Sul risarcimento del danno da violazione della data protection (art. 82 GDPR)

Corte di Giustizia 04.05.2023, C-300/21, UI v. Österreichische Post AG sulla disciplina europea del risarcimento da violazione privacy (anzi, data protection…):

L’articolo 82 GDPR deve essere interpretato nel senso che:

1) la mera violazione delle disposizioni di tale regolamento non è sufficiente per conferire un diritto al risarcimento.
2) osta a una norma o una prassi nazionale che subordina il risarcimento di un danno immateriale, ai sensi di tale disposizione, alla condizione che il danno subito dall’interessato abbia raggiunto un certo grado di gravità.
3)  ai fini della determinazione dell’importo del risarcimento dovuto in base al diritto al risarcimento sancito da tale articolo, i giudici nazionali devono applicare le norme interne di ciascuno Stato membro relative all’entità del risarcimento pecuniario, purché siano rispettati i principi di equivalenza e di effettività del diritto dell’Unione.

La regola sub 1) è scontata.

Quella sub 3) quasi (ma è utile la precisazione del limite del rispetto della effettività del diritto UE).

Più interessante è quella sub 2).

La profilazione alla base dello scoring, richiesto da una banca per decidere sulla concessione di credito, ricade nell’art. 22 GDPR?

Risposta positiva da parte dell’avvocato generale (AG) PRIIT PIKAMÄE nelle sue Conclusioni 16 marzo 2023, C-634/21, OQ c. Land Hessen +  interv. SCHUFA Holding sa.

fatto:

<< 82  La domanda di cui trattasi si inserisce nell’ambito di una controversia che oppone la ricorrente, OQ, una persona fisica, al Land Hessen (Land Assia, Germania), rappresentato dall’Hessischer Beauftragter für Datenschutz und Informationsfreiheit (Commissario per la protezione dei dati e la libertà d’informazione del Land Assia; in prosieguo: l’«HBDI»), in materia di protezione dei dati personali. La SCHUFA Holding AG (in prosieguo: la «SCHUFA»), un’agenzia di diritto privato, sostiene la posizione dell’HBDI in qualità di interveniente. Nell’ambito della sua attività economica, consistente nel fornire ai clienti informazioni sulla solvibilità di terzi, la SCHUFA ha fornito a un istituto di credito un punteggio di scoring relativo alla ricorrente, sulla cui base il credito da quest’ultima richiesto è stato negato. La ricorrente ha chiesto alla SCHUFA di procedere alla cancellazione della relativa registrazione e di consentirle di accedere ai dati corrispondenti; quest’ultima le ha tuttavia comunicato unicamente il punteggio di scoring pertinente e, in termini generali, i principi su cui si fonda il modello di calcolo di detto punteggio, senza informarla in merito ai dati specifici presi in considerazione e alla rilevanza loro attribuita in tale contesto, sostenendo che il metodo di calcolo sarebbe coperto da segreto industriale e aziendale.

3.        Posto che la ricorrente sostiene che il rifiuto opposto dalla SCHUFA alla sua richiesta contrasta con il regime della protezione dei dati, la Corte sarà chiamata a pronunciarsi sulle restrizioni che il RGPD prevede per l’attività economica delle agenzie di informazione nel settore finanziario, in particolare nella gestione dei dati, e sulla rilevanza da attribuire al segreto industriale e aziendale. Parimenti, la Corte dovrà precisare la portata dei poteri normativi che talune disposizioni del RGPD conferiscono al legislatore nazionale in deroga all’obiettivo generale di armonizzazione previsto da detto atto giuridico.

L?unico dubbio reale è l’avverbio “unicamente” presente nell’art. 22.1 (“L’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona”): qualche itnervento uman infatti ci sarà.

Ebbene, l’AG da un lato rinvia al g. nazionale, § 45.

Dall’altro però dà anche indicazioni precise: pur se qualche intervento umano possa esservi, di fatto lo scoring da IA è decisivo. In particolare:  <<Fatta salva la valutazione dei fatti che compete ai giudici nazionali compiere in ciascun caso particolare, le considerazioni svolte supra mi sembrano indicare che il punteggio di scoring calcolato da un’agenzia di valutazione del credito e comunicato a un istituto finanziario tende generalmente a predeterminare la decisione di quest’ultimo quanto alla concessione o al diniego del credito all’interessato, cosicché si deve ritenere che detta presa di posizione rivesta un carattere puramente formale nel quadro del processo (20). Ne consegue che occorre riconoscere al punteggio di scoring stesso la natura di «decisione» ai sensi dell’articolo 22, paragrafo 1, del RGPD.>>, § 47, v. ppoi i  segg.

