RF Kennedy jr e la sua causa contro Google per la rimozione di video covid-negazionisti: confermato iin appelo il rigetto della sua domanda visto che Google non è “State actor”

Reuters dà notizia delll’oggetto e offre pure un link al breve provvedimento (3 pagg).

In breve, il diritto di free speech non si applica agli enti privati nè c’è modo di far ritebnere Google intimamente connesso con un ente gorvernativo (non è State actor).

Il ns art. 2 Cost., invece, si applica pacificamente anche agli enti privati.

Satira legittima o diffamazione?

Cass. sez. III, ord. 14/03/2024  n. 6.960, rel. Ambrosi:

premessa generale:

<<2.1. In via generale, vale rammentare che questa Corte ha già più volte avuto modo di affermare che la satira, quale specie del più ampio genere del diritto di critica, rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 21 Cost. che tutela la libertà della manifestazione del pensiero nella comunicazione ma che allo stesso tempo non può consistere in un esercizio indiscriminato, che può entrare in conflitto con alcuni valori fondamentali della persona, quali la reputazione, l’onore, il decoro, l’immagine etc., definiti dalla Corte Costituzionale “patrimonio irretrattabile di ogni essere umano” (Corte Cost. 24/01/1994 n. 13).

Il diritto di satira ha un fondamento complesso individuabile nella sua natura di creazione dello spirito, nella sua dimensione relazionale ossia di messaggio sociale, nella sua funzione di controllo esercitato con l’ironia ed il sarcasmo nei confronti dei poteri di qualunque natura.

Comunque si esprima e, cioè, in forma scritta, orale, figurata, la satira costituisce una critica corrosiva e spesso impietosa basata su una rappresentazione che enfatizza e deforma la realtà per provocare il riso; ne è espressione anche la caricatura e, cioè, la consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali di una persona realizzata con lo scritto, la narrazione, la rappresentazione scenica. In altri termini, la satira è espressione artistica nella misura in cui opera una rappresentazione simbolica quale metafora caricaturale.

Può al riguardo richiamarsi quanto autorevole dottrina ha osservato in tema di satira e parodia e cioè che esse offrono all’interprete “un altrove” ove il paradosso e la provocazione mutano il disincanto e la severità del diritto di critica e di cronaca, in riso o in burla.

Diversamente dalla cronaca, infatti, la satira è sottratta all’obbligo di riferire fatti veri, in quanto essa assume i connotati dell’inverosimiglianza e dell’iperbole per destare il riso e sferzare il costume ed esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su di un fatto, pur rimanendo assoggettata al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito.

Sul piano della continenza, il linguaggio essenzialmente simbolico e frequentemente paradossale della satira – in particolare di quella esercitata in forma grafica – è svincolato da forme convenzionali, per cui è inapplicabile il metro della correttezza dell’espressione.

In tale perimetro concettuale, è stato affermato da questa Corte che la satira, al pari di ogni altra manifestazione del pensiero, non può infrangere il rispetto dei valori fondamentali della persona.

Nello specifico, in ambito penale, non è stata riconosciuta la scriminante di cui all’art. 51 c.p. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo o dileggio (Cass. pen. sez. 5, 2/12/1999 n. 2128, V.; Cass. pen. Sez. 5, 23/05/2013 n. 37706, R.; Cass. Sez. 5 15/11/2022 n. 9953, P.) e più nello specifico, è stata esclusa la scriminante nella satira che, trasmodando da un attacco all’immagine pubblica del personaggio, si risolva in un insulto o in un’aggressione gratuite alla persona in quanto tale (Cass. pen., Sez. 5, 11/5/2006 n. 23712, G. e altro) o nella rappresentazione caricaturale e ridicolizzante di alcuni magistrati posta in essere allo scopo di denigrare l’attività professionale da loro svolta attraverso l’allusione a condotte lesive del dovere funzionale di imparzialità (Cass. pen., Sez. 5, 4/6/2001, n. 36348, F.; Cass. Sez. 5, 27/10/2010 n. 3356, M. e altro).

In ambito civile, nello stesso solco, è stato affermato come nella formulazione del giudizio critico e tanto più in quello satirico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato (Cass. Sez. 1, 20/03/2018 n.6919; Cass. Sez. 6-3, 17/09/2013, n. 21235; Cass. Sez. 3, 28/11/2008, n. 28411; Cass. Sez. 3, 08/11/2007 n. 23314; Cass. Sez. 3, 29/05/1996 n. 4993); ad esempio, nessuna scriminante può ammettersi allorché la satira diventa forma pura di dileggio, disprezzo, distruzione della dignità della persona (Cass. Sez. 24 marzo 2015, n. 5851), ovvero quando comporta l’impiego di espressioni gratuite, volgari, umilianti o dileggianti, non necessarie all’esercizio del diritto (Cass. Sez. 3, 11/09/2014 n. 19178), comportanti accostamenti volgari o ripugnanti o tali da comportare la deformazione dell’immagine pubblica del soggetto bersaglio e da suscitare il disprezzo della persona o il ludibrio della sua immagine pubblica (Cass. Sez. 3, 17/09/2013 n. 21235);

viceversa, è stato ravvisato il legittimo esercizio del diritto di satira posto, in essere attraverso l’impiego di un detto popolare avente ad oggetto una facezia di carattere scatologico, se contestualizzata e riconosciuta sorretta da un intento di esasperazione grottesca ed iperbolica dell’impraticabilità di un ipotizzato paragone od accostamento della condotta tenuta dalla persona attinta dalla satira, o da essa pubblicamente ammessa o riconosciuta, rispetto ad altra vicenda storica (Cass. Sez. 3, 07/04/2016 n. 6787).

2.2. Sul piano della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo satirico perseguito, va tenuto conto di un ulteriore presupposto necessario alla espressione satirica, e cioè della rilevanza dell’interesse del pubblico all’esposizione del fatto in tale peculiare forma ovvero della dimensione pubblica della vicenda o della notorietà del personaggio preso di mira volto solo ed esclusivamente al fine di suscitare il riso nel lettore.

La sussistenza di tale presupposto è ritenuta necessaria sia dalla giurisprudenza interna, come veduto, sia da quella sovranazionale.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, difatti, con riferimento ad una vignetta satirica dal forte carattere politico, ha riaffermato l’inviolabilità del principio di non discriminazione, così come sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea all’articolo 21, paragrafo 1, (CGUE Grande Sezione, 3/09/2014 Causa C – 201/13, JohanDeckmyn e Vrijheidsfonds VZW c. Helena Vandersteen et al.).

Nella stessa prospettiva, la Corte dei diritti dell’uomo ha affermato che la protezione offerta dall’art. 10 della Carta, a tutela della libertà di espressione, non può prevalere di fronte ad uno spettacolo comico dalla forte connotazione antisemita (Corte EDU n. 25239/13, del 20/10/2015, M’bala M’bala c. France, in ordine allo spettacolo negazionista del comico Dieudonnè).

La lente utilizzata nei richiamati arresti europei mette a fuoco la necessità di escludere dall’ontologia delle espressioni satiriche, quelle che non rivolgono i propri strali verso i potenti, ma che infieriscono su categorie deboli, oggetto di discriminazione, razzismo, sessismo etc., non suscitando il sorriso amaro che la satira dovrebbe provocare, bensì semplice dileggio o disprezzo.

In tale contesto, efficacemente, gli odierni ricorrenti hanno richiamato un arresto della Corte EDU che ha ritenuto come nei periodi elettorali sia necessario garantire una libertà ancora più ampia, che include satira e parodia, nel caso di discorsi politici e di questioni di interesse per la collettività inseriti in un contesto generale di polemica in ordine al sostegno economico e politico ad alcuni candidati piuttosto che ad altri (Corte EDU 22/11/2016, Grebneva e Alisimchik vs Russia; nella specie, nell’immagine rappresentata si faceva un parallelismo tra il volto di un candidato, procuratore della regione di Primorskiy, e un corpo di donna avvolta in una banconota, sottolineandone l’evidente carattere provocatorio, che non era certo equiparabile a un attacco gratuito, tanto più che non si richiamava alcun aspetto della vita privata del raffigurato)>>.

