Legge nazionale incompabitile con direttiva UE: obbligo di disapplicazione? Ancora sui minimi tariffari

La corte di giustizia dice che non c’è tale obbligo, se la questione è esaminata nell’ottica del diritto UE: la direttiva infatti non è direttametne applicabile tra privati.

Così C.G. 18.02.2022, C-261/20, Thelen Technopark c. MN (in tema di tariffe minime obbligatoria ei ingengneri e architgetti), ai §§ 24 segg. e spt. § 32.

Ciò non toglie che possa esserci tale obbligo secondo il diritto nazionale (§ 33); difficile però capire in che modo, visto che questo ha generato una legge incompatibile col diritto europeo, non con sè stesso (forse è possibile se contiene una qualche norma vieta di legiferare in diffomità da quello europeo).

Inoltre  la parte lesa può sempre ottenere il risarcimento del danno dallo Stato per mancata atuazione della direttiva, § 41 ss.

Altra decisione per cui Twitter non è State actor (nè è ravvisabile joint action con organi statali)

Un avvocato statunitense, divenuto acceso sostenitore di Trump, si vede etichettati in modo sfavolrevole (labeled) suoi post su Twitter e poi sospeso l’account in via definitiva.

Agisce allora contro Twitter (ed altri organi pubblici USA di alto livello con cui avrebbe commesso  conspiracy) facendo valere il diritto di parola/free speech.

L’ovvia eccezione di inesistenza di ogni state action nella condotta di Twitter viene però accolta.

Viene respinta pure la qualifica di <joint action> Stato/Twitter: il relativo test cheide “whether the state has `so far insinuated itself into a position of interdependence with [the private entity] that it must be recognized as a joint participant in the challenged activity“, sub III.A.1 (qualifica esaminata in dettaglio).

Si tratta del Tribunale del Nord California, 10.01.2022, Case No. 21-cv-07063-CRB. ,  ROGAN O’HANDLEY v.  ALEX PADILLA, et al., Defendants.

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Denominazioni di origine, genericità del segno e sua volgarizzazione: sul caso statunitense

Un Tribunale della Virginia (Alexnadria) affronta il caso del se il termine <Gruyere>, protetto in UE come denominazione di origine protetta, sia divenuto nome di genere (volgarizzato): si tratta di East. dist. of Virginia, Alexandria division, 15.12.2021, No. 1:20-cv-1174, INTERPROFESSION DU GRUYÈRE e altri v. UJSAdairy export council e altri.

In particolare la lite nasce da un ‘opposizione da parte di un grosso produttore caseario alla registrazione di Gruyere come marchio d icertificazione, il quale sostiene la genericità del termine (da noi anche per le DOP: art. reg. ue 1151/2021, art. 10.1.d).

La corte riconosce la volgarizzazione (o meglio: la sua genericità, trattandosi della fase della domanda di registrazione ed essendo irrilevanti le DOP-IGP nell’Unione Europea) presso il pubblico sulla base di tre tipi di prova:

(1) existing U.S. regulations permitting the use of the term GRUYERE on cheese regardless of where the cheese is produced;

(2) commercial and government data showing the widespread sale and import of GRUYERE cheese produced outside the Gruyère region of Switzerland and France [elemento altamente provante, dice il giudice, p. 19; aggiugne pure che molti formaggi prodotti in USA sono etichettati col nome de quo, p. 23 ss]; and

(3) evidence showing that the term GRUYERE is  commonly used in dictionaries, media communications, and cheese industry events and materials to refer to a type of cheese without respect to where the cheese is produced.

Pertabnto <<he record evidence of common usage and industry practice points clearly to the conclusion that while some individuals understand GRUYERE to have an association with Switzerland (and, to a lesser degree, France), the term GRUYERE has come to have a well-accepted generic meaning through the process of genericide and is no longer universally understood to indicate cheese produced in the Gruyère region.>>

Nessuna delle  parti aveva presentato come prova sondaggi presso i consumatori, ma questo non ha impedito al giduice d idecidere.