Però la legge dice “unicamente”, che è diverso da “prevalentemente”.

E’ un pò come l’ <esclusivamente> dell’art. 7.1.e) nel reg. UE 2017/1001 o nell’art. 9 del ns cod. propr. ind. sui marchi di forma , intepretato in modo molto lasco, quasi fosse “prevalentemente”.

Nella seconda parte l’AG contesta che una disposizione della legge privacy tedesca possa fungere da base giuridica ex art. 22.1.b) GDPR.

Difficilmente la Corte si discosterà dalle Conclusioni. Vedremo.

Per obbligare la piattaforma l’editore al delisting (diritto all’oblio), basta una richiesta stragiudiziale

Altro caso (rischiano di diventare una valanga …) di richiesta di cancellazione di notizia infamante (apertura di procedimento penale) -in subordine di aggiornamento- , vera ma superata dai fatti successivi (assoluzione piena) .

La cancellazione era stata ottenuta solo a seguito dell’istanza cautelare.

L’interessato, nonstante la dichiarata cessazione della materia del contendere,  proseguì il processo cercando il risarcimento del danno,  perchè comunque la notizia era rimasta esposta medio temore (per 10 anni circa): presupponendo dunque che sarebbe dovuto bastare una richiesta stradiuziale o addirittura che l’editore dovesse per conto suo controllare costantemente l’aggiornamento delle notizie da lui pubblicate (non è chiara la causa petendI: parrebbe la seconda)

Così opina Cass. sez. 3 del 1 marzo 2023 n. 6116 , rel. Sestini:

<<Ritiene il Collegio che non si possa affermare tout court e in termini generali un obbligo di costante aggiornamento della notizia o di rimozione della stessa una volta che sia trascorso un determinato lasso di tempo (di cui non sarebbe neppure agevole una predeterminazione generalizzata), dato che ciò imporrebbe un onere estremamente gravoso e pressoché impossibile da rispettare a carico delle testate giornalistiche titolari dei siti web, al quale potrebbe non corrispondere un concreto interesse dei soggetti cui si riferiscono le notizie.

D’altra parte, deve riconoscersi alla persona interessata dalla persistenza di una pubblicazione che reputi a sé pregiudizievole il diritto di tutelare la propria reputazione e di richiedere l’aggiornamento del sito o la rimozione della notizia, con la conseguenza che, una volta che sia stata formulata una siffatta richiesta, il rifiuto ingiustificato di aggiornamento o rimozione risulta idoneo a integrare una condotta illecita tale da giustificare il risarcimento del danno prodottosi a partire dalla richiesta di aggiornamento/rimozione (danno che ovviamente va allegato e provato, anche in via presuntiva). [pare dunque bastare richiesta stragiudiziale]

Una soluzione siffatta realizza un ragionevole bilanciamento dei contrapposti interessi e si pone in linea di continuità col rilievo già contenuto in Cass. n. 5505-2012 circa la possibilità/necessità di “compartecipazione dell’interessato nell’utilizzazione dei propri dati personali… ovvero di ingerirsi al riguardo, chiedendone la cancellazione, la trasformazione, il blocco, ovvero la rettificazione, l’aggiornamento, l’integrazione”.

In tal senso orientano il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 7 (secondo cui l’interessato “ha diritto di ottenere” l’aggiornamento o la cancellazione) e l’art. 17 Regolamento UE 679-2016 (che fa parimenti riferimento al diritto dell’interessato a ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati che lo riguardano, cui si correla il dovere del secondo di provvedervi senza ingiustificato ritardo): entrambi fanno dipendere dall’iniziativa dell’interessato il dovere del titolare del trattamento di attivarsi per la modifica del dato e mal si prestano a sostenere l’affermazione di un dovere dell’anzidetto titolare (sanzionato a livello risarcitorio) di procedere alla modifica di propria iniziativa.

Deve dunque ritenersi, con specifico riferimento al caso in esame, che la persistenza nel sito web di una testata giornalistica della risalente notizia del coinvolgimento di un soggetto in un procedimento penale – pubblicata nell’esercizio legittimo del diritto di cronaca, ma non aggiornatà con i dati relativi all’esito di tale procedimento – non integra, di per sé, un illecito idoneo a generare una pretesa risarcitoria; tuttavia, il soggetto cui la notizia si riferisce ha diritto ad attivarsi per chiederne l’aggiornamento o la rimozione, con la conseguenza che l’ingiustificato rifiuto o ritardo da parte del titolare del sito è idoneo a comportare il risarcimento del danno patito successivamente alla richiesta (fermo l’onere di allegazione e prova del pregiudizio da parte dell’interessato) >>.

