1) La petizione ereditaria non si applica al credito da conto corrente. 2) Unico legittimato all’azione di restituzione dell’indebito è il percettore diretto, non il terzo cui questi ne abbia trasferito una parte

Interessante (e frequente …) fattispecie concreta decisa da Cass. sez. 2, n° 19.936 del 21.06.2022, rel. Tedesco.

Muoino a breve distanza di tempo i due contitolari, coniugi, di un  conto bancario cointestato.

Il procuratore del secondo deceduto (moglie) ritira il saldo dal conto e ne traferisce metà ad un terzo.

Essendosi però  estinta la procura col decesso, il procuratore non aveva titolo : pertanto il vero erede esperisce azione nei suoi confronti e nei confronti del terzo beneficiario

La SC riforma la corte di appello laddove aveva applicato la petizioone di eredità (art. 534 cc) e nega che questa si applichi al credito da conto corrente.

Inoltre nega che il terzo beneficiario della metà del conto corrente abbia legittimazione passiva: .

Avendo natura di indebito, l’azione di restituzione delle somme illegittimamente prelevate dall’ex procuratore è strettamente personale, per cui solo quest’ultimo è legittimato passivo.    Del resto è proprio questa l’azione data al reale creditore verso il creditore apparente (art. 1189 c. 2 cc)

Principio di diritto: “L’art. 1189 c.c., in tema di pagamento al creditore apparente, è applicabile anche nell’ipotesi di pagamento delle somme depositate in conto corrente, effettuato dalla banca dopo la morte del correntista in favore di un soggetto non legittimato a riceverlo; conseguentemente l’azione accordata all’erede per la restituzione è quella disciplinata dall’art. 2033 c.c., che è esperibile solo nei confronti del destinatario del pagamento e non anc:he nei confronti di colui al quale la somma sia stata trasferita dall’accipens dopo che egli l’abbia indebitamente riscossa dalla banca debitrice

Non è però chiaro come possa dirsi che l’ex procuratore fosse creditore apparente e cioè <legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche>, se la perocura si estingue ex lege in caso di decesso (§ 5 sentenza di Cass.)! Tanto più che il debitore (banca) è un soggetto abituato a trattare questo tipo di vicende giuridiche e operatore professionale qualificato!

Vessatorietà della clausola con cui il costruttore venditore si esenta dalle spese condominiali

Interessante il tema indagato da Cass. 21.06.2022 n. 20.007, rel. Scarpa: l’abusività ex art. 33 c. cons. della clausola (frequente nei condomini nuovi) con cui il venditore-costruttore viene esentato dal contribuire alle spese condominiali.

Mi limito a riprodurre il principio di diritto: “la clausola relativa al pagamento delle spese condominiali inserita nel regolamento di condominio predisposto dal costruttore o originario unico proprietario dell’edificio e richiamato nel contratto di vendita della unità immobiliare concluso tra il venditore professionista e il consumatore acquirente, può considerarsi vessatoria, ai sensi del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 33, comma 1, ove sia fatta valere dal consumatore o rilevata d’ufficio dal giudice nell’ambito di un giudizio di cui siano parti i soggetti contraenti del rapporto di consumo e sempre che determini a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, e dunque se incida sulla prestazione traslativa del bene, che si estende alle parti comuni, dovuta dall’alienante, o sull’obbligo di pagamento del prezzo gravante sull’acquirente, restando di regola estraneo al programma negoziale sinallagmatico della compravendita del singolo appartamento l’obbligo del venditore di contribuire alle spese per le parti comuni in proporzione al valore delle restanti unità immobiliari che tuttora gli appartengano

Brevissime della Cassazione sulla responsabilità del motore di ricerca in caso di diritto all’oblio

Cass. 08.06.2022 n.18.430, rel. Nazzicone, decidendo sull’impugnazione proposta contro Tribunale Milano 24.01.2020 n. 4911/2020 – RG 12.255/2018, affronta un paio di questioni interessanti (la seconda , però, senza particolari approfondimenti):

1) il contenuto dell’inibitoria portante un ordine di deindicizzazione: se debba contenere l’elenco preciso delle URL da bloccare, magari in dispositivo, o se possa rimnviare alla motiviazine o addirittura ad atti processuali di parte;

2) la qualificazine giuridica del motore di ricerca ai sensi della triplice tassopnomia posta dal d. lgs. 70/2003, artt. 14-16.

Sul secondo punto la SC corregge la motivazione del Tribunale ex art. 384.4. cpc, nel senso di affermare la disciplina citata e confermare ai sensi di tale disciplina l’inibitoria (anzichè ai sensi del 2043 cc, come aveva fatto il Tribunale): <<Nella specie, rileva già la prima delle fattispecie di responsabilità [art. 16 lett. a], la quale collega il sorgere dell’obbligazione risarcitoria al fatto della conoscenza, da parte del prestatore del servizio, circa la illiceità dell’informazione, in particolare connotata dall’essere essa manifesta nelle azioni di risarcimento del danno: onde la comunicazione – dalla impugnata decisione reputata accertata in punto di fatto – della diffida a cessare l’attività illecita, eseguita dal P. nel (OMISSIS), in una con la sentenza penale de qua, era certamente idonea ad integrare la fattispecie sub a).
Ne deriva che, corretta la motivazione quanto all’inapplicabilità, erroneamente ritenuta, del regime della direttiva e del Decreto Legislativo nazionale, il motivo va sul punto disatteso, essendo il decisum conforme a diritto
>>