Nel caso specifico, con cassazione e rinvio:

<<In particolare, la Corte romana, sebbene abbia assunto a monte del proprio convincimento il principio in diritto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte fornisce le coordinate dell’esercizio legittimo della satira, richiamando in particolare la massima ricavata dalla ordinanza n. 6919/2018, a mente della quale, “La satira costituisce una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica, sicché, diversamente dalla cronaca, è sottratta all’obbligo di riferire fatti veri, in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su di un fatto, pur soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito. Conseguentemente, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato”; immediatamente dopo, alla stregua di tale massima, ha affermato “non vi è dubbio che la fotografia del Collegio giudicante al momento della lettura del dispositivo della sentenza nel procedimento penale contro @5Be@, con la didascalia dal titolo “Giustizia da fiction su @6Ca@”, sotto la quale i tre componenti del collegio della Corte di Appello ivi ritratti (tra cui l’odierna appellata) vengono testualmente definiti: “un gruppo di attori milanesi durante le prove estive di @7Ze@” abbia carattere diffamatorio” (pag. 2 della sentenza impugnata), evidenziando che “il destinatario della rappresentazione satirica era un Collegio giudicante all’atto della lettura del dispositivo di una sentenza che, condivisa o meno che fosse, non legittimava il Se.Mi. a ledere l’onore dei componenti del collegio, con una immagine caricaturale già di per sé sgradevole e del tutto gratuita, ma a svilire l’esercizio della funzione giurisdizionale da questi svolta. Definire i componenti del collegio un gruppo di attori di un programma comico equivale sostanzialmente a rimarcare l’assoluta inaffidabilità degli stessi, non veri magistrati che emettono una sentenza sgradita, ma semplici attori, per di più di un programma comico (…)”. La Corte territoriale ha altresì aggiunto che “l’affermazione pure contenuta nell’articolo che “il principio sancito dalla Costituzione per cui la legge è uguale per tutti è una delle più celebri battute di spirito della storia”, vale a rimarcare non solo l’inaffidabilità soggettiva dei magistrati, ma a negarne l’onestà intellettuale ed il difetto di imparzialità che è una delle più gravi accuse che possa essere rivolta ad un magistrato, essendo indipendenza, imparzialità ed equilibrio i fondamenti della funzione” (pagg. 2 e 3 della sentenza impugnata), concludendo, infine, nel rilevare che “il collegamento a @6Ca@ e alla trasmissione @7Ze@ per i rapporti dell’emittente con l’imputato @5Be@ valgono sotto altro profilo a rimarcare la parzialità del Collegio, un collegio di attori di un programma dell’imputato” (pag. 3 della sentenza impugnata).

2.4. Ebbene, nella specie, è del tutto mancato l’esame del contesto in cui si inseriva la fotografia e la didascalia pubblicate all’interno dell’inserto in oggetto.

Difatti, è mancato l’esame dell’elemento necessario all’esposizione del fatto in tale peculiare forma satirica (attraverso il paradosso e la metafora surreale), costituito dalla dimensione pubblica della vicenda, dalla notorietà del personaggio preso di mira e dalla rilevanza dell’interesse manifestato dal pubblico.

Invero, la rappresentazione provocatoria in esame e la direzione paradossale ed iperbolica della satira utilizzata nel verso della leale inverosimiglianza e dell’accostamento sarcastico e sferzante, offerte al lettore, senza proporre alcuna funzione informativa (accostamento dell’immagine del collegio giudicante ad un gruppo di attori di un noto programma riferibile al palinsesto televisivo del personaggio politico in argomento sia con riferimento alla burlesca, dissacrante, parodia dell’affermazione secondo cui la legge è eguale per tutti), non possono essere considerate in modo avulso dal contesto socio – culturale in cui erano calate, in considerazione delle numerose reazioni dell’opinione pubblica e dell’accesa polemica sviluppatesi con riguardo alla peculiare vicenda giudiziaria penale (di particolare scabrosità), protrattasi per diversi anni, ascritta all’ex Presidente del Consiglio dei ministri, notissimo uomo politico, imprenditore televisivo e industriale, all’indomani della sua assoluzione in appello.

In altri termini, è mancato l’esame del contesto di sincera non veridicità finalizzata alla critica e alla dissacrazione di un personaggio politico di alto rilievo, all’indirizzo del quale, in definitiva, l’intero inserto fotografico in oggetto (contenente, tra le altre, la fotografia del Collegio giudicante d’appello), intendeva provocare l’amaro riso del lettore>>.

Mi pare troppo indulgente verso l’editore e troppo poco verso il giudice diffamato: egli non è personaggio pubblico e l’ordinata vita collettiva riceve solo danno, senza un utile, dall’incremento di sfiducia verso la magistratura derivatone.

Diritto di cronaca, diritto di critica e diffamazione

Cass.  Sez. III, Ord. 12/03/2024, n. 6.464, rel. Valle, in un obiter dictum conciso e poco chiaro:

<< Il motivo può ritenersi assorbito dall’accoglimento dei primi tre, dovendosi, nondimeno, ribadire che (Cass. n. 25 del 7/01/2009 Rv. 606355 – 01) “qualora la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell’autore dello scritto, in modo da costituire nel contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza non può essere condotta sulla base di criteri solo formali, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.); bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della critica all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, ma di quella interpretazione del fatto, che costituisce, assieme alla continenza, requisito per l’esimente dell’esercizio del diritto di critica” >>.

Bilanciamento tra diritto della collettività all’informazione e diritto all’oblio dell’interessato: analitica pronuncia di legittimità

Cass. sez. I del 27/12/2023 n. 36.021, rel. Iofrida.

Premesse:

<<<3.1. Va premesso, richiamandosi quanto sancito da Cass. n. 15160 del 2021, che, nel disegno personalistico – lo Stato è a servizio della persona, non viceversa – e pluralista prefigurato dalla Costituzione, l’art. 2 non può che essere interpretato se non come una norma di apertura, fonte e catalogo – come è stato incisivamente affermato da autorevole dottrina – di una “Costituzione culturale”, e ad essa vanno, pertanto, ricondotti una serie di diritti della persona, sia che essi siano previsti da norme di legge ordinaria, sia che debbano enuclearsi dal sistema, come per i diritti – in considerazione nella vicenda oggetto di esame – all’identità personale ed all’oblio. Al soggetto giuridico, quale destinatario neutro ed indifferenziato della regola giuridica, astratto centro di imputazione di situazioni giuridiche (la capacità giuridica di ciascuno soggetto si acquista con la nascita, recita l’art. 1 c.c.), subentra, dunque, nel sistema, la persona, quale fonte primaria di valori; ma la persona intesa non astrattamente, bensì nella individualità delle sue qualità soggettive e sociali (cfr. Cass., SU, n. 3677 del 2009, secondo cui nel danno non patrimoniale rientra qualsiasi ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, garantito dall’art. 2 Cost.).

3.1.1. Orbene, la persona si individua, anzitutto, per certe caratteristiche esteriori. Viene, pertanto, in considerazione, in primis, il “diritto all’immagine”, enucleabile dall’art. 10 c.c. e dagli artt. 96 e 97 Legge sul diritto di autore, che prevedono il diritto al ritratto, che può essere pubblicato solo con consenso della persona ritratta (cfr. Cass. n. 10957 del 2010; Cass. n. 1748 del 2016).

3.1.2. Viene in rilievo, poi, il cd. “diritto all’identità personale”, il cui fondamento normativo è ravvisabile sempre nell’art. 2 Cost., e che risulta costruito – nelle elaborazioni della dottrina e nelle decisioni della giurisprudenza – come immagine sociale del soggetto, e non come idea meramente soggettiva che ciascuno abbia del proprio io; immagine costituita da quel coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali, ecc.) che caratterizzano una determinata persona e che questa non vuole vedere alterato o travisato all’esterno. Tale diritto confluisce (insieme a quelli all’immagine, alla riservatezza, al nome ed alla reputazione) nella previsione dell’art. 2 Cost., ossia nel valore unitario della persona, ed ha il proprio apparato di tutela negli artt. 6,7,10 e 2059 c.c. e nelle previsioni della legge sul diritto di autore, applicabili in via diretta e non analogica, in virtù di un’interpretazione adeguatrice di tali norme al precetto costituzionale (cfr. Cass. n. 16222 del 2015).

3.1.3. Nel valore “persona”, protetto dall’art. 2 Cost., confluisce, quindi, il “diritto alla riservatezza”. Conosciuto dagli ordinamenti anglosassoni da tempo (fin dalla fine dell’800), nella forma della cd. privacy, o right to be let alone, la tutela del riserbo trova oggi un fondamento normativo in un reticolo di testi legislativi nazionali ed internazionali: la L. n. 339 del 1958, art. 6 (obbligo di riservatezza del lavoratore domestico); le L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 6, con riferimento alla riservatezza del lavoratore, e L. 22 aprile 1941, n. 633, artt. 93 e 95 (legge sul diritto di autore), che tutelano l’intimità delle corrispondenze epistolari; la L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 5, con riferimento alla riservatezza della donna in caso di interruzione della gravidanza; l’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU), che tutela il “rispetto della vita privata e familiare”; gli artt. 2,14 e 15 Cost.; gli artt. 614 c.p. e ss..

