, da un lato, vi sia incertezza sull’efficienza causale della condotta illecita quoad mortem, ma, al contempo, vi sia certezza eziologica che la condotta colpevole abbia cagionato la perdita della (come detto apprezzabile) possibilità di vivere più a lungo (possibilità non concretamente accertabile nel quantum né predicabile quale certezza nell’an, a differenza che nell’ipotesi sub a). La valutazione equitativa di tale risarcimento non sarà, dunque, parametrabile, sia pur con le eventuali decurtazioni, né ai valori tabellari previsti per la perdita della vita, né a quelli del danno biologico temporaneo;

c) il danno da perdita anticipata della vita e il danno da perdita di chance di sopravvivenza, di regola, non saranno né sovrapponibili né congiuntamente risarcibili, pur potendo eccezionalmente costituire oggetto di separata ed autonoma valutazione qualora l’accertamento si sia concluso nel senso dell’esistenza di un danno tanto da perdita anticipata della vita, quanto dalla possibilità di vivere ancora più a lungo, qualora questa possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria, concreta e apprezzabile, e sempre che entrambi i danni siano riconducibili eziologicamente (secondo i criteri rispettivamente precisati) alla condotta colpevole dell’agente.

…fermo il generale principio, come sopra espresso, della generale irrisarcibilità dell’ulteriore danno da perdita di chance in presenza di un danno da perdita anticipata della vita, in via eccezionale possono darsi ipotesi in cui il Giudice di merito ritenga, anche sulla base della prova scientifica acquisita, che, oltre al tempo determinato di vita anticipatamente perduta, esista, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, la seria, concreta e apprezzabile possibilità (sulla base dell’eziologica certezza della sua riconducibilità all’errore medico) che, oltre quel tempo, il paziente avrebbe potuto sopravvivere ancora più a lungo. In tal caso, sempre che e soltanto se tale possibilità non si risolva in una mera speranza, ovvero si collochi in una dimensione di assoluta incertezza eventistica, che non attinga la soglia di quella seria, concreta, apprezzabile possibilità (come lascerebbe intendere, in via di presunzione semplice, l’avvenuta morte, benché anticipata, del paziente), tale ulteriore e diversa voce di danno risulterà concretamente e limitatamente risarcibile, in via equitativa, al di là e a prescindere dai parametri (sia pur diminuiti percentualmente) relativi al danno biologico e al quello da premorienza”;

nel caso di specie, è stato accertato in fatto che, senza l’omissione del sanitario, colposamente causale, la vittima, deceduta per infarto due giorni dopo, avrebbe “più probabilmente che non” vissuto un periodo di vita determinato, di sette anni, come tale risarcibile “iure proprio” non “iure successionis”, in linea con quanto osservato anche dal Pubblico Ministero;

si osserva che quanto alla sussistenza della domanda di risarcimento del danno “non patrimoniale, “iure proprio”, in conseguenza della perdita di una persona cara”, essa, da correlare ai principî appena riaffermati, risulta da ciò che lo stesso ricorso, nella corretta cornice di specificità regolata dall’art. 366 c.p.c., n. 6, riporta alle pagine 15 e 16;

per quanto appena detto, non viene invece in discussione la domanda di danno “iure proprio” da perdita di “chance”;>>

Esclusa la confondibilità dei marchi BIOTRON e BIOTRON

Il 2° Board of Appeal EUIPO 28.11.2023, case R 1656/2023-2,BIOTROP PARTICIPAÇÕES S.A c. CIFO srl,  la esclude nella seguente fattispecie

Conclude così’:

<<A global assessment of the likelihood of confusion implies some interdependence between
the factors taken into account and, in particular, between the similarity of the trade marks
and that of the goods or services covered. Accordingly, a low degree of similarity between
those goods or services may be offset by a high degree of similarity between the marks,
and vice versa.
40 Nonetheless, the principle of interdependence is not intended to apply mechanically.
Therefore, while it is true that, by virtue of the principle of interdependence, a lesser degree
of similarity between the goods or services covered may be offset by a greater degree of
similarity between the marks, conversely there is nothing to prevent a finding that, in view
of the circumstances of a particular case, there is no likelihood of confusion, even where
identical goods are involved and there is a weak degree of similarity between the marks at
issue (03/05/2023, T-459/22, Laboratorios Ern, SA vs. EUIPO, EU:T:2023:237, § 96).
41 The goods and services are similar to an average and low degree. The signs are visually,
phonetically and conceptually similar to a low degree. The relevant public will show a
high level of attention at the time of purchase.
42 The differences between the signs, arising from their respective endings and the figurative
representation of the contested sign, are not negligible in the overall impression created by
the marks, especially for a public with a higher level of attention. Accordingly, they are
able to compensate for the visual, phonetic and even conceptual similarities that result from
the presence, at the beginning, of the term ‘BIO’, and the string of letters ‘t-r-o’ common
to all the signs (05/10/2020, T-602/19, NATURANOVE, EU:T:2020:463, § 74).
43 It should be stressed that the similarity between the marks at issue created by their prefix
‘bio’ carries very limited weight, if any, in the context of the global assessment of the
likelihood of confusion. Owing to the lack of distinctive character of that prefix, it cannot
be perceived as an indication of commercial origin. The relevant public’s attention will, as
a result, naturally focus more on the elements which differentiate the signs at issue and, in
particular, on the suffixes ‘tron’ in the earlier marks and ‘trop’ in the contested mark and
on the figurative elements in that mark (03/05/2023, T-459/22, Laboratorios Ern, SA vs.
EUIPO, EU:T:2023:237, § 101).
44 In this respect, it would be against the rationale of the EUTMR to give too much
importance in the assessment of a likelihood of confusion to non-distinctive elements. It
would be inappropriate if a proprietor of a trade mark composed of figurative and/or verbal
elements, where each of them taken alone or in combination are non-distinctive, were in
the position to successfully claim a likelihood of confusion based on the presence of one  of these elements in the other sign. This would result in unduly broad protection for
descriptive and non-distinctive elements, which would prohibit other competitors from
using the same descriptive and non-distinctive elements as components of their trade
marks, especially if the use of such a term is in accordance with honest practice in
commercial matters (18/09/2013, R 1462/2012-G, ULTIMATE GREENS / ULTIMATE
NUTRITION, § 62).
45 It follows that excessive protection of marks consisting of elements which, as in the present
case, have weak distinctive character, if any, in relation to the goods or services at issue,
could adversely affect the attainment of the objectives pursued by trade mark law, if, in the
context of the assessment of the likelihood of confusion, the mere presence of such
elements in the signs at issue led to a finding of a likelihood of confusion without taking
into account the remainder of the specific factors in the present case (18/01/2023,
T-443/21, YOGA ALLIANCE INDIA INTERNATIONAL (fig.)/ yoga ALLIANCE (fig.),
EU:T:2023:7, § 117-118)>>.

Lasciua ad es perplessi uil § 29 : <<Furthermore, the mere fact that the marks at issue are composed of the same number of letters, some of which coincide, is not decisive. Since the alphabet is made up of a limited number of letters, which, moreover, are not all used with the same frequency, it is inevitable that many words will have the same number of letters and even share some of them, but they cannot, for that reason alone, be regarded as visually similar. In addition, the public is not, in general, aware of the exact number of letters in a word mark and, consequently, will not notice, in the majority of cases, that two conflicting marks have the same number of letters (03/05/2023, T-459/22, Laboratorios Ern, SA vs. EUIPO, EU:T:2023:237, § 63)>>.

TAle limitatezza va superata cambiando radicalmente i. segno: non c’è era obbligo di legge di adottare quello de quo.

Infine, per il Board c’è affinità tra la produzione di certi beni  e il servizio di retail dei medesimi (così almeno interpretererei il primo punto, non chiarissimo): <<23.Indeed, generally, retail services concerning the sale of particular goods are similar to these particular goods [cioè alla loro produzione? o vendita all’ingrosso?]. Although the nature, purpose and method of use of these goods and services are not the same, they present some similarities, as they are complementary and the services are generally offered through the same trade channels (where the goods are offered for sale) and they target the same public (24/09/2008, T-116/06, ‘O Store’, EU:T:2008:399, § 60)>>.

(segnalazione e link di Marcel Pemsel inIPJKat , critico sulla decisione)

Revisione dell’assegno di mantenimento del figlio, titolare di contratto di apprendistato (sull’art. 337 septies cc)

Cass. sez. I, Ord. 19/12/2023  n. 35.494, rel. Meloni (da Onelegale):

<Si deve premettere che la modifica dei provvedimenti adottati con la sentenza di divorzio è subordinata alla condizione del sopravvenire di fatti nuovi rispetto alle circostanze valutate in sede di emissione degli stessi provvedimenti: ebbene la Corte ha già valutato e vagliato le nuove condizioni patrimoniali del ricorrente e ridotto a 200,00 Euro l’assegno originario di 350,00. Infatti, la Corte ha, nel provvedimento impugnato, compiutamente valutato la situazione economica del sig. A.A. e ritenuto che, pur essendo allo stato Egli disoccupato, a far data dal 10.01.2022, “non è verosimile che per la sua età e per la sua capacità lavorativa, non riesca a trovare lavoro avendo dimostrato anche capacità imprenditoriali – sia pur intraprese in (Omissis) – ove ha costituito una scuola di lingua inglese per bambini (doc 17, fasc. primo grado) ed ove ha gestione anche una pizzeria “(Omissis)” (docc. nn. 16-22) attività per le quali, come già anche rilevato dal Tribunale di Monza non ha documentato i suoi redditi.

