La prova della (com-)proprietà nel giudizio divisorio, in assenza di contestazioni tra coeredi

Cass. sez. II, ord. 13/02/2025  n. 3.654, rel. Maccarrone.

Fatto processuale:

<<La Corte d’Appello di Salerno ha effettivamente posto alla base della sentenza ricorsa un difetto di prova sulle caratteristiche dei beni da dividere e sulla loro titolarità, pur non mettendo in discussione l’esistenza di una comunione ereditaria in relazione ai beni morendo dismessi da Su.An. (le cui eredi erano Su.Gi. e Su.An.) e da Su.An. (le cui eredi erano Su.Gi. -della quale sono eredi Da.Gi. e Da.An.- e Im.An.-che ha donato la quota di comproprietà sugli immobili oggetto di comunione ereditaria a Cu.Ga.-) né, in totale assenza di contestazioni ad opera degli interessati, il diritto delle parti di procedere alla sua divisione secondo le quote indicate.

La Corte di merito ha respinto, per carenza di prova, la domanda di divisione, con una pronuncia che appare inopportunamente formulata perché fa derivare un effetto sostanziale negativo da una valutazione che si ferma invece al vaglio formale di intempestività della produzione della documentazione necessaria, allegata dalla parte attrice -nell’evidente interesse anche delle controparti, in pacifica assenza di contestazioni riguardo al diritto di procedere alla divisione e alle quote di relativa spettanza- per provare la titolarità dei beni in capo ai danti causa e la situazione delle iscrizioni e trascrizioni ad essi relative ai fini della dimostrazione di insussistenza di pesi o iscrizioni pregiudizievoli>>.

La bacchettata della Cass.:

<<Così facendo, la Corte d’Appello di Salerno non ha tenuto in alcun conto le caratteristiche proprie del giudizio di divisione, giungendo alla decisione contestata in questa sede attraverso passaggi motivazionali sovrapponibili -così come le doglianze ad essi rivolte dai ricorrenti signori Da.Gi., Da.An – a quelli già esaminati approfonditamente e sistematizzati da questa Corte nell’ordinanza n. 6228/2023 -affrontati, prima, nell’ordinanza n.10067/2020- dalle cui considerazioni, pienamente condivisibili, non vi è motivo di discostarsi.