Ci si potrebbe chiedere se anche da noi il pubblica percepisca Gruyer come marchio/DOP oppure come termine genrico: però la questione è probabilmetne irrilevante poichè la DOP non è soggetta a volgarizzazione (art. 13.2 reg. _Ue 1151/2012)

La piattaforma Omegle è titolata al safe harbour ex 230 CDA

la piattaforma Omegle permette comunciazioni on line tra sconosciuti anonimi e casualmente messi in connessione.  Pare abbia discreto successo.

Come immaginabile, si presta a gravi illeciti di sex trafficking coinvolgenti minori.

Nel caso specifico un tribunale della Florida ha però ritenuto che Omegle sia titolata al safe harbour di cui al § 230 CDA, ricorrendone i requisiti: così U.S. DISTRICT COURTMIDDLE DISTRICT OF FLORIDA-TAMPA DIVISION, 8:21-cv-814-VMC-TGW, del 10 gennaio 2022.

Si v. l’analitico ragionamento in proposito condotto sub C), p. 9 segg. , così riassunto alla fine: <<In short, the Court finds that Omegle is entitled to immunity under CDA Section 230 because (1) it is an ICS provider under the CDA, (2) Plaintiffs’ claims seek to treat Omegle as a publisher or speaker, and (3) the information at issue originated from another information provider, John Doe>>, p. 16.

Inoltre la  domanda di violazione del 18 U.S. Code § 1591 – Sex trafficking of children or by force, fraud, or coercion, è rigettata nel merito per carenza di elemento sogettivo (“knowingly”): <<the asserted claims against Omegle are premised upon general, constructive knowledge of past sex trafficking incidents. …  The generalized knowledge of past instances of sex trafficking are not enough to satisfy an exception to immunity.>>

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Marchio di forma e rossetti (brevissime sulla decisione Guerlain)

Trib. UE 14.07.2021, T-488/20, Guerlain c. EUIPO, decide favorevolmente alla impresa francese la domanda di registrabilità del (contenitore del) suo rossetto.

La fase amministrativa le era stata sfavorevole ma il Tribunale riforma.

La sentenza è disponibile solo in francese e le riproduzioni grafiche ivi presenti del contenitore sono scadenti (v.le in sentenza).

Riporto alcuni passaggi della sintesi fornita dal sito web della Corte:

1: <<il Tribunale ricorda che la valutazione del carattere distintivo non si basa sull’originalità o sul mancato uso del marchio richiesto nel settore cui appartengono i prodotti e i servizi interessati Infatti un marchio tridimensionale costituito dalla forma del prodotto deve necessariamente discostarsi significativamente dalla norma o dagli usi del settore interessato. Pertanto la mera novità di tale forma non è sufficiente per concludere che esiste un carattere distintivo. Tuttavia il fatto che un settore sia caratterizzato da una considerevole varietà di forme di prodotti non implica che un’eventuale nuova forma sia necessariamente percepita come una di esse>>:              idee pacifiche.

2:  <<secondo il Tribunale, la circostanza che taluni prodotti presentino un design di qualità non implica necessariamente che un marchio costituito dalla forma tridimensionale di tali prodotti possa distinguere i prodotti medesimi da quelli di altre imprese. Il Tribunale rileva che la presa in considerazione dell’aspetto estetico del marchio richiesto non equivale ad una valutazione sulla bellezza del prodotto di cui trattasi, bensì mira a verificare se tale aspetto sia idoneo a suscitare un effetto visivo oggettivo e inusuale nella percezione del pubblico di riferimento>>:             pacifico: l’aspetto estetico è considerato solo per vedere se il segno è <distintivo> (v. nota 1, ivi: <<dire che un marchio ha carattere distintivo ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) 2017/1001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2017, sul marchio dell’Unione europea (GU 2017, L 154, pag. 1), equivale a dire che tale marchio permette di identificare il prodotto, per il quale è chiesta la registrazione, come proveniente da un’impresa determinata e, dunque, di distinguere tale prodotto da quelli di altre imprese>>)