La Corte di merito ha poi accertato che attualmente egli vive con gli anziani genitori a Monza, ai quali presta assistenza ed è mantenuto dalla madre e dal fratello come dallo stesso dichiarato in udienza alla Corte; che la disdetta del contratto di locazione dell’immobile di cui era proprietario sita in (Omissis) non gli avrebbe impedito di locarlo nuovamente – come rilevato già dal Tribunale – ma comunque la vendita del predetto immobile – avvenuta nel 2020 – per l’importo di Euro 57.000,00 ed il successivo acquisto per l’importo di Euro 42.000,00 di altra casa – in località (Omissis) – fanno presumere che lo A.A. non versi in serie condizioni di ristrettezze economiche proprio per la scelta di investimento in un altro immobile che non è escluso che possa essere messo a reddito tenuto conto del fatto che lui vive con i genitori a Monza – come dallo stesso dichiarato all’udienza del 24 febbraio 2022.

La Corte ha poi valutato, con apprezzamento legittimo, sulla base della certificazione resa dal centro per l’impiego di Milano (che attesta che la figlia C.C. – ancora studentessa – svolge lavoro di apprendistato con decorrenza 01.09.2021) che “la tipologia di contratto di lavoro di apprendistato non consente di considerare un figlio economicamente autosufficiente, non essendo stati provati – nella presente fattispecie – una serie di parametri ed in particolare l’importo del reddito percepito e la durata del contratto medesimo”. Il ricorrente, di contro, non ha dimostrato che il trattamento economico ricevuto dalla figlia C.C. – quale apprendista – è non solo proporzionato e sufficiente, ma anche idoneo ad assicurare la sua autosufficienza economica e pertanto, tenuto conto di quanto sopra esposto, la Corte d’Appello ha legittimamente ritenuto di poter accogliere solo parzialmente il reclamo paterno riducendo ad Euro 200,00 l’importo per il mantenimento mensile che lo A.A. deve versare per la figlia C.C..

Tutte le valutazioni del giudice di merito sopra riportate non contrastano con la giurisprudenza di questa Corte che più volte ha affermato il principio secondo cui il mantenimento del figlio resta a carico dei genitori fintanto che non si sia esaurito in congruo termine, la fase di formazione ed inserimento nel mondo del lavoro. Nella specie, tale progressione, ancora in corso, non si è del tutto completata, onde il giudice di merito ha limitato ma non escluso completamente la contribuzione genitoriale>>.

La convivenza more uxorio anteriore al matrimonio rileva ai fini della determinazione dell’assegno divorzile

Ripasso significaivo dei principi in mafteria da aprrte di Cass. sez. un. 35385 del 18.12.2023, rel. Iofrida:

<<6.8. In definitiva, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi, in ragione di un progetto di vita comune, a una convivenza prematrimoniale della coppia, vertendosi, al più, in “fasi di un’unica storia dello stesso nucleo familiare” (si è parlato, in dottrina (a) di una convivenza che si distingue da tutte le altre, in quanto “scrutata retrospettivamente essa quasi muta sostanza e partecipa della natura del matrimonio che l’ha seguita” ovvero (b) del fatto che, nell’ipotesi in cui le nozze siano state precedute da una significativa convivenza prematrimoniale, “la decisione di sposarsi includa anche la volontà di compensare (nel caso di futuro divorzio) i sacrifici effettuati in attuazione di un indirizzo comune già concordato ed attuato per un significativo periodo precedente alle nozze” ovvero ancora della circostanza (c) che ” le parti, contraendo un’unione formalizzata, hanno dimostrato la volontà non soltanto di impegnarsi reciprocamente per il futuro, ma anche di dare continuità alla vita familiare pregressa, inglobandone l’organizzazione all’interno delle condizioni di vita del matrimonio o dell’unione civile”), va computato, ai fini dell’assegno divorzile, il periodo della convivenza prematrimoniale solo ai fini della verifica dell’esistenza di scelte condivise dalla coppia durante la convivenza prematrimoniale, che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare sacrifici o rinunce alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio.

Ovviamente, resta necessaria una previa allegazione e prova rigorosa, giovando ribadire che: a) la convivenza prematrimoniale rileverà, ai fini patrimoniali che interessano, ove poi consolidatasi nel matrimonio, se assuma “i connotati di stabilità e continuità”, essendo necessario che i conviventi abbiano elaborato ” un progetto ed un modello di vita in comune (analogo a quello che di regola caratterizza la famiglia fondata sul matrimonio)”, dal quale inevitabilmente discendono anche reciproche contribuzioni economiche; b) l’assegno divorzile, nella sua componente compensativa, presuppone un rigoroso accertamento del nesso causale tra l’accertata sperequazione fra i mezzi economici dei coniugi e il “contributo fornito dal richiedente medesimo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali”, in quanto solo un rigoroso accertamento del fatto che lo squilibrio, presente al momento del divorzio fra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti, sia l’effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle esigenze familiari può, invece, giustificare il riconoscimento di un assegno perequativo, tendente a colmare tale squilibrio, mentre in assenza della prova di questo nesso causale, l’assegno può essere solo eventualmente giustificato da una esigenza assistenziale, la quale tuttavia consente il riconoscimento dell’assegno solo se il coniuge più debole non ha i mezzi sufficienti per un’esistenza dignitosa e versi in situazione di oggettiva impossibilità di procurarseli; c) sarà necessario verificare poi l’effettivo nesso tra le scelte compiute nella fase di convivenza prematrimoniale e quelle compiute nel matrimonio.

