La prova della (com-)proprietà nel giudizio divisorio, in assenza di contestazioni tra coeredi

Cass. sez. II, ord. 13/02/2025  n. 3.654, rel. Maccarrone.

Fatto processuale:

<<La Corte d’Appello di Salerno ha effettivamente posto alla base della sentenza ricorsa un difetto di prova sulle caratteristiche dei beni da dividere e sulla loro titolarità, pur non mettendo in discussione l’esistenza di una comunione ereditaria in relazione ai beni morendo dismessi da Su.An. (le cui eredi erano Su.Gi. e Su.An.) e da Su.An. (le cui eredi erano Su.Gi. -della quale sono eredi Da.Gi. e Da.An.- e Im.An.-che ha donato la quota di comproprietà sugli immobili oggetto di comunione ereditaria a Cu.Ga.-) né, in totale assenza di contestazioni ad opera degli interessati, il diritto delle parti di procedere alla sua divisione secondo le quote indicate.

La Corte di merito ha respinto, per carenza di prova, la domanda di divisione, con una pronuncia che appare inopportunamente formulata perché fa derivare un effetto sostanziale negativo da una valutazione che si ferma invece al vaglio formale di intempestività della produzione della documentazione necessaria, allegata dalla parte attrice -nell’evidente interesse anche delle controparti, in pacifica assenza di contestazioni riguardo al diritto di procedere alla divisione e alle quote di relativa spettanza- per provare la titolarità dei beni in capo ai danti causa e la situazione delle iscrizioni e trascrizioni ad essi relative ai fini della dimostrazione di insussistenza di pesi o iscrizioni pregiudizievoli>>.

La bacchettata della Cass.:

<<Così facendo, la Corte d’Appello di Salerno non ha tenuto in alcun conto le caratteristiche proprie del giudizio di divisione, giungendo alla decisione contestata in questa sede attraverso passaggi motivazionali sovrapponibili -così come le doglianze ad essi rivolte dai ricorrenti signori Da.Gi., Da.An – a quelli già esaminati approfonditamente e sistematizzati da questa Corte nell’ordinanza n. 6228/2023 -affrontati, prima, nell’ordinanza n.10067/2020- dalle cui considerazioni, pienamente condivisibili, non vi è motivo di discostarsi.

Quanto alla prova della comproprietà sui beni da dividere, con l’ordinanza n. 6228/2023 questa Corte aveva già sottolineato come “Nei giudizi di scioglimento della comunione, la prova della comproprietà dei beni dividendi non è quella rigorosa richiesta in caso di azione di rivendicazione o di accertamento positivo della proprietà, atteso che la divisione, oltre a non operare alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro condividente, è volta a far accertare un diritto comune a tutte le parti in causa e non la proprietà dell’attore con negazione di quella dei convenuti, sicché, in caso di non contestazione sull’appartenenza dei beni” -contestazione che nel caso di specie nemmeno è stata sollevata-, “non può disconoscersi la possibilità di una prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico, siccome ridondanti a vantaggio della collettività dei condividenti’; quanto alla tutela, comprendente la possibile partecipazione al giudizio di divisione, dei terzi controinteressati, nell’ordinanza in esame si evidenzia che “Nel giudizio di scioglimento della comunione, il dovere del giudice di ordinare, in presenza di trascrizioni o iscrizioni contro i singoli compartecipi, la chiamata in giudizio dei creditori e degli aventi causa ai sensi degli artt. 784 c.p.c. e 1113 c.c., rispondendo alla sola esigenza di consentire loro di vigilare sul corretto svolgimento del procedimento divisionale in ragione degli effetti riflessi da esso derivanti su garanzie patrimoniali ed effettiva realizzazione del proprio acquisto, non giustifica l’implicita imposizione, a carico dei compartecipi, di documentare, sotto pena di inammissibilità della domanda, la presenza o l’ assenza di trascrizioni e iscrizioni sulla quota indivisa dei singoli, configurandosi la chiamata dei creditori iscritti e degli aventi causa dei compartecipi come onere da assolvere affinché la decisione faccia stato nei loro confronti, senza costituire condizione di validità della divisione; in ordine, infine, alla documentazione da acquisire necessariamente per procedere alle operazioni di divisione, la Corte precisa che “Nei giudizi di scioglimento della comunione, la produzione dei certificati relativi alle trascrizioni e iscrizioni sull’immobile da dividere, imposta dall’art. 567 c.p.c. per la vendita del bene pignorato, non costituisce un adempimento previsto a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda, neppure quando debba procedersi alla vendita dell’immobile comune, atteso che questa, a differenza di quanto accade nel processo di espropriazione, non avviene ai danni di qualcuno, ma nell’interesse di tutti, sicché il richiamo alle norme del processo di espropriazione è limitato alle sole modalità esecutive della vendita e ai relativi rimedi’ -ne consegue quindi che per l’allegazione di tutta la documentazione inerente alla situazione degli immobili da dividere non si deve tenere conto dei termini previsti per le preclusioni istruttorie nell’ordinario giudizio di cognizione-. Anche per quest’ultimo profilo l’ordinanza esaminata ripercorre chiaramente e approfondisce le linee interpretative già individuate dalla giurisprudenza di legittimità precedente: si richiama, in particolare, la già citata ordinanza n.10067/2020, secondo la quale “Nei giudizi di scioglimento della comunione, la produzione dei certificati relativi alle trascrizioni e iscrizioni sull’immobile da dividere, imposta dall’art. 567 c.p.c. per la vendita del bene pignorato, non costituisce un adempimento previsto a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda, tenuto conto che, in tali giudizi, l’intervento dei creditori e degli aventi causa dei condividenti è consentito ai soli fini dell’opponibilità delle statuizioni adottate. Ciò vale anche nel caso in cui si debba procedere alla vendita dell’immobile comune, sebbene le informazioni richieste dal predetto articolo si debbano necessariamente acquisire a tutela del terzo acquirente, ma a tale esigenza sovraintende d’ufficio il giudice della divisione, il quale, nello svolgimento del potere di direzione delle operazioni, può ordinare alle parti la produzione della documentazione occorrente o avvalersi del professionista delegato alla vendita”.

