Azion e di danno contro una cryogenic facility per omessa adozione di misure che avrebbero evitato la distruzione di embrioni

Una coppia aziona il diritto risarcitorio (contrattuale) per omessa vigilanza verso il rischio di distruzione di embrioni crioconservati, azionando une legge del 1872, the Wrongful Death of a Minor Act.

In primo grado la domanda è rigettata per una  generale regola di irrisarcibilità della perdita della  vita e, sopratutto, per una speciale regola relativa al concetto normativo di “child”.

La corte suprema 16 febbraio 2024 ,  n° SC-2022-0515 , James Le Page ed altri v.  The Center for Reproductive Medicine, P.C., and Mobile Infirmary Association d/b/a Mobile Infirmary Medical r... invece annulla poichè fa rientrare in tale concetto tutti gli “unborn children”, sia in utero che dotati di vita (anche se attualmente criocongelati)   extrauterina , come nel caso de quo (questa la pag. del relativo docket/fascicolo processuale).

Dice che tanto nella legge quanto nel linguaggio comune nulla fa ritenere corretto escludere la seconda categoria.

<<Before analyzing the parties’ disagreement about the scope of the
Wrongful Death of a Minor Act, we begin by explaining some background
points of agreement. All parties to these cases, like all members of this
Court, agree that an unborn child is a genetically unique human being
whose life begins at fertilization and ends at death. The parties further
agree that an unborn child usually qualifies as a “human life,” “human
being,” or “person,” as those words are used in ordinary conversation and
in the text of Alabama’s wrongful-death statutes. That is true, as
everyone acknowledges, throughout all stages of an unborn child’s
development, regardless of viability.
The question on which the parties disagree is whether there exists
an unwritten exception to that rule for unborn children who are not
physically located “in utero” — that is, inside a biological uterus — at the
time they are killed. The defendants argue that this Court should
recognize such an exception because, they say, an unborn child ceases to
qualify as a “child or “person” if that child is not contained within a
biological womb>. p. 8

<<But these cases do not require the
Court to resolve them because, as explained below, neither the text of the
Wrongful Death of a Minor Act nor this Court’s precedents exclude
extrauterine children from the Act’s coverage. Unborn children are
“children” under the Act, without exception based on developmental
stage, physical location, or any other ancillary characteristics.>> p. 11

E sopratuttto alle pp. 15-17:

<<Courts interpreting statutes are required to give words their
” ‘ “natural, ordinary, commonly understood meaning,” ‘ ” unless there is
some textual indication that an unusual or technical meaning applies.
Swindle v. Remington, 291 So. 3d 439, 457 (Ala. 2019) (citations omitted).
Here, the parties have not pointed us to any such indication, which
reflects the overwhelming consensus in this State that an unborn child is
just as much a “child” under the law as he or she is a “child” in everyday
conversation.

Even if the word “child” were ambiguous, however, the Alabama
Constitution would require courts to resolve the ambiguity in favor of protecting unborn life. Article I, § 36.06(b), of the Constitution of 2022
“acknowledges, declares, and affirms that it is the public policy of this
state to ensure the protection of the rights of the unborn child in all
manners and measures lawful and appropriate.” That section, which is
titled “Sanctity of Unborn Life,” operates in this context as a
constitutionally imposed canon of construction, directing courts to
construe ambiguous statutes in a way that “protect[s] … the rights of the
unborn child” equally with the rights of born children, whenever such
construction is “lawful and appropriate.”.  When it comes to the
Wrongful Death of a Minor Act, that means coming down on the side of including, rather than excluding, children who have not yet been born.

The upshot here is that the phrase “minor child” means the same
thing in the Wrongful Death of a Minor Act as it does in everyday
parlance: “an unborn or recently born” individual member of the human
species, from fertilization until the age of majority>>.