Quanto alla prova della comproprietà sui beni da dividere, con l’ordinanza n. 6228/2023 questa Corte aveva già sottolineato come “Nei giudizi di scioglimento della comunione, la prova della comproprietà dei beni dividendi non è quella rigorosa richiesta in caso di azione di rivendicazione o di accertamento positivo della proprietà, atteso che la divisione, oltre a non operare alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro condividente, è volta a far accertare un diritto comune a tutte le parti in causa e non la proprietà dell’attore con negazione di quella dei convenuti, sicché, in caso di non contestazione sull’appartenenza dei beni” -contestazione che nel caso di specie nemmeno è stata sollevata-, “non può disconoscersi la possibilità di una prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico, siccome ridondanti a vantaggio della collettività dei condividenti’; quanto alla tutela, comprendente la possibile partecipazione al giudizio di divisione, dei terzi controinteressati, nell’ordinanza in esame si evidenzia che “Nel giudizio di scioglimento della comunione, il dovere del giudice di ordinare, in presenza di trascrizioni o iscrizioni contro i singoli compartecipi, la chiamata in giudizio dei creditori e degli aventi causa ai sensi degli artt. 784 c.p.c. e 1113 c.c., rispondendo alla sola esigenza di consentire loro di vigilare sul corretto svolgimento del procedimento divisionale in ragione degli effetti riflessi da esso derivanti su garanzie patrimoniali ed effettiva realizzazione del proprio acquisto, non giustifica l’implicita imposizione, a carico dei compartecipi, di documentare, sotto pena di inammissibilità della domanda, la presenza o l’ assenza di trascrizioni e iscrizioni sulla quota indivisa dei singoli, configurandosi la chiamata dei creditori iscritti e degli aventi causa dei compartecipi come onere da assolvere affinché la decisione faccia stato nei loro confronti, senza costituire condizione di validità della divisione; in ordine, infine, alla documentazione da acquisire necessariamente per procedere alle operazioni di divisione, la Corte precisa che “Nei giudizi di scioglimento della comunione, la produzione dei certificati relativi alle trascrizioni e iscrizioni sull’immobile da dividere, imposta dall’art. 567 c.p.c. per la vendita del bene pignorato, non costituisce un adempimento previsto a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda, neppure quando debba procedersi alla vendita dell’immobile comune, atteso che questa, a differenza di quanto accade nel processo di espropriazione, non avviene ai danni di qualcuno, ma nell’interesse di tutti, sicché il richiamo alle norme del processo di espropriazione è limitato alle sole modalità esecutive della vendita e ai relativi rimedi’ -ne consegue quindi che per l’allegazione di tutta la documentazione inerente alla situazione degli immobili da dividere non si deve tenere conto dei termini previsti per le preclusioni istruttorie nell’ordinario giudizio di cognizione-. Anche per quest’ultimo profilo l’ordinanza esaminata ripercorre chiaramente e approfondisce le linee interpretative già individuate dalla giurisprudenza di legittimità precedente: si richiama, in particolare, la già citata ordinanza n.10067/2020, secondo la quale “Nei giudizi di scioglimento della comunione, la produzione dei certificati relativi alle trascrizioni e iscrizioni sull’immobile da dividere, imposta dall’art. 567 c.p.c. per la vendita del bene pignorato, non costituisce un adempimento previsto a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda, tenuto conto che, in tali giudizi, l’intervento dei creditori e degli aventi causa dei condividenti è consentito ai soli fini dell’opponibilità delle statuizioni adottate. Ciò vale anche nel caso in cui si debba procedere alla vendita dell’immobile comune, sebbene le informazioni richieste dal predetto articolo si debbano necessariamente acquisire a tutela del terzo acquirente, ma a tale esigenza sovraintende d’ufficio il giudice della divisione, il quale, nello svolgimento del potere di direzione delle operazioni, può ordinare alle parti la produzione della documentazione occorrente o avvalersi del professionista delegato alla vendita”.

