Azione di riduzione da parte dell’legittimario pretermesso, acquisto della qualità ereditaria ed azione per la divisione dei beni caduti in successione

Cass. sez. II del 08/11/2023 n. 31.125, rel. Criscuolo, ci fa ripassare alcuni principi  consolidati in materia:

<<Rileva a tal fine la circostanza che oggetto dell’azione di riduzione, in quanto lesiva dei diritti di legittimaria dell’attrice, è una disposizione testamentaria del de cuius, con la quale, pretermettendo A., il testatore aveva istituto erede universale il solo figlio maschio.

Tenuto, quindi, conto della massa ereditaria, per effetto delle operazioni di riunione fittizia (queste sì da compiere sulla base della stima dei beni alla data di apertura della successione), si è escluso che la lesione derivasse dalle donazioni pur compiute in vita in favore del convenuto (trattandosi di donazioni che per il loro ammontare gravavano sulla disponibile), ed è stato invece appurato che a risultare lesiva era proprio l’istituzione di erede universale, che andava ridotta, e quindi resa inefficace nei confronti dell’attrice, nei limiti in cui era necessario assicurarle quanto dovuto a titolo di quota di riserva (in quanto ancora insoddisfatta all’esito dell’imputazione delle liberalità a sua volta ricevute in vita dall’attrice).

In presenza di un’istituzione di erede universale ovvero per quote astratte dell’intero patrimonio, il legittimario pretermesso non è erede al momento di apertura della successione, ma lo diviene solo una volta esperita vittoriosamente l’azione di riduzione.

Inoltre, se ai sensi dell’art. 560 c.c., nel caso in cui la riduzione abbia ad oggetto disposizioni a titolo di legato ovvero donazioni (ed in via estensiva istituzioni ex certa re), l’effetto della riduzione è quello di rendere efficace solo la disposizione che abbia avuto ad oggetto il singolo bene, attribuendolo per intero al legittimario (ove la lesione travolga per intero l’attribuzione) ovvero rendendolo comune fra beneficiario e legittimario, nei limiti necessari ad assicurare la reintegra dei diritti del secondo, nel diverso caso in cui la lesione derivi da una disposizione di erede a titolo universale, l’effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione è quello di far acquisire al legittimario la qualità di erede su tutti i beni caduti in successione, ovvero a creare una comunione su quelli oggetto di liberalità ove a loro volta idonei a determinare la lesione, con il riconoscimento sui primi di una quota indivisa pari all’ammontare della legittima ancora insoddisfatta, ragguagliata al valore del relictum.

Già in passato questa Corte ha ricordato come le disposizioni testamentarie lesive della legittima non siano nulle né annullabili ma, sino a quando esse non vengano impugnate con l’azione di riduzione, conservano la loro piena efficacia. Di conseguenza, ove il de cuius abbia distribuito, con il testamento alle persone in questo indicate, tutto il suo patrimonio, mediante disposizioni a titolo universale o particolare, pretermettendo alcuni legittimari, questi non partecipano, de iure, alla comunione per il semplice fatto che si è aperta la successione testamentaria, giacché il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. Il legittimario, pertanto, non può chiedere la divisione dei beni lasciati dal de cuius, senza aver prima esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie. Inoltre, per ragioni di economia processuale, è tuttavia consentito, in ipotesi del genere, che le azioni di riduzione e di divisione siano proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 1206/1962; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 160/1970; Cass. n. 2367/1970).

Il principio è stato anche di recente ribadito, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 19284/2019; Cass. n. 4140/1992).

Alla base di tale principio si pone la premessa che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione e concorre poi alla comunione dei beni relitti, secondo una quota di entità corrispondente al valore della quota di riserva non soddisfatta, così che, ove i beni relitti, assegnati per testamento in maniera universale ad altri soggetti, siano di entità superiore alla quota di riserva, sugli stessi si instaura una comunione secondo le quote da determinare in base ai criteri esposti, comunione che può essere sciolta subito dopo l’accoglimento dell’azione di riduzione e nello stesso giudizio, alla luce delle esigenze di economia processuale, alle quali i precedenti richiamati fanno riferimento.

In ipotesi, peraltro, il legittimario ben potrebbe accontentarsi solo di esercitare l’azione di riduzione, al fine di conseguire il riconoscimento della titolarità pro quota dei beni caduti in successione ed assegnati ad altri per testamento, salvo poi decidere in un secondo momento di chiederne la divisione.

Ne consegue che, tenuto conto di quanto statuito dal Tribunale di Termini Imerese nella sentenza appellata, a fronte di una massa di beni relitti (e quindi con esclusione di quelli donati), pari ad Euro 1.980.062,99 (cfr. pag. 23), essendo la quota di legittima ancora non soddisfatta dell’attrice pari ad Euro 409.078,82 (cfr. pag. 25), sui beni relitti l’attrice ha acquisito una quota ideale pari al 20,66% (409.078,82: 1.980.062,99 = x: 100; x = 409.078,82-100/1.980.062,99= 20,66).

Risulta quindi pertinente rispetto all’ipotesi oggetto di causa il richiamo effettuato dalla difesa della ricorrente a quanto affermato da Cass. n. 2975/1991, secondo cui, ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli artt. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell’asse ereditario al tempo dell’apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell’art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conf. Cass. n. 739/1977).

Infatti, una volta appurata l’entità della lesione e la necessità quindi di ridurre la disposizione testamentaria a titolo universale, insorge, per effetto proprio dell’accoglimento della riduzione, una comunione tra erede istituito e legittimario, secondo le quote come sopra individuate, comunione per il cui scioglimento valgono le regole ordinariamente dettate, tra cui proprio la previsione di cui all’art. 726 c.c., in ordine alla necessità di attualizzazione della stima dei beni alla data dell’effettivo scioglimento>>.