3.1.4. Ciò posto, non può revocarsi in dubbio che il problema fondamentale che si pone con riferimento a tali diritti è costituito dal contemperamento tra libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost., art. 10 CEDU e art. 10 Carta di Nizza) ed il diritto alla privacy ed all’identità personale (art. 2 Cost. ed art. 8 CEDU), poiché vengono in considerazione – al riguardo – atti non ingiuriosi o diffamatori, bensì attività informative che comunque invadono la libertà altrui. Al riguardo, si è affermato che tra il diritto all’informazione ed i diritti della persona alla reputazione ed alla riservatezza, il primo, se correlato ad un effettivo interesse pubblico all’informazione, tendenzialmente prevale sui secondi, attesa, ex art. 1 Cost., comma 2, la funzionale correlazione dell’informazione con l’esercizio della sovranità popolare, che solo in presenza di una opinione pubblica compiutamente informata può correttamente dispiegarsi, ed alla luce anche della legislazione ordinaria (in particolare il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 12) che, appunto, riconduce reputazione, identità e privacy nell’alveo delle eccezioni rispetto al generale principio di tutela dell’informazione (cfr. Cass. n. 16236 del 2010).

3.1.5. Tuttavia, non si è mancato di osservare che, nelle controversie in cui si configura una contrapposizione tra due diritti, aventi entrambi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il cd. criterio di “gerarchia mobile”, dovendo il giudice procedere di volta in volta, ed in considerazione dello specifico thema decidendum, all’individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di un’equilibrata comparazione tra diritti in gioco, diretta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico (cfr. Cass. n. 18279 del 2010).

3.1.6. Sul versante opposto a quello dei diritti di informare e di essere informati (art. 21 Cost. e art. 10 CEDU) in relazione a fatti e notizie di pubblico interesse, si colloca, per vero, già prima dell’avvento delle Costituzioni moderne, il diritto dei singoli al riserbo ed all’oblio per quel che concerne le vicende passate. Sotto tale profilo, la norma dell’art. 2 della nostra Costituzione crea immediatamente, con riferimento alla persona, una distanza da ogni astrazione, propria del soggetto di diritto, per la rilevanza attribuita al legame sociale, alla realtà delle “formazioni sociali” nelle quali si realizza la costruzione della personalità, in modo tale che sia garantita la “pari dignità sociale” della persona ed il suo libero sviluppo, anche in una prospettiva evolutiva. La dignità presuppone, invero, innegabilmente, il rispetto, da parte delle formazioni sociali (prima fra tutte lo Stato), della sfera personale riservata della persona, del diritto di ciascuno ad essere lasciato solo, a non essere menzionato in pubblico, ad essere dimenticato.

3.1.7. Se la nozione giuridica di personalità, implicita nell’art. 2 Cost., dà luogo, dunque, ad un concetto dinamico, è evidente che il diritto all’oblio, strettamente connesso a quello alla riservatezza ed al rispetto della propria identità personale, ma in una prospettiva evolutiva, si traduce nell’esigenza di evitare che la propria persona resti cristallizzata ed immutabile in un’identità legata ad avvenimenti o contesti del passato, che non sono più idonei a definirla in modo autentico o, quanto meno, in modo completo. Il diritto all’oblio “pensato” e definito dalla giurisprudenza come diritto a non subire gli effetti pregiudizievoli della ripubblicazione, a distanza di tempo, pur legittimamente diffusa in origine, ma non più giustificata da nuove ragioni di attualità, deve scontare oggi, sul piano applicativo, e segnatamente su quello del bilanciamento degli interessi, la possibilità di conservare in rete notizie, anche risalenti, spesso superate da eventi successivi, e perciò inattuali.

3.1.8. In tal senso, lo strumento della “deindicizzazione” – sul quale si ritornerà – è divenuto, nella prassi giurisprudenziale (oggi espressamente avallata dalla previsione del “diritto alla cancellazione”, denominato nel titolo anche “diritto all’oblio”, previsto dall’art. 17 del Regolamento UE 2016/679, non applicabile, tuttavia, ratione temporis alla fattispecie concreta, come si è già anticipato), lo strumento applicabile ogni qual volta l’interesse all’indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto all’esigenza di tutela dell’identità personale, nel senso dinamico suindicato. In tal modo, viene evitato il rischio di quella che è stata definita in dottrina la “biografia ferita”, ossia il rischio della “cristallizzazione della complessità dell’Io in un dato che lo distorce o non lo rappresenta più”.

3.1.9. Il tutto si gioca, dunque, sul tavolo del bilanciamento tra valori che si fronteggiano. Ed in tale prospettiva di “gerarchia mobile”, che vede – a seconda del contesto fattuale – prevalere ora l’una ora l’altra esigenza di tutela, si è posta, da ultimo, anche autorevole dottrina, che ha elaborato, al riguardo, una quadripartizione di tipi di casi – “una sorta di scansione per Fallgruppen” – evidenziando, del tutto opportunamente, che “la decisione di bilanciamento va presa alla luce di un solerte apprezzamento di tutte le circostanze allo stato significative”. In via di estrema sintesi, si è rilevato che può accadere, in concreto, che: a) in assenza di un interesse pubblico attuale, debba prevalere l’aspirazione del soggetto interessato al controllo dei propri dati personali; b) il conflitto coinvolga, invece, un interesse pubblico specifico ed attuale, ed allora troverà spazio l’opposta soluzione di pubblicare o ripubblicare i dati del soggetto; c) ci si trovi in presenza di un dataset documentario, inteso a raccogliere informazioni a fini di ricerca, per esigenze storiografiche, o altro, ed allora il diritto alla rimozione dei dati diventa recessivo, ma l’interessato avrà a diposizione l’opportunità di coltivare una istanza di contestualizzazione, volta all’aggiornamento del dato; d) la notizia diffusa sia inequivocabilmente falsa (fake news), ed allora – fatta salva in alternativa, ove concretamente percorribile, una possibilità di smentita – la cancellazione dall’archivio informatico potrà essere inevitabile.

3.2. Con riguardo, poi, al concreto atteggiarsi del diritto all’oblio nel contesto digitale, con specifico riguardo ai limiti del diritto individuale alla rimozione di taluni contenuti dai risultati forniti da un motore di ricerca a partire dal proprio nome, è opportuno, per il corretto inquadramento della questione, muovere dalla nota sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, del 13.5.2014- C-131/12, usualmente ricordata come “(Omissis)”.

3.2.1. Secondo questa pronuncia, l’art. 2, lett. b) e d), della direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, deve essere interpretato nel senso che, da un lato, l’attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come “trattamento di dati personali”, ai sensi del citato art. 2, lett. b), qualora tali informazioni contengano dati personali, e che, dall’altro lato, il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il “responsabile” del trattamento summenzionato, ai sensi dell’art. 2, lett. d), di cui sopra.

3.2.2. Inoltre gli artt. 12, lett. b), e 14, comma 1, lett. a), della direttiva 95/46 suddetta devono essere interpretati nel senso che, al fine di rispettare i diritti previsti da tali disposizioni, e sempre che le condizioni da queste fissate siano effettivamente soddisfatte, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, i links verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a quest’ultima anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita.

3.2.3. Si deve verificare, quindi, in particolare, se l’interessato abbia diritto a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che si palesino a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome, senza per questo che la constatazione di un diritto siffatto presupponga che l’inclusione dell’informazione in questione in tale elenco arrechi un pregiudizio a detto interessato.

3.2.4. Quest’ultimo, sulla scorta dei suoi diritti fondamentali derivanti dagli art. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cd. “Carta di Nizza“), – il primo dei quali, rubricato “Rispetto della vita privata e della vita familiare”, proclama che “Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni”; il secondo, invece, recante “Protezione dei dati di carattere personale”, afferma che “1. Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano. 2. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica. 3. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente” – può chiedere che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico in virtù della sua inclusione in un siffatto elenco di risultati.

3.2.5. I diritti fondamentali di cui sopra prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse del grande pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona. Fa eccezione l’ipotesi in cui risulti, per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto dalla stessa nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi.

3.3. Infatti, il diritto di ogni persona all’oblio, strettamente collegato, come si è già anticipato, ai diritti alla riservatezza ed all’identità personale, deve essere bilanciato con il diritto della collettività all’informazione, sicché, qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la deindicizzazione dell’articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai suoi dati personali, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa lederne il diritto a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate (cfr. anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 2893 del 2023; Cass. n. 15160 del 2021). Una tale conclusione – valevole anche anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 17 Regolamento (UE) 2016/679 – si spiega proprio perché il diritto all’oblio consiste nel non rimanere esposti senza limiti di tempo ad una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza, a causa della ripubblicazione, a distanza di un importante intervallo temporale, di una notizia relativa a fatti del passato, ma la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e, quindi, di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, sicché, nel caso di notizia pubblicata sul web, il medesimo può trovare soddisfazione anche nella sola deindicizzazione dell’articolo dai motori di ricerca (cfr. Cass. n. 9147 del 2020).