Appare opportuno ancora sottolineare, con richiamo letterale alla motivazione, pure particolarmente significativa per la controversia sub iudice e pienamente condivisibile, dell’ ordinanza n.6228/2023, quanto segue: il minor rigore della prova della comproprietà nei giudizi di divisione non significa che “la divisione immobiliare possa farsi “sulla parola”, ma più limitatamente che, in una situazione nella quale la comune proprietà dei beni dividendi”, fondata sul presupposto dell’appartenenza dei beni stessi alla comunione, “sia incontroversa, non si potrebbe disconoscere la possibilità della prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico (cfr. Cass. n. 21716/2020), tenuto conto, appunto, che non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda che vede le parti in contrapposizione fra loro (Cass. n. 1065/2022). La domanda di divisione, infatti, anche quando sia proposta da uno solo, è sempre comune a tutti i condividenti (Cass. n. 6105/1987; n. 15504/2018), i quali sono tutti sul medesimo piano ed hanno tutti eguale diritto alla divisione (Cass.n.4353/1980). Pertanto, le verifiche condotte dall’ausiliario d’ufficio ridondano a vantaggio della collettività dei condividenti, così come andrebbe a svantaggio di tutti una acquisizione postuma, anche se operata d’ufficio dal consulente, dal quale emergesse che la proprietà comune, non contestata o desunta a livello indiziario, non trova conferma sul piano documentale (Cass. n. 40041/2021)”; la validità dell’indirizzo interpretativo esposto perdura anche dopo la pronuncia delle SSUU della Corte di Cassazione n.25021/2019 che, “nel riconoscere che gli atti di scioglimento della comunione sono soggetti alla sanzione della nullità prevista dall’art. 46, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 e dall’art. 40, comma 2, della L. n. 47 del 1985 (Cass., S. U., n. 25021/2019), hanno chiarito che la divisione va annoverata fra gli atti ad efficacia tipicamente costitutiva e traslativa. La giurisprudenza successiva a tale pronuncia ha chiarito che l’assimilabilità della divisione agli atti traslativi, nella logica seguita dalle Sezioni unite, è operata per giustificare l’applicazione ad essa dei divieti stabiliti dalla disciplina urbanistica in materia di immobili abusivi, non già nel senso del riconoscimento che la divisione sia il risultato di un trasferimento delle quote indivise degli altri condomini, tale da rendere applicabili le regole del contratto traslativo. In altre parole, il riconoscimento della natura costitutiva-traslativa della modificazione operata dalla divisione, condiviso da larga parte della dottrina, deve svolgersi pur sempre nel quadro della retroattività reale che la legge attribuisce eccezionalmente all’atto divisionale, per cui l’acquisto dei singoli condividenti si considera avvenuto al momento iniziale della comunione (art. 757 c.c.). Nonostante il riconoscimento della sua natura costitutiva, la divisione continua a non potersi annoverare fra i titoli idonei a fornire, nel giudizio di rivendicazione proposto nei confronti dei terzi, la prova della proprietà dei beni compresi nei lotti rispettivamente assegnati, dovendosi inoltre escludere che la divisione sia da sola sufficiente a formare il titolo per l’usucapione abbreviata (Cass. n. 1976/1983; 1532/1967). Tali conclusioni, da sempre chiare alla giurisprudenza, si confermano ancora esatte, depurate naturalmente dall’improprio riferimento alla natura dichiarativa della divisione, operato, in verità, in modo del tutto tralatizio nelle massime (Cass. n. 26692/2020)”.

I crediti cadono in comunione ereditaria, per cui il singolo comunista può agire per recuperare anche l’intero

Cassazione civile sez. III, 12/12/2024, (ud. 25/10/2024, dep. 12/12/2024), n.32077, rel. Fiecconi, confermando l’opinione ricevuta:

<<7.2. I crediti del “de cuius”, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 752 cod. civ. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta dal precedente art. 727, il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, nonché dal successivo art. 757, che, prevedendo che il coerede al quale siano stati assegnati tutti o l’unico credito succede nel credito al momento dell’apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, ed è, inoltre, confermata dall’art. 760, che escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a un coerede, necessariamente presuppone che i crediti siano inclusi nella comunione; né, in contrario, può argomentarsi dagli artt. 1295 e 1314 dello stesso codice, concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il “de cuius” ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale. Conseguentemente, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l’intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito (così Cass. Sez. U, Sentenza n. 24657 del 28/11/2007; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15894 del 11/07/2014).

7.3. Trova, rispetto ai crediti ereditari, applicazione il principio generale, secondo cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune. Ciascun coerede può, pertanto, domandare il pagamento del credito ereditario in misura integrale o proporzionale alla quota di sua spettanza senza che il debitore possa opporsi adducendo il mancato consenso degli altri coeredi, i quali non sono neppure litisconsorti necessari nel conseguente giudizio di adempimento poiché i contrasti sorti tra gli stessi devono trovare soluzione nell’ambito dell’eventuale e distinta procedura di divisione (cfr anche, Cass.Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 27417 del 20/11/2017; Cass.Sez.3-, Ordinanza n. 8508 del 06/05/2020; Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 10585 del 18/04/2024).

7.4. In coerenza coi surrichiamati principi, pertanto, il ricorrente, quale erede della parte lesa, ha la legittimazione per agire per il recupero dell’intero credito risarcitorio spettante al de cuius, cui è succeduto iure successionis, senza necessità alcuna di estendere il contradditorio al nipote coerede (o chiamato all’eredità), per ottenere il risarcimento della totalità del credito già spettante al de cuius, e da lui acquisito nel patrimonio iure successionis, poiché per il principio di cui sopra, la relativa pronunzia sul diritto comune fatto valere, pur spiegando efficacia nei riguardi di tutti i soggetti interessati a ottenere il risarcimento de quo, rimane impermeabile nei rapporti interni tra coeredi rispetto alle conseguenti vicende, da risolversi in seguito alla accettazione della eredità da parte dei coeredi (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24657 del 28/11/2007)>>.