E poi:

<<La logica che sottende la soluzione alla quale il Collegio intende aderire è sostanzialmente la medesima che è alla base dell’altrettanto pacifico orientamento secondo cui, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso, sicché quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinché ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 7478/2000).

Una volta acquisita la qualità di erede, o meglio di coerede, per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione, tale qualità reca con sé anche la necessità di poter avvantaggiarsi degli eventuali incrementi di valore dei beni in relazione ai quali è stata riconosciuta la contitolarità, in vista del soddisfacimento della quota di riserva, ovvero, ed è caso non infrequente nei periodi in cui il mercato immobiliare subisca delle crisi, di subire le conseguenze del deprezzamento dei beni stessi>>.

Principio di diritto:

<<In caso di pretermissione del legittimario per effetto di istituzione di erede a titolo universale, a seguito dell’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione sui beni relitti ovvero recuperati per effetto sempre dell’azione di riduzione, viene a determinarsi una situazione di comunione tra l’erede istituito ed il legittimario nella quale la quota del primo è corrispondente al valore della quota di legittima non soddisfatta determinata in proporzione al valore dell’intera massa, il tutto secondo la stima compiuta alla data di apertura della successione; tuttavia ove debba procedersi alla divisione della comunione così insorta, la stima dei beni in vista delle operazioni divisionali deve essere aggiornata alla luce del mutato valore dei beni tra la data di apertura della successione e quella di effettivo scioglimento della comunione>>.

Il tempo di riferimento per la determinazione della quota di legittima (apertura della successione) è diverso da quello per la formazione delle quote per la divisione ereditaria (tempo della divisione)

Cass. sez. 2 del 8 novembre 2023 n. 31.125, rel. Criscuolo:

premessa:

<<Già in passato questa Corte ha ricordato come le disposizioni testamentarie lesive della legittima non siano nulle né annullabili ma, sino a quando esse non vengano impugnate con l’azione di riduzione, conservano la loro piena efficacia. Di conseguenza, ove il de cuius abbia distribuito, con il testamento alle persone in questo indicate, tutto il suo patrimonio, mediante disposizioni a titolo universale o particolare, pretermettendo alcuni legittimari, questi non partecipano, de iure, alla comunione per il semplice fatto che si è aperta la successione testamentaria, giacché il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. Il legittimario, pertanto, non può chiedere la divisione dei beni lasciati dal de cuius, senza aver prima esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie. Inoltre, per ragioni di economia processuale, è tuttavia consentito, in ipotesi del genere, che le azioni di riduzione e di divisione siano proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 1206/1962; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 160/1970; Cass. n. 2367/1970).

Il principio è stato anche di recente ribadito, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 19284/2019; Cass. n. 4140/1992).

Alla base di tale principio si pone la premessa che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione e concorre poi alla comunione dei beni relitti, secondo una quota di entità corrispondente al valore della quota di riserva non soddisfatta, così che, ove i beni relitti, assegnati per testamento in maniera universale ad altri soggetti, siano di entità superiore alla quota di riserva, sugli stessi si instaura una comunione secondo le quote da determinare in base ai criteri esposti, comunione che può essere sciolta subito dopo l’accoglimento dell’azione di riduzione e nello stesso giudizio, alla luce delle esigenze di economia processuale, alle quali i precedenti richiamati fanno riferimento.

In ipotesi, peraltro, il legittimario ben potrebbe accontentarsi solo di esercitare l’azione di riduzione, al fine di conseguire il riconoscimento della titolarità pro quota dei beni caduti in successione ed assegnati ad altri per testamento, salvo poi decidere in un secondo momento di chiederne la divisione>>.

Poi andando al punto:

<<Risulta quindi pertinente rispetto all’ipotesi oggetto di causa il richiamo effettuato dalla difesa della ricorrente a quanto affermato da Cass. n. 2975/1991, secondo cui, ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli artt. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell’asse ereditario al tempo dell’apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell’art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conf. Cass. n. 739/1977).

Infatti, una volta appurata l’entità della lesione e la necessità quindi di ridurre la disposizione testamentaria a titolo universale, insorge, per effetto proprio dell’accoglimento della riduzione, una comunione tra erede istituito e legittimario, secondo le quote come sopra individuate, comunione per il cui scioglimento valgono le regole ordinariamente dettate, tra cui proprio la previsione di cui all’art. 726 c.c., in ordine alla necessità di attualizzazione della stima dei beni alla data dell’effettivo scioglimento>>.

E poi:
<<La logica che sottende la soluzione alla quale il Collegio intende aderire è sostanzialmente la medesima che è alla base dell’altrettanto pacifico orientamento secondo cui, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso, sicché quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinché ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 7478/2000).

Una volta acquisita la qualità di erede, o meglio di coerede, per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione, tale qualità reca con sé anche la necessità di poter avvantaggiarsi degli eventuali incrementi di valore dei beni in relazione ai quali è stata riconosciuta la contitolarità, in vista del soddisfacimento della quota di riserva, ovvero, ed è caso non infrequente nei periodi in cui il mercato immobiliare subisca delle crisi, di subire le conseguenze del deprezzamento dei beni stessi.

Con l’appello la ricorrente intendeva proprio contestare il criterio con il quale il Tribunale aveva provveduto alla divisione dei beni dei quali la stessa era divenuta contitolare, così che si palesa erronea la risposta fornita dalla sentenza impugnata che ha invece invocato il principio secondo cui la stima andava sempre ed unicamente compiuta in base al valore dei beni alla data di apertura della successione>>.

