Cass. sez. II 31 agosto 2023, n. 25.521 , Rel Papa
<<Ciò precisato, deve allora considerarsi, in diritto, che, come ripetutamente affermato da questa Corte, il rispetto assoluto della volontà del testatore impone che, al fine di poter affermare che una disposizione testamentaria sia affetta da dolo, non è sufficiente dimostrare una qualsiasi influenza di ordine psicologico esercitata sul testatore, se del caso mediante blandizie, richieste, suggerimenti o sollecitazioni; occorre, invece, la prova dell’avvenuto impiego di veri e propri mezzi fraudolenti idonei a trarre in inganno il testatore, avuto riguardo alla sua età, allo stato di salute, alle sue condizioni di spirito, così da suscitare in lui false rappresentazioni ed orientare la sua volontà in un senso in cui non si sarebbe spontaneamente indirizzata (Sez. 2, n. 4653 del 28/02/2018 con numerosi richiami).
L’esigenza di assicurare una più penetrante ricerca della volontà del testatore, di là delle mere dichiarazioni, impone innanzitutto un esame globale della scheda testamentaria e non di ciascuna singola disposizione, alla stregua dei principi generali di ermeneutica di cui all’art. 1362 c.c., applicabili al testamento sia pure con gli opportuni adattamenti (Cass. Sez. 2, n. 468 del 14/01/2010).
Soltanto qualora dal testo dell’atto non emerga con certezza l’effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, l’interprete può, in via sussidiaria, ricorrere alla valutazione di elementi estrinseci al testamento, seppure sempre riferibili al testatore, quali ad esempio la sua cultura, la mentalità, il suo ambiente di vita, le sue condizioni fisiche (Cass. Sez. 2, n. 10075 del 24/04/2018).
Infine, deve rimarcarsi che la prova della captazione, pur potendo essere presuntiva, deve fondarsi su fatti certi che consentano di identificare e ricostruire l’attività di condizionamento e la conseguente influenza determinante sul processo formativo della volontà del testatore (da ultimo Cass. Sez. 6 – 2, n. 30424 del 17/10/2022)>>.
Aplicazione al processo de quo:
<Dalla concisa esposizione dei punti della motivazione qui riportata, risulta già evidente che la Corte d’appello, con la sua motivazione sulla sussistenza del dolo, non ha correttamente applicato alla fattispecie i principi consolidati suesposti: ha, infatti, continuamente sovrapposto elementi sia intriseci alla scheda testamentaria, estrapolati dal contesto (alcune tra le espressioni utilizzate dal testatore in riferimento a pressioni esterne), sia estrinseci (la sua età avanzata, il risiedere i due fratelli convenuti nell’azione di annullamento per dolo vicino al testatore); ha poi ritenuto sufficiente il riferimento del testatore alle “pressioni ricevute da parenti e conoscenti”.
Come rilevato in ricorso da A.A. e B.B., in particolare la Corte non ha affatto compiuto una valutazione globale della scheda, estrapolando le affermazioni contenenti i riferimenti alle “pressioni ricevute”, sebbene nella parte iniziale della scheda il testatore riportasse, testualmente, di essere indotto a riesaminare le precedenti disposizioni da “alcuni aspetti dei rapporti di C.C. nei confronti miei e dei fratelli (…); in occasione del mio ricovero in ospedale, si dimostrò completamente assente e indifferente anche se non ancora ostile” e che egli “da allora” da parte di parenti e conoscenti cominciò a ricevere le pressioni che la Corte d’appello ha ritenuto poi rilevanti perchè modificasse i diritti successori, ma aveva “rifiutato” di cancellare disposizioni, tenuto conto dei meriti pregressi”; quindi, il testatore riferiva ancora: “ma recentemente, essa tentò di inguaiarmi per pretese omissioni di versamenti contributivi, in ciò avendo a collaborare un individuo di cui non faccio neppure il nome per non sporcarmi”. La sequenza di queste dichiarazioni non è stata esaminata dalla Corte che ha isolato dal contesto il riferimento alle pressioni ricevute non applicando correttamente i principi ermeneutici di cui si è detto.