Azione di riduzione da parte dell’legittimario pretermesso, acquisto della qualità ereditaria ed azione per la divisione dei beni caduti in successione

Cass. sez. II del 08/11/2023 n. 31.125, rel. Criscuolo, ci fa ripassare alcuni principi  consolidati in materia:

<<Rileva a tal fine la circostanza che oggetto dell’azione di riduzione, in quanto lesiva dei diritti di legittimaria dell’attrice, è una disposizione testamentaria del de cuius, con la quale, pretermettendo A., il testatore aveva istituto erede universale il solo figlio maschio.

Tenuto, quindi, conto della massa ereditaria, per effetto delle operazioni di riunione fittizia (queste sì da compiere sulla base della stima dei beni alla data di apertura della successione), si è escluso che la lesione derivasse dalle donazioni pur compiute in vita in favore del convenuto (trattandosi di donazioni che per il loro ammontare gravavano sulla disponibile), ed è stato invece appurato che a risultare lesiva era proprio l’istituzione di erede universale, che andava ridotta, e quindi resa inefficace nei confronti dell’attrice, nei limiti in cui era necessario assicurarle quanto dovuto a titolo di quota di riserva (in quanto ancora insoddisfatta all’esito dell’imputazione delle liberalità a sua volta ricevute in vita dall’attrice).

In presenza di un’istituzione di erede universale ovvero per quote astratte dell’intero patrimonio, il legittimario pretermesso non è erede al momento di apertura della successione, ma lo diviene solo una volta esperita vittoriosamente l’azione di riduzione.

Inoltre, se ai sensi dell’art. 560 c.c., nel caso in cui la riduzione abbia ad oggetto disposizioni a titolo di legato ovvero donazioni (ed in via estensiva istituzioni ex certa re), l’effetto della riduzione è quello di rendere efficace solo la disposizione che abbia avuto ad oggetto il singolo bene, attribuendolo per intero al legittimario (ove la lesione travolga per intero l’attribuzione) ovvero rendendolo comune fra beneficiario e legittimario, nei limiti necessari ad assicurare la reintegra dei diritti del secondo, nel diverso caso in cui la lesione derivi da una disposizione di erede a titolo universale, l’effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione è quello di far acquisire al legittimario la qualità di erede su tutti i beni caduti in successione, ovvero a creare una comunione su quelli oggetto di liberalità ove a loro volta idonei a determinare la lesione, con il riconoscimento sui primi di una quota indivisa pari all’ammontare della legittima ancora insoddisfatta, ragguagliata al valore del relictum.

Già in passato questa Corte ha ricordato come le disposizioni testamentarie lesive della legittima non siano nulle né annullabili ma, sino a quando esse non vengano impugnate con l’azione di riduzione, conservano la loro piena efficacia. Di conseguenza, ove il de cuius abbia distribuito, con il testamento alle persone in questo indicate, tutto il suo patrimonio, mediante disposizioni a titolo universale o particolare, pretermettendo alcuni legittimari, questi non partecipano, de iure, alla comunione per il semplice fatto che si è aperta la successione testamentaria, giacché il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. Il legittimario, pertanto, non può chiedere la divisione dei beni lasciati dal de cuius, senza aver prima esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie. Inoltre, per ragioni di economia processuale, è tuttavia consentito, in ipotesi del genere, che le azioni di riduzione e di divisione siano proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 1206/1962; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 160/1970; Cass. n. 2367/1970).

Il principio è stato anche di recente ribadito, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 19284/2019; Cass. n. 4140/1992).