Analoga soluzione in Cass. sez. 1 del 31.01.2023 n. 2983, rel. Scotti, con motivazione però più analitica (v. mio post).

Diritto all’oblio vs. diritto all’informazione: ragionevole composizione di un conflitto sempre più frequente

E’ sempre più frequente la richiesta di cancellazione di notizie passate (negative, spesso di indagini e/o codnanen penali) indirizzata al motore di ricerca e/o all’editore di quotidiano circa la sua banca dati web.

Cass. sez. 1 del 31.01.2023 n. 2983, rel. Scotti, propone (anzi: dispone) una persuiasiv asoluizione al conflitto di interessi de quo. Sta ai §§ 28/30.

<< 28. La Corte, come già anticipato, ritiene che l’equo contemperamento dei diritti in conflitto non possa essere raggiunto attraverso l’accoglimento della richiesta principale dei ricorrenti, ossia la cancellazione tout court degli articoli in questione dall’archivio on line del quotidiano, che annichilerebbe con l’iperprotezione dei diritti alla riservatezza degli interessati la funzione di memoria storica e documentale dell’archivio del giornale, che è oggetto di un rilevante interesse pubblico, di rilievo anch’esso costituzionale ex artt. 21 e 33 Cost., come rammenta esattamente la controricorrente.

In altri termini, non sarebbe più possibile accedere all’originario contenuto degli articoli ad uno studioso, storico o sociologo, intenzionato a ricostruire l’andamento dei processi per reati contro la pubblica amministrazione in quell’epoca, per esaminare il contenuto delle accuse e il loro esito; e ciò anche se, poniamo, l’obiettivo della sua inchiesta fosse rivolto a dimostrare gli eccessi di repressione giudiziaria o gli abusi della carcerazione preventiva in un certo contesto spazio-temporale oppure l’atteggiamento, più o meno “giustizialista” o “garantista”, della stampa e dell’opinione pubblica in quel contesto.

29. Una via adeguata di contemperamento non è neppure quella della manipolazione del testo con l’introduzione di pseudonimi sostitutivi o omissioni nominative, pur astrattamente contemplata dal GDPR.

Infatti, lo stesso art. 89 GDPR consente tali accorgimenti solo se le finalità in questione possano essere conseguite in tal modo e non è questo il caso.

La memoria storica dell’archivio diverrebbe incompleta e falsata e così se ne perderebbe la funzione.

30. Non è così per la richiesta di aggiornamento mediante la mera apposizione agli articoli, su istanza dell’interessato, di una nota informativa volta a dar conto del successivo esito dei procedimenti giudiziari con l’assoluzione degli interessati e il risarcimento del danno per ingiusta detenzione.

In tal modo l’identità dell’articolo, che in sé e per sé rimane intonso, è adeguatamente preservata a fini di ricerca storico-documentaristica, ma al contempo vengono rispettati i fondamentali principi di minimizzazione ed esattezza sopra illustrati.

La soluzione accolta è inoltre conforme al principio di contestualizzazione e aggiornamento dell’informazione.

Non paiono pertinenti rispetto a questo accorgimento le critiche sopra riassunte nel p. 15: non si richiede infatti al gestore dell’archivio di attivarsi in via generale per l’aggiornamento delle informazioni alla luce degli sviluppi giudiziari successivi, che genererebbe effettivamente costi ingenti e probabilmente insostenibili, incompatibili con la persistente economicità degli archivi, ma solo di corrispondere senza ritardo a puntuali e specifiche richieste degli interessati, documentalmente suffragate, non solo con la deindicizzazione ma anche con l’apposizione di una breve nota informativa sull’esito finale della vicenda giudiziaria, in calce o a margine della pagina ove figura l’articolo>>.

Che poi prosegue così:

<<31. La regola fondamentale per ogni bilanciamento di diritti richiede la valutazione comparativa della gravità del sacrificio imposto agli interessi in conflitto: la normale tollerabilità di una ingerenza nel diritto altrui, secondo una risalente ma autorevolissima dottrina, va accertata anche alla luce dei costi necessari per prevenirla.

E nel caso è sufficiente un costo modesto (l’inserzione di una breve nota in calce o a margine e solo su richiesta di parte, che non altera la funzione tipica dell’archivio) per la prevenzione di un pregiudizio ben più consistente per l’interessato.

Tale modesto sacrificio ben può essere accollato a chi gestisce l’impresa giornalistica, in logica di profitto, quale onere accessorio all’attività imprenditoriale, che scatta solo se ed in quanto l’interessato richieda la rettifica esplicativa del dato personale e l’inesattezza del dato viene dedotta sulla base di accertamenti obiettivi e incontrovertibili quali quelli provenienti da un documentato accertamento giudiziario passato in giudicato.