Appare opportuno ancora sottolineare, con richiamo letterale alla motivazione, pure particolarmente significativa per la controversia sub iudice e pienamente condivisibile, dell’ ordinanza n.6228/2023, quanto segue: il minor rigore della prova della comproprietà nei giudizi di divisione non significa che “la divisione immobiliare possa farsi “sulla parola”, ma più limitatamente che, in una situazione nella quale la comune proprietà dei beni dividendi”, fondata sul presupposto dell’appartenenza dei beni stessi alla comunione, “sia incontroversa, non si potrebbe disconoscere la possibilità della prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico (cfr. Cass. n. 21716/2020), tenuto conto, appunto, che non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda che vede le parti in contrapposizione fra loro (Cass. n. 1065/2022). La domanda di divisione, infatti, anche quando sia proposta da uno solo, è sempre comune a tutti i condividenti (Cass. n. 6105/1987; n. 15504/2018), i quali sono tutti sul medesimo piano ed hanno tutti eguale diritto alla divisione (Cass.n.4353/1980). Pertanto, le verifiche condotte dall’ausiliario d’ufficio ridondano a vantaggio della collettività dei condividenti, così come andrebbe a svantaggio di tutti una acquisizione postuma, anche se operata d’ufficio dal consulente, dal quale emergesse che la proprietà comune, non contestata o desunta a livello indiziario, non trova conferma sul piano documentale (Cass. n. 40041/2021)”; la validità dell’indirizzo interpretativo esposto perdura anche dopo la pronuncia delle SSUU della Corte di Cassazione n.25021/2019 che, “nel riconoscere che gli atti di scioglimento della comunione sono soggetti alla sanzione della nullità prevista dall’art. 46, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 e dall’art. 40, comma 2, della L. n. 47 del 1985 (Cass., S. U., n. 25021/2019), hanno chiarito che la divisione va annoverata fra gli atti ad efficacia tipicamente costitutiva e traslativa. La giurisprudenza successiva a tale pronuncia ha chiarito che l’assimilabilità della divisione agli atti traslativi, nella logica seguita dalle Sezioni unite, è operata per giustificare l’applicazione ad essa dei divieti stabiliti dalla disciplina urbanistica in materia di immobili abusivi, non già nel senso del riconoscimento che la divisione sia il risultato di un trasferimento delle quote indivise degli altri condomini, tale da rendere applicabili le regole del contratto traslativo. In altre parole, il riconoscimento della natura costitutiva-traslativa della modificazione operata dalla divisione, condiviso da larga parte della dottrina, deve svolgersi pur sempre nel quadro della retroattività reale che la legge attribuisce eccezionalmente all’atto divisionale, per cui l’acquisto dei singoli condividenti si considera avvenuto al momento iniziale della comunione (art. 757 c.c.). Nonostante il riconoscimento della sua natura costitutiva, la divisione continua a non potersi annoverare fra i titoli idonei a fornire, nel giudizio di rivendicazione proposto nei confronti dei terzi, la prova della proprietà dei beni compresi nei lotti rispettivamente assegnati, dovendosi inoltre escludere che la divisione sia da sola sufficiente a formare il titolo per l’usucapione abbreviata (Cass. n. 1976/1983; 1532/1967). Tali conclusioni, da sempre chiare alla giurisprudenza, si confermano ancora esatte, depurate naturalmente dall’improprio riferimento alla natura dichiarativa della divisione, operato, in verità, in modo del tutto tralatizio nelle massime (Cass. n. 26692/2020)”.