3: <<il Tribunale constata che la forma in questione è inusuale per un rossetto e differisce da qualsiasi altra forma presente sul mercato. Infatti il Tribunale osserva innanzitutto che tale forma ricorda quella dello scafo di un battello o di un paniere. Orbene, una forma siffatta differisce significativamente dalle immagini considerate dalla commissione di ricorso, le quali rappresentavano per lo più rossetti di forme cilindriche e parallelepipede. Inoltre la presenza di una piccola forma ovale in rilievo è insolita e contribuisce alla parvenza inconsueta del marchio richiesto. Infine il fatto che il rossetto rappresentato da tale marchio non possa essere posizionato in modo verticale accentua l’aspetto visivo inconsueto della sua forma>>:            il giudizio è fattual-estetico ma è difficile pronunciarsi su di esso, data la menzionata sfocatura delle riproduzioni.

4: pertanto <<il pubblico di riferimento rimarrà sorpreso da tale forma facilmente memorizzabile e la percepirà come significativamente diversa dalla norma o dagli usi del settore dei rossetti ed idonea ad indicare l’origine dei prodotti interessati. Il marchio richiesto è quindi dotato di un carattere distintivo che ne consente la registrazione>> : applicazione del ragionamento di cui al numero preced.

Sentenza milanese sul marchio c.d. di posizione

il portale giurisprudenzadelleimprese.it dà notizia di una interessante sentenza 2020 sul marchio di posizione, definente la lite in primo grado  tra due note imprese dell’abbigliamento (sent. 29.12.2020 sez. spec. impresa, n° 8845/2020, Rg 15722/2018, Diesel c. Calvin Klein).

Il segno de quo è costituito da una striscia posta sulla quinta tasca anteriore destra di un jeans (quella piccolina, porta-monete in origine): Diesel l’ha collocata in obliquo, mentre CK in orizzontale (cioè parallela alla c.d. cintura del jeans, ove sono attaccati i passanti).

Per il collegio il marchio di posizionamento è valido, perchè astrattamente distintivo e perchè non infrange esigenze collettive di disponibilità del segno : <<Trattasi dunque di marchio di posizionamento, posto che nella sua descrizione particolare evidenza risulta essere conferita sia alla specifica apposzione di esso sulla quinta tasca anteriore di un paio di jeans – indipendentemente dalla configurazione di tale indumento – sia nella particolare posizione della striscia di tessuto rilevabile nell’immagine che appare inclinata rispetto al borso superiore della tascasulla quale è apposta .     Ritiene il Collegio che un siffatto segno possa essere oggetto di un uso e di una registrazione come marchio, posto che tale etichetta costituisce un aspetto “capriccioso” ed inessenziale, essendo tutelata non la striscia che compone un’etichetta tout court, bensì una sua specifica configurazione indicata sostanzialmente nella posizione sull’indumento e nella sua inclinazione.    Tale tipologia di etichetta per il suo posizionamento può dunque integrare in sé un segno valido poiché non costituito esclusivamente dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto (art. 9, comma 1,lett. c) c.p.i.) in quanto esso non investe in alcun modo l’aspetto esteriore del prodotto né ne condizionala forma sotto il profilo ornamentale. D’altra parte è pacifico che tale striscia di tessuto è stata sempreutilizzata nell’ambito del marchio più complesso comprendente la denominazione Diesel .  In tale contesto dunque il segno rivendicato non può costituire il motivo per cui il consumatore decidedi acquistare quel tipo di pantalone jeans. Esso dunque rispetta in sé il principio di estraneità delmarchio al prodotto, la cui violazione renderebbe invece insuscettibili di tutela come marchio i disegniornamentali del prodotto quando abbiano carattere meramente estetico – tutelabili quindi come modelli- ossia quando attribuiscano allo stesso solo un “valore sostanziale”, divenendo elemento influente sullascelta d’acquisto (cfr. caso Burberry Check, Cass., n. 5243/1999, cfr. CG C-299/99, “Philips”; CG C-205/13, “Stokke”, cfr. Trib. UE, T-508/08, “Bang & Olufsen”)>>.

Inoltre, il segno non solo è in astratto ammissibile alla privativa, ma anche in concreto distintivo di una certa azienda (di Diesel), § 2.1-2.2 (distinzione concettuale fondata sul dettato normativo ma di dubbia esattezza).