Quanto poi alle riferite “pressioni” (che, invero, nell’interpretazione, devono essere identificate in modo chiaramente distinto da un’attività di coercizione che, nella specie, non è stata mai dedotta e potrebbe essere rilevante per la violenza, non per il dolo), è necessario che, come già rimarcato, sia riscontrabile l’avvenuto impiego di veri e propri mezzi fraudolenti idonei a trarre in inganno il testatore.
In tal senso, il ragionamento presuntivo – che può sorreggere questo riscontro da parte dell’interprete – deve comunque essere correttamente costruito, ciò che nella specie non può dirsi accaduto.
E’ necessario, infatti, che il giudice analizzi innanzitutto i fatti noti che, seppure secondari, potrebbero essere utili alla deduzione dei fatti ignoti da provare; quindi egli è tenuto a selezionarli per “precisione”, nel senso di considerali soltanto se certi e determinati nella realtà storica; infine, può valutarli nella loro “gravità” e, in caso siano molteplici, “concordanza”, nel senso che deve verificarli come idonei a fondare la deduzione probabilistica della realtà del fatto ignoto (cfr. sulla costruzione del ragionamento presuntivo, Cass. Sez. 2, n. 9054 del 21/03/2022).
Nessuna di queste fasi del ragionamento si evince nella motivazione della sentenza impugnata, in cui non risulta neppure chiaro quali elementi siano ritenuti fatti certi, quali abbiano la caratteristica di fatti secondari, come si sia sviluppata la deduzione del dolo>>.
Sulla non contestazione ex 115 copc:
<<Ebbene, per principio consolidato, il principio di non contestazione (comunque operante nella fattispecie perchè implicitamente codificato, prima che fosse riformato l’art. 115 c.p.c., nell’art. 167 c.p.c.) produce l’effetto della relevatio ab onere probandi soltanto in relazione ai fatti costitutivi, modificativi o estintivi del diritto azionato che siano stati compiutamente allegati dall’attore [NB: purchè entro la sfera di azione e conoscibilità della controparte: non ha senso l’effetto probatorio circa fatti su cui nulla può o sa]; può poi operare, altresì, anche in relazione a fatti secondari se idonei a fondare un ragionamento presuntivo quando, come accade proprio nel caso del dolo nel testamento, la prova non possa che essere fornita per presunzioni.
In questa seconda ipotesi, tuttavia, la non contestazione non può investire immediatamente la fattispecie giuridica dedotta in domanda (l’asserito vizio di volontà del testatore), oggetto di prova presuntiva: il riscontro di tale fattispecie deve comunque avvenire, infatti, con un’attività spiccatamente valutativa, finalizzata a ricavare il fatto principale – insuscettibile di prova diretta – dai fatti secondari invece accertati, eventualmente anche per non contestazione (cfr., in materia risarcitoria, Cass. Sez. L, n. 21460 del 19/08/2019).
La non contestazione è, infatti, un comportamento processualmente significativo se riferito a un fatto da accertare nel processo e non alla determinazione della sua dimensione giuridica (cfr. Sez. U, n. 761 del 23/01/2002 in materia di contestazione dei conteggi per la quantificazione di un credito di lavoro); per contrappunto, il mero difetto di contestazione specifica, ove rilevante, non impone in ogni caso al giudice un vincolo assoluto (per così dire, di piena conformazione), perchè egli può sempre rilevare l’inesistenza del fatto allegato da una parte anche se non contestato dall’altra ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto (Sez. U, n. 11377 del 2015, in motivazione).
La Corte d’appello, pertanto, non ha correttamente applicato il principio di non contestazione alla fattispecie>.
(segnalazione e testo da Ondif)