Deduzione dei miglioramenti apportato dal donatario in sede di collazione

Cass. Sez. II, Sent. 18/02/2025, n. 4.146, rel. Fortunato, applica l’art. 748 cc ad un caso di costruzione realizzata sul terreno donato:

<<La realizzazione del manufatto da parte di A.A., prima dell’apertura della successione, si basa sulle risultanze della c.t.u., senza far ricorso al criterio formale dell’art. 2697 c.c. (come è chiaramente evidenziato a pag. 9 della sentenza), dovendo comunque condividersi che, una volta assolto l’onere della prova da parte del donatario di aver realizzato la costruzione con denaro proprio prima dell’apertura della successione, competeva alla ricorrente provare il contrario. Nel calcolare il valore del terreno oggetto di donazione indiretta in favore del coerede la Corte di merito ha considerato le potenzialità edificatorie derivanti dalla destinazione urbanistica del terreno, deducendo dal valore del donatum quello del fabbricato realizzato ex post dal beneficiario della liberalità indiretta, in applicazione dell’art. 748 c.c. (cfr. sentenza, pag. 9), non essendo inficiata la correttezza del criterio adottato dalle successive argomentazioni volte a distinguere tra mera edificabilità ed effettiva edificazione e ad escludere, in adesione a Cass. 20046/2016, la possibilità di considerare miglioria la sopravvenuta attitudine urbanistica, non dipendente da un’attività del donatario o del terzo volta ad incrementare il valore del bene non configura una miglioria. Dispone – per contro – l’art. 748 c.c. che in tutti i casi, si deve dedurre a favore del donatario il valore delle migliorie apportate al fondo nei limiti del loro valore al tempo dell’aperta successione, occorrendo evitare i che coeredi non donatari possano ricevere un’indebita locupletazione dalle opere eseguite a spese del donatario, ottenendo la collazione di beni di valore superiore a quelli donati per effetto di sacrifici patrimoniali sopportati solo dal donatario (Cass. 29247/2020; Cass. 24150/2015). 2. Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 2909 c.c. sostenendo che con la sentenza parziale di primo grado, il Tribunale aveva rinviato la regolazione delle spese al definitivo, dovendo invece pronunciare per quelle tra C.C. e le B.B., avendo definito la causa relativamente a tali parti con decisione da ritenersi definitiva. Pertanto, non avendo la F.F. proposto appello sulle spese, era precluso dal giudicato interno la possibilità di porre dette spese a carico della soccombente con la sentenza definitiva.>>.

I crediti cadono in comunione ereditaria, per cui il singolo comunista può agire per recuperare anche l’intero

Cassazione civile sez. III, 12/12/2024, (ud. 25/10/2024, dep. 12/12/2024), n.32077, rel. Fiecconi, confermando l’opinione ricevuta:

<<7.2. I crediti del “de cuius”, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 752 cod. civ. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta dal precedente art. 727, il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, nonché dal successivo art. 757, che, prevedendo che il coerede al quale siano stati assegnati tutti o l’unico credito succede nel credito al momento dell’apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, ed è, inoltre, confermata dall’art. 760, che escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a un coerede, necessariamente presuppone che i crediti siano inclusi nella comunione; né, in contrario, può argomentarsi dagli artt. 1295 e 1314 dello stesso codice, concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il “de cuius” ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale. Conseguentemente, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l’intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito (così Cass. Sez. U, Sentenza n. 24657 del 28/11/2007; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15894 del 11/07/2014).

7.3. Trova, rispetto ai crediti ereditari, applicazione il principio generale, secondo cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune. Ciascun coerede può, pertanto, domandare il pagamento del credito ereditario in misura integrale o proporzionale alla quota di sua spettanza senza che il debitore possa opporsi adducendo il mancato consenso degli altri coeredi, i quali non sono neppure litisconsorti necessari nel conseguente giudizio di adempimento poiché i contrasti sorti tra gli stessi devono trovare soluzione nell’ambito dell’eventuale e distinta procedura di divisione (cfr anche, Cass.Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 27417 del 20/11/2017; Cass.Sez.3-, Ordinanza n. 8508 del 06/05/2020; Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 10585 del 18/04/2024).

7.4. In coerenza coi surrichiamati principi, pertanto, il ricorrente, quale erede della parte lesa, ha la legittimazione per agire per il recupero dell’intero credito risarcitorio spettante al de cuius, cui è succeduto iure successionis, senza necessità alcuna di estendere il contradditorio al nipote coerede (o chiamato all’eredità), per ottenere il risarcimento della totalità del credito già spettante al de cuius, e da lui acquisito nel patrimonio iure successionis, poiché per il principio di cui sopra, la relativa pronunzia sul diritto comune fatto valere, pur spiegando efficacia nei riguardi di tutti i soggetti interessati a ottenere il risarcimento de quo, rimane impermeabile nei rapporti interni tra coeredi rispetto alle conseguenti vicende, da risolversi in seguito alla accettazione della eredità da parte dei coeredi (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24657 del 28/11/2007)>>.

La petizione ereditaria è implicita nella domanda di scioglimento della comunione

Cass. sez. II, Sent. 17/10/2024, n. 26.951, rel. Pirari:

<<Orbene, la questione proposta attiene, nella specie, agli effetti che conseguono alla proposizione di una domanda di scioglimento della comunione ereditaria e alla configurabilità dell’efficacia recuperatoria della stessa in assenza di relativa domanda, posto che, secondo il ricorrente, i giudici di merito non avrebbero potuto includere nella massa dividenda una somma di denaro in assenza di domanda di condanna e, correlatamente, di pronuncia in tal senso. A ben vedere, però, questa ricostruzione degli istituti non convince, poiché si pone in contrasto con il significato stesso del giudizio di divisione ereditaria e gli effetti da esso scaturenti. E’ ben noto, invero, che il recupero, da parte dell’erede, dei beni ereditari di cui sia nel possesso un terzo, sia in qualità di erede, sia senza titolo, avviene con l’esercizio dell’azione di petizione ereditaria ex art. 533 cod. civ., la quale, oltre ad avere natura reale e non contrattuale, è fondata sull’allegazione della qualità di erede con la finalità, giustappunto, di conseguire il rilascio dei beni compresi nell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione da chi li possiede senza titolo o in base a titolo successorio che non gli compete, ma non quelli che, al momento dell’apertura della successione del de cuius, erano già fuoriusciti dal suo patrimonio e che, in ragione di ciò, non possono essere considerati quali beni ereditari (in tal senso, Cass., Sez. 2, 4/4/2024, n. 8942).