Naturalmente questa tutela si aggiunge a quella consistente nella deindicizzazione, nel caso accordata dalla attuale controricorrente tempestivamente secondo la sentenza del Tribunale, non impugnata al riguardo>>.

Dunque ecco il princuipoio di diritto

In tema di trattamento dei dati personali e di diritto all’oblio, è lecita la permanenza di un articolo di stampa, a suo tempo legittimamente pubblicato, nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di una inchiesta giudiziaria, poi sfociata nell’assoluzione dell’imputato, purché, a richiesta dell’interessato, l’articolo sia deindicizzato e non sia reperibile attraverso i comuni motori di ricerca, ma solo attraverso l’archivio storico del quotidiano e purché, a richiesta documentata dell’interessato, all’articolo sia apposta una sintetica nota informativa, a margine o in calce, che dia conto dell’esito finale del procedimento giudiziario in forza di provvedimenti passati in giudicato, in tal modo contemperandosi in modo bilanciato il diritto ex art. 21 Cost. della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita lesione della propria immagine sociale” (§ 32, anche se erroneamente numerato come § 31).

I passaggi chiave, naturalmente, sono i due sottolineati.

Sul diritto all’oblio, l’editore web può attendere una richiesta dell’itneressato, non essendo obbligato ad un costgante controllo dell’aggiornamenot delle notizie

Cass. sez. 1 n° 6806 del 07 marzo 2023, rel. Scotti, sul tema.

<<13. La questione di diritto che deve essere risolta e che è stata posta con il motivo all’attenzione della Corte è se l’obbligo di intervento del titolare del sito web presupponga una richiesta dell’interessato o invece vi preesista per il solo fatto della sopravvenuta inattualità della notizia per effetto del decorso del tempo, sì che sarebbe configurabile la sua responsabilità risarcitoria per non avervi provveduto anche in difetto di una richiesta dell’interessato>.

Risposta:

<14. La Corte ritiene corretto il responso del giudice umbro nel primo senso, allorché la notizia (come in questo caso è pacifico ed è stato accertato dal Tribunale con statuizione non censurata) è stata a suo tempo legittimamente pubblicata in presenza di un interesse pubblico informativo; in tal senso si è espressa questa Corte proprio con l’ordinanza sopra richiamata n. 2893 del 2023, con riferimento agli artt. 16 e 17 del GDPR (come si è detto non applicabile ratione temporis alla presente controversia), che delineano un obbligo di intervento senza indugio, temporalmente calibrato in relazione alla richiesta dell’interessato.

Giustamente il Tribunale ha evidenziato, in primo luogo, che proprio perché la condotta lesiva consiste nell’esposizione di una rappresentazione non più attuale della propria persona, occorre la percezione del divario fra l’immagine pregressa e quella attuale, che non può che essere rimessa alla sensibilità e all’onere di attivazione dell’interessato, dovendosi in difetto presumere la persistente conformità della notizia alla realtà attuale.

Per altro verso, e in doveroso bilanciamento degli interessi in gioco, sarebbe eccessivamente oneroso accollare al gestore di un archivio digitale di notizie l’onere di un controllo periodico del loro superamento e della loro inattualità, in difetto di qualsiasi parametro temporale fissato dalla legge e sulla base di elementi del tutto sconosciuti come l’evoluzione personale dei soggetti interessati>>.

Altra disciplina del diritto all’oblio (che la SC desume da Corte Giustizia 08.12-2022, C-460, parrebbe):

<Quanto agli obblighi incombenti alla persona che richiede la deindicizzazione per l’inesattezza di un contenuto indicizzato, è stato ritenuto che spetti ad essa dimostrare l’inesattezza manifesta delle informazioni che compaiono in detto contenuto o, quanto meno, di una parte di tali informazioni che non abbia un carattere secondario rispetto alla totalità di tale contenuto.

Tuttavia, al fine di evitare un onere eccessivo idoneo a minare l’effetto utile del diritto alla deindicizzazione, il richiedente è tenuto unicamente a fornire gli elementi di prova che, tenuto conto delle circostanze del caso di specie, possono essere ragionevolmente richiesti al fine di dimostrare tale inesattezza manifesta; il richiedente, perciò, non è tenuto, in linea di principio, a produrre, fin dalla fase precontenziosa, a sostegno della sua richiesta di deindicizzazione presso il gestore del motore di ricerca, una decisione giurisdizionale, anche scaturente da procedimento sommario. Imporre un obbligo siffatto a detta persona avrebbe, infatti, l’effetto di far gravare su di essa un onere irragionevole.