Nè ricorre la funzione ornametnale e nemmeno la standardizzazione, § 2.3.

La tutela perà non viene concessa poichè il segno avversario orizzontale è sufficientemente diverso da scongiurare il rischio di confondibilità, p. 15.

Interessante infine è l’affermazione per cui conta il segno come chiesto in registrazione e non come viene percepito a seguito dell’uso , che eliminerebbe o ridurrebbe la caratteristica della obliquità/inclinazione nella percezione del pubblico: <<Né vale opporre a tale considerazione come hanno sostenuto le attrici il fatto che nell’uso quotidiano in realtà la caratteristica dell’inclinazione dell’etichetta andrebbe persa per effettto dei vari movimenti di chi indossa il pantalone. Tale rilievo che in sé pare contraddire le stesse tesi delle attrici quanto alla validità del loro segno rispetto a segni anteriori non può essere considerato nella valutazione di interferenza, dovendosi procedere ad un confronto tra i segni così come apposti sui prodotti e come registrati rispetto a quelli in contestazione. Diversamente l’ambito di tutela del segno in questione risulterebbe indebitamente allargato fino a coprire di fatto quei segni che la stessa titolare del marchio considera non interferenti>>

La corte milanese richiama il precedente europeo Corte Giustizia 18 aprile 2013, C-12/12, Colloseum Holding AG/Levi Strauss & Co.

La sentenza pare sostanzialmente esatta. Solo che non precisa la base normativa della tutela da  marchio di fatto (azionato assieme alla registrazione): la quale consiste nell’art. 2598 cc. (disposizione mai invocata in motivazione) e non nella disciplina posta dal cod. propr. ind.

La conferma testamentaria (art. 590 cc) non opera in caso di testamento inesistente (perchè apocrifo)

Cass. n° 40.138 del 15.12.2021, rel. Carrato, chiarisce che la conferma (meglio: la volontaria esecuzione) ex art. 590 cc non opera quando questo il testamento è inesistente, come succede nel caso di documento apocrifo.

In particolare: <<l’art. 590 c.c. non ha modo di operare quando risulta accertata – come è pacificamente accaduto nel nostro caso – l’apocrificità del testamento (quindi interamente nullo) per falsità della sottoscrizione del “de cuius” (non potendo quindi,discorrersi della nullità di singole disposizioni testamentarie, alle quali si possa aver dato volontaria esecuzione, manifestando la volontà di non impugnarle).   E’ stato, infatti, al riguardo affermato il principio (al quale dovrà uniformarsi il giudicedi rinvio) secondo cui l’art. 590 c.c., nel prevedere la possibilità di conferma od esecuzione di una disposizione testamentaria nulla da parte degli eredi, presuppone, per la sua operatività, l’oggettiva esistenza di una disposizione testamentaria che sia comunque frutto della volontà del “de cuius”, sicché detta norma non trovaapplicazione in ipotesi di accertata sottoscrizione apocrifa del testamento, la qualeesclude in radice la riconducibilità di esso al testatore (cfr. Cass. n. 11195/2012 e, daultimo, Cass. n. 10065/2020).In altri termini, in tema di nullità del testamento olografo, la finalità del requisito dellasottoscrizione, previsto dall’art. 602 c.c. distintamente dall’autografia delle disposizioniin esso contenute, ha la finalità di soddisfare l’imprescindibile esigenza di averel’assoluta certezza non solo della loro riferibilità al testatore, già assicuratadall’olografia, ma anche dell’inequivocabile paternità e responsabilità del medesimoche, dopo avere redatto il testamento – anche in tempi diversi – abbia disposto del suopatrimonio senza alcun ripensamento; pertanto, nel caso in cui sia accertata la nonautenticità della sottoscrizione apposta al testamento, non può trovare applicazionel’art. 590 c.c. che, nel consentirne la conferma o l’esecuzione da parte degli eredi,presuppone l’oggettiva esistenza di una disposizione testamentaria che, pur essendoaffetta da nullità, sia comunque frutto della volontà del “de cuius”>>.