Orbene, la petizione dell’eredità, che consente, ai sensi dell’art. 533 cod. civ., di chiedere sia la quota dell’asse ereditario sia il suo valore, potendo così assumere tanto natura di azione di accertamento o funzione recuperatoria (Cass., Sez. 6-2, 24/9/2020, n. 20024 ), quanto di condanna al rilascio dei beni ereditari posseduti dal convenuto a titolo di erede (Cass., Sez. 2, 19/1/1980, n. 461), si configura anche quando sia proposta domanda di divisione dell’asse ereditario, in quanto quest’ultima, al pari della prima, postula l’accertamento dell’esistenza, nell’attivo ereditario, del credito di cui il de cuius era titolare nei confronti di altro coerede per le somme da questi illegittimamente prelevate dal conto cointestato prima della sua morte (Cass., Sez. 6-2, 24/9/2020, n. 20024; Cass., Sez. 2, 2004, n. 24034). Ciò comporta che nell’azione di scioglimento della comunione ereditaria può dirsi insita l’azione di petizione ereditaria allorché si chieda la ricostruzione dell’asse relitto e l’inclusione, in esso, di beni sottratti da altro erede o da un terzo, ivi compresi, dunque, i crediti vantati dal de cuius o le somme di denaro illecitamente prelevate da altro erede, come nella specie, tanto più che la sentenza contenente l’assegnazione dei beni ai condividenti costituisce titolo esecutivo, idoneo a consentire a ciascuno di costoro di acquistare non soltanto la piena proprietà dei beni facenti parte della quota toccatagli, ma anche la potestà di esercitare tutte le azioni inerenti al godimento del relativo dominio, ivi compresa quella diretta ad ottenere, in via esecutiva, il rilascio dei beni in essa inclusi, rispetto ai quali gli altri condividenti non hanno più alcun titolo giustificativo per protrarre ulteriormente la detenzione proprio per effetto della compiuta divisione (sull’efficacia di titolo esecutivo dello scioglimento della comunione vedi Cass., Sez. 2, 22/8/2018, n. 20961; Cass., Sez. 2, 27/12/2013, n. 28697).

E’ allora evidente come nessuna ultrapetizione possa dirsi verificata nella specie, derivando dall’accertamento dell’esatta consistenza del patrimonio relitto prima e dall’attribuzione delle quote poi, presupponente evidentemente l’accertamento della qualità di erede, gli stessi effetti sostanziali che derivano dalla petizione ereditaria, che, in ragione di ciò, può dirsi insita nella domanda di scioglimento della comunione>>.

Non necessaria una rigorosa omogeneità delle porzioni nella divisione ereditaria

Cass. sez. II, ord. 24/10/2024 n. 27.602, rel. Criscuolo, sull’art. 727 cc:

fatto processuale:

<<La Corte d’Appello ha ritenuto di condividere i due distinti progetti di divisione approvati dal Tribunale, addivenendo ad un’assegnazione dei beni che non prevede la divisione di ognuno degli immobili caduti in successione tra i due gruppi di condividenti, ma ha previsto che le quote in natura fossero formate in parte con beni interamente inclusi nelle stesse, ovvero, come nel caso del fondo R con delle porzioni oggetto di frazionamento non perfettamente corrispondenti al valore della quota ideale, compensando tale differenza con l’assegnazione a favore del condividente che aveva ricevuto una quota materiale del bene inferiore a quella ideale, con l’assegnazione di altri beni tali da compensare la detta differenza>>.

Valutazione giuridica della SC:

<<Trattasi di soluzione che appare in primo luogo supportata dalla giurisprudenza di questa Corte che ha in più occasioni affermato che il principio stabilito dall’art. 727 c.c., in virtù del quale, nello scioglimento della comunione, il giudice deve formare lotti comprensivi di eguali quantità di beni mobili, immobili e crediti, non ha natura assoluta e vincolante, ma costituisce un mero criterio di massima; ne consegue che resta in facoltà del giudice della divisione predisporre i detti lotti anche in maniera diversa, ove ritenga che l’interesse dei condividenti sia meglio soddisfatto attraverso l’attribuzione di un intero immobile, piuttosto che con il suo frazionamento, e che il relativo giudizio è incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato. (Cass. n. 29733 del 12/12/2017).