Finale principio di diritto:

<<In caso di pretermissione del legittimario per effetto di istituzione di erede a titolo universale, a seguito dell’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione sui beni relitti ovvero recuperati per effetto sempre dell’azione di riduzione, viene a determinarsi una situazione di comunione tra l’erede istituito ed il legittimario nella quale la quota del primo è corrispondente al valore della quota di legittima non soddisfatta determinata in proporzione al valore dell’intera massa, il tutto secondo la stima compiuta alla data di apertura della successione; tuttavia ove debba procedersi alla divisione della comunione così insorta, la stima dei beni in vista delle operazioni divisionali deve essere aggiornata alla luce del mutato valore dei beni tra la data di apertura della successione e quella di effettivo scioglimento della comunione>>.

Scioglimento di comunione ereditaria e alienazjone di quota da parte del coerede

In una complessa e lunghissima lite, la SC ricorda ed enuncia i segg. principi (Cass. sez. II del 30 agosto 2023 n. 25.462 , rel. Criscuolo):

<<Occorre preliminarmente sottolineare come le complessive critiche mosse dalla ricorrente non intendano rimettere in discussione il principio affermato da questa Corte nella richiamata ordinanza n. 4428/2018, secondo cui l’atto con il quale vengano alienati i diritti vantati da un condividente su singoli beni immobili facenti parte di una più ampia comunione (nella specie ereditaria), non ha efficacia immediatamente traslativa in favore dell’acquirente, ma conservi un’efficacia solo obbligatoria, essendo quella traslativa subordinata al fatto che poi il bene interessato dalla cessione risulti effettivamente assegnato alla quota dell’alienante, all’esito della divisione (conf. Cass. n. 2701/2019). Le censure, tuttavia, mirano nel loro insieme a contrastare la diversa affermazione, che sorregge la decisione gravata, secondo cui i beni interessati dall’atto del 1 luglio del 1994 non esaurirebbero l’intero asse ereditario, occorrendo quindi ricostruire la volontà delle parti come idonea, nonostante il riferimento a singoli beni immobili, a determinare il trasferimento dell’intera quota ereditaria vantata dalla V. sulla successione del coniuge, nonché (ed è questione che è oggetto dell’ottavo motivo di ricorso), i diritti vantati sui medesimi beni sul presupposto di esserne divenuta titolare per effetto del regime della comunione legale.

Pertanto, come anche affermato in tema di idoneità dell’atto, avente ad oggetto la cessione di quote su singoli immobili, a determinare una cessione della quota ereditaria ai fini dell’applicazione dell’art. 732 c.c., va ribadito che la cessione a terzi estranei di diritti su singoli beni immobili ereditari non comporta lo scioglimento – neppure parziale – della comunione, in quanto i diritti continuano a fare parte della stessa comunione, restando l’acquisto del terzo subordinato all’avveramento della condizione che essi siano in sede di divisione assegnati all’erede che li abbia ceduti. Ne consegue che, se un coerede può alienare a terzi in tutto o in parte la propria quota, tanto produce effetti reali se e in quanto l’acquirente venga immesso nella comunione ereditaria, mentre in caso diverso la vendita avrà soltanto effetti obbligatori, salvo che la vendita non abbia avuto a presupposto un atto di scioglimento della comunione ereditaria, anche implicito, in ordine a tali beni (Cass. n. 3385/2007).

Inoltre, è stato precisato che l’indagine del giudice di merito diretta ad accertare, ai fini dell’ammissibilità del retratto successorio, se la vendita compiuta da un coerede abbia avuto per oggetto la quota ereditaria (o una sua frazione) ovvero beni determinati, costituisce un apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 97/2011; Cass. n. 246/1985; Cass. n. 661/1982).

In questo senso va richiamato l’orientamento per cui (Cass. n. 26051/2014) solo nel caso di vendita da parte di uno dei coeredi di bene ereditario che costituisce l’intera massa, l’effetto traslativo dell’alienazione non resta subordinato all’assegnazione in sede di divisione della quota all’erede alienante, dal momento che costui è proprietario esclusivo della frazione ideale di cui può liberamente disporre, sicché il compratore subentra, “pro quota”, nella comproprietà del bene comune, e che solo in tal caso si presume che l’alienazione concerna la quota che lo riguarda, intesa come porzione ideale dell'”universum ius defuncti”, sicché il coerede può esercitare il diritto di prelazione ex art. 732 c.c. (Cass. n. 8692/2016)>>.

Su collazione e riduzione delle donazioni (e sulla loro reciproca differenza)

Importanti insegnamenti da Cass. sez. II,  4 luglio 2023 n. 18.841, rel Scarpa (segnalazine e testo da Ondif) sul sempre scivoloso tema del rapporto tra collazione e riduzione per lesione di legittima:

<<5.1. Secondo consolidata interpretazione di questa Corte, la collazione presuppone l’esistenza di una comunione ereditaria e, quindi, di un asse da dividere, sia pure di modico valore (nella specie, al momento dell’apertura della successione, costituito dal saldo di un conto corrente bancario aperto presso la Banca della Bergamasca: pagina 14 della sentenza impugnata), giacchè se manchi un relictum, non vi è luogo a divisione e, quindi, neppure a collazione, salvo l’esito dell’eventuale azione di riduzione.
In tema di divisione ereditaria, l’istituto della collazione, che, in presenza di donazioni (dirette e indirette) fatte in vita dal de cuius e salva apposita dispensa di quest’ultimo, impone il conferimento del bene che ne è oggetto in natura o per imputazione, ha la finalità di assicurare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti nella formazione della massa ereditaria, così da non alterare il rapporto di valore tra le varie quote determinate attraverso la sommatoria del relictum e del donatum al momento dell’apertura della successione, sicchè il relativo obbligo sorge automaticamente in seguito ad essa, senza necessità di proporre espressa domanda da parte del condividente, essendo a tal fine sufficiente che sia chiesta la divisione del patrimonio relitto e che sia menzionata, in esso, l’esistenza di determinati beni quali oggetto di pregressa donazione. Tuttavia, in caso di donazione indiretta, è pregiudiziale all’obbligo di collazione la proposizione della domanda di accertamento dell’esistenza della stessa (da ultimo, Cass. n. 23403 del 2022).
5.2. Avendosi nel caso in esame riguardo ad una divisione tra legittimari – da operarsi, invero, fra i quattro figli della de cuius – non occorreva affatto proporre azione di riduzione della donazione indiretta oggetto di lite (quella collegata alla sottoscrizione in data (Omissis) di un fondo d’investimento da parte della de cuius del valore di Lire 386.025.295, poi trasferito in data (Omissis) a A.A. e B.B., neppure essendo stata dedotta alcuna prova della volontà della donante di sottrarre la donazione all’obbligo della collazione). Il meccanismo della collazione e dei prelievi è infatti sufficiente a ricondurre le situazioni soggettive dei condividenti alla legge, rimanendo annullato l’effetto della donazione: perciò correttamente la Corte di Brescia, essendo stata proposta da C.C., + Altri Omessi azione di divisione ereditaria tra eredi legittimari, ha fatto applicazione della collazione (art. 737 c.c.), in virtù della quale i beni donati devono essere compresi o conferiti, insieme al relictum, nella massa attiva del patrimonio ereditario, ed avente la funzione di conservare tra gli eredi stessi la proporzione stabilita nel testamento o nella legge, permettendo la divisione tra i coeredi in proporzione delle quote a ciascuno spettanti, in maniera da assicurare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti, indipendentemente dall’esperimento dell’azione di riduzione (che nel caso in esame non poteva effettivamente dirsi proposta con la mera allegazione relativa alla “violazione delle quote di riserva attoree”) (ex multis, Cass. n. 2004 del 21896; n. 15131 del 2005; n. 3013 del 2006; n. 1408 del 2007; n. 41132 del 2021).
Si spiega così che mentre la riduzione sacrifica i donatari nei limiti di quanto occorra per reintegrare la legittima lesa ed è quindi imperniata sul rapporto fra legittima e disponibile, la collazione, nei rapporti indicati nell’art. 737 c.c., pone il bene donato, in proporzione della quota ereditaria di ciascuno, in comunione fra i coeredi che siano il coniuge o discendenti del de cuius, donatario compreso, senza alcun riguardo alla distinzione fra legittima e disponibile.
5.3. Nondimeno, la collazione può comportare di fatto l’eliminazione di eventuali lesioni di legittima, consentendo agli eredi legittimi di conseguire nella divisione proporzioni uguali; il che non esclude che il legittimario possa contestualmente esercitare l’azione di riduzione verso il coerede donatario, atteso che solo l’accoglimento di tale domanda assicura al legittimario leso la reintegrazione della sua quota di riserva con l’assegnazione di beni in natura, privando i coeredi della facoltà di optare per l’imputazione del relativo valore. Al contempo, e in modo speculare, deve riconoscersi che l’azione di riduzione, una volta esperita, non esclude l’operatività della collazione con riguardo alla donazione oggetto di riduzione, fermo restando che mentre la collazione, ove richiesta in via esclusiva, comporta il rientro del bene donato nella massa, senza riguardo alla distinzione fra legittima e disponibile, nel caso di concorso con l’azione di riduzione essa interviene in un secondo tempo, dopo che la legittima sia stata reintegrata, al fine di redistribuire l’eventuale eccedenza, e cioè l’ulteriore valore della liberalità che esprime la disponibile (Cass. n. 28196 del 2020 ; Cass. n. 39368 del 2021 ).
5.4. Anche, del resto, nelle ipotesi in cui sia attribuita al coerede donatario la facoltà di scelta tra il conferimento in natura ed il conferimento per imputazione (art. 746 , comma 1, c.c.), si intende che la stessa spetti pure allorchè il valore del bene donato sia superiore al valore della rispettiva quota ereditaria. L’art. 746 c.c. trova, invero, di regola applicazione nei casi in cui il valore del bene donato sia inferiore, o al massimo uguale al valore della quota spettante al donatario, giacchè se il primo valore sia superiore al secondo il medesimo donatario, chiamato alla successione insieme a coeredi aventi diritto alla collazione, ben può preferire di rinunziare all’eredità e così sottrarsi così all’obbligo della collazione della donazione ricevuta. La norma non può, viceversa, interpretarsi nel senso che il donatario, che conferisce per imputazione, possa trattenere la differenza tra il valore della donazione ricevuta ed il valore della sua quota ereditaria: egli deve, comunque, “imputare alla sua quota” il valore della donazione ricevuta sino a concorrenza del valore della quota stessa, e versare alla massa l’equivalente pecuniario dell’eccedenza.
La conclusione è che, quando il coerede donatario preferisce la collazione per imputazione o deve necessariamente conferire per imputazione, la collazione non produce la risoluzione della donazione, ed il coerede trattiene i beni in forza di questa, sorgendo a suo carico soltanto l’obbligo di conferire nella massa il relativo equivalente pecuniario. Tale conferimento, che di regola opera mediante proporzionale riduzione della massa su cui il donatario può far valere il suo diritto alla quota, assume concretezza per l’eventuale eccedenza del valore dei beni donati rispetto al valore della quota stessa, in quanto per tale frazione il coerede è tenuto all’effettivo versamento dell’equivalente pecuniario, ovvero alla corresponsione di un “debito di conguaglio”, in senso improprio, da determinarsi ai sensi dell’art. 747 c.c.; l’eccedenza è così versata nell’asse ed è prelevata dai non donatari insieme alla totalità dei beni compresi nella successione, e l’una e gli altri vengono ripartiti in ragione delle quote di ognuno>>.