Soluzione ineccepibile.

 

Invalidità della delibera condominiale e riparto delle spese comuni

Cass. sez. un. 9.839 del 14.04.2021, rel. Lombardo Luigi G. ,  sull’oggetto così enuncia i principi di diritto, § 6.5 (erano state sollevate anche altre questioni):

<<– “In tema di condominio negli edifici, sono affette da nullità, deducibile in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse, le deliberazioni dell’assemblea dei condomini che mancano ab origine degli elementi costitutivi essenziali, quelle che hanno un oggetto impossibile in senso materiale o in senso giuridico – dando luogo, in questo secondo caso, ad un “difetto assoluto di attribuzioni” – e quelle che hanno un contenuto illecito, ossia contrario a “norme imperative” o all’ordine pubblico” o al “buon costume”; al di fuori di tali ipotesi, le deliberazioni assembleari adottate in violazione di norme di legge o del regolamento condominiale sono semplicemente annullabili e l’azione di annullamento deve essere esercitata nei modi e nel termine di cui all’art. 1137 c.c.”;

– “In tema di deliberazioni dell’assemblea condominiale, sono nulle le deliberazioni con le quali, a maggioranza, siano stabiliti o modificati i generali criteri di ripartizione delle spese previsti dalle legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, trattandosi di materia che esula dalle attribuzioni dell’assemblea previste dall’art. 1135 c.c., nn. 2) e 3), e che è sottratta al metodo maggioritario; sono, invece, meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni adottate senza modificare i criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione, ma in violazione degli stessi, trattandosi di deliberazioni assunte nell’esercizio delle dette attribuzioni assembleari, che non sono contrarie a norme imperative, cosicchè la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza previsto dall’art. 1137 c.c., comma 2″>>.

Anche Taiwan conferma che l’inventore deve essere un umano, per cui non può esserlo un sistema di Intelligenza Artificiale (ancora su DABUS)

GRUR International dà notizia di una decisione dell’ufficio brevettuale taiwanese (incardinato presso un Tribunale/Court, parrebbe dal nome) che rigetta la domanda di brevetto intestata alla intelligenza artificiale.

Manco a dirlo, si tratta del noto sistema di A.I. detto DABUS, autore del quale è il solito Stephen L. Thaler.

Ecco le massime presenti nella cit. rivista:

1. Only a natural person qualifies as an inventor under the patent laws of Taiwan. This reading is confirmed by a plain reading of the relevant statutes, the overall purpose of the patent system, and the inventor’s moral rights to indicate their name in the patent application.

2. An artificial intelligence system (AI) is not a person but an object of rights under the law of Taiwan. As such it cannot become a subject of rights, have legal capacity, or be entitled to legal rights.

3. The fact that an applicant only provides the name of an AI can be considered a failure to indicate the name and nationality of the inventor. If the applicant fails to remedy the omission within the statutory or specified time periods, the patent application shall be lawfully dismissed.

La Cassazione sulla responsabilità civile dei sindaci di sp.a. (quasi una lectio magistralis)

Cass. 24.045 del 06 settembre 2021 interviene sulla responsabilità dei sindaci di spa (art. 2407 cc., essenzialmente  comma 2).

Nulla di innovativo ma un ripasso approfondito.

E’ ante riforma 2003 ma il testo è  uguale nella parte pertinente della disposizione.

Due soprattutto sono i  punti da cogliere.

Il primo riguarda il nesso di causalità :

quando  il  danno  non  si  sarebbe
prodotto se essi avessero  vigilato  in  conformita'  degli  obblighi
della loro carica.