Sul primo punto, più interessante, la SC ammette la integrabilità della sentenza ai fini della sua esecuzione ma non solo :

<< 4.4. – Peraltro, a fronte dei limiti alla rilevanza dei vizi della motivazione, che il sistema positivo (cfr. art. 111 Cost., comma 7, artt. 132 e 360 c.p.c., art. 118 att. c.p.c.) considera solo laddove conducano alla motivazione assente o equiparata (apparente, insanabilmente contraddittoria), non può che aderirsi alla tesi acquisita della possibilità di una integrazione extratestuale della decisione giudiziale, ove condotta mediante gli elementi in essa comunque considerati e delibati, nonché reperibili agevolmente dalle parti del giudizio; pur consapevoli che de’tta facilità cognitiva è del tutto assente per coloro che al giudizio siano estranei (come pure alla Cassazione, che ha limitata conoscenza degli atti per i soli vizi processuali ed ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) e per i consociati in generale.      

E’ vero, dunque, che la tecnica redazionale della motivazione della sentenza impugnata è sul punto imprecisa, non corrispondendo alla migliore possibile ed ai precetti di massima chiarezza e completezza, che (insieme a quello della coerenza) debbono connotare la decisione giudiziale. Tuttavia, essa non si pone al di sotto del livello minimo costituzionale, ai sensi dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c.: con il conseguente rigetto del motivo.      

Va, infine, ricordato il principio, affermato da questa Corte, secondo cui la domanda di deindicizzazione, ai fini della sua determinatezza, deve contenere la precisa individuazione dei risultati che l’attore intende rimuovere e, quindi, normalmente, l’indicazione degli indirizzi telematici (o url) dei contenuti rilevanti: sebbene una puntuale rappresentazione delle singole informazioni associate alle parole chiave può rivelarsi, secondo le circostanze, idonea a dare comunque contezza della cosa oggetto della domanda (cfr. Cass. 21 luglio 2021, n. 20861). >>

L’affermazione lascia perplessi nel caso specifico, dato che nella sentenza impugnata non c’è alcun preciso elencc di URL ma solamente nelle note difensive dell’allora ricorrente, richiamate direttamente dal Tribunale in motivazione ma non (o meglio, forse, solo indirettamente) in dispositivo (che suonava così: < – accertato l’illecito trattamento dei dati personali di Pezzano Adriano dispone che Google LLC provveda alla deindicizzazione delle URL meglio elencate in motivazione rispetto alla ricerca con le chiavi contenenti il nominativo del ricorrente “Pezzano Adriano” ed alla cancellazione delle tracce digitali di tale ricerca; >)

LA SENTENZA DEL TRIBUNALE  –   Sarebbe interessante esaminare il dettagliato iter motivatorio del Tribunale. Qui ricordo solo il passaggio per cui Google non ricadrebbe nell’ambito del d. lgs. 70-2003:

<< Tanto puntualizzato, corre l’obbligo di affermare che non appaiono pertinenti le sentenze di merito e di legittimità allegate da parte resistente, afferendo fattispecie in cui l’estraneità di Google era determinata ai sensi della normativa sull’ e-commerce in relazione a fattispecie del tutto differenti, attenendo alla violazione del diritto d’autore, del diritto della concorrenza o a fattispecie relative a rapporti tra soggettititolari dei contenuti immessi ed il motore di ricerca.

Ritiene il Tribunale che la presente vicenda non possa trovare regolazione dalla normativa contenutanel D. Lgs. n.70/03, che inerisce esclusivamente l’attività di memorizzazione di informazionicommerciali fornite da altri.

Oggetto del presente ricorso, invero, non è l’attività di host provider di Google in relazione allaformazione dei contenuti delle singole pagine web sorgente, ma la condotta posta in essere dal motore di ricerca in qualità di titolare del trattamento dei dati sottesa all’evocazione attraverso la semplice digitazione del nome e cognome dell’interessato di tutti i siti in cui viene in risalto ilpreteso ruolo criminale del ricorrente attraverso un software messo a punto da Google e di cuiquest’ultima si avvale per facilitare la ricerca degli utenti attraverso il suo motore di ricerca.

Sintetizzando, si può rilevare come attraverso tale servizio, nel momento in cui l’utente inizia adigitare le prime lettere/parole nella stringa di ricerca, il completamento automatico della ricerca impostata dall’utente (e rappresentata dalla lista delle URL) viene compiuto dal software che in automatico raccoglie ed aggrega le informazioni già pubblicate da terzi sul web, applicando unalgoritmo matematico che visualizza parole già immesse più volte in un arco temporale determinato(appunto dal sistema software del motore generalista) da altri utenti nella stringa di ricerca di Google,rendendo la visualizzazione delle informazioni già presenti sul web secondo un ranking che è ilrisultato delle ricerche più frequenti e quindi più “popolari” effettuate in precedenza dagli utenti.