Riunione fittizia, imputazione ex se e collazione: reciproche differenze per stabilire se serva domanda riconvenzionale o se basti eccezione da parte del convenuto

Utili precisazioni da Cass. sez. 2 n° 9813 del 13 aprile 2023, rel. Tedesco, sul non sempre facile tema in oggetto (almeno per i non specialisti di diritto successorio):

<Intanto la similitudine fra collazione e riunione fittizia, ravvisata fra collazione e riunione fittizia, non sussiste. Senza che sia minimamente utile indugiare sui molteplici profili distintivi fra i due istituti, giova solo rimarcare che la collazione rimane sempre distinta dalla riunione fittizia delle donazioni prevista dall’art. 556 c.c., anche quando sia fatta per imputazione. Entrambe lasciano i beni donati nel patrimonio del donatario, ma mentre la riunione fittizia resta comunque una pura operazione contabile, da cui non deriva alcuna alterazione nel patrimonio del donatario, se non sia lesa la legittima, la collazione, anche quando sia attuata per imputazione, si traduce comunque in un sacrificio a carico del conferente, il quale subisce il maggior concorso dei coeredi sui beni relitti (così testualmente Cass. n. 28196/2020)>.

sulla imputazione ex se: <L’onere di imputazione importa che le disposizioni in favore degli altri saranno lesive e quindi riducibili in quanto intacchino non già la legittima che sarebbe spettata al legittimario, ma il valore costituente la differenza fra il valore della legittima e quello delle liberalità. Quando il legittimario abbia ricevuto, in donazione o legato, un valore superiore, o pari, al valore della quota legittima, l’onere di imputazione esclude qualsiasi ulteriore prelievo>.

sulla differenza di questa dalla collazione: << Tralasciando i molteplici profili di distinzione fra collazione e imputazione ex se, ai fini che interessano in questa sede, è sufficiente sottolineare che l’imputazione ex se differisce dalla collazione anzitutto per lo scopo: la collazione pone il bene donato (o il suo valore) in comunione fra i coeredi, l’imputazione invece serve a fare rispettare le liberalità fatte dal defunto e a restringere l’esercizio della riduzione nei limiti dello stretto necessario. Si capisce quindi che, mentre colui che chiede la collazione mira, comunque, a imporre un sacrificio al donatario, in quanto pretende di concorrere anche sulla donazione o sul suo valore, colui che fa valere una donazione ai fini della imputazione ex se non chiede nessun provvedimento positivo in danno del donatario. Egli pretende solo che l’azione di riduzione, sperimentata dal legittimario, sia contenuta nei limiti della differenza fra la legittima, calcolata con il procedimento di riunione fittizia, e la liberalità già ricevuta, che rimane sempre e comunque integra nelle mani del donatario. Emerge qui un ulteriore profilo distintivo fra imputazione ex se e collazione, anche quando questa sia fatta per imputazione. In base all’imputazione ex se, se il valore della donazione pareggia o supera il valore della legittima, è escluso il diritto del legittimario di far ridurre le liberalità altrui: l’azione di riduzione sarà rigettata per effetto dell’imputazione, ma questa, di per sé, non espone il donatario ad alcuna conseguenza. Anche nel caso in cui l’eccedenza sia tale da determinare una lesione in danno di altro dei legittimari, il sacrificio del donatario non è un effetto dipendente dall’imputazione ex se, ma suppone l’esercizio dell’azione di riduzione da parte del legittimario leso. Diversamente, nella collazione per imputazione, se il valore della donazione supera quello della quota ereditaria, il donatario è tenuto a versare ai coeredi l’equivalente pecuniario dell’eccedenza; che in questo caso non significa che la misura della donazione comprende parte dei beni che sono necessari a completare la misura della quota di riserva, come avviene per la riduzione, ma sta solo ad indicare che il donatario ha ricevuto di più di quanto a lui spetta nel concorso con gli altri condividenti, come lui discendenti del de cuius (Cass. n. 1481/1979; n. 28196/2020)>>.

IN altre parole, <<chi fa valere una donazione ai fini della imputazione ex se da parte dell’attore in riduzione, mira solo al rigetto della domanda o al suo accoglimento in misura minore. A questi effetti, anche nel caso in cui la donazione di cui il convenuto pretenda l’imputazione sia una donazione indiretta, della quale occorra accertare l’esistenza, è sufficiente la proposizione di una semplice eccezione, in quanto il “fatto” rimane comunque diretto a provocare il rigetto dell’altrui pretesa, in conformità alla finalità tipica dell’eccezione (Cass. n. 9044/2010; n. 14852/2013)>>.

Donazioni oppure adempimento di obbligo contributivo dovuto alla convivenza?

Cass. sez. II, Ord., 4 luglio 2023, n. 18814, rel. Scarpa :

<<al fine di ravvisare presuntivamente la sussistenza di plurime donazioni di somme di denaro fatte dalla madre alla figlia convivente, soggette all’obbligo di collazione ereditaria ed alla riduzione a tutela della quota di riserva degli altri legittimari, tratte dalla differenza tra i redditi percepiti dalla de cuius durante il periodo di convivenza e le spese ritenute adeguate alle condizioni di vita della stessa, occorre considerare altresì in che misura tali elargizioni potessero essere giustificate dall’adempimento di obbligazioni nascenti dalla coabitazione e dal legame parentale, e dunque accertare che ogni dazione fosse stata posta in essere esclusivamente per spirito di liberalità.>>

La SC precisa ancbe <<5.2. Non sono soggette, peraltro, a collazione nè alla riduzione a tutela della quota riservata ai legittimari le attribuzioni o elargizioni patrimoniali senza corrispettivo operate in favore di persona convivente (nella specie, si assume, fatte dalla madre, morta a 98 anni, in favore della figlia con lei unica convivente nel corso di ventiquattro anni), ove non sia accertato che le stesse fossero state poste in essere per spirito di liberalità, e cioè con la consapevole determinazione dell’arricchimento del beneficiario, e non invece per adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza.
Sono, viceversa, soggette a collazione le donazioni di modico valore fatte da un genitore ad un figlio, non operando al riguardo l’eccezione delineata per il coniuge dall’art. 738 c.c. (Cass. n. 2700 del 2019)>>.