Inoltre il gestore del motore di ricerca, al fine di verificare, a seguito di una richiesta di deindicizzazione, se un contenuto possa continuare ad essere incluso nell’elenco dei risultati delle ricerche effettuate mediante il suo motore di ricerca, deve fondarsi sull’insieme dei diritti e degli interessi in gioco nonché su tutte le circostanze del caso di specie. Tuttavia, nell’ambito della valutazione delle condizioni di applicazione di cui all’art. 17, paragrafo 3, lettera a), del GDPR, il gestore non può essere tenuto a svolgere un ruolo attivo nella ricerca di elementi di fatto che non sono suffragati dalla richiesta di cancellazione, al fine di determinare la fondatezza di tale richiesta.

Pertanto, in sede di trattamento di una richiesta del genere, non può essere imposto al gestore del motore di ricerca in questione un obbligo di indagare sui fatti e di organizzare, a tal fine, uno scambio in contraddittorio, con il fornitore di contenuto, diretto ad ottenere elementi mancanti riguardo all’esattezza del contenuto indicizzato. Tale obbligo costringerebbe il gestore del motore di ricerca stesso a contribuire a dimostrare l’esattezza o meno del contenuto menzionato e farebbe gravare su di lui un onere che eccede quanto ci si può ragionevolmente da esso attendere alla luce delle sue responsabilità, competenze e possibilità, e comporterebbe quindi un serio rischio che siano deindicizzati contenuti che rispondono ad una legittima e preponderante esigenza di informazione del pubblico e che divenga quindi difficile trovarli in Internet.

A tal riguardo, sussisterebbe un rischio reale di effetto dissuasivo sull’esercizio della libertà di espressione e di informazione se il gestore del motore di ricerca procedesse a una deindicizzazione del genere in modo pressoché sistematico, al fine di evitare di dover sopportare l’onere di indagare sui fatti pertinenti per accertare l’esattezza o meno del contenuto indicizzato.

Pertanto, nel caso in cui il soggetto che ha presentato una richiesta di deindicizzazione apporti elementi di prova pertinenti e sufficienti, idonei a suffragare la sua richiesta e atti a dimostrare il carattere manifestamente inesatto delle informazioni incluse nel contenuto indicizzato o, quantomeno, di una parte di tali informazioni che non abbia un carattere secondario rispetto alla totalità di tale contenuto, il gestore del motore di ricerca è tenuto ad accogliere detta richiesta di deindicizzazione. Lo stesso vale qualora l’interessato apporti una decisione giudiziaria adottata nei confronti dell’editore del sito Internet e basata sulla constatazione che informazioni incluse nel contenuto indicizzato, che non hanno un carattere secondario rispetto alla totalità di quest’ultimo, sono, almeno a prima vista, inesatte.

Per contro, nel caso in cui l’inesattezza di tali informazioni incluse nel contenuto indicizzato non appaia in modo manifesto alla luce degli elementi di prova forniti dall’interessato, il gestore del motore di ricerca non è tenuto, in mancanza di una decisione giudiziaria, ad accogliere siffatta richiesta di deindicizzazione. Nel caso in cui sia avviato un procedimento amministrativo o giurisdizionale vertente sull’asserita inesattezza di informazioni incluse in un contenuto indicizzato e l’esistenza di tale procedimento sia stata portata a conoscenza del gestore del motore di ricerca di cui trattasi, incombe al gestore, al fine di fornire agli utenti di Internet informazioni sempre pertinenti e aggiornate, aggiungere, nei risultati della ricerca, un avvertimento riguardante l’esistenza di un procedimento del genere.

E’ così evidente che la giurisprudenza Europea presuppone ed implica necessariamente un onere di attivazione da parte dell’interessato, sempre che il contenuto originariamente pubblicato fosse lecito, e pure un ragionevole contributo probatorio>>.

La registrazione abusiva di telefonata può provare l’infedeltà matrimoniale: intorno al concetto di “prova illecita”

Di un certo itneresse Appello Reggio Calabria 11.05.2022, RG 760/2019, sent. n° 345/2022.

Il figlio aveva lasciato il suo cell. acceso nell’auto della madre, presumendo che avrebbe incontrato un amante e di poterla quindi registrare. Così fu.

Il padre utilizzo tale registrzione producendola come CD nel processo di dovorzio e trascrivendone il contenuto nell’atto introduttivo.

Particolarità processuale: aveva ritirato il fascicolo diparte (col  CD) in udienza di precisazione  delle concluisioni, per restituirlo solo dopo il termine per le conclusionali.