Inoltre nella divisione non si richiede necessariamente, in sede di formazione delle porzioni, una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo, nell’ambito di ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l’intero ad una quota ed altri, sempre per l’intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria, o comunque del complesso da dividere. Pertanto, nell’ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, il giudice del merito deve accertare se l’anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio (cfr. ex multis Cass. n. 17862 del 27/08/2020)>>.

la responsabilità del coerede per i debiti ereditari e l’integrazione del contraddittorio

Cass. sez. II, sent . 16 ottobre 2024 n. 26.833, rel. Trapuzzano:

<<Il coerede che sia stato convenuto in giudizio per il pagamento di un debito ereditario è tenuto ad eccepire la propria qualità di obbligato “pro quota”, in virtù dell’esistenza di altri coeredi, mentre, laddove tale qualità sia sopravvenuta all’inizio di un processo originariamente introdotto nei confronti del “de cuius”, tra i coeredi si instaura una condizione di litisconsorzio necessario processuale, applicandosi conseguentemente la regola di cui all’art. 754 c.c., secondo la quale ciascuno di essi risponde, nei confronti del creditore, nei limiti della propria quota ereditaria.

(Nella fattispecie la morte della parte volta evocata in causa quale erede, è avvenuta nel corso del giudizio di primo grado, con l’effetto che tale evento interruttivo ha determinato la trasmissione della sua legittimazione processuale attiva e passiva agli eredi, che si sono venuti a trovare nella posizione di litisconsorti necessari per ragioni processuali, sicché, in fase di appello, doveva essere ordinata, d’ufficio, l’integrazione del contraddittorio)>>.

(preso da Valeria Cianciolo in Ondif)

Sulla collazione di immobili

Cass. sez. II, ord. 11/07/2024 n. 19.072, rel. Grasso:

<<In tema di divisione ereditaria, la collazione dei beni immobili può avvenire in natura o per imputazione, a scelta del coerede donatario. La scelta è irrevocabile dopo la comunicazione fatta agli eredi (art. 1286, secondo comma, cod. civ.). Tuttavia, se il coerede donatario, cui spetta la scelta di effettuare la collazione dell’immobile donato in natura, non la esercita, la collazione deve farsi per imputazione del relativo valore alla quota di sua spettanza (Cass., Sez. II, 16 giugno 2023, n. 17409).

La collazione per imputazione costituisce una fictio iuris, per effetto della quale il coerede che, a seguito di donazione operata in vita dal de cuius, abbia già anticipatamente ricevuto una parte dei beni a lui altrimenti destinati solo con l’apertura della successione, ha diritto a ricevere beni ereditari in misura ridotta rispetto agli altri coeredi, tenuto conto del valore di quanto precedentemente donatogli: valore determinato al detto momento dell’apertura della successione, senza che i beni oggetto della collazione tornino materialmente e giuridicamente a far parte della massa ereditaria, incidendo i medesimi esclusivamente nel computo aritmetico delle quote da attribuire ai singoli coeredi secondo la misura del diritto di ciascuno (Cass. 30 luglio 2004, n. 14553, in motivazione; Cass. 27 febbraio 1998, n. 2163).

Va innanzitutto rilevato che, in assenza della previsione di un termine stabilito dall’art. 746 cod. civ. per effettuare la scelta, non vi è decadenza ma la parte ha l’onere di richiedere le modalità della collazione. Nel caso di specie, come riportato in motivazione, la parte non ha esercitato la facoltà di scelta ma si è riservata di decidere all’esito della stima. Tuttavia, non avendo la parte esercitato alcuna opzione, limitandosi a insistere anche in sede di appello per la revoca dell’ordinanza che aveva disposto la collazione per imputazione e per l’estensione del quesito formulato al consulente tecnico d’ufficio, onde valutare la scelta più economicamente conveniente, la questione posta in questa sede dalla ricorrente risulta del tutto ipotetica e il Tribunale ha correttamente fatto ricorso al criterio residuale della collazione per imputazione del relativo valore alla quota di sua spettanza>>.

Donazione indiretta vs simulazione, azione di riduzione vs collazione

Altra lezione di diritto successorio/donativo dalla penna del dr Criscuolo in Cass., sez. 2 del 12 luglio 2024 n. 19.230:

profilo processuale:

<<5. La giurisprudenza di questa Corte ha progressivamente rivisto il precedente orientamento eccessivamente rigoroso in tema di allegazioni necessarie ai fini della ammissibilità dell’azione di riduzione, addivenendo alla conclusione per cui nel caso di esercizio della stessa, il legittimario ha l’onere di precisare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, indicando gli elementi patrimoniali che contribuiscono a determinare il valore della massa ereditaria nonché, di conseguenza, quello della quota di legittima violata, senza che sia necessaria all’uopo l’indicazione in termini numerici del valore dei beni interessati dalla riunione fittizia e della conseguente lesione, e, a tal fine, può allegare e provare, anche ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva (Cass. n. 18199 del 02/09/2020), ma è pur sempre necessario che alla spendita della qualità di legittimario (sebbene non necessariamente finalizzata all’esercizio dell’azione di riduzione, ma alla tutela di diritto comunque correlati a tale qualità, cfr. Cass. n. 12317/2019, Cass. n. 16535/2020, Cass. n. 29821/2023).