(notizia e testo della sentenza da Ondif)

La prova del diritto di comproprietà nel giudizio divisionale è attenuato rispetto ad una domanda di rivendica

Per cui non è applicabile l’art. 567 c. 2 CPC e quindi non è necessaria la produzione documentale ivi menzionata.

così Cass. sez. 6 del 2 marzo 2023 n. 6228 rel. Tedesco.

Riporto due passaggi:

<<a) In primo luogo, la Suprema Corte (Cass. n. 10067-2020, ampiamente richiamata in ricorso e precedente alla sentenza impugnata), pur condividendo l’esigenza che, nel giudizio di divisione ereditaria, occorra offrire la dimostrazione dell’appartenenza dei beni al de cuius o più genericamente la prova della comproprietà (cfr. Cass. n. 1965-2022), ha precisato, sulla scorta di risalenti principi, che, pure in presenza di contestazioni dei coeredi, non grava a carico dell’attore l’onere di quella prova rigorosa richiesta nel caso di azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento positivo della proprietà, “poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa, quali coeredi” (Cass. n. 1309-1966)>>

E quello sul rapporto tra l’art. 1113 cc e la trascrizione ex art. 2646 cc:

<<In sesto luogo, la Suprema Corte ha anche approfondito il rapporto fra l’art. 1113 e l’art. l’art. 2646 c.c., che preveda la trascrizione della divisione che ha per oggetto beni immobili, precisando innanzitutto che non è applicabile alla divisione il principio prior in tempore nella sua funzione tipica quale emerge dagli artt. 2644 e 2914, n. 1, c.c. Correlativamente la trascrizione della domanda di divisione va curata non per gli effetti previsti dagli artt. 2652 e 2653 c.c., ma per gli effetti enunciati nell’art. 1113 c.c., norma che in verità disciplina non solo gli effetti della trascrizione della domanda di divisione, ma anche quelli della trascrizione della stessa divisione (Cass. n. 26692/2020). Pertanto, colui che trascrive o iscrive contro uno dei comproprietari, prima della trascrizione della divisione (o della domanda di divisione giudiziale), non rafforza definitivamente il proprio acquisto secondo lo schema dell’art. 2644 c.c., ma, nel concorso delle condizioni previste dall’art. 1113 c.c., acquisisce il diritto di impugnare la divisione già eseguita alla quale non sia stato chiamato a partecipare, o di disconoscerne immediatamente l’efficacia, se l’omissione è incorsa in danno dei soggetti indicati nel comma 3 della norma. E’ stato opportunamente precisato che l’impugnativa è data a chi abbia interesse a una nuova divisione e abbia avuto un danno dalla vecchia.

L’inefficacia, perciò, non potrebbe essere fatta valere da chi non ha avuto pregiudizio dall’atto (in questo senso, con riferimento a un profilo specifico riguardante il processo esecutivo, Cass. 10653/2014).

E’ stato anche chiarito che la preventiva trascrizione della domanda giudiziale non mette fuori causa le conseguenze della retroattività dell’acquisto destinato a realizzarsi con la divisione con riferimento ai diritti reali, di godimento o di garanzia, costituiti dal comunista sulla propria quota: in forza della retroattività, questi diritti colpiscono di massima soltanto la cosa di cui egli risulti con la divisione proprietario. La regola è espressamente ribadita nel comma 1 dell’art. 2825 c.c. per l’ipoteca presa contro il singolo comproprietario, che produce effetto rispetto ai beni o a quella porzione di beni che a lui verranno assegnati nella divisione. Pertanto, l’ipoteca iscritta contro un solo condomino, seppure operata dopo la trascrizione della domanda di divisione, è ancora ipoteca su beni comuni. Si trasferirà perciò sul diverso bene assegnato o sui conguagli, solo che non beneficia dell’onere di chiamata (Cass. n. 19550/ 2009; n. 1270/1967).

g) Ancora sul tema della trascrizione, è stato chiarito che vale anche nella divisione giudiziale la regola generale che l’obbligo della trascrizione di determinate domande giudiziali è posto a salvaguardia degli eventuali diritti dei terzi ed il suo mancato adempimento non è di ostacolo alla procedibilità delle relative azioni né alla decisione delle domande stesse, potendo soltanto dar luogo a sanzioni di carattere fiscale se ed in quanto applicabili (Cass. n. 1787/1976). Naturalmente, secondo le regole generali, il difetto di trascrizione della domanda giudiziale non impedisce la successiva trascrizione del provvedimento definitivo (sentenza o ordinanza) con il quale è attuato il riparto. Peraltro, non operando la prenotazione, gli effetti divisori non saranno opponibili ai creditori e aventi causa che avranno iscritto o trascritto l’acquisto anche dopo l’inizio del giudizio e fino alla trascrizione del provvedimento giudiziale. Costoro si troveranno nella stessa posizione di coloro che avevano acquistato e trascritto prima che la divisione giudiziale avesse inizio (art. ex art. 1113, comma 3, c.c.) (Cass. n. 10067/2020).

Si ritiene comunemente che la trascrizione della divisione, oltre che per gli effetti previsti dall’art. 1113 c.c., sia poi richiesta ai fini della continuità di cui all’art. 2650 c.c. (Cass. n. 2800/1985; Cass. n. 821/2000, che richiama il medesimo principio per la trascrizione della domanda giudiziale di divisione)>>

Onere del coerede di eccepire al creditore la propria responsabilità parziaria per i debiti del de cuius

Cass. sez. III del 3 febbraio 2023 n. 3391, rel. Spaziani:

<<Va rilevato che l’argomentazione con cui viene dedotto il carattere parziario dell’obbligazione di ciascun erede non costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto, e dunque il motivo in esame non può essere giudicato inammissibile per non avere la ricorrente provato di averla tempestivamente sollevata nel giudizio di merito.