A ciò si aggiunga che oltre alle funzionalità di ricerca ed aggregazione descritte, solitamente si apre unmenù “a tendina” ove appare una lista di termini di ricerca suscettibili di completare la/le parole chiaveche in quel momento l’utente sta digitando, suggerimenti di ricerca connessi alle parole chiave digitatedall’utente, che gli consentono di leggere diverse proposte di ricerca fornite in automatico dal servizio. Simile argomento, pur non strettamente conferente al caso in esame, conferma vieppiù la natura dibanca dati della convenuta. Il servizio approntato dalla resistente offre dunque all’utente una modalità che consente disvolgere la ricerca dei dati in maniera più agevole e rapida e, soprattutto, ed è ciò chemaggiormente rileva, con accesso in tempo reale ad una massa potenzialmente sterminata di datipresenti in rete (con estensione mondiale), offerti in visione in maniera aggregata ed organizzatasecondo parametri scelti da Google e noti solo ad essa.

Se -come è pacifico- l’associazione tra il nome del ricorrente e i siti in cui lo stesso è definito mafioso è opera del software messo a punto appositamente e adottato da Google per ottimizzare l’accesso alla sua banca dati operando con le modalità ora descritte e volutamente individuate e prescelte per consentirnel’operatività allo scopo voluto (quello appunto di agevolare l’utilizzo del motore di ricerca Google), non può che conseguirne la diretta addebitabilità alla società, a titolo di responsabilità extracontrattuale,degli eventuali effetti negativi che l’applicazione di tale sistema per il trattamento dei datidell’interessato può determinare.

E’ dunque inconferente l’obiezione mossa dalla società che sostiene di non essere un content provider,di non avere alcun ruolo rispetto al trattamento dei dati presenti sulle pagine dei siti internet gestiti e proprietà di terzi: l’abbinamento soggetto-siti è frutto di una “scelta” del motore di ricerca o dei suoi gestori, peraltro ben più complessa della semplice rappresentazione di quello che soggetti terzi -gliutenti di internet che accedono al motore di ricerca- hanno ricercato con maggiore frequenza di recente.Occorre ribadire che l’abbinamento dei siti al nome del ricorrente è frutto del sistema adottato da Google per scandagliare il web, copiare e immagazzinare i contenuti pubblicati dai sitisorgente, aggiornandoli, organizzare il materiale secondo chiavi di lettura in modo da renderefruibile “worldwide” in tempo reale i contenuti relativi ad un soggetto, ad una data vicenda o adargomento assegnati dall’utente nella stringa di ricerca; condotta da intendersi, dunque, comeprodotto di un’attività direttamente ed esclusivamente riconducibile, come tale, alla resistente.

Ed è proprio questo il meccanismo di operatività del software messo a punto da Google che determinail risultato rappresentato dai possibili percorsi di ricerca, rendendo disponibili informazioniaggregate in grado di fornire agli utenti una profilazione dell’intera storia personaledell’interessato e che appaiono all’utente che inizia la ricerca digitando le parole chiave anche inrelazione a settori potenzialmente differenti od estranei a quello oggetto della ricerca.Soprattutto, la capillarità della raccolta, la capacità di padroneggiare un numero potenzialmenteillimitato di dati e notizie, la diffusività della propagazione del dato e delle notizie ad essocorrelate costituiscono il valore aggiunto, autonomo da quello offerto dai siti sorgente, operato dal motore generale di ricerca.

Priva di pregio appare l’allegazione offerta dalla convenuta fondata sull’impossibilità, in tesi, didefinire l’attività svolta quale trattamento dei dati per la “temporaneità” della loro presenza nella webfarm da essa gestita>>

Il contributory infringement è altro dal concorso (paritario) nell’illecito brevettuale

Trib. Torino sent. 07.04.2021, n. 1.662/2021 – RG   8189 / 2019, rel. Martinat, Neotecman s.l. c. Farm New Brass s.r.l. e Automazioni Industriali s.r.l., si sofferma sull’art. 66.2 bis c.p.i. e sulla distinzione del contributory infringement (poi: c.i.) dal concorso nell’illecito brevettuale comune.

Dice così: <<Alla luce di quanto precede, pertanto, deve essere rigettata la domanda di contraffazione formulata da parte attrice per contributory infringment, domanda sulla quale, peraltro, il Collegio ritiene di dover far un’osservazione di carattere generale, dovendosi in merito osservare come il richiamo all’istituto di cui all’art. 66, comma 2 bis, del c.p.i., da parte dell’attrice sia quanto meno improprio.
Tale disposizione, infatti, punisce chi fornisce ad un terzo non autorizzato i mezzi per realizzare l’invenzione brevettata nella consapevolezza di tale uso illecito dei suddetti mezzi: tale norma, quindi, pare colpire l’attività di chi, nell’esercizio della sua ordinaria attività imprenditoriale, fornisca una componente del prodotto finale al realizzatore – appunto – del suddetto prodotto finale, ipotesi tuttavia insussistente nella fattispecie in esame, ove, in effetti, vi sono due soggetti che si pongono sin dall’inizio sullo stesso piano della catena produttiva finalizzata a realizzare il prodotto finale (ovvero il produttore del forno ed il produttore della pressa), posto che insieme hanno progettato il macchinario finale oggetto di contestazione, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze professionali, ed insieme lo hanno commercializzato presentandosi come partecipi di un progetto commerciale comune.