6.9. Nella fattispecie in esame, la Corte d’appello, ai fini della determinazione dell’assegno divorzile dovuto dall’ex marito alla ricorrente, non ha effettivamente considerato, nella valutazione del contributo al me’nage familiare dato dalla M., anche con il ruolo svolto di casalinga e di madre, per come allegato, il periodo (dal 1996 al 2003), continuativo e stabile, di convivenza prematrimoniale (nell’ambito del quale era nato anche un figlio della coppia), avendo incentrato il giudizio, oltre che sulle disponibilità economiche del soggetto onerato, solo sulla “durata legale del matrimonio”.

Deve essere quindi enunciato il seguente principio di diritto: “Ai fini dell’attribuzione e della quantificazione, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dell’assegno divorzile, avente natura, oltre che assistenziale, anche perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio si ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della coppia, avente i connotati di stabilità e continuità, in ragione di un progetto di vita comune, dal quale discendano anche reciproche contribuzioni economiche, laddove emerga una relazione di continuità tra la fase “di fatto” di quella medesima unione e la fase “giuridica” del vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della convivenza prematrimoniale, ai fini della necessaria verifica del contributo fornito dal richiedente l’assegno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi, occorrendo vagliare l’esistenza, durante la convivenza prematrimoniale, di scelte condivise dalla coppia che abbiano conformato la vita all’interno del matrimonio e cui si possano ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o rinunce, in particolare, alla vita lavorativa/professionale del coniuge economicamente più debole, che sia risultato incapace di garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio“>>.

Che precisa pure: <<I presupposti dell’assegno divorzile, quali individuati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, come interpretato dalle Sezioni unite nella sentenza n. 18287/2018, costituiscono, nel loro complesso, il parametro di riferimento tanto della valutazione relativa all’an debeatur quanto di quella relativa al quantum debeatur: l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente, prescritto ai fini della prima operazione, deve aver luogo mediante complessiva ponderazione dell’intera storia familiare, in relazione al contesto specifico, e una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, che tenga conto anche del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dello avente diritto, tutto ciò in conformità della funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa dell’assegno divorzile, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà>>.

Come da me già scritto altrove, peccato che le SS.UU. dimentichino che il presupposto, per far operare detti parametri, sia l’ “assenza di mezzi adeguati” (art. 7.5 legge divorzio): “mezzi”  dunque rilevanti solo in negativo e cioè in caso di loro assenza per fare operare i parametri, a null’altro servendo. Il ternore letterale è decisamente chiaro

Sulla opportunità o meno nei singoli casi del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio (art. 250 c.c.)

Cass. sez. I   del 28/11/2023 n. 33.097, rel. Iofrida:

<<Il diritto al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio può essere sacrificato solamente in presenza di motivi gravi ed irreparabili tali da compromettere in modo irreversibile lo sviluppo psico-fisico del minore. Tale è il discrimen che il giudice deve vagliare in concreto al fine di valutare il bilanciamento tra opposti interessi, quali l’esigenza di affermare la verità biologica e l’interesse di preservare i rapporti familiari nonché lo sviluppo del minore.

Il suddetto principio trova fondamento nella distinzione dei concetti giuridici di “riconoscimento” ed “esercizio della responsabilità genitoriale”. Il riconoscimento inteso come status genitoriale non può essere mai eluso, a meno che il minore non possa subire un pregiudizio gravissimo – da accertarsi in concreto – da parte del padre, dato ad esempio dal “suo inserimento in un ambiente di criminalità organizzata ed attualmente detenuto per tali gravi reati” (cfr. Cass. 23074/2005). Non sono sufficienti mere pendenze penali né la sola “valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dall’attuale contesto di affidamento deve costituire interferenza ostativa al riconoscimento, posto che non vi è alcun nesso con l’esercizio del diritto alla genitorialità, potendo invece tale valutazione costituire oggetto di giudizio in diverso procedimento “ad hoc” ” (Cass. 2645 del 2011).

La titolarità dell’esercizio della responsabilità genitoriale, al contrario, può essere – successivamente al riconoscimento effettuato – soggetta a limitazione fino alla decadenza, ove venga evidenziata una situazione di pregiudizio grave o comunque di interferenza negativa con il benessere del minore (nell’ipotesi in cui si adottino provvedimenti conformativi).

Sul tema, la Suprema Corte si è poi espressa ritenendo che “nel giudizio volto al riconoscimento del figlio minore di anni quattordici da parte del secondo genitore, nell’ipotesi di opposizione del primo che lo abbia già effettuato, occorre procedere ad un bilanciamento, il quale non può costituire il risultato di una valutazione astratta, ma deve procedersi ad un accertamento in concreto dell’interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale” (Cass. 18600/2021). Nella fattispecie con cui si è misurata la sentenza, veniva in questione “l’abituale condotta violenta e prevaricatrice del padre biologico nei confronti della madre e dei suoi familiari, frutto di un modello culturale di rapporti di genere, che doveva invece essere posta in evidenza nell’operazione di bilanciamento”: bilanciamento – quello tra l’esigenza di affermare la verità biologica e l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari (sostanzialmente equivalente a quello tra il diritto soggettivo di colui che vuole riconoscere il figlio e l’interesse del minore a non subire una forte compromissione del proprio sviluppo psico-fisico, di cui si è in precedenza detto) – che la pronuncia postula non poter essere declinato in astratto, come, invece, accaduto nella motivazione della sentenza di appello impugnata in quel giudizio.