Tuttavia è stato ribadito che effettivamente il ricorso alle agevolazioni probatorie concesse ai terzi per l’accertamento della natura simulata di atti di alienazione, in quanto dissimulanti donazioni, sebbene non direttamente suscettibili di aggressione con l’azione di riduzione, ma anche al solo fine di determinare tramite la riunione fittizia, la esatta misura della quota di riserva, suscettibile di recupero anche attraverso la rimodulazione delle quote ab intestato ex art. 553 c.c. (cfr. Cass. n. 17856/2023), presuppone in ogni caso la spendita della qualità di legittimario e l’allegazione che l’accertamento è comunque funzionale all’integrazione della quota di riserva, mediante le molteplici modalità che la legge assicura a favore del legittimario. (…) Questa Corte ha di recente puntualizzato i caratteri differenziali tra l’azione di riduzione e la richiesta di collazione, richiamando in parte le differenze puntualmente esposte nel corpo della sentenza d’appello, e ribadendo che, in tema di azione di riduzione, non sussiste l’onere di preventiva collazione da parte dei legittimari, atteso che quest’ultima attribuisce al coerede un concorso sul valore della donazione, di regola realizzato attraverso un incremento della partecipazione sul “relictum”, laddove il legittimario, per il valore che esprime la lesione di legittima, ha diritto a ricevere quel valore, in natura, con conseguente ammissibilità del concorso tra le due azioni (Cass. n. 17856 del 22/06/2023)>>.

Poi:

<<6. Una volta, quindi, reputata ammissibile la proposizione di entrambe le domande, stanti le segnalate differenze ed i diversi vantaggi che ognuna delle due offre, resta, però, altrettanto confermato il principio che dall’esercizio dell’azione di simulazione da parte dell’erede per l’accertamento di dissimulate donazioni non deriva necessariamente che egli sia terzo, al fine dei limiti alla prova testimoniale stabiliti dall’art. 1417 c.c., perché, se l’erede agisce per lo scioglimento della comunione, previa collazione delle donazioni – anche dissimulate – per ricostituire il patrimonio ereditario e ristabilire l’uguaglianza tra coeredi, subentra nella posizione del “de cuius”, traendo un vantaggio dalla stessa qualità di coerede rispetto alla quale non può avvantaggiarsi delle condizioni previste dall’art. 1415 c.c.; è invece terzo, se agisce in riduzione, per pretesa lesione di legittima, perché la riserva è un suo diritto personale, riconosciutogli dalla legge, e perciò può provare la simulazione con ogni mezzo (cfr. ex multis Cass. n. 41132 del 21/12/2021). La sentenza d’appello ha però tratto dalla infondatezza dell’azione di riduzione, per la carenza delle allegazioni necessarie a verificare la effettiva sussistenza della lesione, e dalla strumentalità dell’accertamento della donazione indiretta alla eliminazione della lesione, in via conseguenziale anche l’impossibilità di accogliere la domanda di accertamento della natura liberale della fattispecie dedotta in giudizio in vista della collazione, ma nel compiere tale affermazione non ha tenuto conto della peculiarità della donazione individuata dagli attori, in quanto rientrante nel novero delle donazioni indirette. Il ragionamento sinora esposto, circa il differente trattamento dell’erede e del legittimario sul piano delle agevolazioni probatorie, onde rimuovere il limite che l’art. 1417 c.c. pone alle parti del negozio dissimulato, opera solo ove ad essere oggetto della materia del contendere sia una donazione dissimulata, diversa dovendo invece essere la conclusione nel caso in cui si assuma che il coerede sia stato beneficiario di una donazione indiretta>>.

La donazione indiretta differisce dalla simulazione:

<<Una volta ribadito che la donazione indiretta si identifica con ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da un fine di liberalità e abbia l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario, sicché l’intenzione di donare emerge solo in via indiretta dal rigoroso esame di tutte le circostanze del singolo caso, nei limiti in cui siano tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio. (Cass. n. 9379 del 21/05/2020), nella difesa degli attori si prospetta che l’acquisto dell’immobile è stato operato direttamente da parte della presunta donataria, che avrebbe assolto all’obbligo di pagamento del prezzo con denaro fornito da parte del genitore.

Si rientra pertanto nell’ipotesi di intestazione del bene a nome altrui che costituisce appunto una delle ipotesi di donazione indiretta (cfr. Cass. n. 13619/2017, secondo cui nell’ipotesi di acquisto di un immobile con danaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente intende in tal modo beneficiare, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e, quindi, integra – anche ai fini della collazione – donazione indiretta del bene stesso e non del danaro).

Ancorché nella donazione indiretta, ai fini della stima della donazione debba guardarsi all’oggetto dell’acquisto, analogamente a quanto avviene per l’ipotesi della donazione simulata (che però resta una donazione immobiliare a tutti gli effetti), l’utilizzo di un meccanismo negoziale che assicura al donatario l’acquisto di un bene a titolo gratuito, senza che però tale bene sia mai appartenuto al donante, giustifica anche la conclusione per cui, ai fini della reintegrazione della quota di riserva ovvero della collazione, poiché non risulta messa in discussione la titolarità del bene, il valore dell’investimento finanziato con la donazione indiretta dev’essere ottenuto dal legittimario leso con le modalità tipiche del diritto di credito, con esclusione di ogni possibilità di recupero in natura del bene, in caso di riduzione, ovvero di collazione in natura, ove l’accertamento sia funzionale a tale scopo.