Pertanto, più che di contributo di uno dei due convenuti alla realizzazione della contraffazione da parte dell’altro (evento che rappresenta la condotta sanzionata dalla norma in commento), deve parlarsi di ordinario concorso – su basi paritarie – delle due convenute nella realizzazione del prodotto in asserita contraffazione, come del resto implicitamente confermato dal fatto che parte attrice mai ha individuato fra i convenuti il soggetto che abbia fornito la componente ed il soggetto che abbia utilizzato tale componente nel prodotto finale, essendo, in effetti, le due posizioni non individuabili nella fattispecie in esame.

Il motivo di tale mancata individuazione è quindi semplice da definire, ovvero l’assenza di un contributory infringment in senso stretto, trattandosi semmai di concorso paritario ed originario delle due società convenute (che hanno elaborato a tal fine un progetto industriale comune) nella realizzazione del macchinario in asserita contraffazione.

In ogni caso, indipendentemente dalla qualificazione giuridica della domanda di contraffazione formulata da parte attrice, non essendo il macchinario complessivamente realizzato dalle convenute in contraffazione del brevetto attoreo, ogni domanda di contraffazione, sia essa una contraffazione letterale, per equivalenti o per contributory infringment non può ritenersi sussistente, ragion per cui la domanda attorea di contraffazione deve essere rigettata in quanto infondata.
Consegue a quanto precede che ogni domanda accessoria (in quanto avente per presupposto l’accertamento della contraffazione) deve essere automaticamente rigettata (risarcimento del danno, distruzione dei prodotti in contraffazione, inibitoria, penali …)>>.

Due notazioni:

1) non è chiaro perchè il Trib. abbia scelto di dare chiarimenti sul c.i. , quando la lite era già decidibile nel senso del rigetto della domanda per assenza di contraffazione.  E’ allora solo un obiter dictum, non ratio decidendi.

2) sarebbe interessante approfondire la differenza tra c.i. e violazione brevettuale diretta. A prima vista (la più vistosa) parrebbe che solo nel c.i. fosse richiesto l’elemento soggettivo (<qualora il terzo abbia consocenza>). Bisognerebbe poi proseguire il ragionamento sulla differenza relativa all’elemento oggettivo.

Il segno distintivo anteriore di portata locale, che può continuare ad essere usato dopo una altrui registrazione, non necessariamente deve dare il diritto di vietare l’uso altrui come marchio

La corte di giusizia si pronuncia sull’art. 6.2 dir. 2008/95 (da noi art. 12.1.a-b, cod. propr. ind.)  per cui <<Il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello stesso di vietare ai terzi l’uso nel commercio di un diritto anteriore di portata locale, se tale diritto è riconosciuto dalle leggi dello Stato membro interessato e nel limite del territorio in cui esso è riconosciuto.>>.

Il dubbio riguacdava il concetto di <diritto anteriore>:  in particolare , se questo dovesse essere tale da permettere al titolare di vietare l’uso di un marchio (confondibile e sul medesimo ambito territoriale, evidentemente).

La fattispecie concreta , però, pur interessante, non è però facile da comprendere, data l’anonimizzazione  purtroppo sempre più spesso praticata dalla CG.

Per la CG con sentenza 02.06.2022, C-112/21, il diritto locale anteriore è opponibile anche senza che esso dia al titolare il diritto di bloccare il marchio altrui.

Infatti, non solo la disposizione è muta, ma si può anzi dire che se ciò avesse inteso, lo avrebbe detto espressamenet,: così infatti  ha disposto nel precedente art. 4.4.b-c (sulla registrabilità anzichè sulla limitabilità come nell’art. 6 de quo)

Contraffazione di opera musicale: analitica sentenza inglese

La lite Ed Sheeran c. Sami Chockri (Sami Switch) è stata decisa in data 6 aprile 2022 dalla UK BUSINESS AND PROPERTY COURTS OF ENGLAND AND WALES INTELLECTUAL PROPERTY LIST, guiduce Zacaroli,[2022] EWHC 827 (Ch) Case No: IL-2018-000095 .

Il secondo lamenta il plagio della propria canzone “Oh why” da parte del primo con la canzone “Shape of you”.

Impressione nella sentenza il grado di analiticità dell’esame fattual-musicale condotto dal gidice.

Il quale alla fine rigetta la domanda ed anzi concede l’accertamento negativo formale di non copiature, § 207 ss.