I problemi son due:

i) se tale registrazione è lecita o illecita;

ii) nel secondo caso, se sia producibile/utilizzabile nel giudizio divile.

Vecchi temi quello delle prove illecite e delle prove atipiche nel processo civile (scritti importanti di Ricci ed oggi di Passanante). Un tempo illecite  erano spt. i documenti rubati, oggi i documenti informatici violanti la privacy.

La Corte ritiene utilizzabile tale prova come prova atipica, mancando una norma che ne sancisca l’inutilizzabilità come nel c.p.p.

<<Intanto, può escludersi che la condotta in questione abbia determinato la commissione di un reato, non ricorrendo, in particolare, tutti gli elementi costitutivi delle fattispecie di cui agli artt. 615 bis e 617 c.p..
In ogni caso, è opinione della Corte che anche la ravvisabile violazione della sfera di riservatezza altrui non impedisca l’acquisizione e la valutazione della prova nel presente procedimento.
L’ordinamento processuale civile, infatti, non prevede alcuna norma che, come l’art. 191 c.p.p. nell’ordinamento penale, sanzioni l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge.
Esso è, invece, governato dai principi della atipicità della prova e del libero convincimento del giudice, in virtù dei quali, in assenza di divieti di legge, quest’ultimo può formare il proprio convincimento anche, per esempio, in base a prove atipiche, come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento,
relative all’ammissione e all’assunzione della prova (ex plurimis, cfr. Cass. Civ., sez. I, n. 25067/2018; sez. III, n. 13229/2015).
L’applicazione di eventuali sanzioni – anche di carattere procedurale – conseguenti a condotte poste in essere in violazione delle norme contenute negli altri ambiti ordinamentali è a tali sede riservata e non incide sulla libera apprezzabilità della prova in ambito civile.
Ciò premesso, nel caso in esame si è comunque in presenza di una registrazione fonografica, riconducibile al disposto dell’art. 2712 c.c..
La giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che la registrazione su nastro magnetico di una conversazione può costituire fonte di prova, ex articolo 2712 del c.c., se colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dal nastro; il “disconoscimento” che fa perdere alle riproduzioni la loro qualità di prova deve essere però chiaro, circostanziato ed esplicito, nel senso che deve concretizzarsi nell’allegazione di elementi che attestino la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (ex plurimis: Cass. Civ., sez. II, n. 1220/2019; sez. II, n. 313/2019; sez. III, n. 1250/2018).
Nel caso in esame, nella memoria integrativa depositata dopo la costituzione in giudizio del marito, con la produzione della registrazione e della relativa trascrizione, la difesa della B. si è limitata ad affermare che le frasi riportate erano state pronunciate in un contesto burlesco tra amici, con espressioni forzate frutto di ironia, ed ha, solo in termini del tutto generici ed ipotetici, dedotto la necessità di opportuni riscontri e verifiche.
Solo, tardivamente, nella comparsa ex art. 183, comma VI, n. 3, c.p.c. la stessa difesa ha, in termini peraltro altrettanto generici, evidenziato la necessità della “esibizione” in giudizio dello smartphone utilizzato per la registrazione, al fine di “correlare” il compact disk con questo.
Va detto, ancora, che, rendendo l’interrogatorio formale deferitole, la stessa B____ ha espressamente riconosciuto la propria voce ed ammesso di aver parlato con un uomo di nome Angelo (“Ho ascoltato la registrazione prodotta in atti su c.d., riconosco la mia voce e riconosco di aver fatto più telefonate in quella circostanza…Riconosco che ho anche parlato con un uomo di nome Angelo”).
Infine, occorre evidenziare che il supporto contenente la registrazione, ritirato insieme al fascicolo di parte all’atto della assegnazione della causa a sentenza, è stato prodotto nuovamente in sede di giudizio di impugnazione, come pacificamente consentito (ex plurimis: Cass. Civ., sez. VI, n. 29309/2017; sez. III, n. 28462/2013; sez. II, n. 3466/1982).
Peraltro, e per inciso, correttamente il primo Giudice aveva utilizzato la trascrizione della conversazione riportata nella comparsa di risposta del resistente e, come visto, di fatto non contestata.
Ciò posto, le valutazioni compiute in sentenza circa la rilevanza causale della violazione dell’obbligo di fedeltà da parte della odierna appellante – chiaramente evincibile dal colloquio telefonico intrattenuto dalla B____  con un uomo di nome Angelo – appaiono pienamente condivisibili.
E’ vero, infatti, che nella memoria integrativa la ricorrente non ha contestato la circostanza del repentino mutamento di abitudini di vita a partire dal mese di giugno 2013 e, soprattutto, non ha adeguatamente allegato, né tanto meno provato che la crisi della coppia fosse preesistente e legata alla violazione dei doveri coniugali da parte del marito, del tutto generiche e non ricollegate a comportamenti ed eventi concreti risultando le relative deduzioni.
Il tenore della conversazione registrata il 27 febbraio 2014 lascia invece intendere, come sottolineato in sentenza, l’esistenza di un rapporto e di una consuetudine risalenti fra la B____ ed il suo interlocutore, con cui peraltro la donna parlava del Bar R____  proprio il luogo che, a partire dall’estate precedente, aveva preso a frequentare con assiduità nelle ore notturne (si rimanda ai brani riportati in sentenza)>>.