Nella successiva sentenza n. 24718/2021, questa Corte ha ulteriormente precisato che “Il diritto, come quello alla vita familiare, stabilito all’art. 8 Cedu, non presenta carattere assoluto ma, al contrario, può essere sacrificato all’esito di un giudizio di bilanciamento con il concreto interesse del minore a non subire per effetto del riconoscimento un grave pregiudizio per il proprio sviluppo psico fisico. L’accertamento da svolgersi, tuttavia, deve essere rigoroso perché non qualsiasi turbamento può incidere sull’indicato diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto ma solo il pericolo, fondato su un giudizio prognostico concretamente incentrato sulla situazione personale e relazionale del genitore e del minore che abbia ad oggetto la verifica del pericolo per lo sviluppo psico-fisico non traumatico del minore stesso, derivante dal riconoscimento richiesto. Non può essere assunto come elemento di comparazione il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, per modulare il quale vi sono strumenti di tutela diversi, ma deve trattarsi di un grave pregiudizio causalmente determinato dall’esistenza sopravvenuta dello status genitoriale. Poiché la corretta e veritiera rappresentazione della genitorialità costituisce elemento costitutivo dell’identità del minore e del suo equilibrato sviluppo psico-fisico, la sottrazione radicale del rapporto giuridico paterno o materno, conseguente al diniego di riconoscimento ex art. 250 c.c., può essere giustificata soltanto dalla valutazione prognostica di un pregiudizio superiore al disagio psichico indubitabilmente conseguente dalla mancanza e non conoscenza di uno dei genitori, da correlarsi alla pura e semplice attribuzione della genitorialità” (in applicazione di tale principio, questa Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, nel rigettare la domanda proposta ex art. 250 c.c., aveva del tutto omesso di effettuare il predetto bilanciamento, limitandosi a considerare i vari precedenti penali del padre e l’intervenuta revoca del permesso di soggiorno).

Di recente (Cass. 8762/2023), si è ribadito che “nel giudizio volto al riconoscimento del figlio naturale, l’opposizione del primo genitore che lo abbia già effettuato non è ostativa al successivo riconoscimento, dovendosi procedere ad un accertamento in concreto dell’interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale; del pari, è ammissibile l’attribuzione del cognome del secondo genitore in aggiunta a quello del primo, purché non arrechi pregiudizio al minore in ragione della cattiva reputazione del secondo e purché non sia lesiva della identità personale del figlio, ove questa si sia già definitivamente consolidata, con l’uso del solo primo cognome, nella trama dei rapporti personali e sociali” (cfr. anche Cass. 5634/2023).

In definitiva, nel caso in cui l’altro genitore (che abbia già effettuato il riconoscimento) non presti il consenso, il giudice deve operare un bilanciamento tra il diritto soggettivo di colui che vuole riconoscere il figlio e l’interesse del minore a non subire una forte compromissione del proprio sviluppo psico-fisico, da compiersi operando un giudizio prognostico, che valuti non già il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, per modulare il quale vi sono diversi strumenti di tutela, ma la sussistenza, nel caso specifico, di un grave pregiudizio per il minore che derivi dal puro e semplice acquisto dello status genitoriale e che si riveli superiore al disagio psichico conseguente alla mancanza o non conoscenza di uno dei genitori>>.

Questgo oper il giudice a quo che aveva malamnte applicato queste regole:

<<Il giudice di secondo grado non ha fatto buon governo dei principi sopra esposti, confermando la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda di riconoscimento della figlia naturale da parte del padre.

La Corte di merito, dopo avere descritto, sulla base delle informative assunte, la personalità del padre biologico, dando atto che lo stesso, tossicodipendente (e la condizione di tossicodipendenza non risultava, all’epoca, risolta, come emergeva dalla relazione del Servizio Dipendenze del carcere di (Omissis)), aveva già riportato, nonostante la giovane età, molteplici condanne in sede penale (anche per atti persecutori ai danni della madre della minore di cui è chiesto il riconoscimento e danneggiamento seguito da incendio all’autovettura della di lei madre), si è soffermata, dovendo verificare l’interesse in concreto della minore al riconoscimento da parte del ricorrente, su questioni concernenti l’esercizio della responsabilità genitoriali, estranee al giudizio de quo, e costituenti oggetto di separato giudizio (sospeso) di dichiarazione dello stato di adottabilità della minore.