Ebene: << In altri termini, perché sussista il nesso di causalità ipotetica tra l’inadempimento dei sindaci ed il danno cagionato dall’atto di mala gestio degli amministratori, nel senso che possa ragionevolmente presumersi che, senza il primo, neppure il secondo si sarebbe prodotto, o si sarebbe verificato in termini attenuati, è necessario che il giudice, di volta in volta, accerti che i sindaci, riscontrata la illegittimità del comportamento dell’organo gestorio nell’adempimento del dovere di vigilanza, abbiano poi effettivamente attivato, nelle forme e nei limiti previsti, gli strumenti di reazione, interna ed esterna, che la legge implicitamente od esplicitamente attribuisce loro, privilegiando, naturalmente, quello più opportuno ed efficace a seconda delle circostanze del singolo caso concreto.  E precisamente, di fronte ad un atto di mala gestio degli amministratori, i sindaci che vogliano evitare l’azione di responsabilità nei propri confronti, devono, oltre che verbalizzare il proprio dissenso (rispetto alle deliberazioni del collegio stesso) nel verbale delle adunanze del collegio sindacale (art. 2404 c.c., u.c.), anche: a) chiedere, se del caso per iscritto, notizie e chiarimenti al consiglio di amministrazione in ordine all’andamento delle operazioni sociali o su determinati affari (cfr. Cass. n. 5263 del 1993); b) procedere in qualsiasi momento, anche individualmente, ad atti di ispezione e di controllo (art. 2403 c.c., anche nel testo oggi vigente sotto l’art. 2403-bis c.c.), se del caso avvalendosi, sotto la propria responsabilità ed a proprie spese, di propri dipendenti ed ausiliari (art. 2403-bis c.c., anche nel testo attualmente vigente); c) convocare e partecipare, come è loro obbligo, alle riunioni del consiglio di amministrazione (art. 2405 c.c.), verbalizzare l’eventuale dissenso sul libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, ed impugnarne le deliberazioni affette da nullità od annullabilità (vedi l’art. 2388 c.c., comma 4), specie quando il vizio sia idoneo a danneggiare la società od i creditori (arg. ex art. 2391 c.c., comma 3, art. 2394 c.c. e art. 2407 c.c., commi 2 e 3); d) convocare (art. 2406 c.c.) e partecipare, come è loro obbligo, all’assemblea dei soci (art. 2405 c.c.), nonché impugnare le deliberazioni dell’assemblea che non siano state prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo (art. 2377 c.c., comma 1, anche nel testo in vigore); e) formulare esposti al Pubblico Ministero, affinché questi provveda ex art. 2409 c.c., quando tale iniziativa sia rimasta davvero l’unica praticabile in concreto per poter legittimamente porre fine alle illegalità di gestione riscontrate, essendosi rilevati insufficienti i rimedi endosocietari (cfr., in tal senso, Cass. n. 9252 del 1997), ovvero, come è stato espressamente riconosciuto dalla riforma del 2003, promuovere direttamente il controllo giudiziario sulla gestione se si ha il fondato sospetto che gli amministratori abbiano compiuto gravi irregolarità (art. 2409 c.c., u.c. nuova formulazione)>>, § 2.2.4.

Si noti la gravosità del dovere impugnatorio ex lett. c) e d).

Riassunto fatto dalla  SC stessa: << 2.3 . Riassumendo, dunque, se è vero che il sindaco non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della sua mera “posizione di garanzia”, si esige tuttavia, a fini dell’esonero dalla responsabilità, che egli abbia esercitato o tentato di esercitare l’intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge. Da un lato, solo un più penetrante controllo, attuato mediante attività informative e valutative – in primis, la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c. – può dare concreto contenuto all’obbligo di tutela degli essenziali interessi affidati al collegio sindacale, “…cui non è consentito di rimanere acriticamente legato e dipendente dalle scelte dell’amministratore, quando queste collidano con i doveri imposti dalla legge, al contrario avendo il primo il dovere di individuarle e di segnalarle ad amministratori e soci, non potendo assistere nell’inerzia alle altrui condotte dannose: senza neppure potersi limitare alla richiesta di chiarimenti all’organo gestorio, ma dovendosi spingere a pretendere dal medesimo le cd. azioni correttive necessarie” (cfr., in motivazione, Cass. n. 18770 del 2019). Dall’altro lato, il sindaco dovrà fare ricorso agli altri strumenti previsti dall’ordinamento, come i reiterati inviti a desistere dall’attività dannosa, la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c. (ove omessa dagli amministratori, o per la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate), i solleciti alla revoca delle deliberazioni assembleari o sindacali illegittime, l’impugnazione delle deliberazioni viziate, il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. o all’autorità giudiziaria penale, ed altre simili iniziative. Dovendosi ribadire che, come questa Corte ha già osservato, anche la semplice minaccia di ricorrere ad un’autorità esterna può costituire deterrente, sotto il profilo psicologico, al proseguimento di attività antidoverose da parte dei delegati (cfr. Cass. n. 31204 del 2017 e Cass. 11 novembre 2010, n. 22911 del 2010, entrambe richiamate, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 18770 del 2019). Senza trascurare, altresì, che la condotta impediente omessa va valutata nel contesto complessivo delle concrete circostanze, in quanto l’inerzia del singolo, nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo degli altri) acquista efficacia causale, atteso che, all’opposto, una condotta attiva giova a “rompere il silenzio” sollecitando, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge ed ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri (cfr., in motivazione, Cass. n. 18770 del 2019, nonché, in sede penale, Cass. pen. 7 marzo 2014, n. 32352, Tanzi).