Manca però ogni accesso all’inquadramento tramite il GDPR , spt. trmite l’art. 9.1.lett. f) , secondo cui non applica il divieto di trattamento se <<il trattamento è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali;>>.

Se vale per i dati biometrici , tale eccezione varrà anche per i dati meno “delicati”.

L’accesso alle informazioni sul trattamento dei propri dati implica anche sapere esattamente a chi sono stati comunicati

<<l’articolo 15, paragrafo 1, lettera c), del RGPD deve essere interpretato nel senso che il diritto di accesso dell’interessato ai dati personali che lo riguardano, previsto da tale disposizione, implica, qualora tali dati siano stati o saranno comunicati a destinatari, l’obbligo per il titolare del trattamento di fornire a detto interessato l’identità stessa di tali destinatari, a meno che non sia impossibile identificare detti destinatari o che il suddetto titolare del trattamento non dimostri che le richieste di accesso dell’interessato sono manifestamente infondate o eccessive, ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 5, del RGPD, nel qual caso il titolare del trattamento può indicare a detto interessato unicamente le categorie di destinatari di cui trattasi>>.

Così Gocrte di giustizia 12.01.2023, C-154/21, RW c. Österreichische Post AG.

In presenza di un dettato normativo di questa fatta (<<articolo 15 Diritto di accesso dell’interessato – 1.   L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la conferma che sia o meno in corso un trattamento di dati personali che lo riguardano e in tal caso, di ottenere l’accesso ai dati personali e alle seguenti informazioni: (…) c)  i destinatari o le categorie di destinatari a cui i dati personali sono stati o saranno comunicati, in particolare se destinatari di paesi terzi o organizzazioni internazionali;>>), ci pare un esito assai difficilmente contestabile.

Sul concetto di “copia dei dati personali” che il titolare del trattamento deve fornire all’interessato ex art. 15.3 GDPR: intanto le conclusioni dell’AG

L’avvocato generale Pitruzzella nella causa C-487/21 ha presentato il 15.12.2022 le sue conclusini sull’oggetto (si trattava di richiesta rivolta ad agenia di informazioni sulla solvibilità delle persone).

La disposizione così recita: <<3.   Il titolare del trattamento fornisce una copia dei dati personali oggetto di trattamento. In caso di ulteriori copie richieste dall’interessato, il titolare del trattamento può addebitare un contributo spese ragionevole basato sui costi amministrativi. Se l’interessato presenta la richiesta mediante mezzi elettronici, e salvo indicazione diversa dell’interessato, le informazioni sono fornite in un formato elettronico di uso comune.>>

 La risposta dell’AG è :

<< la nozione di “copia” di cui a tale disposizione deve essere intesa come una riproduzione fedele in forma intellegibile dei dati personali richiesti dall’interessato, in un formato materializzato e permanente, che consenta all’interessato di esercitare in maniera effettiva il diritto di accesso ai suoi dati personali, avendo piena conoscenza di tutti i suoi dati personali oggetto di trattamento – compresi i dati ulteriori eventualmente generati a seguito del trattamento, se sono anch’essi oggetto di trattamento –, al fine di poterne verificare l’esattezza e di permettergli di accertarsi della correttezza e della liceità del trattamento per poter, se del caso, esercitare diritti ulteriori attribuitigli dal RGPD; la forma esatta della copia è determinata in base alle specificità di ciascun caso ed, in particolare, alla tipologia dei dati personali di cui è richiesto l’accesso e alle esigenze dell’interessato;

tale disposizione non attribuisce all’interessato un diritto generale ad ottenere copia parziale o integrale del documento che contiene i dati personali dell’interessato o, qualora i dati personali siano trattati in una banca dati, un estratto di tale banca dati;

tale disposizione non esclude, tuttavia, che parti di documenti, o documenti interi o estratti di banche dati, possano dover essere forniti all’interessato qualora ciò sia necessario per garantire la piena intellegibilità dei dati personali oggetto di trattamento di cui è richiesto l’accesso.