3.3.1. Anche le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di interloquire, precisando che la menzione degli elementi identificativi delle persone protagonisti di fatti e vicende del passato è lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito. In caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva (cfr. Cass., SU, n. 19681 del 2019)>>.

Andando al caso sub iudice:

<<3.4. Tanto premesso, la fattispecie oggi all’attenzione del Collegio, sempre più frequentemente sottoposta al vaglio giudiziale, è quella del diritto dell’interessato a richiedere al gestore di un motore di ricerca la rimozione (deindicizzazione) di taluni risultati connessi al proprio nome e concernenti articoli già legittimamente pubblicati nell’esercizio del diritto di cronaca giornalistica per l’interesse pubblico che circondavano alcune vicende che lo avevano interessato: si tratta, cioè, dell’aspirazione di una persona coinvolta in quelle vicende, una volta cessato il clamore e l’interesse pubblico per il decorso del tempo, a non vedersi consegnata al ricordo collettivo in quei termini. Rischio, questo, amplificato dalla potenza evocatrice dei motori di ricerca nell’ambiente internet che, tramite il collegamento alle sue generalità, permette con estrema facilità di rinvenire in rete, anche molti anni dopo, la traccia di quelle notizie e di quegli articoli.

3.4.1. Come opportunamente rimarcatosi in dottrina, peraltro, l’attività dei motori di ricerca si è progressivamente affrancata da schemi di mera intermediazione tecnica e neutrale elencazione delle informazioni reperite online, affiancandovi attività di organizzazione e posizionamento delle informazioni in base a vari criteri, di guida dell’utente, nella navigazione e di generazione di copie (le cache) delle pagine indicizzate, a formare un vero e proprio archivio, più o meno duraturo, dei contenuti della rete. Il gestore del motore di ricerca ha assunto, così, un ruolo sempre meno “passivo” nella erogazione del servizio. Tanto che – come si è già anticipato – l’attività del motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate online da terzi, indicizzarle, memorizzarle temporaneamente e metterle a disposizione degli utenti secondo un ordine di preferenza deve essere qualificata come “trattamento di dati personali” del quale il gestore del search engine è il titolare; trattamento, questo, distinto e diverso da quello posto in essere dal gestore del sito sorgente sul quale il dato è stato originariamente pubblicato. L’intermediazione del motore di ricerca, inoltre, è suscettibile anche di mutare lo stesso contenuto comunicativo delle informazioni fornite all’utente, ottenendo, mediante l’aggregazione di differenti fonti in un unico elenco strutturato, un messaggio complessivo diverso rispetto a quello che sarebbe veicolato dai singoli contenuti ove separatamente consultati accedendo ai relativi siti sorgente. In particolare, come ricordato da Cass. n. 3952 del 2022, l’elenco dei risultati fornito dal motore di ricerca in corrispondenza del nome di una persona è idoneo a veicolare “una rappresentazione dell’identità che quella persona ha in internet”, offrendo una visione complessiva delle informazioni ad essa relative reperibili online e definendone un “profilo” più o meno dettagliato ma sicuramente “originale” quanto all’aggregazione delle informazioni stesse.

3.5. Orbene, nella ricerca di un rimedio idoneo a neutralizzare questi rischi, è stato osservato che ad offendere il protagonista della notizia non è la sua mera permanenza in rete, ma le modalità con le quali ciò avviene. Il diritto all’oblio, quindi, è posto in rilievo rispetto alla lesione risentita dal protagonista dell’informazione dall’accesso generalizzato ed indistinto consentito agli utenti del web ai contenuti della notizia che – presente nella pagina di un giornale in formato digitale ed inserita in un archivio giornalistico online – riemerge, in seguito alla digitazione sulla query del motore di ricerca del nominativo dell’interessato, per l’intervenuta sua indicizzazione, operazione con cui il gestore di un motore di ricerca include nel proprio data base i contenuti di un sito web che viene in tal modo acquisito e tradotto all’interno del primo.

3.5.1. Un siffatto esito interpretativo ben può essere condiviso, oltre che per l’autonoma dignità riconosciuta ad una memoria storica collettiva integrata dai fatti di cronaca di rilievo storico-sociale, anche quando declinata in formato digitale, pure in ragione di quanto, negli anni più recenti, si è venuto ad affermare dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea sui rapporti tra motori di ricerca, protagonisti del contesto digitale e della diffusione dell’informazione in siffatto ambito, loro operatività e diritto all’oblio, inteso, appunto, come imperitura esposizione delle informazioni relative al singolo agli utenti di Internet.

3.5.2. Tutto ciò ha portato a concludere che, in materia di diritto all’oblio, là dove il suo titolare lamenti la presenza sul web di una informazione che lo riguardi – appartenente al passato e che egli voglia tenere per sé a tutela della sua identità e riservatezza – e la sua riemersione senza limiti di tempo all’esito della consultazione di un motore di ricerca avviata tramite la digitazione sulla relativa query del proprio nome e cognome, la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, e può trovare soddisfazione, fermo il carattere lecito della prima pubblicazione, nella deindicizzazione dell’articolo sui motori di ricerca generali, o in quelli predisposti dall’editore.

3.5.3. In quest’ottica, dunque, si inquadra Cass. n. 15160 del 2021, secondo cui il diritto di ogni persona all’oblio, strettamente collegato ai diritti alla riservatezza e all’identità personale, deve essere bilanciato con il diritto della collettività all’informazione, sicché (anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 17 del Regolamento UE 2016/679), qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la deindicizzazione dell’articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai dati personali di tale soggetto, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa ledere il diritto di quest’ultimo a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica, diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate.