Non trascrivibile l’atto di nascita estero da procreazone medicalmente assistita voluta da coppia omoaffettiva femminile

Cass. sez. I, ord. 2 agosto 2023, n. 23.527, Rel. Tricomi (testo preso da Ondif):

<<2.3.- In particolare, va confermato il principio secondo il quale “In caso di concepimento all’estero mediante l’impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, voluto da coppia omoaffettiva femminile, la domanda volta ad ottenere la formazione di un atto di nascita recante quale genitore del bambino, nato in Italia, anche il c.d. genitore intenzionale, non può trovare accoglimento, poiché il legislatore ha inteso limitare l’accesso a tali tecniche alle situazioni di infertilità patologica, fra le quali non rientra quella della coppia dello stesso genere; non può inoltre ritenersi che l’indicazione della doppia genitorialità sia necessaria a garantire al minore la migliore tutela possibile, atteso che, in tali casi, l’adozione in casi particolari si presta a realizzare appieno il preminente interesse del minore alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico, alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della Corte Cost. n. 79 del 2022.” (Cass. n. 22179/2022; conf. prec. Cass. nn. 7668 /2020, n. 6383/2022, n. 7413/2022).
Invero, come affermato dalle Sezioni Unite, in relazione ai casi di minori nati all’estero da maternità surrogata, con principio che è applicabile anche alla fattispecie in cui il minore sia nato in Italia mediante il ricorso a tecniche di p.m.a., eseguite all’estero perché non consentite nel territorio nazionale a richiesta di una coppia omoaffettiva, il minore ha un diritto fondamentale al riconoscimento, anche giuridico, del legame sorto in forza del rapporto affettivo instaurato e vissuto con il genitore d’intenzione e “tale esigenza è garantita attraverso l’istituto dell’adozione in casi particolari, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. d) della l. n. 184 del 1983 che, allo stato dell’evoluzione dell’ordinamento, rappresenta lo strumento che consente, da un lato, di conseguire lo “status” di figlio e, dall’altro, di riconoscere giuridicamente il legame di fatto con il “partner” del genitore genetico che ne ha condiviso il disegno procreativo concorrendo alla cura del bambino sin dal momento della nascita.” (Cass. Sez. U. n. 38162 del 30/12/2022; V. anche Cass. Sez. U. n. 12193/2019)>>.

Sulla irrevocabilità del consenso prestato dall’uomo nella procreazione medicalmente assistita: la Corte Costituzionale ritiene conforme a Costituzione l’art. 6 c.3 ult. parte L. 40/2004

Così Corte Costituzionale n. 161/2023 dep. 24 luglio 2023,  red. Antonini.

Il passaggio forse più significativo (spt. § 12.1):

