Interpretazione testamentaria e distinzione tra istituzione di erede (con divisione del testatore) e assegnazione di legato (in sostituzione di legittima)

Cass . sez. II, 11/01/2024  n. 1.149, rel. Pirari:

<<3.2 La censura, pur complicata dalla complessità della sua stesura e dal non necessario frazionamento delle singole argomentazioni, è fondata.

Essa impinge la sentenza impugnata in merito all’interpretazione data alla scheda testamentaria di Gi.Fr. – che, come dalla stessa riportato, aveva lasciato a ciascuno dei quattro figli la nuda proprietà di un cespite specificamente individuato e alla moglie il diritto di usufrutto su ciascuno di essi e la proprietà dei restanti suoi beni -, allorché ha qualificato i lasciti nei confronti dei figli in termini di legato in sostituzione di legittima ex art. 551 cod. civ., anziché di istituzione di erede, arguendolo dall’inciso, pure contenuto nel testamento, secondo cui, in caso di premorienza della moglie, i medesimi beni sarebbero stati devoluti in parti uguali ai figli, e fatto derivare da ciò l’infondatezza dell’azione di riduzione esercitata dalle ricorrenti, non avendo esse rinunciato ai legati ed essendo inammissibile, una volta confluiti i beni nel loro patrimonio, la resipiscenza tardiva sul punto, esercitata, in particolare, attraverso la rinuncia operata solo con la memoria ex art. 183 cod. proc. civ., depositata il 26/4/2013, oltretutto asseritamente prescritta in quanto intervenuta dopo dieci anni dall’apertura della successione del 12 ottobre 2002.

Avverso tali considerazioni, le ricorrenti sono insorte, lamentando, innanzitutto, la violazione delle norme in tema di interpretazione del contratto, quindi insistendo per la qualificazione del lascito in termini di istituzione di erede, con volontà divisoria, come arguibile anche da un atto successivo al testamento che invitava il fratello alla collazione, o, al più, di legato in conto di legittima, con conseguente ammissibilità dell’azione di riduzione senza previa rinuncia al legato, e, a cascata, l’erroneità della statuizione di tardività della rinuncia, anche in ragione dell’affermata e non comprovata, acquisizione del possesso dei beni da parte loro, ancorché contestata e contraddetta dai certificati di residenza, e della prescrizione, siccome decorrente, a loro dire, dalla conoscenza della scheda testamentaria e non dall’apertura della successione.

Orbene, andando con ordine, occorre, in primo luogo, ricordare come, secondo l’insegnamento di questa Corte, nell’interpretazione del testamento il giudice debba accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall’art. 1362 cod. civ., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria, quale sia stata l’effettiva volontà del testatore comunque espressa, badando al significato pratico e concreto delle espressioni usate, al quale deve dare prevalenza rispetto a quello meramente letterale, tenendo presente, nei casi dubbi, il complesso delle disposizioni e quegli elementi estrinseci che siano stati idonei ad influire sulla determinazione della volontà del testatore e a rivelare le ragioni, il contenuto delle disposizioni e le finalità con esse perseguite (Cass., Sez. 2, 26/2/1970, n. 469) e, dunque, considerando congiuntamente, e in modo coordinato, l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale mortis causa, e salvaguardando il rispetto del principio di conservazione del testamento (Cass., Sez. 2, 14/10/2013, n. 23278, Rv. 628013; Cass., Sez. 2, 14/01/2010, n. 468, Rv. 610814; Cass., Sez. 2, 21/02/2007, n. 4022, Rv. 595401).

Andando più nello specifico, è proprio attraverso l’utilizzo delle comuni regole ermeneutiche che va individuata la distinzione tra erede e legatario ai sensi dell’art. 588 cod. civ. e che può ravvisarsi l’istituzione di erede ex re certa allorché la volontà del testatore sia stata quella di attribuire uno o più beni determinati come quota del suo patrimonio e non già come lascito autonomo senza conferimento della qualità di erede, ossia il legato (Cass., Sez. 2, 27/10/1980, n. 5773), tenendo conto che l’assegnazione di beni determinati dà luogo ad una successione a titolo universale qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto oppure ad un legato se egli abbia voluto attribuirgli singoli, individuati, beni (Cass., Sez. 2, 25/10/2013, n. 24163, Rv. 628231; Cass., Sez. 2, 1/03/2002, n. 3016, Rv. 552709).