La donazione indiretta resta però un contratto con causa onerosa, posto in essere per raggiungere una finalità ulteriore e diversa consistente nell’arricchimento, per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore e differisce dal negozio simulato in cui il contratto apparente non corrisponde alla volontà delle parti, che intendono, invece, stipulare un contratto gratuito. Ne consegue che ad essa non si applicano i limiti alla prova testimoniale – in materia di contratti e simulazione – che valgono, invece, per il negozio tipico utilizzato allo scopo.

Ne consegue che la distinzione tra la donazione simulata e donazione indiretta non consente di estendere a quest’ultima le limitazioni probatorie dettate dall’art. 1417 c.c., e che la prova dell’effettiva natura liberale (in tutto o in parte), della fattispecie negoziale oggetto della domanda può essere data anche a mezzo presunzioni, pur nel caso in cui non si alleghi a fondamento della pretesa la qualità di legittimario (Cass. n. 19400/2019 che ha confermato la sentenza gravata che aveva ritenuto l’esistenza di donazioni indirette sulla base di prove presuntive; Cass. n. 6904/2022, Cass. n. 7872/2021, Cass. n. 1986/2016). La circostanza che la Corte d’Appello ha riscontrato che la difesa degli attori si era limitata ad allegazioni inerenti alla domanda di collazione, che è destinata ad operare in via automatica una volta che risulti proposta la domanda di divisione (sulla quale i giudici di merito si sono pronunciati), non consentiva di eludere la richiesta di accertamento della donazione indiretta effettuata dal genitore alla figlia facendo solo richiamo all’infondatezza della domanda di riduzione.>>

CEssione di diritti su bene ereditario vs cessione di quota ereditaria: cambia la qualifica a seconda che ci sia un solo bene oppure più

Cass. sez. II, ord.  08/07/2024  n. 18.548, rel. Criscuolo:

<<Questa Corte ha, anche di recente, affermato che in tema di divisione ereditaria, la cessione a terzi estranei di diritti su singoli beni immobili ereditari non comporta lo scioglimento – neppure parziale – della comunione, in quanto i diritti continuano a fare parte della stessa comunione, restando l’acquisto del terzo subordinato all’avveramento della condizione che essi siano in sede di divisione assegnati all’erede che li abbia ceduti. Ne consegue che, se un coerede può alienare a terzi in tutto o in parte la propria quota, tanto produce effetti reali se e in quanto l’acquirente venga immesso nella comunione ereditaria, mentre, in caso diverso, la vendita avrà soltanto effetti obbligatori, salvo che la vendita non abbia avuto a presupposto un atto di scioglimento della comunione ereditaria, anche implicito, in ordine a tali beni (Cass. n. 25462/2023; Cass. n. 3385/2007).

Viceversa, nel caso di vendita da parte di uno dei coeredi di bene ereditario che costituisce l’intera massa, l’effetto traslativo dell’alienazione non resta subordinato all’assegnazione in sede di divisione della quota all’erede alienante, dal momento che costui è proprietario esclusivo della frazione ideale di cui può liberamente disporre, sicché il compratore subentra, “pro quota”, nella comproprietà del bene comune (Cass. n. 25462/2023), con affermazione di principio che è destinata a trovare applicazione anche nel caso in cui, pur riferendosi la vendita a singoli beni, la stessa esaurisca l’intero complesso dei beni ricaduti nella quota dell’alienante.

A tal fine diviene rilevante la concreta verifica compiuta dal giudice di merito, essendosi quindi specificato che l’indagine da quest’ultimo compiuta e diretta ad accertare, di norma ai fini dell’ammissibilità del retratto successorio, se la vendita compiuta da un coerede abbia avuto per oggetto la quota ereditaria (o una sua frazione) ovvero beni determinati, costituisce un apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 25462/2023; Cass. n. 97/2011; Cass. n. 369/1986, secondo cui l’indicazione di beni determinati nel contratto di alienazione non costituisce elemento decisivo per escludere la ipotesi di trasferimento della quota ereditaria o di parte di essa, occorrendo accertare se l’acquirente sia stato o non introdotto nella comunione, con un’indagine che si avvalga tanto del dato oggettivo della rappresentatività quantitativa del bene, quanto del dato soggettivo della volontà dei contraenti, desumibile anche dal comportamento successivo al negozio; Cass. n. 3959/83; Cass. n. 5620/82; Cass. n. 246/1985; Cass. n. 5458/1979; Cass. n. 1537/1973).

Ad avviso della Corte tale indagine risulta essere stata operata in maniera incensurabile dal giudice di merito, così che le critiche mosse con il motivo in esame appaiono prive di fondamento. In primo luogo si rileva che l’atto contestato contiene una indicazione delle componenti alienate che risulta esaustiva, in rapporto alla quota ereditaria vantata dalla alienante, avendo la cedente fatto riferimento sia alle componenti di natura immobiliare sia al diritto di credito al momento ancora esistente alla data dell’alienazione, e cioè al saldo attivo del rapporto di conto corrente intrattenuto dal de cuius.