<<11.4.– Va altresì precisato che il consenso prestato ai sensi dell’art. 6 della legge n. 40 del 2004 ha una
portata diversa e ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla mera nozione di “consenso informato” al
trattamento medico, in quanto si è in presenza di un atto finalisticamente orientato a fondare lo stato di
figlio.
In questa prospettiva il consenso, manifestando l’intenzione di avere un figlio, esprime una
fondamentale assunzione di responsabilità, che riveste un ruolo centrale ai fini dell’acquisizione dello status
filiationis.
È significativo, infatti, che l’art. 8 stabilisca che «[i] nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di
procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della
coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell’articolo 6», e che l’art. 9
preveda un duplice divieto: da un lato, quello di disconoscimento della paternità nel caso della PMA
eterologa, così configurando «una ipotesi di intangibilità ex lege dello status» (ordinanza n. 7 del 2012), e,
dall’altro, quello di anonimato della madre.
Tali norme mettono in evidenza che il consenso dato alla pratica della procreazione medicalmente
assistita, il quale diviene irrevocabile dal momento della fecondazione dell’ovulo, comporta una specifica
assunzione di responsabilità riguardo alla filiazione, che si traduce nella attribuzione al nato – a prescindere
dalle successive vicende della relazione di coppia – dello status filiationis.
Si tratta di una implicazione dal notevole impatto, tant’è che il medesimo art. 6 prevede espressamente,
al comma 5, che «[a]i richiedenti, al momento di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente
assistita, devono essere esplicitate con chiarezza e mediante sottoscrizione le conseguenze giuridiche di cui
all’articolo 8 e all’articolo 9 della presente legge».
Nella specifica disciplina della PMA la responsabilità assunta con il consenso prestato (sentenza n. 230
del 2020) riveste quindi un valore centrale e determinante nella dinamica giuridica finalizzata a condurre
alla genitorialità, risultando funzionale «a sottrarre il destino giuridico del figlio ai mutamenti di una volontà
che, in alcuni casi particolari e a certe condizioni, tassativamente previste, rileva ai fini del suo
concepimento» (sentenza n. 127 del 2020).
In definitiva, se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina dell’irrevocabilità del consenso si
configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e
alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella PMA,
comunque garantita dalla legge, fa sì che l’uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare
padre; ciò che rende difficile inferire, nella fattispecie censurata dal giudice a quo, una radicale rottura della
corrispondenza tra libertà e responsabilità.
12.– Va poi soprattutto considerato che, oltre quelli inerenti alla sfera individuale dell’uomo, il consenso
da questi manifestato alla PMA determina il coinvolgimento degli altri interessi costituzionalmente rilevanti,
in primo luogo attinenti alla donna.
12.1.– Quest’ultima nell’accedere alla PMA è coinvolta in via immediata con il proprio corpo, in forma
incommensurabilmente più rilevante rispetto a quanto accade per l’uomo.
Infatti, al fine di realizzare il comune progetto genitoriale viene, innanzitutto, sottoposta a impegnativi
cicli di stimolazione ovarica, relativamente ai quali non è possibile escludere l’insorgenza di patologie,
anche gravi. È del resto significativo che il citato d.m. n. 265 del 2016 stabilisca che, ai fini del consenso
informato, vengano espressamente comunicati anche «i rischi per la madre e per il nascituro, accertati o
possibili, quali evidenziabili dalla letteratura scientifica» (art. 1, comma 1, lettera h).
All’esito positivo di detta terapia, la donna viene poi sottoposta, nell’ipotesi decisamente più ricorrente
che è quella della fecondazione in vitro, al prelievo dell’ovocita, che necessariamente (a differenza di quanto
accade per l’uomo) consiste in un trattamento sanitario particolarmente invasivo, tanto da essere
normalmente praticato in anestesia generale.
A ridosso del prelievo, nell’arco di un brevissimo spazio temporale, si perviene poi alla fecondazione.
Possono essere peraltro necessari, successivamente alla fecondazione dell’embrione (e alla sua
crioconservazione), ulteriori trattamenti farmacologici e analisi, nonché interventi medici, come nel caso del
giudizio a quo, in cui la ricorrente si è dovuta sottoporre a specifiche terapie prodromiche all’impianto.
L’accesso alla PMA comporta quindi per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria
corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge
rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o
più embrioni.
Corpo e mente della donna sono quindi inscindibilmente interessati in questo processo, che culmina
nella concreta speranza di generare un figlio, a seguito dell’impianto dell’embrione nel proprio utero.
A questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il sorgere di una concreta aspettativa di
maternità, la donna si è prestata in virtù dell’affidamento in lei determinato dal consenso dell’uomo al
comune progetto genitoriale.
L’irrevocabilità di tale consenso appare quindi funzionale a salvaguardare l’integrità psicofisica della
donna – coinvolta, come si è visto, in misura ben maggiore rispetto all’uomo – dalle ripercussioni negative
che su di lei produrrebbe l’interruzione del percorso intrapreso, quando questo è ormai giunto alla
fecondazione.
E ciò chiama in causa il diritto alla salute della donna, che, secondo la costante giurisprudenza di questa
Corte, va inteso «nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che
fisica» (ex plurimis, sentenza n. 162 del 2014).
Coerentemente le citate linee guida di cui al d.m. 1° luglio 2015 stabiliscono che «[l]a donna ha sempre
il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati».
Le suddette ripercussioni sarebbero, peraltro, ancora più gravi, qualora, a causa dell’età (che già solo in
relazione alla capacità di produrre gameti incide in misura ben maggiore rispetto all’uomo) o delle
condizioni fisiche, alla donna – anche per effetto del tempo trascorso dalla crioconservazione dell’embrione
“conteso” – non residuasse più la possibilità di iniziare un nuovo percorso di PMA, con una preclusione, a
questo punto, assoluta della propria libertà di autodeterminazione in ordine alla procreazione>>.

Non trascrivibilità dell’atto matrimoniale estero e non registrabilità dell’atto di nascita di figlio da genitori omossessuali a seguito di maternità surrogata

Importante intervento nomofilattico di Cass. sez. un. 30.12.2022 n. 38.162 , rel. Giusti, di cui hanno dato conto tutti i media.

fatto : <<Il caso che ha dato origine al giudizio riguarda un bambino nato all’estero da maternità surrogata.

In base al progetto procreativo condiviso dalla coppia omoaffettiva, uno dei due uomini ha fornito i propri gameti, che sono stati uniti nella fecondazione in vitro con l’ovocita di una donatrice. L’embrione è stato poi trasferito nell’utero di una diversa donna, non anonima, che ha portato a termine la gravidanza e partorito il bambino.