Peraltro, mentre in base al primo comma dell’art. 588 c.c. l’istituzione di erede va desunta dal contenuto strettamente obiettivo dell’atto, di guisa che la volontà testamentaria, che pur sempre va ricercata, non ha il potere di determinare un’istituzione di erede che prescinda da un preciso rapporto con l’universalità di beni del testatore o con una quota di esso, con la conseguenza che, sempre che la chiamata venga in universam rem o pro quota si ha istituzione di erede quali che siano i termini, anche se impropri, usati dal testatore e anche nell’eventualità che parte dell’asse sia destinata a legati, viceversa, in base al secondo comma dello stesso articolo, accanto al criterio obiettivo dell’interpretazione desunta dal contenuto dell’atto, viene introdotto quello soggettivo dell’interpretazione ricavata dall’intenzione del testatore di assegnare beni determinati come quota del patrimonio, interpretazione cui è dato pervenire attraverso i comuni canoni della volontà testamentaria, sicché alla stregua del secondo comma dell’art. 588 cod. civ., anche l’assegnazione di determinati beni o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, tutte le volte che risulti che il testatore abbia inteso assegnare quei beni come quota del suo patrimonio, considerandoli, cioè, nel loro rapporto con il tutto (Cass., sez. 2, 8/7/1964, n. 1800).

Il risultato di tale interpretazione non è sindacabile in sede di legittimità ove non si alleghi la violazione di un preciso canone interpretativo o il vizio della motivazione della sentenza (Cass., Sez. 2, 27/10/1980, n. 5773; Cass., Sez. 2, 21/1/1978, n. 269), risolvendosi l’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato (Cass., Sez. 2, 6/10/2017, n. 23393).

Ebbene, le ricorrenti, pur avendo lamentato la violazione dell’art. 1362 cod. civ., non hanno chiarito in quale modo e con quali considerazioni il giudice di merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati, sicché deve operare il principio secondo cui, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass., Sez. 3, 10/2/2015, n. 2465; Cass. 3, Sez., 26/5/2006, n. 10891).

Pertanto, avendo nella specie i giudici motivato adeguatamente sulle ragioni per le quali hanno ritenuto di qualificare le disposizioni testamentarie in termini di legato e non di istituzione ex re certa e non avendo, per converso, le ricorrenti chiarito i termini della lamentata violazione delle norme ermeneutiche applicabili, la censura deve ritenersi sotto questo profilo infondata.

Diversamente deve opinarsi con riguardo alla ritenuta configurabilità del legato in sostituzione di legittima, in luogo di quello in conto di legittima preteso, invece, dalle ricorrenti.

Come questa Corte ha già avuto modo di osservare, al fine della configurabilità del legato in sostituzione di legittima, occorre che dal complessivo contenuto delle disposizioni testamentarie risulti, in modo certo e univoco, la volontà del de cuius di tacitare il legittimario con l’attribuzione di determinati beni, precludendogli la possibilità di mantenere il legato e di attaccare le altre disposizioni per far valere la riserva, laddove, in difetto di tale volontà, il legato deve ritenersi “in conto” di legittima (Cass., Sez. 2, 19/11/2019, n. 30082).

A tali fini, non occorre che la scheda testamentaria usi formule sacramentali, siccome non richieste dalla norma, potendo l’intenzione del testatore di soddisfare il legittimario con l’attribuzione di beni determinati senza chiamarlo all’eredità essere desunta anche dal complessivo contenuto della scheda testamentaria attraverso un’opportuna indagine interpretativa da cui risulti tale intenzione (Cass., Sez. 2, 16/1/2014, n. 824), senza che possano essere considerati elementi estrinseci al testamento se non espressamente richiamati nell’atto stesso (Cass., Sez. 2, 9/9/2011, n. 18583).