Alla base di tale principio si pone la premessa che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione e concorre poi alla comunione dei beni relitti, secondo una quota di entità corrispondente al valore della quota di riserva non soddisfatta, così che, ove i beni relitti, assegnati per testamento in maniera universale ad altri soggetti, siano di entità superiore alla quota di riserva, sugli stessi si instaura una comunione secondo le quote da determinare in base ai criteri esposti, comunione che può essere sciolta subito dopo l’accoglimento dell’azione di riduzione e nello stesso giudizio, alla luce delle esigenze di economia processuale, alle quali i precedenti richiamati fanno riferimento.

In ipotesi, peraltro, il legittimario ben potrebbe accontentarsi solo di esercitare l’azione di riduzione, al fine di conseguire il riconoscimento della titolarità pro quota dei beni caduti in successione ed assegnati ad altri per testamento, salvo poi decidere in un secondo momento di chiederne la divisione.

Ne consegue che, tenuto conto di quanto statuito dal Tribunale di Termini Imerese nella sentenza appellata, a fronte di una massa di beni relitti (e quindi con esclusione di quelli donati), pari ad Euro 1.980.062,99 (cfr. pag. 23), essendo la quota di legittima ancora non soddisfatta dell’attrice pari ad Euro 409.078,82 (cfr. pag. 25), sui beni relitti l’attrice ha acquisito una quota ideale pari al 20,66% (409.078,82: 1.980.062,99 = x: 100; x = 409.078,82-100/1.980.062,99= 20,66).

Risulta quindi pertinente rispetto all’ipotesi oggetto di causa il richiamo effettuato dalla difesa della ricorrente a quanto affermato da Cass. n. 2975/1991, secondo cui, ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli artt. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell’asse ereditario al tempo dell’apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell’art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conf. Cass. n. 739/1977).

Infatti, una volta appurata l’entità della lesione e la necessità quindi di ridurre la disposizione testamentaria a titolo universale, insorge, per effetto proprio dell’accoglimento della riduzione, una comunione tra erede istituito e legittimario, secondo le quote come sopra individuate, comunione per il cui scioglimento valgono le regole ordinariamente dettate, tra cui proprio la previsione di cui all’art. 726 c.c., in ordine alla necessità di attualizzazione della stima dei beni alla data dell’effettivo scioglimento>>.

E poi:

<<La logica che sottende la soluzione alla quale il Collegio intende aderire è sostanzialmente la medesima che è alla base dell’altrettanto pacifico orientamento secondo cui, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso, sicché quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinché ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 7478/2000).

Una volta acquisita la qualità di erede, o meglio di coerede, per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione, tale qualità reca con sé anche la necessità di poter avvantaggiarsi degli eventuali incrementi di valore dei beni in relazione ai quali è stata riconosciuta la contitolarità, in vista del soddisfacimento della quota di riserva, ovvero, ed è caso non infrequente nei periodi in cui il mercato immobiliare subisca delle crisi, di subire le conseguenze del deprezzamento dei beni stessi>>.

Principio di diritto:

<<In caso di pretermissione del legittimario per effetto di istituzione di erede a titolo universale, a seguito dell’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione sui beni relitti ovvero recuperati per effetto sempre dell’azione di riduzione, viene a determinarsi una situazione di comunione tra l’erede istituito ed il legittimario nella quale la quota del primo è corrispondente al valore della quota di legittima non soddisfatta determinata in proporzione al valore dell’intera massa, il tutto secondo la stima compiuta alla data di apertura della successione; tuttavia ove debba procedersi alla divisione della comunione così insorta, la stima dei beni in vista delle operazioni divisionali deve essere aggiornata alla luce del mutato valore dei beni tra la data di apertura della successione e quella di effettivo scioglimento della comunione>>.