La nozione di “informazioni” di cui all’articolo 15, paragrafo 3, terza frase, del regolamento 2016/679

deve essere interpretata nel senso che:

essa si riferisce esclusivamente alla “copia dei dati personali oggetto di trattamento” di cui alla prima frase dello stesso paragrafo».>>

Cio: ha diritto a tutto ciò che la riguarda ma non oltre ciò.

Trasferimento dati a paese terzo (art. 45 e 46 GDPR): emesso l’executive order del Presidente USA che dovrebbe permettere la compliance alla normativa UE

Spediti verso il completamento del EU- US data privacy framework.

Emesso l’esecutive order (N. 14.086) nell’ottobre u.s. dal Presidente Biden, occasionato dagli artt. 45 e 46 GDPR e dalle sentenze Schrems I e II della corte di giustizia ( Executive Order 14086 of October 7, 2022, Enhancing Safeguards for United States Signals Intelligence Activities)

Si v. ora il briefing del Parlamento UE  “Reaching the EU-US Data Privacy Framework: First reactions to Executive Order 14086” del 14 dicembre 2022.

Interessante studio del Parlamento Europeo sui prezzi personalizzati

Il microtargeting, permesso dai software guidanti le grandi piattaforme digitali, permette di fare offerte di beni o servizi personalizzate sul singolo cliente seppur sempre in qualche misure categorizzate (anche se categorie via via più ristrette, al punto che può riuscire difficile individuarne una, apputandosi titalmente sule idiosincresie di un singolo).

Il Parlamento Ue pubblica lo studio European Parliament, Directorate-General for Internal Policies of the Union, Rott, P., Strycharz, J., Alleweldt, F., Personalised pricing, Publications Office of the European Union, 2022, https://data.europa.eu/doi/10.2861/869778   (link diretto qui).

E’ di sicuro interesse, essendo  il tema assai nuovo e potendo scuotere le fondamenta economico-giuridiche dello scambio tra privati, cui eravamo abituati.

Son ravvisati tre livelli di personalizzazione: < Price personalisation can take different forms, namely first-degree personalisation (based on personal characteristics of individual consumers), second-degree price personalisation (based on the quantity of products, e.g. when several bottles are sold in one package) and third-degree personalisation (based on membership in a market segment or consumer group, e.g. student rebate), and can be presented as a different price or a personalised discount. First-degree price personalisation is the most problematic of the three forms. It bases on the consumers’ willingness to pay, that can be inferred from different types of personal data processed on individual or aggregated level. Subsequently, a price matched to the willingness to pay is offered either automatically through algorithmic processing or non-automatically through human intervention >

Non c’è bisogno di ricordare che è il first degree a presentare problemi.

Il dovere di informare sulla personalizzazione (novello art. 6.1.ebis dir. 2011/83; lo studio dice invece <art. 6.1.ea>, ma sul sito Eurlex la versione consolidata della dir. accoglie la prima) varrà ben poco, dato il mare informativo in cui qualòunque dato oggi è annegato.

Ragiona naturalmente anche sull’art. 22 GDPR , inerente alle decisioni individuali automatizzate.

Concluisioni:

<< This leads to the following conclusions. As price personalisation is expected to become more widespread in the near future and has already occasionally proven to occur, there is a need for regulating this phenomenon.
Given the general rejection by consumers of personalised pricing, regardless of potentially being offered lower or higher prices, and the likelihood of overall consumer detriment of such practices, one could consider prohibiting personalised prices in the form of first degree price discrimination that lead
to a higher than the regular price. At least, there are certain areas where personalised pricing should be prohibited, namely, universal service obligations in areas such as electricity, gas and telecommunications where everyone should have access to services of general interest at the same conditions.
Moreover, while anti-discrimination laws limit the way in which personalised pricing can be performed in that they prohibit the inclusion of certain criteria in the personalisation process (e.g. sex, race, colour, ethnic or social origin, etc.) certain ‘sensitive’ criteria are currently not covered. These could be prohibited to be used for the personalisation of prices, including health conditions, and vulnerabilities such as anxieties that should not be exploited.
Otherwise, information obligations regarding personalised pricing could be extended to all goods and services and to offline or hybrid situations, and information provided should be ‘meaningful’, a notion well-known from data protection law. Thus, traders would have to disclose how prices are personalised
and what criteria are used to do so. Moreover, traders should be required to place information on personalised pricing next to the price in such a way that it cannot be overlooked.

Enforcement should be facilitated through the reversal of the burden of proof once there is an indication of price personalisation. Competent authorities could be granted access to the algorithm
that is used.
>>