3.5.4. Altrettanto dicasi circa la già menzionata Cass. n. 3952 del 2022, nella cui motivazione si legge, tra l’altro (cfr. pag. 14 e ss.), che: i) “le Sezioni Unite di questa Corte hanno ricondotto la deindicizzazione al “diritto alla cancellazione dei dati” nel quadro di una classificazione che considera il medesimo come una delle tre possibili declinazioni del diritto all’oblio: le altre due sono individuate nel diritto a non vedere nuovamente pubblicate notizie relative a vicende in passato legittimamente diffuse, quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione e quello, connesso all’uso di internet ed alla reperibilità delle notizie nella rete, consistente nell’esigenza di collocare la pubblicazione, avvenuta legittimamente molti anni prima, nel contesto attuale (cfr., in motivazione, Cass., SU, n. 19681 del 2019). Sia la contestualizzazione dell’informazione che la deindicizzazione trovano ragione in un dato che innegabilmente connota l’esistenza umana nell’era digitale: un dato che si riassume, secondo una felice espressione, nella “stretta della persona in una eterna memoria collettiva, per una identità che si ripropone, nel tempo, sempre uguale a sé stessa” (cfr., in motivazione, Cass. n. 9147 del 2020)”; ii) “(…) nel mondo segnato dalla presenza di internet, in cui le informazioni sono affidate ad un supporto informatico, le notizie sono sempre reperibili a distanza di anni dal verificarsi degli accadimenti che ne hanno imposto o comunque suggerito la prima diffusione e che la deindicizzazione si è venuta affermando come rimedio atto ad evitare che il nome della persona sia associato dal motore di ricerca ai fatti di cui internet continua a conservare memoria. In tal senso, la deindicizzazione asseconda il diritto della persona a non essere trovata facilmente sulla rete (si parla in proposito di right not to be found easily): lo strumento vale, cioè, ad escludere azioni di ricerca che, partendo dal nome della persona, portino a far conoscere ambiti della vita passata di questa che siano correlati a vicende che in sé – si badi – presentino ancora un interesse (e che non possono perciò essere totalmente oscurate), evitando che l’utente di internet, il quale ignori il coinvolgimento della persona nelle vicende in questione, si imbatta nelle relative notizie per ragioni casuali o in quanto animato dalla curiosità di conoscere aspetti della trascorsa vita altrui di cui la rete ha ancora memoria (una memoria facilmente accessibile, nei suoi contenuti, proprio attraverso l’attività dei motori di ricerca)”; iii) “Come ricordato dalla Corte di Lussemburgo, l’inclusione nell’elenco di risultati – che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona – di una pagina web e delle informazioni in essa contenute relative a questa persona, poiché facilita notevolmente l’accessibilità di tali informazioni a qualsiasi utente di internet che effettui una ricerca sulla persona di cui trattasi e può svolgere un ruolo decisivo per la diffusione di dette informazioni, è idonea a costituire un’ingerenza più rilevante nel diritto fondamentale al rispetto della vita privata della persona interessata che non la pubblicazione da parte dell’editore della suddetta pagina web (Corte giust. (Omissis) e (Omissis), cit., 87)”; iii) “La deindicizzazione ha, così, riguardo all’identità digitale del soggetto: e ciò in quanto l’elenco dei risultati che compare in corrispondenza del nome della persona fornisce una rappresentazione dell’identità che quella persona ha in internet. E’ stato in proposito sottolineato, sempre dalla Corte di giustizia, che “l’organizzazione e l’aggregazione delle informazioni pubblicate su internet, realizzate dai motori di ricerca allo scopo di facilitare ai loro utenti l’accesso a dette informazioni, possono avere come effetto che tali utenti, quando la loro ricerca viene effettuata a partire dal nome di una persona fisica, ottengono attraverso l’elenco di risultati una visione complessiva strutturata delle informazioni relative a questa persona reperibili su internet, che consente loro di stabilire un profilo più o meno dettagliato di quest’ultima” (Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 37). L’attività del motore di ricerca si mostra, in altri termini, incidente sui diritti fondamentali alla vita privata e alla protezione dei dati personali (cfr., in particolare, Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 38): e tuttavia, poiché la soppressione di links dall’elenco di risultati potrebbe avere, a seconda dell’informazione in questione, ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a quest’ultima, occorre ricercare un giusto equilibrio tra tale interesse e i diritti fondamentali della persona di cui trattasi, derivanti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 81; il tema è affrontato anche da Corte giust. UE, Grande sezione, 24 settembre 2019, G.C. e altri, 66 e 75, ove è precisato che il gestore del motore di ricerca deve comunque verificare – alla luce dei motivi di interesse pubblico rilevante di cui all’art. 8.4, della dir. 95/46/CE o all’art. 9.2, lett. g), del reg. (UE) 2016/679, e nel rispetto delle condizioni previste da tali disposizioni – se l’inserimento del link, verso la pagina web in questione, nell’elenco visualizzato in esito a una ricerca effettuata a partire dal nome della persona interessata, sia necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di informazione degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a tale pagina web attraverso siffatta ricerca, libertà protetta dall’art. 11 della Carta suddetta)”; iv) “Occorre però considerare che questa esigenza di bilanciamento tra l’interesse del singolo ad essere dimenticato e l’interesse della collettività ad essere informata – cui si correla l’interesse dei media ad informare – permea l’intera area del diritto all’oblio, di cui quello alla deindicizzazione può considerarsi espressione; va rammentato, in proposito, quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nel campo della rievocazione storica, a mezzo della stampa, di fatti e vicende concernenti eventi del passato: rievocazione rispetto alla quale è stato affermato l’obbligo, da parte del giudice del merito, di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale, alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti (in tal senso Cass. Sez. U. 22 luglio 2019, n. 19681, cit.). Nello stesso senso, la giurisprudenza della Corte EDU è ferma, da tempo, nel postulare un giusto equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 CEDU e il diritto alla libertà d’espressione di cui al successivo art. 10, che include “la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee” e ha individuato, a tal fine, precisi criteri per la ponderazione dei diritti concorrenti: il contributo della notizia a un dibattito di interesse generale, il grado di notorietà del soggetto, l’oggetto della notizia; il comportamento precedente dell’interessato, le modalità con cui si ottiene l’informazione, la sua veridicità e il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione (si vedano, ad esempio: Corte EDU 19 ottobre 2017, Fuchsmann c. Germania, 32; Corte EDU 10 novembre 2015, Couderc et Hachette Filipacchi c. Francia, 93: sulla necessità del giusto equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata, da un lato, e la libertà di espressione e la libertà di informazione del pubblico, dall’altro, cfr. pure Corte EDU 28 giugno 2018, M.L. e W.W. c. Germania, 89)”.

3.5.5. Come è evidente, allora, la deindicizzazione dei contenuti presenti sul web rappresenta, il più delle volte, l’effettivo punto di equilibrio tra gli interessi in gioco. Essa integra, infatti, la soluzione che, a fronte della prospettata volontà, da parte dell’interessato, di essere dimenticato per il proprio coinvolgimento in una vicenda del passato, realizza il richiamato bilanciamento escludendo le estreme soluzioni che sono astrattamente configurabili: quella di lasciare tutto com’e’ e quella di cancellare completamente la notizia dal web, rimuovendola addirittura dal sito in cui è localizzata.

3.5.6. Va rimarcato, del resto, che attraverso la deindicizzazione l’informazione non viene eliminata dalla rete, ma può essere attinta raggiungendo il sito che la ospita (il cosiddetto sito sorgente) o attraverso altre metodologie di ricerca, come l’uso di parole-chiave diverse: ciò che viene in questione e’, infatti, per usare le parole della Corte di giustizia, il diritto dell’interessato “a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome” (così Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 99). In altri termini, con la deindicizzazione viene in discorso la durata e la facilità di accesso ai dati, non la loro semplice conservazione su internet (Corte EDU, 25 novembre 2021, Biancardi c. Italia, 50).

3.5.7. La neutralità della deindicizzazione operata a partire dal nome dell’interessato rispetto ad altri criteri di ricerca è stata, del resto, sottolineata dalle Linee-guida sull’attuazione della sentenza della Corte di giustizia nel caso C-131/12, elaborate dal Gruppo di lavoro “Art. 29”: in dette Linee-guida viene ricordato come la citata pronuncia non ipotizzi la necessità di una cancellazione completa delle pagine dagli indici del motore di ricerca e che dette pagine dovrebbero restare accessibili attraverso ogni altra chiave di ricerca. Tale avvertenza non è difforme da quella contenuta nelle Linee-guida 5/2019 che dettano “criteri per l’esercizio del diritto all’oblio nel caso dei motori di ricerca, ai sensi del RGPD” (Reg. 2016/679), adottate il 7 luglio 2020: è ivi evidenziato che la deindicizzazione di un particolare contenuto determina la cancellazione di esso dall’elenco dei risultati di ricerca relativi all’interessato, quando la ricerca e’, in via generale, effettuata a partire dal suo nome; in conseguenza, il contenuto deve restare disponibile se vengano utilizzati altri criteri di ricerca e le richieste di deindicizzazione non comportano la cancellazione completa dei dati personali, i quali non devono essere cancellati né dal sito web di origine né dall’indice e dalla cache del fornitore del motore di ricerca (punti 8 e 9).

3.5.8. In tal senso, questa Corte ha avuto modo di ritenere che il bilanciamento tra il diritto della collettività ad essere informata ed a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale, possa essere soddisfatto assicurando la permanenza dell’articolo di stampa relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di cronaca giudiziaria nell’archivio informatico del quotidiano, a condizione, però, che l’articolo sia deindicizzato dai siti generalisti (cfr. Cass. n. 7559 del 2020). Similmente, si è reputato che la tutela del diritto consistente nel non rimanere esposti senza limiti di tempo a una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza, a causa della ripubblicazione sul web, a distanza di un importante intervallo temporale, di una notizia relativa a fatti del passato, possa trovare soddisfazione – nel quadro dell’indicato bilanciamento del diritto stesso con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica – anche nella sola deindicizzazione dell’articolo dai motori di ricerca (cfr. Cass. n. 9147 del 2020).

3.5.9. In definitiva, quindi, il Collegio ritiene, in armonia con gli orientamenti giurisprudenziali finora illustrati, che la tutela dell’oblio dell’interessato in relazione ad articoli che lo riguardino e pubblicati, a suo tempo, legittimamente, nell’esercizio del diritto di cronaca e/o di critica e /o di satira, da una testata online, deve essere bilanciata con il diritto della collettività all’informazione e, ove non recessiva rispetto a quest’ultimo, è adeguatamente assicurata, innanzitutto, dalla deindicizzazione degli indirizzi URL relativi a tali articoli, quale rimedio atto ad evitare che il nome della persona sia associato dal motore di ricerca ai fatti di cui internet continua a conservare memoria, così assecondando il diritto della persona medesima a non essere trovata facilmente sulla rete (right not to be found easily).

3.5.10. E’ doveroso puntualizzare, peraltro, che, come già sancito da Cass. n. 2893 del 2023, all’interessato può essere riconosciuto, a certe condizioni, anche il diritto a rimedi più incisivi della deindicizzazione suddetta, ma, sul punto, non è necessario indugiare oltre attesa la richiesta originaria del P. volta ad ottenere, appunto, la sola deindicizzazione suddetta, oltre al risarcimento del lamentato danno.

4. Venendo, allora, allo scrutinio dei formulati motivi di ricorso, che può essere unitario in ragione della evidente connessione che li caratterizza, gli stessi si rivelano complessivamente inammissibili alla stregua dei principi suddetti e delle dirimenti considerazioni di cui appresso.