Scioglimento di comunione ereditaria e alienazjone di quota da parte del coerede

In una complessa e lunghissima lite, la SC ricorda ed enuncia i segg. principi (Cass. sez. II del 30 agosto 2023 n. 25.462 , rel. Criscuolo):

<<Occorre preliminarmente sottolineare come le complessive critiche mosse dalla ricorrente non intendano rimettere in discussione il principio affermato da questa Corte nella richiamata ordinanza n. 4428/2018, secondo cui l’atto con il quale vengano alienati i diritti vantati da un condividente su singoli beni immobili facenti parte di una più ampia comunione (nella specie ereditaria), non ha efficacia immediatamente traslativa in favore dell’acquirente, ma conservi un’efficacia solo obbligatoria, essendo quella traslativa subordinata al fatto che poi il bene interessato dalla cessione risulti effettivamente assegnato alla quota dell’alienante, all’esito della divisione (conf. Cass. n. 2701/2019). Le censure, tuttavia, mirano nel loro insieme a contrastare la diversa affermazione, che sorregge la decisione gravata, secondo cui i beni interessati dall’atto del 1 luglio del 1994 non esaurirebbero l’intero asse ereditario, occorrendo quindi ricostruire la volontà delle parti come idonea, nonostante il riferimento a singoli beni immobili, a determinare il trasferimento dell’intera quota ereditaria vantata dalla V. sulla successione del coniuge, nonché (ed è questione che è oggetto dell’ottavo motivo di ricorso), i diritti vantati sui medesimi beni sul presupposto di esserne divenuta titolare per effetto del regime della comunione legale.

Pertanto, come anche affermato in tema di idoneità dell’atto, avente ad oggetto la cessione di quote su singoli immobili, a determinare una cessione della quota ereditaria ai fini dell’applicazione dell’art. 732 c.c., va ribadito che la cessione a terzi estranei di diritti su singoli beni immobili ereditari non comporta lo scioglimento – neppure parziale – della comunione, in quanto i diritti continuano a fare parte della stessa comunione, restando l’acquisto del terzo subordinato all’avveramento della condizione che essi siano in sede di divisione assegnati all’erede che li abbia ceduti. Ne consegue che, se un coerede può alienare a terzi in tutto o in parte la propria quota, tanto produce effetti reali se e in quanto l’acquirente venga immesso nella comunione ereditaria, mentre in caso diverso la vendita avrà soltanto effetti obbligatori, salvo che la vendita non abbia avuto a presupposto un atto di scioglimento della comunione ereditaria, anche implicito, in ordine a tali beni (Cass. n. 3385/2007).

Inoltre, è stato precisato che l’indagine del giudice di merito diretta ad accertare, ai fini dell’ammissibilità del retratto successorio, se la vendita compiuta da un coerede abbia avuto per oggetto la quota ereditaria (o una sua frazione) ovvero beni determinati, costituisce un apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 97/2011; Cass. n. 246/1985; Cass. n. 661/1982).

In questo senso va richiamato l’orientamento per cui (Cass. n. 26051/2014) solo nel caso di vendita da parte di uno dei coeredi di bene ereditario che costituisce l’intera massa, l’effetto traslativo dell’alienazione non resta subordinato all’assegnazione in sede di divisione della quota all’erede alienante, dal momento che costui è proprietario esclusivo della frazione ideale di cui può liberamente disporre, sicché il compratore subentra, “pro quota”, nella comproprietà del bene comune, e che solo in tal caso si presume che l’alienazione concerna la quota che lo riguarda, intesa come porzione ideale dell'”universum ius defuncti”, sicché il coerede può esercitare il diritto di prelazione ex art. 732 c.c. (Cass. n. 8692/2016)>>.

Prova della comproprietà nel giudizio di divisione ereditaria

Cass. ord. sezione sesta-2 del 2 marzo 2023 n. 6228, rel.  Tedesco, dà utili precisazioni circa la prova della titolarità (e altre questioni) nel giudizio di divisione dicomunione ereditaria, di significativa importanza per l’operatore.