Premesse di ordine processual-probatorio:

    1. In music cases, it is the sounds that are more important than the notes: see Copinger and Skone James on Copyright (18th ed) at [3-125]. This depends to a large degree on the aural perception of the judge: Francis Day & Hunter v Bron [1963] 1 Ch 587, per Upjohn LJ at p.618.
    2. While the legal burden rests with the person alleging infringement, in the case of conscious copying the evidential burden shifts to the alleged infringer if there is proof of sufficient similarity and proof of access. There was some debate as to whether what was required was proof of access, or proof of the possibility of access.
    3. The weight of authority supports the former: see, for example, Designers Guild (above), per Lord Millett at p.2425E; Baigent v Random House [2007] EWCA Civ 247 at [4], although I do not think anything turns on it in this case. Tens of thousands of new songs are uploaded to internet sites daily. It clearly cannot be enough to shift the burden of proof that a song was uploaded to the internet thereby giving the alleged infringer means of accessing it. In every case, it must be a question of fact and degree whether the extent of the alleged infringer’s access to the original work, combined with the extent of the similarities, raises a sufficient possibility of copying to shift the evidential burden. Where, for example, the original work was highly individual or intricate, and the alleged infringing work was very close to it, then only limited evidence of access may be sufficient in order to shift the burden. The same would not be true, on the other hand, where the original work was simple and involved relatively common elements.
    4. Irrespective of where the burden lies, infringement requires there to have been actual copying, which necessarily entails that the alleged infringer not only had access to the original work, but actually saw or heard it.
    5. The leading case on subconscious copying is Francis Day & Hunter v Bron (above), in which the Court of Appeal established that, although it was possible to demonstrate that a person had infringed copyright without intending to do so, it was nevertheless necessary to establish “proof of familiarity” with the allegedly copied work, as a prerequisite to establishing infringement: and that there was a causal link between the alleged infringing work and the original work: see Wilmer LJ at p.614 (with whom Upjohn LJ agreed). Diplock LJ also spoke of the clear need for a causal connection between the two works (at p.624).
    6. Whether there has been subconscious copying is a question of fact to be determined on the basis of all the evidence (and does not rest on the shifting of an evidential burden: see Mitchell v BBC (above) at [39]). There will rarely, if ever, be direct evidence of subconscious copying, so it is necessary – as with any issue where direct evidence is lacking – to reach a conclusion based on inferences from other evidence. The following direction which the trial judge, Wilberforce J, had given himself was approved by the Court of Appeal in Francis Day (at pp.614-615):

“The final question to be resolved is whether the plaintiffs’ work has been copied or reproduced, and it seems to me that the answer can only be reached by a judgment of fact upon a number of composite elements: The degree of familiarity (if proved at all, or properly inferred) with the plaintiffs’ work, the character of the work, particularly its qualities of impressing the mind and memory, the objective similarity of the defendants’ work, the inherent probability that such similarity as is found could be due to coincidence, the existence of other influences upon the defendant composer, and not least the quality of the defendant composer’s own evidence on the presence or otherwise in his mind of the plaintiffs’ work.”

Conclusioni, prima  parte, § 200 ss:

  1. Mr Sutcliffe urged me to stand back from the detail and focus on the bigger picture. The case, he said, boiled down to four unassailable points: the similarities between the songs, not by a laser-like focus on individual elements (because to do so risked losing the song), but by listening to the sounds as a whole; the “one-in-a-million” chance of two unique sounds correlating with one another within the space of months; the three “fingerprints” in Mr Sheeran’s work; and the lack of credible explanation from the claimants for the creation of the OI Phrase.
  2. Of necessity, in view of the nature of the allegations in this case, I have analysed in some detail the musical elements that went into the creation of Shape, but I agree with Mr Sutcliffe that it is important to stand back from the detail. When I do so, however, I come to the opposite conclusion to him. It is in reality the defendants who have focused on the three points of particular similarity between Oh Why and Shape, while ignoring points of difference, the fact that each element is a common building block in music of this and many other genres, and the use of the same or similar elements in other parts of Shape and in other Ed Sheeran songs.
  3. Having reviewed all the circumstances, their use together in the OI Phrase by the writers of Shape is explained in my judgment by reasons other than copying. The “one-in-a-million” chance of them being used together (and the fact that the precise notes, vocalised and harmonised in the same way has not been found before) is no more than a starting point when considering whether one is copied from the other. While Mr Chokri’s initial reaction to the similarities, posted on Facebook in January 2017, is understandable, coincidences (which, by definition, would not be remarked upon in the absence of marked similarities) are not uncommon.
  4. Listening to the sounds as a whole, as urged by Mr Sutcliffe, the two phrases play very different roles in their respective songs. The OW Hook is the central part of the song, and reflects the song’s slow, brooding and questioning mood. Without diminishing its importance, the OI Phrase plays a very different role: something catchy to fill the bar before each repeated phrase “I’m in love with your body”. The use of the first four notes of the rising minor pentatonic scale for the melody is so short, simple, commonplace and obvious in the context of the rest of the song that it is not credible that Mr Sheeran sought out inspiration from other songs to come up with it. As to the combination of elements upon which the defendants rely, even if Mr Sheeran had gone looking for inspiration, then Oh Why is far from an obvious source, given the stark contrast between the dark mood created by the OW Hook in Oh Why and the upbeat, dance feel that Mr Sheeran was looking to create with Shape

Dispositivo:

205.  Accordingly, for the reasons I have set out above, I conclude as follows:

(1) While there are similarities between the OW Hook and the OI Phrase, there are also significant differences;