4.1. Giova ricordare che, come si è riferito al p. 1.2.1. dei “Fatti causa”, il tribunale capitolino, richiamati alcuni passaggi motivazionali di Cass. n. 20861 del 2021 e di Cass. n. 9147 del 2020, ha accertato (cfr. pag. 3 della sentenza oggi impugnata) che: i) “Nel caso di specie, le notizie per cui è causa risalgono al (Omissis) e il ricorso manca di censure in merito alla loro falsità o racconto inveritiero”. A supporto di tale conclusione, ha richiamato la pagina 4 del ricorso del P., recante l’affermazione “in questa sede (…) non si intende entrare nel merito della veridicità dei fatti narrati”; ii) “Non è contestato, inoltre, che P.A. abbia ricoperto e ricopra attualmente ruoli di dirigente d’azienda nel settore delle telecomunicazioni, come specificamente dedotto dalla resistente (“sia presso primarie aziende di rilievo nazionale come (Omissis) e (Omissis) sia come attuale Dirigente della (Omissis)” – vedi pag. 5 comparsa (Omissis)), né che le informazioni di cui ai link oggetto di causa si riferissero agli “studi universitari e (alla) carriera professionale svolta dal Dott. P.” (vedi pag. 5 comparsa (Omissis))”.

4.1.1. Successivamente, ha ritenuto (cfr. pag. 3-4 della medesima sentenza) che “la natura delle informazioni per cui è causa e il fatto che il ricorrente sia un noto dirigente nel settore della telecomunicazioni e che all’epoca del presente ricorso fosse un dirigente (Omissis), evidenzia la sussistenza dell’interesse della collettività alla conoscenza del suo percorso di studi e professionale, che non può ritenersi limitato ad un contesto specifico, ovvero la risalente appartenenza “allo staff dirigenziale del Dott. G.”, sussistente all’epoca delle pubblicazioni per cui è causa. Notorio, inoltre, è il fatto che attualmente P.A. ricopra un ruolo dirigenziale nel (Omissis), del quale amministratore delegato è G.L.. Per tale ragione, ingiustificata è la richiesta di deindicizzazione, tanto che nel caso di specie neppure rileverebbe il fattore tempo, persistendo l’attuale interesse pubblico alla conoscenza di queste informazioni, relativamente alle quali neppure è stata allegata la necessità di aggiornamento o la falsità. Il diritto all’oblio, infatti, non è soltanto una questione di tempo, ma sostanzialmente una questione concernente la proporzionalità con il contrapposto interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica che non affievolisce, come nel caso di specie, nel momento in cui persista un interesse pubblico specifico ed attuale, come recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione (Cass. 15160/21 (…))”.

4.2. E’ palese, dunque, che, così argomentando, il giudice di merito ha proceduto al bilanciamento tra la tutela dell’oblio invocata dal P. in relazione agli articoli predetti ed il diritto della collettività all’informazione, ritenendo la prima recessiva rispetto a quest’ultimo in forza di una motivazione che, pur nella sua sinteticità, si rivela essere sicuramente in linea con il minimo costituzionale richiesto da Cass., SU, n. 8053 del 2014.

4.2.1. Il tribunale, peraltro, – diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente nella prima delle sue doglianze – ha inteso riferirsi proprio alla specifica richiesta di deindicizzazione di quegli articoli, e non, invece, a quella di cancellazione dei loro contenuti, e la sua motivazione tiene chiaramente conto pure della notorietà dell’odierno ricorrente, considerata tale, in rapporto anche all’attività da lui attualmente svolta, da giustificare la permanenza, malgrado il tempo trascorso, dell’interesse della collettività a conoscere i fatti di cui ai menzionati articoli (riguardanti la carriera professionale svolta dal Dott. P. sia presso primarie aziende di rilievo sia come Dirigente (Omissis)) relativamente ai quali neppure era stata allegata la necessità di aggiornamento o la falsità.

Ciò in considerazione dell’indubbio ruolo svolto dal P. nella vita pubblica e nel sistema industriale e delle telecomunicazioni di questo Paese.

E il fattore tempo – oggetto di doglianza nel terzo motivo -e’ stato dal tribunale correttamente contestualizzato all’interno del giudizio di necessario bilanciamento di interessi tra il diritto all’oblio del ricorrente e l’interesse della collettività a conoscere le vicende della vita professionale di uno dei top manager pubblici italiani.

4.2.2. In altri termini, reputa il Collegio che la realtà concreta – così come ricostruita dall’esame compiuto dal tribunale, in base alla sua prudente valutazione circa l’eseguito bilanciamento tra le contrapposte pretese delle parti – sia stata correttamente sussunta nei principi tutti in precedenza esposti, di cui, dunque, quel giudice ha fatto esatta applicazione, mentre, invece, ciò di cui si duole il P. e’, in realtà, proprio l’esito del predetto bilanciamento effettuato da quest’ultimo>>.

Diffamazione a mezzo stampa: ripasso sul diritto di critica

Cass sez, 3 del 21 luglio 2023 n. 21.892, rel Dell’Utri:

<<secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità civile per diffamazione, il diritto di critica non si concreta nella mera narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio avente carattere necessariamente soggettivo rispetto ai fatti stessi; per riconoscere efficacia esimente all’esercizio di tale diritto occorre, tuttavia, che il fatto presupposto ed oggetto della critica corrisponda a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze soggettive (Sez. 3, Ordinanza n. 25420 del 26/10/2017, Rv. 646634 – 03; conf. Sez. 3, Sentenza n. 7847 del 06/04/2011, Rv. 617513 – 01);

infatti, in tema di responsabilità aquiliana da diffamazione a mezzo stampa, il significato di verità oggettiva della notizia va inteso in un duplice senso, potendo tale espressione essere intesa non solo come verità del fatto oggetto della notizia, ma anche come verità della notizia come fatto in sé e quindi indipendentemente dalla verità del suo contenuto. In quest’ultima ipotesi, peraltro, occorre che tale propalazione costituisca di per sé un “fatto” così rilevante nella vita pubblica che la stampa verrebbe certamente meno al suo compito informativo se lo tacesse, fermo restando che il cronista ha inoltre il dovere di mettere bene in evidenza che la verità non si estende al contenuto del racconto e di riferire le fonti per le doverose e conseguenti assunzioni di responsabilità. Questi doveri, inoltre, debbono essere adempiuti dal cronista contestualmente alla comunicazione in modo da garantire la fedeltà dell’informazione che nella specie consiste nella rappresentazione al lettore o all’ascoltatore della esatta percezione che egli ha avuto del fatto (Sez. 3, Sentenza n. 1205 del 19/01/2007, Rv. 595637 – 01);>>

E’ il caso dell’articolo dell Unità relativo al giudice Quaranta, ritenutosi diffamato per presunti favori da lui elargiti a ministro in carica.

La SC rigetta il ricorso dei giornalisti  e conferma la condanna emessa dalla corte di appello

Il governo USA durante la pandemia ha violato il diritto di freee speech dei dissenzienti esercitando eccessive pressioni sulle piattaforme

– I –

Probatestars.com  ricorda (ma molti altri l’hanno fatto) e offre il link diretto ala sentenza del 5 circuito dell’appello n. 23-30445 del 8 settembre 2023stete of Missouri et c. Biden-Fauci e altri:

– To sum up, under the close nexus test, a private party’s conduct may
be state action if the government coerced or significantly encouraged;

– They met regularly, traded information and reports, and worked together on
a wide range of efforts. That working relationship was, at times, sweeping.
Still, those facts alone likely are not problematic from a First-Amendment
perspective. But, the relationship between the officials and the platforms
went beyond that. In their communications with the platforms, the officials
went beyond advocating for policies, Southworth, 529 U.S. at 229, or making
no-strings-attached requests to moderate content, Warren, 66 F.4th at 1209.
Their interaction was “something more.” Roberts, 742 F.2d at 228.
We start with coercion. On multiple occasions, the officials coerced
the platforms into direct action via urgent, uncompromising demands to
moderate content. Privately, the officials were not shy in their requests—
they asked the platforms to remove posts “ASAP” and accounts
“immediately,” and to “slow[] down” or “demote[]” content. In doing so,
the officials were persistent and angry. Cf. Bantam Books, 372 U.S. at 62–63.
When the platforms did not comply, officials followed up by asking why posts
were “still up,” stating (1) “how does something like [this] happen,” (2)
“what good is” flagging if it did not result in content moderation, (3) “I don’t
know why you guys can’t figure this out,” and (4) “you are hiding the ball,”
while demanding “assurances” that posts were being taken down. And, more
importantly, the officials threatened—both expressly and implicitly—to
retaliate against inaction. Officials threw out the prospect of legal reforms and
enforcement actions while subtly insinuating it would be in the platforms’
best interests to comply. As one official put it, “removing bad information”
is “one of the easy, low-bar things you guys [can] do to make people like
me”—that is, White House officials—“think you’re taking action.”, p. 43