La Corte d’appello ha dato atto, infatti, che, anzitutto, anche a causa del riavvicinamento del M. alla C., nel (Omissis), già la madre della minore aveva deciso di interrompere il percorso comunitario in atto con la figlia e qualche mese dopo si allontanava anche dalla comunità, con conseguente fallimento del tentativo di recupero delle capacità genitoriali della stessa e che, alla luce di quanto rilevato dal consulente tecnico d’ufficio, in una consulenza, acquisita agli atti del primo grado, nel luglio 2019, vi era l’urgente necessità di inserimento della bambina in adeguato ambiente famigliare e la stessa, in comunità dai primi mesi di vita e ivi rimasta da sola da (Omissis), era stata positivamente inserita nel (Omissis) in una famiglia affidataria “a rischio giuridico”, con la quale aveva ormai costruito un legame di fiducia e di attaccamento ed aveva recuperato una condizione di benessere, costituendo ormai un rapporto identitario e familiare in abito diverso da quello biologico: a fronte dell’assenza di rapporti significativi della bambina con il padre e la rete parentale paterna (dovuti, peraltro, alla storia stessa della bambina, nata allorché il padre era in carcere e collocata in comunità sin dai primi mesi di vita), l’evoluzione della minore (che, nel 2019, mostrava “ritardo nelle tappe evolutive ed un alto rischio evolutivo”) doveva ritenersi incompatibile con l’attribuzione della paternità al M., risolvendosi in una frattura nel difficile equilibrio e nei progressi nello sviluppo psico-fisico raggiunti.

La Corte d’appello, dunque, ha negato il diritto al riconoscimento da parte del padre – in assenza del consenso della madre, che non si è espressa, rimanendo contumace – tenendo conto prevalentemente dei precedenti penali dei quali è gravato (uno soltanto in danno della madre e della nonna della minore), da alcuni dei quali egli risulta, peraltro, essere stato assolto.

E’ mancato qualsiasi accertamento in concreto – da espletarsi anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – in ordine al pregiudizio effettivo che possa derivare alla minore dal puro e semplice acquisto dello status genitoriale, che – nel bilanciamento con il diritto soggettivo del padre al riconoscimento – risulti effettivamente prevalente, e che si riveli anche superiore al disagio psichico conseguente alla mancanza o non conoscenza di uno dei genitori>>.

Diritto di marchio vs. diritto alla parodia del marchio stesso : la lite sul marchio VANS

Lisa Ramsey su Twitter (X)  segnala  un articolo da Bloomberg law che offre il link all‘Appello del 2 circuito 5 dicembre 2023, docket No. 22-1006, Vans v. MSCHF.

Il caso è intreressante , affrontando un tema di attualità: il rapporto tra diritto di marchio e quello di parodia, da inserire nel diritto alla libetà di parola.

Il problema nasce quando il secondo è esercitato da imprenditori (anche gli artisti allora possono esserlo ed anzi lo sono nel diritto della concorrenza): c’è infatti il sospetto che vogliano lucrare sulla notorietà altrui.

La corte fa qui prevalere il diritto di marchio, appellandosi alla sentenza Supreme Court del 2023  Jack Daniel’s Properties, Inc. v. VIP Products LLC e a un precedente imprtante in del 2 circuito Rogers v. Grimaldi dek 1989  per cui la parodia va bene solo se e fino a che non generi confondibilità:

<<The Supreme Court’s decision in Jack Daniel’s forecloses MSCHF’s argument
that Wavy Baby’s parodic message merits higher First Amendment scrutiny under Rogers. As the Court held, even if a defendant uses a mark to parody the
trademark holder’s product, Rogers does not apply if the mark is used “‘at least in
part’ for ‘source identification.’” Id. at 156 (quoting Tommy Hilfiger Licensing, Inc.,
v. Nature Labs, LLC, 221 F. Supp. 2d 410, 414–15 (S.D.N.Y. 2002)).
Here, MSCHF used Vans’ marks in much the same way that VIP Products
used Jack Daniel’s marks—as source identifiers. As discussed above and
illustrated below, VIP Products used the Jack Daniel’s bottle size, distinctive
squared-off shape, and black and white stylized text to invoke an image of Jack
Daniel’s famous whiskey bottle.
Jack Daniel’s, 599 U.S. 148–49.
Likewise, MSCHF’s design evoked myriad elements of the Old Skool
trademarks and trade dress. Among other things, MSCHF incorporates, with
distortions, the Old Skool black and white color scheme, the side stripe, the
perforated sole, the logo on the heel, the logo on the footbed, and the packaging.
See Part I, above. MSCHF included its own branding on the label and heel of the
Wavy Baby sneaker, just as VIP Products placed its logo on the toy’s hangtag. But
even the design of the MSCHF logo evokes the Old Skool logo. And unlike VIP
Products, MSCHF did not include a disclaimer disassociating it from Vans or Old
Skool shoes. See Jack Daniel’s, 599 U.S. at 150 (noting the dog toy included a
disclaimer that read: “This product is not affiliated with Jack Daniel Distillery”).
A trademark is used as a “source identifier” when it is used “to identify or
brand a defendant’s goods or services” or to indicate the “‘source or origin’ of a
product.” Id. at 156 (alterations adopted). MSCHF used Vans’ trademarks—
particularly its red and white logo—to brand its own products, which constitutes
“quintessential ‘trademark use’” subject to the Lanham Act. Id. at 155 (citation
omitted); see also Harley-Davidson, Inc. v. Grottanelli, 164 F.3d 806, 812–13
(mechanic’s use of Harley-Davidson’s bar and shield motif in his logo, despite
the “humorous[]” message, was traditional trademark use subject to the
likelihood of confusion analysis).
Moreover, although MSCHF did not purport to sell the Wavy Baby under
the Vans brand, it admitted to “start[ing]” with Vans’ marks because “[n]o other
shoe embodies the dichotomies—niche and mass taste, functional and trendy,
utilitarian and frivolous—as perfectly as the Old Skool.” Jt. App’x at 353. In
other words, MSCHF sought to benefit from the “good will” that Vans—as the
source of the Old Skool and its distinctive marks—had generated over a decades-
long period. See Jack Daniel’s, 599 U.S. at 156. Notwithstanding the Wavy Baby’s
expressive content, MSCHF used Vans’ trademarks in a source-identifying
manner. Accordingly, the district court was correct when it applied the
traditional likelihood-of-confusion test instead of applying the Rogers test>>.