Questa la massima tratta da www.ilcaso.it : <<Nei giudizi di scioglimento della comunione, la prova della comproprietà dei beni dividendi non è quella rigorosa richiesta in caso di azione di rivendicazione o di accertamento positivo della proprietà, atteso che la divisione, oltre a non operare alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro condividente, è volta a far accertare un diritto comune a tutte le parti in causa e non la proprietà dell’attore con negazione di quella dei convenuti, sicché, in caso di non contestazione sull’appartenenza dei beni, non può disconoscersi la possibilità di una prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico, siccome ridondanti a vantaggio della collettività dei condividenti>>.

Questi i passi per esteso:

<a) In primo luogo, la Suprema Corte (Cass. n. 10067/2020, ampiamente richiamata in ricorso e precedente alla sentenza impugnata), pur condividendo l’esigenza che, nel giudizio di divisione ereditaria, occorra offrire la dimostrazione dell’appartenenza dei beni al de cuius o più genericamente la prova della comproprietà (cfr. Cass. n. 1965/2022), ha precisato, sulla scorta di risalenti principi, che, pure in presenza di contestazioni dei coeredi, non grava a carico dell’attore l’onere di quella prova rigorosa richiesta nel caso di azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento positivo della proprietà, “poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa, quali coeredi” (Cass. n. 1309/1966). Con la divisione, infatti, si opera la trasformazione dell’oggetto del diritto di ciascuno, da diritto sulla quota ideale a diritto su un bene determinato, senza che intervenga fra i condividenti alcun atto di cessione o di alienazione (Cass. n. 20645/2005). La divisione, in considerazione della sua efficacia retroattiva sancita dagli artt. 757 e 1116 c.c., non opera alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro dei condividenti (Cass. n. 17061/2011), ma lascia ciascuno di essi aventi causa dal de cuius (o più in generale, con riferimento a qualsiasi comunione, dal dante causa dei partecipanti alla comunione medesima). Si spiega con tale natura dell’atto divisionale la regola che divisione non integra titolo astrattamente idoneo all’acquisto della proprietà per gli effetti previsti dall’art. 1159 c.c. (Cass. n. 1976/1983). Inoltre, è principio consolidato nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui, ai fini della prova della proprietà nel giudizio di rivendicazione non può essere sufficiente un atto di divisione, che, per il suo carattere dichiarativo e non costitutivo di diritti, non ha di per sé solo forza probante nei confronti dei terzi del diritto di proprietà attribuito ai condividenti, occorrendo dimostrare il titolo di acquisto della comunione, in base al quale il bene e stato attribuito in sede di divisione» (Cass. n. 1930/1966; n. 1511/1979; n. 3724/1987). Si ha cura di precisare che il principio opera quando l’atto è fatto valere fuori dalla cerchia dei condividenti o loro aventi causa, mentre non può essere applicato nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, perché la divisione, la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione dei beni divisi, presuppone l’appartenenza dei beni alla comunione (Cass. n. 4828/1994).
b) In secondo luogo, la Suprema Corte ha chiarito che non si può escludere a priori la rilevanza della non contestazione e, a fortiori, dell’esplicito o implicito riconoscimento dell’appartenenza dei beni ai coeredi (Cass. n. 40041/2021). Con questo, naturalmente, non si intende sostenere che la divisione immobiliare possa farsi “sulla parola”, ma più limitatamente che, in una situazione nella quale la comune proprietà dei beni dividendi, nel significato sopra chiarito, sia incontroversa, non si potrebbe disconoscere la possibilità della prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico (cfr. Cass. n. 21716/2020), tenuto conto, appunto, che non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda che vede le parti in contrapposizione fra loro (Cass. n. 1065/2022). La domanda di divisione, infatti, anche quando sia proposta da uno solo, è sempre comune a tutti i condividenti (Cass. n. 6105/1987; n. 15504/2018), i quali sono tutti sul medesimo piano ed hanno tutti eguale diritto alla divisione (Cass.n.4353/1980). Pertanto, le verifiche condotte dall’ausiliario d’ufficio ridondano a vantaggio della collettività dei condividenti, così come andrebbe a svantaggio di tutti una acquisizione postuma, anche se operata d’ufficio dal consulente, dal quale emergesse che la proprietà comune, non contestata o desunta a livello indiziario, non trova conferma sul piano documentale (Cass. n. 40041/2021)>>.