– Finally, and “perhaps most important[ly],” we ask whether the
speaker “refers to adverse consequences that will follow if the recipient does
not accede to the request.” Warren, 66 F.4th at 1211 (citing Vullo, 49 F.4th
at 715). Explicit and subtle threats both work— “an official does not need to
say ‘or else’ if a threat is clear from the context.” Id. (citing Backpage.com,
807 F.3d at 234). Again, this factor is met.
Here, the officials made express threats and, at the very least, leaned
into the inherent authority of the President’s office. The officials made
inflammatory accusations, such as saying that the platforms were
“poison[ing]” the public, and “killing people.” The platforms were told they
needed to take greater responsibility and action. Then, they followed their
statements with threats of “fundamental reforms” like regulatory changes
and increased enforcement actions that would ensure the platforms were
“held accountable.” But, beyond express threats, there was always an
“unspoken ‘or else.’” Warren, 66 F.4th at 1212. After all, as the executive of
the Nation, the President wields awesome power. The officials were not shy
to allude to that understanding native to every American—when the
platforms faltered, the officials warned them that they were “[i]nternally . . . considering our options on what to do,” their “concern[s]
[were] shared at the highest (and I mean highest) levels of the [White
House],” and the “President has long been concerned about the power of
large social media platforms.” Unlike the letter in Warren, the language
deployed in the officials’ campaign reveals clear “plan[s] to punish” the
platforms if they did not surrender. Warren, 66 F.4th at 1209. Compare id.,
with Backpage.com, 807 F.3d at 237. Consequently, the four-factor test weighs
heavily in favor of finding the officials’ messages were coercive, not
persuasive, p. 49-50;

– Given all of the above, we are left only with the conclusion that the
officials’ statements were coercive. That conclusion tracks with the decisions
of other courts. After reviewing the four-factor test, it is apparent that the
officials’ messages could “reasonably be construed” as threats. Warren, 66
F.4th at 1208; Vullo, 49 F.4th at 716. Here, unlike in Warren, the officials’
“call[s] to action”—given the context and officials’ tone, the presence of
some authority, the platforms’ yielding responses, and the officials’ express
and implied references to adverse consequences—“directly suggest[ed] that
compliance was the only realistic option to avoid government sanction.” 66
F.4th at 1208. And, unlike O’Handley, the officials were not simply flagging
posts with “no strings attached,” 62 F.4th at 1158—they did much, much
more., p. 51;

– It is true that the officials have an interest in engaging with socialmedia
companies, including on issues such as misinformation and election
interference. But the government is not permitted to advance these interests
to the extent that it engages in viewpoint suppression. Because “[i]njunctions
protecting First Amendment freedoms are always in the public interest,” the
equities weigh in Plaintiffs’ favor. Opulent Life Church, 697 F.3d at 298
(quotation marks and citations omitted), p. 64

– II –

Altra decisione in simile fattispecie è quella dell’Appello del  6° circuito 14.09.2023,  No. 22-3573, MARK CHANGIZI; MICHAEL P. SENGER; DANIEL KOTZIN v. Dipartimento della SAlute , segnalata da post del prof. Eric Goldman. Qui gli attori hanno scelto di agire contro la PA (ministero salute) invece che contro Twitter: ma si son complicati la vita, non essendo riusciti a provare il nesso causale (traceability) tra la condotta della prima e il danno allegato.

<<Traceability looks to whether a defendant’s actions have a causal connection to a plaintiff’s injuries. Lujan, 504 U.S. at 560. Causation need not be proximate, so an indirect injury can support standing. Lexmark Int’l, Inc., 572 U.S. at 134 n.6; see United States v. Students Challenging Regul. Agency Procs. (SCRAP), 412 U.S. 669, 688-89 (1973). But “‘an injury that results from [a] third party’s voluntary and independent actions’ does not establish traceability.” Turaani v. Wray, 988 F.3d 313, 317 (6th Cir. 2021) (quoting Crawford v. U.S. Dep’t of Treasury, 868 F.3d 438, 457 (6th Cir. 2017)). Thus, a plaintiff must show that the defendant’s actions had a “determinative or coercive effect” on the third party such that the actions of the third party can be said to have been caused by the defendant. See Bennett v. Spear, 520 U.S. 154, 169 (1997); see also Turaani, 988 F.3d at 316 (explaining “[a]n indirect theory of traceability requires that the government cajole, coerce, [or] command”). That the defendant is the federal government does not change this assessment. See, e.g., Skinner v. Ry. Labor Execs.’ Ass’n, 489 U.S. 602, 614 (1989) (“Although the Fourth Amendment does not apply to a search or seizure, even an arbitrary one, effected by a private party on his own initiative, the Amendment protects against such intrusions if the private party acted as an instrument or agent of the Government.”).
By this metric, Plaintiffs’ complaint falls short. Plaintiffs maintain that the timing of Twitter’s actions related to the RFI and the July Advisory as well as the public statements made by the Surgeon General, Press Secretary, and President Biden all support an inference that Twitter’s disciplinary measures are state action attributable to HHS. But Plaintiffs fail to adduce facts demonstrating that the decisions Twitter made when it enforced its own COVID-19 policy did not result from its “broad and legitimate discretion” as an independent company. ASARCO Inc. v. Kadish, 490 U.S. 605, 615 (1989)>>.

L’invito della senatrice Warren ad Amazon di oscurare un libro covid19-negazionista non è soppressivo della libertà di parola degli autori

Interessante lite sul diritto della senatrice Elizabeth Warren di chiedere ad Amazon di togliere/oscurare dal suo marketplace un libro negazionista del covid 19 (prefato da Robert Kennedy, notorio  no-vax)

Tale richiesta non è coercitiva verso gli aa. del libro , non violando il 1 emendamento (che riguarda condotte pubbliche, anzi dello Stato)

Si tratta dell’appello del 9 circuito 4 maggio 2023, No. 22-3545m, Robert Kennedy , Mercola e altri c. E. Warren.

Il rigetto della domanda di inibitoria (They sought a preliminary injunction requiring Senator Warren to remove the letter from her website, to issue a public retraction, and to refrain from sending similar letters in the future) è confermato in appello.

Era assai improbabile un risultato diverso: è impossibile vedere nella mossa di Warren una coercizione anzichè un mera persuasione vs. Amazon.

Dal Summary iniziale:

Turning to the merits, the panel held that because the plaintiffs did not raise a serious question on the merits of their First Amendment claim, the district court did not abuse its discretion by denying a preliminary injunction. The crux of plaintiffs’ case was that Senator Warren engaged in conduct prohibited under Bantam Books, Inc. v. Sullivan, 372 U.S. 58 (1963), by attempting to coerce Amazon into stifling their protected speech. Following Bantam Books, lower courts have drawn a sharp line wherein a government official’s attempt to persuade is permissible government speech, while an attempt to coerce is unlawful government censorship.
The panel applied a four-factor framework, formulated by the Second Circuit, and agreed with the district court that Senator Warren’s letter did not cross the constitutional line between persuasion and coercion. First, concerning the government official’s word choice and tone, the panel held that Senator Warren’s words on the page and the tone of the interaction suggested that the letter was intended and received as nothing more than an attempt to persuade.

Second, concerning whether the official had regulatory authority over the conduct at issue, the panel held that this factor weighed against finding impermissible coercion. Elizabeth Warren, as a single Senator, had no unilateral power to penalize Amazon for promoting the book. This absence of authority influenced how a reasonable person would read her letter. Third, concerning whether the recipient perceived the message as a threat, the panel held that there was no evidence that Amazon changed its algorithms in response to Senator Warren’s letter, let alone that it felt compelled to do so. Fourth, concerning whether the communication referred to any adverse consequences if the recipient refused to comply, the panel held that Senator Warren’s silence on adverse consequences supported the view that she sought to pressure Amazon by calling attention to an important issue and mobilizing public sentiment, not by leveling threats. Senator Warren never hinted that she would take specific action to investigate or prosecute Amazon.
The panel concluded that the plaintiffs had not raised a serious question as to whether Senator Warren’s letter constituted an unlawful threat in violation of the First Amendment. Accordingly, the panel held that the district court did not abuse its discretion in denying the plaintiffs’ request for a preliminary injunction.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Libertà di ricerca scientifica e di parola vs. diffamazione: possono i ricercatori dire che un certo anestetico non è superiore agli altri in commercio?

la risposta dovrebbe essere senza esitazioni  positiva e  tale è quella dell’appello del 3 circuito USA in Pacira Biosciences v. AMERICAN SOCIETY OF ANESTHESIOLOGISTS, INC ed altri, 24 marzo 2023, No. 22-1411  (link da JUSTIA US LAW e notizia dal blog di Rebecca Tushnet).