La composizione del conflitto di interssi è ragionevole: ok alla parodia e alla libertà di espressine, ma in termini chiari e non equivoci (cioè senza alcun rischio di confondibilità).

La parodia come interesse antagonista della privativa di marchio è tema ancora non affrontato sistematicamente.

Pur se non espressamente previsto  (art. 14 dir. 2015/2436; a differenza dal diritto di autore: dir. 29-2001 art. 5.3.k), è però in generale da ammettere. Resta il compito di individuarne i confini e cioè di conciliarlo con il diritto di marchio.

Sul dovere della banca di vigilare su operaizoni anomale confliggenti con l’interesse del cliente: la base giuridica è il consueto dovere di buona fede in executivis

Cass. 03.11.2023  n. 30.588, rel. Catallozzi:

<<- si osserva che, secondo la giurisprudenza di codesta Corte, nonostante la banca non abbia alcun dovere generale di monitorare la regolarità delle operazioni ordinate dal cliente, nondimeno, in presenza di circostanze anomale idonee a ledere l’interesse del correntista, questa, in applicazione dei doveri di esecuzione del mandato secondo buona fede, deve rifiutare l’esecuzione o almeno informare il cliente (Cass. 31 marzo 2010, n. 7956);
tale obbligo di protezione si attiva alla ricorrenza cumulativa di due presupposti: che l’operazione sia ictu oculi anomala e che non risponda agli interessi del cliente;

– può aggiungersi che il dovere di astenersi dall’esecuzione di un’operazione – o almeno di informare il cliente prima di eseguirla – si riferisce a singole operazioni precisamente individuate, non estendendosi l’anomalia di un’operazione, idonea a far sorgere l’obbligo di protezione della banca, a quelle successive;

– la Corte di appello, ha espressamente richiamato tale giurisprudenza facendone discendere la responsabilità della banca in ragione del fatto che quest’ultima – su cui gravava il relativo onere probatorio – non aveva sempre informato preventivamente la cliente di determinate operazioni che andavano considerate ictu oculi «anomale» ed estranee ai suoi interessi;
– per l’esattezza, facendo proprio l’accertamento operato dal Tribunale in sede di liquidazione del danno, ha riconosciuto che una serie di operazioni effettuate sui rapporti intestati alla Audisio, costituite da assegni incassati da Stefano e Corrado Bortolotti quali beneficiari o giratari, prelievi in contanti, bonifici in loro favore, incasso del ricavato della vendita dell’imbarcazione «Clara» e assegni emessi in favore di terzi, erano state poste in essere dai Bortolotti «nel loro interesse esclusivo e in assenza di un interesse della Audisio» (cfr. pagg. 16-17
e 81-82);
– ha, poi, rilevato che sin dal primo semestre 2004 i funzionari della banca si erano resi conto delle anomalie dei movimenti riguardanti la gestione patrimoniale e i conti correnti intestati alla Audisio – in particolare, delle frequenti operazioni del Bortolotti sia di utilizzo della giacenza esistente sui conti correnti, sia di passaggi di liquidità dalla gestione al conto corrente – e avevano segnalato tale circostanza alla Direzione (nella persona dell’Amministratore delegato Pietro D’Aquì), la quale, però si era attivata solo tardivamente, nonostante la Audisio fosse stata individuata quale «cliente di direzione», da seguire con «massima assistenza nel servizio» in quanto segnalata quale «cliente
problematica» in relazione alle sue abnormi spese e alla necessità di prevenire la progressiva erosione del suo patrimonio (cfr. pag. 74-76);