Non trova applicazione, infatti, nella fattispecie, il consolidato principio, richiamato anche dal Procuratore Generale, che impone di interpretare l’art. 754 c.c., nel senso che il coerede convenuto per il pagamento di un debito ereditario ha l’onere di indicare al creditore questa sua condizione di coobbligato passivo, entro i limiti della propria quota (Cass. 05/05/1997 n. 7216; Cass. 12/07/2007 n. 15592; Cass. 31/03/2015 n. 6431; Cass. 13/08/2020, n. 17122).

L’onere di formulare tale dichiarazione, che integra gli estremi dell’istituto processuale della eccezione propria (con la conseguenza che la sua mancata proposizione consente al creditore di chiedere legittimamente il pagamento per l’intero), sussiste, infatti, allorché il creditore abbia agito direttamente nei confronti del coerede chiedendone la condanna al pagamento di un debito o peso ereditario, nel qual caso costituiscono fatti impeditivi della pretesa del creditore (che il convenuto ha l’onere di dedurre tempestivamente sollevando la relativa eccezione) le circostanze relative all’esistenza di altri coeredi e alla divisione pro quota del debito ereditario.

Il predetto onere, invece, non sussiste nella diversa ipotesi in cui la qualità di erede e la conseguente legittimazione a stare in giudizio in tale qualità siano sopravvenute all’inizio del processo introdotto nei confronti del titolare originario della situazione soggettiva passiva oggetto di successiva vicenda successoria, nel qual caso, a seguito della prosecuzione, in confronto della pluralità di eredi, del processo iniziato verso il de cuius, si instaura tra di essi, come già rilevato, una condizione di litisconsorzio processuale necessario.

In questa ipotesi, infatti, il principio nomina et debita hereditaria ipso iure dividuntur costituisce il fondamento stesso della concorrente legittimazione passiva di tutti gli eredi, per modo che trova applicazione il diverso principio – da questa Corte affermato già in epoca risalente e recentemente ribadito (Cass. 16/12/1971, n. 3681; Cass. 22/11/2016, n. 23705) – per cui ciascun erede è tenuto a soddisfare il debito ereditario esclusivamente pro quota, ovverosia in ragione della quota attiva in cui succede, e, pertanto, non può essere condannato in solido con i coeredi al pagamento del debito stesso.

Nella specie, dunque, la ricorrente principale, in qualità di erede insieme con altri – dell’originario responsabile dell’illecito civile, avrebbe dovuto essere condannata, al pari degli altri coeredi debitamente convenuti nel processo, al risarcimento del danno cagionato dal predetto illecito, esclusivamente nei limiti della propria quota>>.

Prova della comproprietà nel giudizio di divisione ereditaria

Cass. ord. sezione sesta-2 del 2 marzo 2023 n. 6228, rel.  Tedesco, dà utili precisazioni circa la prova della titolarità (e altre questioni) nel giudizio di divisione dicomunione ereditaria, di significativa importanza per l’operatore.

Questa la massima tratta da www.ilcaso.it : <<Nei giudizi di scioglimento della comunione, la prova della comproprietà dei beni dividendi non è quella rigorosa richiesta in caso di azione di rivendicazione o di accertamento positivo della proprietà, atteso che la divisione, oltre a non operare alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro condividente, è volta a far accertare un diritto comune a tutte le parti in causa e non la proprietà dell’attore con negazione di quella dei convenuti, sicché, in caso di non contestazione sull’appartenenza dei beni, non può disconoscersi la possibilità di una prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico, siccome ridondanti a vantaggio della collettività dei condividenti>>.

Questi i passi per esteso:

<a) In primo luogo, la Suprema Corte (Cass. n. 10067/2020, ampiamente richiamata in ricorso e precedente alla sentenza impugnata), pur condividendo l’esigenza che, nel giudizio di divisione ereditaria, occorra offrire la dimostrazione dell’appartenenza dei beni al de cuius o più genericamente la prova della comproprietà (cfr. Cass. n. 1965/2022), ha precisato, sulla scorta di risalenti principi, che, pure in presenza di contestazioni dei coeredi, non grava a carico dell’attore l’onere di quella prova rigorosa richiesta nel caso di azione di rivendicazione o di quella di mero accertamento positivo della proprietà, “poiché non si tratta di accertare positivamente la proprietà dell’attore negando quella dei convenuti, ma di fare accertare un diritto comune a tutte le parti in causa, quali coeredi” (Cass. n. 1309/1966). Con la divisione, infatti, si opera la trasformazione dell’oggetto del diritto di ciascuno, da diritto sulla quota ideale a diritto su un bene determinato, senza che intervenga fra i condividenti alcun atto di cessione o di alienazione (Cass. n. 20645/2005). La divisione, in considerazione della sua efficacia retroattiva sancita dagli artt. 757 e 1116 c.c., non opera alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro dei condividenti (Cass. n. 17061/2011), ma lascia ciascuno di essi aventi causa dal de cuius (o più in generale, con riferimento a qualsiasi comunione, dal dante causa dei partecipanti alla comunione medesima). Si spiega con tale natura dell’atto divisionale la regola che divisione non integra titolo astrattamente idoneo all’acquisto della proprietà per gli effetti previsti dall’art. 1159 c.c. (Cass. n. 1976/1983). Inoltre, è principio consolidato nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui, ai fini della prova della proprietà nel giudizio di rivendicazione non può essere sufficiente un atto di divisione, che, per il suo carattere dichiarativo e non costitutivo di diritti, non ha di per sé solo forza probante nei confronti dei terzi del diritto di proprietà attribuito ai condividenti, occorrendo dimostrare il titolo di acquisto della comunione, in base al quale il bene e stato attribuito in sede di divisione» (Cass. n. 1930/1966; n. 1511/1979; n. 3724/1987). Si ha cura di precisare che il principio opera quando l’atto è fatto valere fuori dalla cerchia dei condividenti o loro aventi causa, mentre non può essere applicato nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa, perché la divisione, la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una comunione dei beni divisi, presuppone l’appartenenza dei beni alla comunione (Cass. n. 4828/1994).
b) In secondo luogo, la Suprema Corte ha chiarito che non si può escludere a priori la rilevanza della non contestazione e, a fortiori, dell’esplicito o implicito riconoscimento dell’appartenenza dei beni ai coeredi (Cass. n. 40041/2021). Con questo, naturalmente, non si intende sostenere che la divisione immobiliare possa farsi “sulla parola”, ma più limitatamente che, in una situazione nella quale la comune proprietà dei beni dividendi, nel significato sopra chiarito, sia incontroversa, non si potrebbe disconoscere la possibilità della prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico (cfr. Cass. n. 21716/2020), tenuto conto, appunto, che non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda che vede le parti in contrapposizione fra loro (Cass. n. 1065/2022). La domanda di divisione, infatti, anche quando sia proposta da uno solo, è sempre comune a tutti i condividenti (Cass. n. 6105/1987; n. 15504/2018), i quali sono tutti sul medesimo piano ed hanno tutti eguale diritto alla divisione (Cass.n.4353/1980). Pertanto, le verifiche condotte dall’ausiliario d’ufficio ridondano a vantaggio della collettività dei condividenti, così come andrebbe a svantaggio di tutti una acquisizione postuma, anche se operata d’ufficio dal consulente, dal quale emergesse che la proprietà comune, non contestata o desunta a livello indiziario, non trova conferma sul piano documentale (Cass. n. 40041/2021)>>.