Lo stabilire se una disposizione testamentaria a favore di un legittimario integri un legato in sostituzione oppure in conto di legittima costituisce anch’esso accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato ed immune da violazione dei canoni ermeneutici che devono presiedere all’interpretazione delle disposizioni di ultima volontà (v. Cass., Sez. 2, 26/5/1998, n. 5232; Cass., Sez. 2, 10/6/2011, n. 12854; Cass., Sez. 2, 29/7/2005, n. 16083) [no: è questione di diritto; dI fatto è solo  quella sulla ricostruzione del contenuto semantico della scheda].

Ebbene, a tali principi non si sono attenuti i giudici di merito, i quali hanno qualificato le disposizioni testamentarie paterne in termini di legato in sostituzione di legittima alla stregua dell’attribuzione ai figli della sola nuda proprietà di alcuni beni, lasciati in usufrutto alla moglie in uno con le sue restanti proprietà, e della loro devoluzione in parti uguali ai figli soltanto in caso di premorienza della moglie, ossia sulla base di elementi che si rivelano del tutto incoerenti con la qualificazione della disposizione in termini siffatti.

In ragione di quanto detto, il motivo deve, dunque, ritenersi fondato>>.

Testamento e disposizione mortis causa a contenuto non patrimoniale (riconoscimento di figlio naturale) : l’atto “veicolo” della disposizione deve avere forma e solennità tipiche del testamento, altrimenti la disposizione non produce effetto.

Istruttivo caso deciso da Cassazione 02.02.2016 n. 1993.

Il de cuius aveva rilasciato una dichiarazione scritta 26.12.1984 del seguente tenore: “Rocca di Caprileone 26.12.1984. N.G., nata a (OMISSIS), è mia figlia a tutti gli effetti”. Egli successivamente nominava però erede universale un terzo, la sig.ra MW.

Apertasi la successione in data 20.01.1998 , veniva stipulato tra le sig.re NG e MW un accordo di suddivisione del patrimonio ereditario in data 4 agosto 1998  “al fine di non vedere pregiudicate le rispettive ragioni successorie” (id est una transazione, suppongo). In seguito la sig.ra NG -accortasi di una vendita dell’immobile ereditario da parte di MW senza il proprio  consenso- chiedeva che venisse accertato che il predetto atto del dicembre 1984 costituiva un riconoscimento di figlia naturale e che pertanto ella era  erede al 50%, con domande consequenziali. La controparte sig.ra MW eccepiva, tra l’altro, che l’atto medesimo non poteva invece essere ritenuto un testamento valido e quindi che nemmeno era valido riconoscimento di figlia naturale.

Le domande di NG vennero rigettate sia nei giudizi di merito che in quello di legittimità.

Sul punto sopra ricordato nel titolo, la Cassazione così osserva:  

<< L’art. 587 c.c., al comma 2, afferma poi che le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento (quale, ad esempio, il riconoscimento ex art. 254 c.c., i cui effetti si producono alla morte del testatore: art. 256 c.c.) hanno efficacia, se contenute in un atto che abbia la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale.

La possibilità che il testamento esaurisca il suo contenuto in disposizioni di carattere non patrimoniale impone comunque che sia ravvisabile un “testamento in senso formale“, rivelante la funzione tipica del negozio testamentario. Tale funzione consiste nell’esercizio da parte dell’autore del proprio generale potere di disposizione mortis causa. Perchè sia individuabile un testamento in senso formale, quindi, occorre rinvenire il proprium dell’atto di ultima volontà, nel senso che l’atto esprima un’intenzione negoziale destinata a produrre i suoi effetti dopo la morte del disponente. Il testamento, infatti, rappresenta l’unico tipo negoziale con il quale taluno può disporre dei propri interessi per il tempo della sua morte. Non è esclusa, quindi, l’esistenza del testamento, qualora esso contenga soltanto disposizioni di carattere non patrimoniale, ma requisiti irrinunciabili sono la formalità e la solennità dell’atto al fine di garantire la libertà di testare, la certezza e la serietà della manifestazione di volontà del suo autore e la sicura determinazione del contenuto delle singole disposizioni. A questo scopo la legge richiede ad substantiam che il testamento, seppur a contenuto soltanto non patrimoniale, venga redatto in una delle forme espressamente stabilite (art. 601 c.c. e ss.). Affinchè la dichiarazione di riconoscimento di un figlio nato al di fuori del matrimonio possa, pertanto, intendersi inserita in un testamento, del quale pure esaurisca il contenuto, giacchè l’atto risulta sprovvisto di disposizioni di carattere patrimoniale, occorre che esso riveli la sua natura di atto mortis causa (per il tempo in cui avrà cessato di vivere), nel senso che la morte sia assunta dal dichiarante come punto di origine (ovvero, appunto, come causa) del complessivo effetto del regolamento dettato con riguardo a tale situazione rilevante giuridicamente. Se è quindi corretto assumere che l’art. 587 c.c. non postula la necessaria patrimonialità di tipo dispositivo- attributivo, ovvero il necessario riferimento ai beni del testatore, il testamento non può non consistere in un atto di regolamento mortis causa degli interessi del testatore, allorchè tali disposizioni non patrimoniali evidenziano, comunque, la fisionomica essenziale inefficacia sino al momento della morte del testatore.