– ha, sul punto, osservato che a far data dal momento in cui il carattere anomale delle disposizioni impartite dal Bortolotti, quale delegato a operare sulla gestione patrimoniale e sui conti correnti, si era reso evidente la banca, in osservanza degli obblighi di protezione sulla stessa gravanti, avrebbe dovuto astenersi dall’esecuzione delle stesse, se non previa informazione della cliente che, nei casi rilevati, era stata omessa;
– dall’esame congiunto dei richiamati passaggi motivazionali, nonché dal complessivo tenore della sentenza impugnata, emerge che la Corte di appello ha riconosciuto che le operazioni poste in essere dal Bortolotti con riferimento alla gestione patrimoniale e ai conti correnti della Audisio, così come individuate quali voci di danno in sede di liquidazione dell’importo risarcitorio, presentassero carattere di operazioni ictu oculi anomale e non rispondenti agli interessi del cliente e ha accertato che la banca avesse dato corso a tali esecuzioni pur in assenza di una previa specifica informazione della cliente;
– così argomentata la sentenza di appello si sottrae alla censura prospettata, avendo accertato sia l’esecuzione da parte della banca di disposizioni impartite sulla gestione patrimoniale e sui conti correnti – da parte del delegato Bortolotti – caratterizzate dalla presenza di circostanze anomale idonee a ledere l’interesse del correntista, provvedendo alla loro individuazione, sia la mancata relativa
preventiva informazione specifica alla correntista prima della loro
esecuzione;

– le medesime considerazioni svolte con riferimento alla responsabilità contrattuale valgono con riferimento alla responsabilità per fatto illecito, in relazione alla ritenuta cooperazione nell’illecito del terzo, atteso che l’accertata inosservanza degli obblighi informativi gravanti sulla banca possono essere espressivi di un atteggiamento negligente o, comunque, imprudente della banca e, in quanto tale, idoneo a integrare il contestato requisito dell’elemento soggettivo>>

I gravi motivi per il recesso del conduttore da locazione commerciale ex art. 27 c. 8 L. 392/1978

Cass. sez. III, 17.07.2023 n. 20.503, rel.  Condello.

<<Trattandosi di recesso ‹‹titolato››, e in ciò distinguendosi dal recesso ad nutum, la comunicazione del conduttore non può, tuttavia, prescindere dalla specificazione dei motivi, con la conseguenza che tale requisito inerisce al perfezionamento della stessa dichiarazione di recesso e, al contempo, risponde alla finalità di consentire al locatore la precisa e tempestiva contestazione dei relativi motivi sul fattuale o della loro idoneità a legittimare il recesso medesimo (Cass., sez. 3, 17/01/2012, n. 549; Cass. 26/11/2002, n. 16676; Cass. 29/03/2006, n. 7241; Cass., 24/04/2008, n. 10677), dovendo conseguentemente escludersi che il conduttore possa esplicitare successivamente le ragioni della determinazione assunta (Cass., sez. 3, 30/06/2015, n. 13368). In tal senso si è espressa anche la sentenza di questa Corte n. 24266/2020, richiamata dalla ricorrente nella memoria illustrativa a supporto della doglianza.
Le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale devono, inoltre, essere determinate da avvenimenti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione. Inoltre, con riferimento
all’andamento dell’attività aziendale, può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, non solo un andamento della congiuntura economica sfavorevole all’attività di impresa, come è di intuitiva evidenza (Cass., sez. 3, 24/09/2019, n. 23639; Cass., sez.  3, 09/05/2023, n. 12461), ma anche uno favorevole – purché sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile (al momento della stipula del contratto) – che lo obblighi ad ampliare la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo (cfr. Cass., sez. 3, 10/12/1996, n. 10980; Cass., sez. 3, 20/02/2004, n. 3418; Cass., sez. 3, 21/04/2010, n. 9443).
Nel caso di sopravvenuto andamento favorevole della congiuntura aziendale, i fatti, per essere tali da rendere oltremodo gravosa la prosecuzione del contratto, devono innanzitutto presentare una connotazione oggettiva, non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine all’opportunità ed alla mera vantaggiosità di continuare a occupare l’immobile locato, poiché, in tal caso, si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso ad nutum, contrario all’interpretazione letterale, oltre che allo spirito della suddetta norma (cfr. Cass., sez. 3, 28/02/2008, n. 5293; Cass., sez. 3, 08/03/2007, n. 5328).
In tal caso, pertanto, la gravosità della persistenza del rapporto locativo deve essere valutata oggettivamente ed in concreto utilizzando come parametri comparativi, da una parte, la dimensione e le caratteristiche del bene locato e del nuovo locale e, dall’altra, le sopravvenute nuove esigenze di produzione e di commercio dell’azienda. Ne consegue che il giudice del merito non può limitarsi a prendere in considerazione il fatto che vi sia stato un aumento del fatturato aziendale o un aumento del personale lavorante, indici di per sé soli, utili ma non sufficienti al fine propostosi, ma deve altresì verificare, sulla base delle prove raccolte – il cui onere spetta al conduttore recedente secondo i principi generali in materia di ripartizione dell’onere probatorio – se nello specifico ed in concreto le caratteristiche dell’immobile oggetto di locazione siano divenute inadeguate alla accresciuta dimensione dell’azienda così da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la prosecuzione del rapporto locativo (Cass., sez. 3, 26/06/2012, n. 10624; Cass., sez. 3, 29/04/2015, n. 8706)>>