(2) As to the elements that are similar, my analysis of the musical elements of Shape more broadly, of the writing process and the evolution of the OI Phrase is that these provide compelling evidence that the OI Phrase originated from sources other than Oh Why;

(3) The totality of the evidence relating to access by Mr Sheeran to Oh Why (whether by it being shared with him by others or by him finding it himself) provides no more than a speculative foundation for Mr Sheeran having heard Oh Why;

(4) Taking into account the above matters, I conclude that Mr Sheeran had not heard Oh Why and in any event that he did not deliberately copy the OI Phrase from the OW Hook;

(5) While I do not need to resort to determining where the burden of proof lies, for completeness:

(a) the evidence of similarities and access is insufficient to shift the evidential burden so far as deliberate copying is concerned to the claimants;

(b) the defendants have failed to satisfy the burden of establishing that Mr Sheeran copied the OI Phrase from the OW Hook; and

(c) even if the evidential burden had shifted to the claimants, they have established that Mr Sheeran did not deliberately copy the OI Phrase from the OW Hook.

(6) Finally, again taking into account all the matters I have considered above, I am satisfied that Mr Sheeran did not subconsciously copy Oh Why in creating Shape.

Marchio “covidiot” contrario all’ordine pubblico? Vedremo

Il marchio

per computer gaming e simili è registrabile oppure è contrario al’ordine pubblico ex art. 7.1.f reg. 2017/1001?

Il primo grado EUIPO ha optato per la seconda.

Potrebbe dire lo stesso l’appello amministrativo Board of Appeal, Interim decision 16.12.2021, Case R 260/2021-1 , Zirnsack c. EUIPO.

Così osserva: << In the Board’s view, the trade mark applied for could be refused as contrary to accepted principles of morality pursuant to Article 7(1)(f) EUTMR, because the trade mark contains the word ‘Covidiot’, which refers to a person or group of people in a derogatory manner in connection with ‘COVID’. There is also the possibility that it is contrary to accepted principles of morality if the name of the virus can be trivialised as the name for a game. Finally, in the Boardʼs opinion, an 16/12/2021, R 260/20211, COVIDIOT (fig.) examination can be made as to whether the trade mark is contrary to accepted principles of morality because the applicant wishes, through freeriding, to make an undue profit from the pandemic. >>, § 20.

Solleva anche dubbio di compatibilità con l’art. 7.1.b (distinvitità e con l’art. 7.1.c  per descrititvità.

Infine  esamina l’eccezione del registrante per cui il rigetto violerebbe il diritto di parola o espressione.

Data la complessità delle questioni, non decide e rimette al Grand Board: vedremo come deciderà l’ineressante caso.

L’assegnazione dell’immbile familiare al coniuge in sede divisoria non deve tener conto dell’esistente suo diritto di godimento per essere l’affidatario della prole

Interessante ma non semplice questione risolta dalle Sezioni Unite (Cass s.u. 09.06.2022 n. 18.641, rel. Carrato).

Questito : “se – in sede di divisione di un immobile in comproprietà di due coniugi legalmente separati già destinato a residenza familiare e, per tale ragione, assegnato, in sede di separazione, al coniuge affidatario della prole – occorra tenere conto della diminuzione del valore commerciale del cespite conseguente alla presenza sul medesimo del diritto di godimento del coniuge a cui è stata affidata la prole, pure nel caso in cui la divisione si realizzi mediante attribuzione a quest’ultimo della proprietà dell’intero immobile con conguaglio in favore del comproprietario e, quindi, determinandolo non in rapporto al valore venale dello stesso immobile, bensì in misura ridotta che tenga conto dell’incidenza della permanenza di tale vincolo, opponibile anche ai terzi“.

Per le s.u., non si deve tener conto del diritto di  godimento già in precedenza disposto per essere il congiuge affidatario della prole: <<Ad avviso di queste Sezioni unite deve essere condiviso l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale, nel caso in cui lo scioglimento della comunione immobiliare si attui mediante attribuzione dell’intero al coniuge affidatario della prole, il valore dell’immobile oggetto di divisione non può risentire del diritto di godimento già assegnato allo stesso a titolo di casa coniugale, poiché esso viene ad essere assorbito o a confondersi con la proprietà attribuitagli per intero, con la conseguenza che, ai fini della determinazione del conguaglio in favore dell’altro coniuge, bisognerà porre riferimento, in proporzione alla quota di cui era comproprietario, al valore venale dell’immobile attribuito in proprietà esclusiva all’altro coniuge, risultando, a tal fine, irrilevante la circostanza che nell’immobile stesso continuino a vivere i figli minori o non ancora autosufficienti rimasti affidati allo stesso coniuge divenutone proprietario esclusivo, in quanto il relativo aspetto continua a rientrare nell’ambito dei complessivi e reciproci obblighi di mantenimento della prole da regolamentare nella sede propria, con la eventuale modificazione in proposito dell’assegno di mantenimento.>>, § 9.

Tale assegnazione divisionale, poi , realizza l’estinzione automatica del diritto di godimento preesistente (con notazione delle SU sulla sua trascrivibilità con atto ricognitivo).