Sentenza interessante, anche perchè riferisce in dettaglio delle opinioni espresse.

Violazione azionata: <<Pacira seeks relief based on two statements: (1) that EXPAREL is “not superior” to local anesthesia; and (2) that it is an “inferior analgesic.”>>

Ma i due gradi rigettano perchè :

i) si tratta di opinioni, non suscettibile di essere sottoposte al test di vero/falso : <<Pacira’s critiques about the Articles’ data and methodology may be the basis of future scholarly debate, but they do not form the basis for trade libel under New Jersey law. To conclude otherwise would risk “chilling” the natural development of scientific research and discourse. Kotlikoff, 444 A.2d at 1088; see also ONY, 720 F.3d at 497 (observing that scientific conclusions inspire other scientists to “respond by attempting to replicate the described experiments, conducting their own experiments, or analyzing or refuting the soundness of the experimental design or the validity of the inferences drawn from the results”). Thus, the verifiability factor supports our conclusion that the statements are nonactionable opinions;>>, P. 17

La corte si sofferma anche sulla (sottile) differenza tra defamation e trade libel, p. 9 ss.

ii) anche il contesto indica che si trattava di opinioni e non di fatti: <<The statements here were made in a peer-reviewed journal for anesthesiology specialists. While statements are not protected solely because they appear in a peer-reviewed journal, such journals are often “directed to the relevant scientific community.” ONY, 720 F.3d at 496-97. Their readers are specialists in their fields and are best positioned to identify opinions and “choose to accept or reject [them] on the basis of an independent evaluation of the facts.” Redco Corp. v. CBS, Inc., 758 F.2d 970, 972 (3d Cir. 1985).
Such is the case here. First, Anesthesiology is a leading journal in the field and is offered as a free benefit to the ASA’s members, who are “physicians practicing in anesthesiology as well as anesthesiologist assistants and scientists interested in anesthesiology.” JA34. Second, the readers were provided with the data and methodology on which the statements were based. The Hussain Article stated that it was based on nine randomized studies, gave the reasons for selecting those studies, and disclosed the possible shortcomings of its methodology. The Ilfeld Review disclosed the seventy-six randomized controlled trials involving EXPAREL it reviewed, what those trials concluded, and the methods the authors used to analyze the data. The CME’s statement that EXPAREL is “inferior” to local anesthetics is based directly on the Ilfeld Review’s finding that “[n]inety-two percent of trials (11 of 12) suggested [standard local anesthesia] provides superior analgesia to [EXPAREL].” JA96. Similarly, the CME’s statement allegedly suggesting that industry-sponsored studies favoring EXPAREL were biased is drawn directly from the Articles, which state that industry-sponsored studies were “considered a potential source of bias.” JA78; see also JA145 (“Explicitly excluded from the Cochrane bias tool is industry funding.”).19 Therefore, the journal’s readers were provided the basis for the statements, have the expertise to assess their merits based on the disclosed data and methodology, and thus are equipped to evaluate the opinions the authors reached.
For these reasons, content, verifiability, and context all support the conclusion that the statements are nonactionable opinions. The District Court, therefore, properly dismissed Pacira’s complaint.>>

Tra diritto di critica (politica) e diffamazione: la Cassazione conclude la lite tra Berlusconi e l’ex pm Robledo, rigettando il ricorso del primo

Cass. 27.01.2023 n. 2605 , sez. 1, rel. Tricomi, sull’oggetto.

Non ci sono passaggi particolrmente interessanti: ripete dicta noti in materia e si sofferma su fatti storici come ragionati dalla corte di appello.

Si trattava di domanda risarcitoria da diffamazioen aggravata a mezzo stampa (art. 13 L. 47/1948) promossa dall’ex pm.-

La SC ha respinto il ricorso e confermato la decisione di appello, che aveva condannato Berlusconi ad un risarcimento di euro 50.000,00

<< 2.6.- Come affermato da questa Corte, con consolidato principio qui confermato, in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio dei

diritti di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione; pertanto, il controllo affidato alla Corte di cassazione è limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza, con riferimento al diritto di cronaca e di critica, dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonché al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile “ratione temporis”, restando estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione (Cass. n. 18631/2022; Cass. n. 5811/2019; Cass. n. 6133/2018, tra molte)” >>.

Errore: solo la parte in rosso è fatto, il resto è diritto!

Sull’esimente del  diritto di critica:

<< E’ stato più volte affermato, nell’ambito del diritto di critica, che i presupposti per il legittimo esercizio della scriminante di cui all’art. 51 c.p., con riferimento all’art. 21 Cost., sono: a) l’interesse al racconto, ravvisabile anche quando non si tratti di interesse della generalità dei cittadini ma di quello della categoria di soggetti ai quali, in particolare, si indirizza la comunicazione; b) la continenza, ovvero la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti da intendersi nel senso che l’informazione non deve assumere contenuto lesivo dell’immagine e del decoro; c) la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti; d) l’esistenza concreta di un pubblico interesse alla divulgazione (in tema, Cass. n. 2357/2018, in linea con una costante giurisprudenza; v. sul punto Cass. n. 15443/2013,).

Tale insegnamento è stato ulteriormente ribadito dall’ordinanza n. 38215/2021, nella quale si è detto che il diritto di critica, quale estrinsecazione della libera manifestazione del pensiero, ha rango costituzionale al pari del diritto all’onore e alla reputazione, sul quale tuttavia prevale, scriminando l’illiceità dell’offesa, a condizione che siano rispettati i limiti della continenza verbale, della verità dei fatti attribuiti alla persona offesa e della sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti oggetto della critica.

In relazione, specificamente, al diritto di critica politica – nel quale si inserisce la vicenda odierna – è stato ribadito che esso consente l’uso di toni aspri e di disapprovazione anche pungenti, purché sempre nel rispetto della continenza, da intendere come correttezza formale e non superamento dei limiti di quanto strettamente necessario al pubblico interesse (Cass. n. 841/2015).

E’ stato parimenti affermato, con varie sfumature, che trascende i limiti del diritto di critica l’aggressione del contraddittore, sebbene compiuta in clima di accesa polemica, risoltasi nell’accusa di perpetrazione di veri e propri delitti o comunque di condotte infamanti, in rapporto alla dimensione personale, sociale o professionale del destinatario (Cass. n. 11769/2022; Cass. n. 7274/2013). Così come si è detto che in tema di diffamazione a mezzo stampa, l’applicabilità della scriminante rappresentata dalla continenza verbale dello scritto che si assume offensivo va esclusa allorquando vengano usati toni allusivi, insinuanti, decettivi, ricorrendo al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, all’artificiosa drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre e alle vere e proprie insinuazioni (Cass. n. 27592/2019)>>.

Nuovo accurato esame (e rigetto) della tesi per cui Twitter è state actor quando censura i post

Altro caso di seguace di Trump circa la tesi della frode elettorale nelle elezioni 2020   ,  in cui Twitter flaggò con frasi cautelative (e poi sospese)  i post ritenuti estremisti e quindi contrari alla propria policy.

Questi ad es. (persona di una certa cultura, peraltro):

<Audit every California ballot Election fraud is rampant nationwide and we all know California is one of the culprits Do it to protect the integrity of that state’s elections>

L’appello del 9 circuito, 10 marzo 2023, n° 22-15071, R. O’Handley c. Twitter e altri, rigetta la strampalat tesi che mira a ripristinare i post flaggati/account sospesi  in base al 1 emendamento, considerando Twitter strumento pubblicistico.

Sono analizzati tutti i soliti argomenti e la corte conferma il 1 grado. Sentenza chiara ed istruttiva come ripasso sul tema.

Riporto solo questo passaggio:

<<As a private company, Twitter is not ordinarily subject to the Constitution’s constraints. See Prager University v. Google LLC, 951 F.3d 991, 995–99 (9th Cir. 2020). Determining whether this is one of the exceptional cases in which a private entity will be treated as a state actor for constitutional purposes requires us to grapple with the state action doctrine. This area of the law is far from a “model of consistency,” Lebron v. National Railroad Passenger Corp., 513 U.S. 374, 378 (1995) (citation omitted), due in no small measure to the fact that “[w]hat is fairly attributable [to the State] is a matter of normative judgment, and the criteria lack rigid simplicity,” Brentwood Academy v. Tennessee Secondary School Athletic Association, 531 U.S. 288, 295 (2001).     Despite the doctrine’s complexity, this case turns on the simple fact that Twitter acted in accordance with its own content-moderation policy when it limited other users’ access to O’Handley’s posts and ultimately suspended his account. Because of that central fact, we hold that Twitter did not operate as a state actor and therefore did not violate the Constitution.>>

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)