Errato e probab. non pertinente è però il riferimento alla non traslatività della divisione, la quale va invece ritenuta esistente (irrilevante è l’appoggio alla retroattività disposta di imperio, mera fictio iuris).

L’assegnazione divisoria del bene non comodamente divisibile ad uno o più coeredi presuppone la loro richiesta (sull’art. 720 c.c.)

Cass. sez. VI del 15.12.2022, n° 36.736, rel. Tedesco, sul tema insegna che:

– Nell’art. 720 c.c., <<applicabile allo scioglimento di ogni tipo di comunione oltre quella ereditaria, la vendita si pone con evidenza come ultima ratio (Cass. n. 14756/2016; n. 5679/2004), cui si potrà far ricorso solo se non ci sia neanche un condividente richiedente l’assegnazione dell’immobile indivisibile, non importa se titolare di una quota uguale o minore di quella degli altri.

In presenza di più richiedenti, la legge pone una preferenza in favore del titolare della maggior quota, che non esclude che il giudice possa attribuire il bene ad altro coerede, titolare di una quota minore, quando ciò gli sembri più consono all’interesse di condividenti (Cass. n. 6469/1982; n. 4775/1983; n. 7716/1990; n. 8629/1998; n. 22857/2009; n. 7869/2019; n. 24832/2019). In assenza di richieste di attribuzione, formulate dal singolo o da condividenti raggruppati, si apre inevitabilmente la via della vendita, dovendosi escludere che i poteri discrezionali attribuiti al giudice della divisione dall’art. 720 c.c. si estendano fino all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente che non ne abbia fatto esplicita richiesta, pur se titolare della maggior quota (Cass. n. 11769/1992).    Inoltre, si deve categoricamente escludere che la norna consenta l’attribuzione di una porzione unica a più aventi diritto congiuntamente, contro la loro volontà [prcisazione inutile, essendo già inclusa nella frase precedente] . E’ principio acquisito che il c.d. il raggruppamento parziale delle porzioni, vale a dire la divisione in lotti nell’interno dei quali si stabilisca una nuova comunione fra taluni condividenti, in tanto è possibile, in quanto vi sia il consenso degli interessati, cioè di coloro che faranno parte della nuova comunione (Cass. n. 20250/2016; n. 5222/1978; n. 489/1966).>>

– <<Deve piuttosto rimarcarsi come sia possibile che le soluzioni previste per il caso di indivisibilità si rendano necessarie non solo per uno ma per più beni della massa o al limite per tutti gli immobili oggetto di comunione, che saranno o venduti o compresi, allorché sarà predisposto il progetto, nelle porzioni dei richiedenti, se ci sono.>>

– principio di diritto, allora: ell’ambito della normativa di cui all’art. 720 c.c., l’espressa e specifica istanza dei condividente interessato assurge ad imprescindibile presupposto dell’attribuzione, dovendosi escludere che i poteri discrezionali attribuiti al giudice della divisione dalla citata norma si estendano fino all’inclusione d’ufficio dell’immobile indivisibile nella porzione di un condividente che non ne abbia fatto esplicita richiesta, pur se titolare della maggior quota; analogamente, accertata la non comoda divisibilità di uno o più immobili ereditari, l’inclusione di essi nelle porzioni di più coeredi non può avere luogo se costoro non ne abbiano richiesta congiuntamente l’attribuzione, essendo in linea di principio vietato il c.d. raggruppamento parziale delle porzioni, cioè la divisione in lotti nell’interno dei quali si stabilisca comunione fra gruppi di condividenti, allorché non vi sia il consenso di costoro”.

Tra l’altro, i ricorrenti << a fronte della valutazione di non comoda divisibilità dei beni relitti, non avevano avanzato alcuna richiesta di attribuzione. Essi avevano solo manifestato una generica volontà di aderire alle proposte conciliative dell’attore, ma sempre condizionatamente al fatto che a loro carico non fosse posto alcun conguaglio>>.