I due uomini, entrambi di cittadinanza italiana, si sono uniti in matrimonio in Canada e l’atto è stato trascritto in Italia nel registro delle unioni civili.

Il bambino, di nome P., è nato nel (Omissis).

Quando il bambino è venuto alla luce, le autorità canadesi hanno formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo padre biologico, F.P., mentre non sono stati menzionati né il padre intenzionale, B.F., né la madre surrogata, né la donatrice dell’ovocita.

Accogliendo il ricorso della coppia, nel 2017 la Corte Suprema della British Columbia ha dichiarato che entrambi i ricorrenti devono figurare come genitori del bambino e ha disposto la corrispondente rettifica dell’atto di nascita in (Omissis).

Costoro, sulla base del provvedimento della Corte Suprema della British Columbia, hanno chiesto all’ufficiale di stato civile italiano di rettificare anche l’atto di nascita del bambino in Italia, che indicava come genitore il solo padre biologico.

L’ufficiale di stato civile ha rifiutato la richiesta, sia perché esisteva già un atto di nascita trascritto, sia per l’assenza di dati normativi certi e di precedenti favorevoli da parte della giurisprudenza di legittimità.>>

Risposta: istanza non accoglibile visto che la maternità surrogata è contraria al ns ordine pubblico e non può permettere la genitorialità al genitore cd intenzionale. La tutela del minore avverrà tramite l’adozione “in casi particolare” che può chiedere il genitore “intenzionale” medesimo.

Copio solo gli ultimi §§ di un ragionamento appprofondito, che si confronta apertamente con  gli argomenti contrari:

<<20. – Poste queste coordinate, deve allora escludersi la trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichi quale genitore del bambino il padre d’intenzione. L’ineludibile esigenza di garantire al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse è assicurata attraverso l’adozione in casi particolari, ai sensi della L. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d), che consente di dare riconoscimento giuridico, con il conseguimento dello status di figlio, al legame con il partner del genitore biologico che ha condiviso il progetto genitoriale e ha di fatto concorso nel prendersi cura del bambino sin dal momento della nascita.
21. – Il provvedimento giudiziario straniero non è trascrivibile per un triplice ordine di considerazioni.
21.1. – In primo luogo, perché nella non trascrivibilità si esprime la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata, che offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane, assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale.
Il riconoscimento ab initio, mediante trascrizione o delibazione del provvedimento straniero di accertamento della genitorialità, dello status filiationis del nato da surrogazione di maternità anche nei confronti del committente privo di legame biologico con il bambino, finirebbe in realtà per legittimare in maniera indiretta e surrettizia una pratica degradante.
L’automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternità surrogata e degli atti di autorità straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non è funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi.
L’interesse superiore del minore è uno dei valori in cui si sostanzia l’ordine pubblico internazionale.
Esso costituisce non soltanto il valore fondante di ogni disciplina che riguardi i minori, ma anche l’indice concreto ed effettivo al quale la tutela deve essere commisurata.
Il fatto che l’interesse del minore debba essere oggetto di valutazione prioritaria non significa, tuttavia, che lo Stato sia obbligato a riconoscere sempre e comunque uno status validamente acquisito all’estero.
21.2. – In secondo luogo, perché va escluso che il desiderio di genitorialità, attraverso il ricorso alla procreazione medicalmente assistita lasciata alla autodeterminazione degli interessati, possa legittimare un presunto diritto alla genitorialità comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo (Corte Cost., sentenza n. 79 del 2022).
Non v’é nel sistema normativo un paradigma genitoriale fondato unicamente sulla volontà degli adulti di essere genitori e destinato a concorrere liberamente con quello naturalistico.
È esatto che l’accertamento della filiazione prescinde, oggi, dalla rigida dicotomia, che in passato costituiva il fondamento del sistema, tra filiazione biologica, basata sulla discendenza ingenita, e filiazione adottiva, incentrata sulla affettività e sulla necessità per il minore di crescere in un ambiente familiare idoneo all’accoglienza.
L’ordinamento – è vero – già conosce e tutela rapporti di filiazione non originati dalla genetica, ma sorti sulla base della “scelta”, e quindi dell’assunzione di responsabilità, di dar vita a un progetto genitoriale comune.
La L. n. 40 del 2004 ha dato ingresso alla possibilità di costituire in via diretta lo stato di figlio a prescindere dalla trasmissione di geni anche al di fuori delle ipotesi di adozione.
La scelta di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita eterologa non consente ripensamenti rispetto alla creazione del rapporto di filiazione (artt. 8 e 9 della legge citata). Il consenso è integralmente sostitutivo della mancanza di discendenza genetica.
La disciplina del fenomeno procreativo ormai si compone di modelli fondati sul legame biologico realizzato attraverso il rapporto sessuale e modelli affidati all’intervento in via assistita di tecniche mediche, anche con il contributo genetico di un soggetto terzo rispetto alla coppia, la quale si assume la responsabilità dell’evento procreativo.
La genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita è legata anche al consenso prestato e alla responsabilità conseguentemente assunta.
Con la L. n. 40 del 2004, artt. 8 e 9 il legislatore ha inteso definire lo status di figlio del nato da procreazione medicalmente assistita anche eterologa, ancor prima che fosse dichiarata l’illegittimità costituzionale del relativo divieto (sentenza n. 162 del 2014).
Nel fondare un progetto genitoriale comune, i soggetti maggiorenni che, all’interno di coppie di sesso diverso, coniugate o conviventi, abbiano consensualmente fatto ricorso alla procreazione medicalmente assistita (L. n. 40 del 2004, art. 5), divengono, per ciò stesso, responsabili nei confronti dei nati, destinatari naturali dei doveri di cura, pur in assenza di un legame biologico.
Dalla disciplina della L. 40 del 2004, artt. 8 e 9 tuttavia, non possono trarsi argomenti per sostenere l’idoneità del consenso a fondare lo stato di figlio nato a seguito di surrogazione di maternità.
Lo spazio entro il quale il consenso risulta idoneo ad attribuire lo stato di figlio in difetto di legame genetico è circoscritto ad una specifica fattispecie – la fecondazione eterologa – ben diversa e ben distinta dalla surrogazione di maternità. In caso di maternità surrogata, la genitorialità giuridica non può fondarsi sulla volontà della coppia che ha voluto e organizzato la procreazione assistita, così come avviene per la fecondazione assistita.
21.3. – In terzo luogo, perché il riconoscimento della genitorialità non può essere affidato ad uno strumento di carattere automatico. L’instaurazione della genitorialità e il giudizio sulla realizzazione del miglior interesse del minore non si coniugano con l’automatismo e con la presunzione, ma richiedono una valutazione di concretezza: quella valutazione di concretezza che postula il riscontro del preminente interesse del bambino a continuare, con la veste giuridica dello status, un rapporto di cura e di affettività che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale.
Una diversa soluzione porterebbe a fondare l’acquisto della genitorialità sulla sola scelta degli adulti, anziché su una relazione affettiva già di fatto instaurata e consolidata.
La Corte costituzionale ha indicato la strada, che non è quella della delibazione o della trascrizione dei provvedimenti stranieri, secondo un più o meno accentuato automatismo funzionale ad assecondare il mero desiderio di genitorialità degli adulti che ricorrono all’estero ad una pratica vietata nel nostro ordinamento>>.

Il §§ 22 spuea che la tuytela del minire avviene con l’adoione incasi particolari

Inoltre le SSUU spiegano che <<Va da sé che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore non può fondarsi sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner.
L’orientamento sessuale della coppia non incide sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Cass., Sez. I, 2 giugno 2016, n. 12962; Corte Cost., sentenza n. 230 del 2020).
La giurisprudenza ha in più occasioni chiaramente respinto la tesi che l’omosessualità sia una condizione in sé ostativa all’assunzione e allo svolgimento dei compiti genitoriali.>>

Infine inerssanti i §§ 7-8  di teoria civilistica sul concetto di clausola generale e sul  ruolo creativo/meramente applicativo della giurisdizione (data anche la preparazione del relatore, studioso del diritto civile):

<<Anche quando non si trova al cospetto di un enunciato normativo concepito come regola a fattispecie, ma è investito del compito di concretizzare la portata di una clausola generale come l’ordine pubblico internazionale, che rappresenta il canale attraverso cui l’ordinamento si confronta con la pluralità degli ordinamenti salvaguardando la propria coerenza interna, o di un principio, come il migliore interesse del minore, in cui si esprime un valore fondativo dell’ordinamento, il giudice non detta né introduce una nuova previsione normativa.

La valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l’assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore.

La giurisprudenza non è fonte del diritto.

Soprattutto in presenza di questioni, come quella oggetto del presente giudizio, controverse ed eticamente sensibili, che finiscono con l’investire il significato della genitorialità, al giudice è richiesto un atteggiamento di attenzione particolare nei confronti della complessità dell’esperienza e della connessione tra questa e il sistema.

Si tratta di temi, infatti, in rapporto ai quali lo stesso diritto di famiglia, nel mentre riflette, come uno specchio, lo stato dell’evoluzione delle relazioni familiari nel contesto sociale, tuttavia non può prescindere dal sistema, affidato anche alle cure del legislatore.

Ciò vale soprattutto in una vicenda, come l’attuale, nella quale si profila un ambito di discrezionalità del legislatore che la Corte costituzionale ha inteso preservare, indicando un percorso di collaborazione istituzionale nel quadro di un bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla maternità surrogata e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori.

Una pluralità di ragioni giustifica l’indicato approccio metodologico.

Il rispetto del pluralismo e dell’equilibrio tra i poteri, profilo centrale della democrazia, perché la ricerca dell’effettività deve seguire precise strade compatibili con il principio di leale collaborazione e con il dialogo istituzionale che la Corte costituzionale ha avviato con il legislatore.

La presa d’atto che talora la ricerca dell’effettività richiede un camminare in direzione di una meta non ancora completamente a portata di mano, perché la gradualità concorre a far assorbire il cambiamento e le novità nel sistema, con la giurisprudenza che accompagna ed asseconda l’evoluzione che si realizza nel costume e nella coscienza sociale.

La coerenza degli orientamenti giurisprudenziali, giacché le nuove frontiere dell’interpretazione che aspirino a offrire stabilità e certezza non conseguono a bruschi cambiamenti di rotta, ma sono il frutto di un progredire nel dialogo con i precedenti, con le altre Corti e con la cultura giuridica.

Non c’è spazio, in altri termini, né per una penetrazione diretta – attraverso la ricerca di un bilanciamento diverso da quello già operato dal Giudice delle leggi – di quell’ambito di discrezionalità legislativa che la Corte costituzionale ha inteso far salvo, né per una messa in discussione del punto di equilibrio da essa indicato.

  1. – La Corte costituzionale, rivolgendosi in prima battuta al legislatore, ha riconosciuto il ruolo primario del legislatore e della sua discrezionalità a fronte del ventaglio delle opzioni possibili.

Ciò nondimeno, al giudice compete pur sempre di valutare la situazione rimasta in attesa di una migliore disciplina per via legislativa.

La giurisprudenza, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, dà vita al testo normativo e dà contenuto alle clausole generali, elaborando la regola del caso concreto e poi reiterando la regola del caso nelle successive decisioni.

La riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioè delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, nel ruolo – costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore – di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema, nel quadro dell’equilibrio dei valori già indicato con chiarezza dalla Corte costituzionale.>>

Tutto molto bello e giusto: solo che ciò è diritto nuovo, non presente nella clausola generale. La attispecie sub iudice è nei fatti governata dal decisum del giudice, non dalla clausola stessa.

Il principio sul riconoscimento dello status , affermato dalle S.U., è ora riaffermato da Cass. Sez. I, ord. 3 gennaio 2024 n. 85 , rel. Tricomi.

Interruzione della gravidanza: solo per anomalie del feto già accertate o anche solo probabili?

Per l’art. 6 L. 194/1978, <<l’interruzione  volontaria  della  gravidanza, dopo i primi novanta giorni, puo’ essere praticata:     a)  quando  la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;     b)  quando  siano  accertati  processi patologici, tra cui quelli relativi  a  rilevanti  anomalie  o  malformazioni del nascituro, che determinino  un  grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna>>.

la SC ha dovuto affrontare la questione del <<se, al fine di ritenere consentita l’interruzione della gravidanza, rilevino solo i processi patologici che risultino già esitati in accertate anomalie o malformazioni del feto oppure anche i processi patologici che possano determinare (con alta probabilità) tali anomalie o malformazioni, a prescindere dal fatto che le medesime siano state accertate, ove comunque emerga l’idoneità della stessa esistenza di un processo patologico potenzialmente nocivo per il nascituro a provocare un grave pregiudizio per la salute della donna (tale da legittimarne il ricorso all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno e fino a quando non sussista possibilità di vita autonoma del feto).>> (Cass. , III, 653 del 15.01.2021, rel. Sestini, p. 8).