2.3.1. A fronte di iniziative anomale da parte dell’organo amministrativo di società di capitali, dunque, i sindaci hanno l’obbligo di porre in essere, con tempestività, tutti gli atti necessari all’assolvimento dell’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, attivando ogni loro potere (se non di intervento sulla gestione, che non compete se non in casi eccezionali, certamente) di sollecitazione e denuncia diretta, interna ed esterna, doveroso per un organo di controllo. In mancanza, essi concorrono nell’illecito civile commesso dagli amministratori della società per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti per legge (cfr., in motivazione, Cass. n. 18770 del 2019)>>.

Sugli oneri di allegazione e prova: <<Resta da precisare che l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale onere, l’inerzia del sindaco integra di per sé la responsabilità, restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami, indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale (cfr., in motivazione, Cass. n. 18770 del 2019). Costituisce, infatti, costante indirizzo interpretativo quello per cui la natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comporta che quest’ultima ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste ed il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti (cfr. Cass. n. 28642 del 2020, in motivazione; Cass. n. 2975 del 2020; Cass. n. 17441 del 2016; Cass. n. 14988 del 2013; Cass. n. 22911 del 2010).>>, § 2.5.

Il secondo punto importante riguarda la fattispecie del concorso ex art. 2055 cc:

<< 2.7.3. In altri termini, la diversità delle condotte illecite e dei soggetti che le hanno poste in essere è circostanza del tutto indifferente alla integrazione della fattispecie di cui all’art. 2055 c.c., comma 1, atteso che l’unica questione rilevante ai fini della responsabilità solidale dei soggetti che hanno contribuito alla produzione dell’eventus damni attiene alla verifica del rapporto di causalità materiale, ex art. 41 c.p., (da intendersi in senso civilistico secondo il criterio del “più probabile che non”) tale per cui tutte le cause concorrenti, preesistenti, simultanee o sopravvenute, debbono ritenersi parimenti determinanti, ove non accertata l’esclusiva efficienza causale di una di esse (cfr. Cass. n. 7016 del 2020).

2.7.4. Deve ribadirsi, in proposito, il consolidato principio, enunciato da questa Corte, secondo cui l’unicità del fatto dannoso richiesta dall’art. 2055 c.c. ai fini della configurabilità della responsabilità solidale degli autori dell’illecito va intesa in senso non assoluto, ma relativo al danneggiato, sicché ricorre tale responsabilità, volta a rafforzare la garanzia di quest’ultimo e non ad alleviare la responsabilità degli autori dell’illecito, pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi, sempre che le singole azioni o omissioni, legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno, a nulla rilevando, a differenza di quanto accade nel campo penalistico, l’assenza di un collegamento psicologico tra le stesse (cfr., ex aliis, Cass. n. 1842 del 2021; Cass. n. 7016 del 2020; Cass. n. 23450 del 2018; Cass. n. 18753 del 2017; Cass. n. 18899 del 2015; Cass., SU, n. 16503 del 2009, in motivazione).>>