In definitiva, <<l’immobile attribuito in proprietà esclusiva al coniuge già assegnatario quale casa coniugale non può considerarsi decurtato di alcuna utilità, posto che la qualità di titolare del diritto dominicale e quella di titolare del diritto di godimento vengono a coincidere. Non si configura, in altri termini, alcun diritto altrui che limiti le facoltà di godimento del coniuge attributario dell’intero – e già assegnatario in quanto affidatario della prole – e sia, perciò, idoneo a comportare la diminuzione del valore di mercato del bene>>.

La soluzione ci pare corretta.

Think different: Apple perde la lite con Swatch sul marchio denominativo , venendo confermata la decadenza per non uso

Il Tribunale UE , confermando la decisione amministrativa EUIPO, con sentenza 08.06.2022, da T-26/21 a T-28/21 ribadisce la decadenza per non uso del marchio denominativo THINK DIFFERENT di Apple (in realtà erano tre i marchi contestati, tutti uguali).

Il caso è regolato ratione temporis dal reg. 207/2009, § 34.

L’appello amministrativo aveva deciso:

<< the Fourth Board of Appeal dismissed the appeals. In particular, first of all, it found that, the first contested mark having been registered on 6 September 1999, the second contested mark on 18 November 1999, the third contested mark on 8 May 2006 and the three applications for revocation having been filed on 14 October 2016, the applicant had to furnish proof of genuine use of those marks in the European Union during the five years preceding that date, that is to say, from 14 October 2011 to 13 October 2016. Next, it observed that the applicant distinguished two periods of use of the contested marks, namely, first, the use of the contested marks in a marketing campaign from 1997 to 2000 for iMac computers and, second, the use on the box packaging of iMac computers since 2009, and throughout the relevant period. With regard to the first period, it noted that the marketing campaign predated the relevant period by more than 10 years and could not therefore be taken into account. Moreover, the occasional use of the contested marks on the applicant’s website during the relevant period to commemorate famous people or special events was an isolated and ephemeral use. With regard to the second period, the Board of Appeal, after having specified that the evidence submitted by the applicant related only to computers and computer peripherals in Class 9, found that proof of genuine use of the contested marks for those goods had not been provided, since the images provided showed use of the contested marks in a single place on the box packaging, in rather small script next to the list of technical specifications. It added that, in view of the highly technical nature of the goods concerned as well as the length of the text on the packaging of the iMac computers, written in small letters, the relevant public would perceive the elements ‘think different’ as a promotional message inviting it to think differently, in other words, to ‘think outside the box’. Last, the Board of Appeal reached that conclusion without considering it necessary to assess whether the worldwide sales figures for iMac computers since 2009 were sufficient to demonstrate genuine use of the contested marks.>>, § 20.

Premesse le solite considerazioni generali, §§ 58-66, il T. rifiuta le dichiarazioni sulle vendite in quanto di parte e non provenienti da soggtto terzo, § 76 ss

Dice che è leigttimo considerare non sufficiente l’uso del segno che segua una serie di dettagli tecnici , collocati sul packaging, §§ 86-90

Inoltre nemmeno può essere considerato uso del segno , dato che era usato a fianco del  ben  più noto <macintosh>:

<<In the present case, as the photographs of the iMac computer packaging in the file illustrate, the word elements ‘think different’ do not appear on the labels affixed to the box packaging in a way which particularly draws the consumer’s attention. On the contrary, as the Board of Appeal correctly pointed out in paragraph 30 of the contested decisions, those word elements are placed under the technical specifications of the iMac computers, and just above the barcode in a relatively small character size. That expression is, moreover, accompanied by the word ‘macintosh’ of the same size and written in the same font.

94      It must therefore be concluded that the way in which the contested marks are used on iMac computer packaging does not ground the conclusion that they have been used as trade marks, that is to say, in accordance with their essential function of giving an indication of the commercial origin of the goods concerned>>, §§ 93-94

<< 95  By contrast, in the present cases, the expression ‘think different’ of the contested marks appears simply after a long list describing the technical specifications of the iMac product. In addition, it should be noted that the judgment of 30 November 2009, COLORIS (T‑353/07, not published, EU:T:2009:475) arose out of a context different from that of the present case, in that the term ‘coloris’, appearing on the labels to be affixed to metallic cans for colorants, was significantly larger than that of the other word elements. Last, unlike the present case, in the judgment of 15 December 2016, ALDIANO (T‑391/15, not published, EU:T:2016:741, paragraph 31), the earlier mark, which also constituted the applicant’s company name, was affixed to the packaging of the alcoholic beverages at issue. Moreover, the factual context of those three cases was different from that of the present case, in so far as it concerned products which were very different from the technological products in the present case, namely cosmetics, paint products and alcoholic beverages, sold in different shops and for a substantially lower amount>>.

iNOLTRE, l’Ufficio aveva trovato << that those marks, combined with the Macintosh mark, would be understood as a promotional message inviting consumers to think differently, in other words, to ‘think outside the box’. In paragraph 33 of those contested decisions, it stated that the inherent distinctiveness of the contested marks and hence its ability to perform the essential function of a mark – that of identifying the origin of the goods concerned – must be considered to be rather weak, which renders it even less plausible that English-speaking consumers will attribute to it a trade mark function>>, § 96

Istruzioni importanti per gli operatori (imprese e agenzia pubblicitarie e di comunciaizone) e per i loro consulenti giuridici circa le modalità di inserimento del segno nella progettazione dell’aspetto visivo del prodotto o del suo packaging.