Non incide in senso contrario il mancato riferimento ad alcuni titoli di Stato di cui la sentenza impugnata fa menzione. In tal senso rileva che, come riferito a pag. 11 della decisione di appello, trattasi di due titoli di stato che erano stati incassati dalla Ma.Su. nell’imminenza dell’apertura della successione, e che quindi non rientravano più, per essere stati estinti, tra le componenti attive dell’asse relitto.

Inoltre, l’avvenuta riscossione, peraltro in maniera illegittima, da parte della Ma.Su., ha determinato la sua condanna a reintegrare gli altri coeredi di quanto indebitamente prelevato, dando vita quindi ad un’obbligazione personale della stessa Ma.Su., che esula dal novero dei debiti ereditari, trattandosi di un’obbligazione assunta personalmente, per effetto della sua condotta illegittima.

Ne deriva che alcuna conseguenza sul piano dell’esegesi dell’atto può attribuirsi alla mancata menzione di tali titoli, in quanto ormai sottratti al novero dei beni ancora comuni, così come non può attribuirsi rilievo alla mancata menzione di debiti ereditari, in assenza della dimostrazione che ve ne fossero.

Né risulta rilevante la precisazione nell’atto di vendita che la alienante conservava il possesso dei beni alienati, e quindi ove si acceda all’esegesi fatta propria dai giudici di merito, della quota ereditaria di sua pertinenza, occorrendo a tal fine tenere conto della circostanza che la vendita riguardava la nuda proprietà, essendo il possesso di cui si fa menzione nell’atto riferibile al diritto di usufrutto che la venditrice si era riservata.

In assenza dell’indicazione di diversi beni facenti parte della quota ereditaria, ma esclusi dall’atto di cessione, ed apparendo quindi che quest’ultimo abbia effettivamente carattere esaustivo del compendio relitto, ancorché non si faccia espresso riferimento all’alienazione della quota, ma alla titolarità di singoli beni immobili e di diritti di credito, deve però ritenersi che l’atto in esame sia stato apprezzato come cessione di quota ereditaria, con una valutazione che non appare censurabile in questa sede, non potendosi attribuire al dato letterale portata risolutiva, ben potendosi quindi assegnare una valenza interpretativa privilegiata proprio al riferimento di cui all’art. 3 dell’atto al fatto che l’alienazione delle componenti indicate aveva ad oggetto tutto quanto spettante all’alienante “quale coerede del marito An.Ia.” >>.

L’operare della collazione deetermina ujn obbligo restitutorio ex lege

Cass. sez. II, sent. 21/06/2024  n. 17.198, rel. Picaro:

<<Ed invero l’impugnata sentenza, non avendo correttamente e compiutamente riportato il contenuto dei motivi dell’appello incidentale proposto da In.Gi. sopra descritti, non ha adottato una specifica statuizione, né ha addotto una sia pur minima motivazione sulla ragione per la quale, malgrado l’obbligo della collazione imposto dal testatore a tutti i legittimari, e benché l’imputazione dei beni immobili donati dal de cuius ad In.En. avesse fatto registrare alla data dell’apertura della successione (9.4.1991) un consistente superamento della quota di legittima riservata dal testatore ad In.En., il che ha giustificato la mancata attribuzione di beni immobili al predetto nel piano di riparto, non abbia disposto la restituzione in denaro di tale eccedenza da parte di In.En. a favore della massa ereditaria ai sensi dell’articolo 724 comma 2 cod. civ. per consentirne il prelevamento ex art. 725 cod. civ. da parte degli altri legittimari (Vi.Gi., In.An. ed In.Er.) fino a raggiungere insieme ai beni loro donati il valore delle rispettive quote di legittima, e per il residuo, il prelevamento pro quota della disponibile da parte dei coeredi testamentari (Va. In. In.Gi., Va.In., In.Gi. ed In. Lu.In. junior). Il piano di riparto, invece, ha lasciato In.En. nella piena proprietà dei beni immobili donatigli per un valore ampiamente superiore a quello della quota legittima a lui riservata dal testatore, in violazione della volontà di quest’ultimo, ricostruita nel senso di attribuire ai soli nipoti la quota disponibile del suo intero patrimonio (relictum + donatum), imponendo a tutti i legittimari la collazione dei beni ricevuti per donazione.

La restituzione da parte di In.En. alla massa ereditaria dell’eccedenza del valore dei beni a lui donati corrisponde ad un effetto legale della collazione imposta dal testatore, e non richiedeva alcuna azione di riduzione per lesione di legittima da parte dei coeredi testamentari. D’altra parte, In.En., avendo accettato l’eredità devoluta per testamento del padre In.Lu., era tenuto a subire gli effetti della collazione, che comunque non intaccavano la quota a lui riservata per legge, costituente l’unico limite all’operatività della collazione stessa.>>

Affermazione però frettolosa, dato che è discusso se l’effetto da collazione sia automatico oppure obbligatorio (ad es. Capozzi, Successioni e donaizoni, t. II, Giuffrè, 2023, 5 ed a cura di Ferrucci e Ferrentino, § 352.b)