Come spiegato in precedenti pronunce di questa Corte, perchè un atto possa qualificarsi come testamento (sia pure inteso come forma vincolata, autonoma dal proprio naturale contenuto attributivo, in quanto includente soltanto disposizioni di carattere non patrimoniale), pur non essendo necessario l’uso di formule sacramentali, è necessario riscontrare in modo univoco dal suo contenuto che si tratti di atto di ultima volontà, ovvero, appunto, di un negozio mortis causa, in maniera da distinguerlo, per rimanere proprio al caso del riconoscimento del figlio nato al di fuori del matrimonio, da una mera enunciazione del fatto della procreazione. La ravvisabilità dell’atto di regolamento mortis causa rappresenta un prius logico rispetto ad ogni questione sull’interpretazione della volontà testamentaria, sicchè non vi è luogo di discutere di violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg. se neppure appare oggettivamente configurabile una volontà testamentaria nelle espressioni adottate all’interno della scrittura da esaminare. Si è perciò costantemente affermato che per decidere se un documento abbia i requisiti intrinseci di un testamento olografo, occorre accertare se l’estensore abbia avuto la volontà di creare quel documento che si qualifica come testamento, nel senso che risulti con certezza che con esso si sia inteso porre in essere una disposizione di ultima volontà (Cass. 28 maggio 2012, n. 8490).

Nella specie, facendo corretta applicazione di questi principi, la Corte d’Appello di Perugia ha negato che la dichiarazione sottoscritta da D.S. in data 26 dicembre 1984, del tenore ” N.G., nata a (OMISSIS), è mia figlia a tutti gli effetti”, avesse valore di un testamento olografo ed ha perciò ritenuto inesistente il riconoscimento della filiazione. A tal fine, deve evidenziarsi come la valutazione di un atto quale disposizione testamentaria (ai sensi dell’art. 587 c.c.), ovvero, in particolare, quale testamento olografo (art. 602 c.c), costituisce apprezzamento di fatto, che si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. 29 aprile 2006, n. 10035).

E’ d’altro canto del tutto da condividere la conclusione secondo cui la dichiarazione in esame non denoti un testamento in senso formale, in quanto non si evince da essa un’intenzione negoziale del D. volta a produrre l’effetto accertativo della filiazione dopo la sua morte, e perciò non sussiste la pretesa natura di atto mortis causa, nel quale la morte sia individuata come momento di insorgenza della regolamentazione dettata. Consegue in definitiva il rigetto del ricorso.>>

La Cassazione ricorda che il Tribunale, dopo aver negato che la dichiarazione del dicembre 1984 costituisse valido ricoscimento di figlia naturale,  aveva conseguentemente annullato l’accordo “transattivo” del 4 agosto 1998.

L’inseribilità nel testamento di disposizioni non patrimoniali è questione discussa, soprattutto in base a due variabili: – espressa previsione o meno nella legge della possibilità di  loro forma testamentaria; – presenza o meno nel testamento di ulteriori disposizioni (patrimoniali).