Errato e probab. non pertinente è però il riferimento alla non traslatività della divisione, la quale va invece ritenuta esistente (irrilevante è l’appoggio alla retroattività disposta di imperio, mera fictio iuris).

L’assegnazione divisoria del bene non comodamente divisibile ad uno o più coeredi presuppone la loro richiesta (sull’art. 720 c.c.)

Cass. sez. VI del 15.12.2022, n° 36.736, rel. Tedesco, sul tema insegna che:

– Nell’art. 720 c.c., <<applicabile allo scioglimento di ogni tipo di comunione oltre quella ereditaria, la vendita si pone con evidenza come ultima ratio (Cass. n. 14756/2016; n. 5679/2004), cui si potrà far ricorso solo se non ci sia neanche un condividente richiedente l’assegnazione dell’immobile indivisibile, non importa se titolare di una quota uguale o minore di quella degli altri.

In presenza di più richiedenti, la legge pone una preferenza in favore del titolare della maggior quota, che non esclude che il giudice possa attribuire il bene ad altro coerede, titolare di una quota minore, quando ciò gli sembri più consono all’interesse di condividenti (Cass. n. 6469/1982; n. 4775/1983; n. 7716/1990; n. 8629/1998; n. 22857/2009; n. 7869/2019; n. 24832/2019). In assenza di richieste di attribuzione, formulate dal singolo o da condividenti raggruppati, si apre inevitabilmente la via della vendita, dovendosi escludere che i poteri discrezionali attribuiti al giudice della divisione dall’art. 720 c.c. si estendano fino all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente che non ne abbia fatto esplicita richiesta, pur se titolare della maggior quota (Cass. n. 11769/1992).    Inoltre, si deve categoricamente escludere che la norna consenta l’attribuzione di una porzione unica a più aventi diritto congiuntamente, contro la loro volontà [prcisazione inutile, essendo già inclusa nella frase precedente] . E’ principio acquisito che il c.d. il raggruppamento parziale delle porzioni, vale a dire la divisione in lotti nell’interno dei quali si stabilisca una nuova comunione fra taluni condividenti, in tanto è possibile, in quanto vi sia il consenso degli interessati, cioè di coloro che faranno parte della nuova comunione (Cass. n. 20250/2016; n. 5222/1978; n. 489/1966).>>

– <<Deve piuttosto rimarcarsi come sia possibile che le soluzioni previste per il caso di indivisibilità si rendano necessarie non solo per uno ma per più beni della massa o al limite per tutti gli immobili oggetto di comunione, che saranno o venduti o compresi, allorché sarà predisposto il progetto, nelle porzioni dei richiedenti, se ci sono.>>

– principio di diritto, allora: ell’ambito della normativa di cui all’art. 720 c.c., l’espressa e specifica istanza dei condividente interessato assurge ad imprescindibile presupposto dell’attribuzione, dovendosi escludere che i poteri discrezionali attribuiti al giudice della divisione dalla citata norma si estendano fino all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente che non ne abbia fatto esplicita richiesta, pur se titolare della maggior quota; analogamente, accertata la non comoda divisibilità di uno o più immobili ereditari, l’inclusione di essi nelle porzioni di più coeredi non può avere luogo se costoro non ne abbiano richiesta congiuntamente l’attribuzione, essendo in linea di principio vietato il c.d. raggruppamento parziale delle porzioni, cioè la divisione in lotti nell’interno dei quali si stabilisca comunione fra gruppi di condividenti, allorché non vi sia il consenso di costoro”.

Tra l’altro, i ricorrenti << a fronte della valutazione di non comoda divisibilità dei beni relitti, non avevano avanzato alcuna richiesta di attribuzione. Essi avevano solo manifestato una generica volontà di aderire alle proposte conciliative dell’attore, ma sempre condizionatamente al fatto che a loro carico non fosse posto alcun conguaglio>>.