Pronuncia inglese sulla tutela d’autore del “personaggio”

Eleonora Rosati nel blog IPKat dà notizia della sentenza inglese della Intell. Prop. enterprise court del 8 giugno 2022 [2022] EWHC 1379 (IPEC) , Shazam v. Only Fools ltd e altri, che esamina la tutela d’autore del personaggio letterario creato dall’a. per una serie televisiva di successo.

I punti più interessanti per noi sono:

. proteggibilità dello script (equivale a “copione”, suppergiù) come dramatic work secondo il loro copyright act, § 66;

– proteggibilità del personaggio, §§ 76-113 (secondo il doppio test europeo proposto dalla corte di giustizia in Cofemel), protetto anche in  disciplina basata su tipicità come quella UK qual literary work, § 121/2.

La violazione che discende è evidente, § 127.

E’ rigettata sia l’eccezione di parodia , § 194 ss (v. l’esame preliminare sull’istituto, § 160 ss) che quella di pastiche , § 195 ss

Impressiona l’analiticità e la chiarezza di analisi fattuale per accertare la contraffazione: v. lo schedule of infringement  e l’elenco dei punti copiati fornito dal giudice, § 132. Si v. anche la tabella finale delle conclusioni del giudice, p. 67/8.

Il senso pratico e il fine di immediata utilizzabilità di ogni ragionamento, proprio della cultura inglese, ha ancora molto da insegnarci.

Da noi la tutela del personaggio letteraio è comunemente ammessa. Lo stesso per il copione/script, quantomeno in liena astratta (salva la compiutezza espressiva nel caso specifico).

Sulla tutela dello script è noto il precedente cautelare torinese del 2015 (Trib. TO RG 32855/2014, 31.05.2015, Pagani v. Leo Burnett Company, reperibile in rete, ad es. qui) , il cui passaggio rilevante -in astratto: v. poi la seguente applicazione cocncreta- è :

<< –   Per questa ragione un momento di fondamentale importanza nel processo creativo dello  spot  è  la  sua  progettazione.  E’  in  questa  fase  che  avviene  la  individuazione  degli obbiettivi della pubblicità e del modo in cui conseguirli: la comunicazione che si intende dare, i destinatari,   il   modo   in   cui   raggiungerli.   In   altri   termini:   ciò   che   caratterizza   in modo “decisivo” uno spot è il modo in cui esso sceglie di caratterizzare un certo prodotto, e il  modo  in  cui  intende  comunicare  un  certo  messaggio  (p.es.  creando  sorpresa,  divertimento, simpatia,   complicità,   …).   L’idea   dello   spot,   da   intendersi   come   sua progettazione,  costituisce   quindi   la   sintesi,   destinata   a   essere   sviluppata   nella   fase   di   realizzazione del filmato. Anche quest’ultima fase è connotata (o almeno può esserlo) da attività creativa,
focalizzata  sugli  strumenti  di  realizzazione  della  reclame,  sul  sapiente  utilizzo delle   tecnologie  al  servizio  del  progetto  racchiuso  nell’ideainiziale.
–   Le   parti   hanno   a   lungo   discusso   sul   se   lo   script   di   uno   spot   pubblicitario   costituisca una concreta   espressione   creativa,   tale   da   far   riconoscere   il   suo   autore   come     autore dello stesso  spot.  L.B.C.  ha  sottolineato  la  differenza  fra  lo  script  e  il  bozzetto  pubblicitario (noto  in  gergo  come  storyboard),  ed  ha  richiamato  giurisprudenza  che  accorda  la  tutela  autoriale al   bozzetto   (sottintendendo   che   sia   necessario   “almeno   un   bozzetto”   per   ravvisare un contributo   materiale   all’opera).   Va   peraltro   chiarito   che   la   giurisprudenza   citata dal   convenuto  (Cass.  3390/2003)  ha  riconosciuto  al  bozzetto  il  valore  di  opera  protetta  ai sensi dell’art. 1 l. 633/1941; ma ciò di cui qui si discute non è se lo script realizzato dal P. sia  autonomamente  tutelabile  come  opera;  si  discute  invece  se  il  contributo  dato  dal  P.  con lo  script  gli  dia  titolo  per  qualificarsi  autore  morale  dello spot.
–  Il problema non va posto in termini astratti, ma concreti: non si tratta di affermare in  termini  generali  se  la  realizzazione  di  uno  script  sia  un  contributo  decisivo  alla  creazione di  un   filmato   pubblicitario;   ma   di   verificare   se,   nel   caso   di   specie,   lo   script  
realizzato dal ricorrente, per i suoi contenuti, per la sua relazione con lo spot finale, per il modo in cui è Stato  divulgato  e  recepito  nell’azienda  (Leo  Burnett)  e  al  di  fuori  di  essa,  valga  a individuare  il  suo  autore  come  autore  dell’opera  finale  (e  protetta),  cioè  lo spot.>>