La Sc aderisce alla seconda alternativa.

L’adesione all’una o all’altra delle due opzioni è tale da comportare esiti opposti; è evidente – infatti – <<che la prima conduce a ritenere (così come ha fatto la Corte di Appello) che, pur in presenza di una patologia materna idonea a determinare, con rilevante grado di probabilità, gravi malformazioni del feto, la donna che abbia superato i novanta giorni di gestazione non possa effettuare la scelta abortiva anche a fronte di un grave pericolo per la sua salute psichica (quale potrebbe conseguire alla consapevolezza di portare in grembo un feto molto probabilmente menomato); l’adesione alla seconda consente viceversa – di accertare, caso per caso, se la stessa esistenza di una patologia potenzialmente produttiva di malformazioni fetali sia tale da determinare il grave pericolo per la salute della donna che giustifica il ricorso all’interruzione della gravidanza oltre il novantesimo giorno (e fino al momento in cui il feto non abbia acquistato possibilità di vita autonoma).>>

Questa la motivaizone.

<<il legislatore ha dunque posto l’accento sull’esistenza di un “processo patologico” (che può anche non essere attinente ad anomalie o malformazioni fetali) e sul fatto che lo stesso possa cagionare un grave pericolo per la salute della donna;

a ciò deve aggiungersi la considerazione che l’aggettivo “relativi” (riferito a processi patologici e collegato a “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”) esprime, di per sè, un generico rapporto di inerenza fra la patologia e la malformazione che non postula necessariamente l’attualità della seconda e che consente di riconoscere rilevanza anche alla sola probabilità che il processo patologico determini il danno fetale;

deve pertanto ritenersi che, laddove si riferisce a processi patologici “relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del feto”, la L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b), non richieda che la anomalia o la menomazione si sia già concretizzata in modo da essere strumentalmente o clinicamente accertabile, ma dia rilievo alla circostanza che il processo patologico possa sviluppare una relazione causale con una menomazione fetale;

deve sottolinearsi come lo stesso sintagma “processo patologico” individui una situazione biologica in divenire, che può assumere rilevanza per il solo fatto della sua esistenza e della sua attitudine a determinare ulteriori esiti patologici, a prescindere dal fatto che tale potenzialità si sia già concretamente tradotta in atto; cosicchè deve ritenersi, in relazione al caso in esame, che anche la sola circostanza dell’esistenza di un’infezione materna da citomegalovirus possa rilevare al fine di apprezzare l’idoneità di tale processo patologico a determinare nella S. -compiutamente edotta dei possibili sviluppi – il pericolo di un grave pregiudizio psichico in considerazione dei potenziali esiti menomanti;>>.

Nello stesso senso orienta la ratio della norma che, <<ponendo l’accento (come detto) sul processo patologico e sul grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, impone di riconoscere rilevanza alle situazioni in cui la patologia, ancorchè non ancora esitata in menomazione fetale accertata, risulti comunque tale da poter determinare nella donna – che sia stata informata dei rischi per il feto – un grave pericolo per la sua salute psichica;

deve pertanto ritenersi che un tale pericolo – da accertarsi, in ogni caso, in concreto – possa determinarsi non solo nella gestante che abbia contezza dell’esistenza di gravi malformazioni fetali, ma anche in quella che sappia di aver contratto una patologia atta a produrre, con apprezzabile grado di probabilità, anomalie o malformazioni del feto>>.

Ciò comporta, sotto il profilo dell’obbligo informativo, che il medico al quale la gestante si sia rivolta per conoscere i rischi correlati ad un processo patologico <<deve informarla compiutamente della natura della malattia e della sue eventuali potenzialità lesive del feto, onde prospettare alla stessa un quadro completo della situazione attuale e dei suoi possibili sviluppi; dal che consegue che l’omissione di un’informazione corretta e completa sulla pericolosità del processo patologico non consente alla gestante di acquisire elementi che – se conosciuti – potrebbero determinare nella stessa la situazione di pericolo per la salute psichica che potrebbe giustificarne la scelta abortiva>>.