La responsabilità degli internet provider per violazioni IP: quella della piattaforma Cloudfare è negata

Secondo i titolari di diritto di autore su vestiti da nozze l’avvalersi della piattaforma Cloudfare per vendere prodotti contraffatti fa sorgere anche responsabilità di questa.

Lo nega la corte del nord Californa Case 3:19-cv-01356-VC del 6 ottobre 2021, MON CHERI BRIDALS c. Cloudfare.

secondo gli attori, <Cloudflare contributes to the underlying copyright infringement by providing infringers with caching, content delivery, and security services.>
Ma il controibutory infringement ricorre solo se <it “(1) has knowledge of
another’s infringement and (2) either (a) materially contributes to or (b) induces that infringement>.

la corte osserva: <Simply providing services to a copyright infringer does not qualify as a “material contribution.” Id. at 79798. Rather, liability in the internet context follows where a party “facilitate[s] access” to infringing websites in such a way that “significantly magnif[ies]” the underlying infringement. Perfect 10, Inc. v. Amazon.com, Inc., 508 F.3d 1146, 1172 (9th Cir. 2007); see A&M Records, Inc. v. Napster, Inc., 239 F.3d 1004, 1022 (9th Cir. 2001). A party can also materially contribute to copyright infringement by acting as “an essential step in the infringement process.” Louis Vuitton Malletier, S.A. v. Akanoc Solutions, Inc., 658 F.3d 936,  94344 (9th Cir. 2011) (quoting Visa International, 494 F.3d at 812 (Kozinski, J., dissenting)). >

Pertanto rigetta la domanda.

1 – Gli attori non hanno dato prova per cui una giuria possa dire <that Cloudflare’s performance-improvement services materially contribute to copyright infringement. The plaintiffs’ only evidence of the effects of these services is promotional material from Cloudflare’s website touting the benefits of its services. These general statements do not speak to the effects of Cloudflare on the direct infringement at issue here. For example, the plaintiffs have not offered any evidence that faster load times (assuming they were faster) would be likely to lead to significantly more infringement than would occur without Cloudflare. Without such evidence, no reasonable jury could find that Cloudflare “significantly magnif[ies]” the underlying infringement. Amazon.com, Inc., 508 F.3d at 1172. Nor are Cloudflare’s services an “essential step in the infringement process.” Louis Vuitton Malletier, 658 F.3d at 944. If Cloudflare were to remove the infringing material from its cache, the copyrighted image would still be visible to the user; removing material from a cache without removing it from the hosting server would not prevent the direct infringement from occurring. >

La questione della specificità (v. parole in rosso)  è importante -spesso decisiva- anche nel ns. ordinameto sul medesimo problema.

  1. nè Clouddfare rende più difficile l’0individuazione della contraffazione: <Cloudflare’s security services also do not materially contribute to infringement. From the perspective of a user accessing the infringing websites, these services make no difference. Cloudflare’s security services do impact the ability of third parties to identify a website’s hosting provider and the IP address of the server on which it resides. If Cloudflare’s provision of these services made it more difficult for a third party to report incidents of infringement to the web host as part of an effort to get the underlying content taken down, perhaps it could be liable for contributory infringement. But here, the parties agree that Cloudflare informs complainants of the identity of the host in response to receiving a copyright complaint, in addition to forwarding the complaint along to the host provider>.

Stranamente non si menziona la preliminare di rito (o pregiudiziale di merito?) della carenza di azione ex saharbour § 230 CDA: pareva invocabile.

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Software, decompilazione e tutela d’autore in sede europea (dopo le conclusioni dell’A.G., arriva la C.G.)

E’ messa la parola fine alla lite intorno al diritto di intervenire sul software quando sia necessario per rimediare ad errori, <<anche quando la correzione consista nel disattivare una funzione che incide sul corretto funzionamento dell’applicazione di cui fa parte il programma stesso.>>

Dopo le conclusioni 10.03.21 dell’avvocato generale accennate in mio post,  interviene la CG con sentenza 06.10.2021, C-13/20, Top System c. Stato belga.

La CG risponde positivamente al quesito del giudice belga: l’acquirente del software può decompilarlo quando necessario per rimediare ad errori e ciò  anche si deve  disattivarne un afunzione.

Interpretazione non molto difficile, peraltro: il concetto di <<correzione di errori>> (art. 5.1 dir. 1991 n. 250) porta tranquillamente a ciò.

Nè vi osta la disciplina sulla decompilazione ex art. 6 dir. cit., che si limita a regolarne un’ipotesi di liceità: non c’è alcun motivo per ritenerla l’unica (§§ 48-50). L’intepretazione complessiva degli artt. 5 e 6 lo conferma senza esitazione.

Ne segue che non ha alcuna base testuale nè logica pretendere per il caso di correzione degli errori i requisiti pretesi per la diversa ipotesi di decompilabilità ex citato art. 6.1 (§§ 68).

Tutto sommato decisione facile.

La CG accenna poi alla regolabilità contrattuale dell’evenienza di errori, § 66-67: non può portare all’esclusione totale del diritto di decompilazione. In altre parole questo è indisponibile, perchè posto da norma imperativa.

Infine sarà importante capire quando la decompilazione è realmente <necessaria> alla correzione.

La responsabilità risarcitoria da illecito concorrenziale (cartello vietato), accertato in capo alla società madre, si estende pure alla società figlia

Nella causa C-882/19, Sumal c. Mercedes, è arrivata la sentenza 06.10.2021 della corte di giustizia , dopo le conclusioni dell’AG (più articolate).

Il danneggiato ha azione anche verso la società figlia: questo il responso.

Questioni pregiudiziali, § 15:

«[1])      Se la dottrina dell’unità economica che deriva dalla giurisprudenza della stessa [Corte] giustifichi l’estensione della responsabilità della società madre alla società figlia oppure se tale dottrina si applichi solo ai fini di estendere la responsabilità delle società figlie alla società madre.

[2])      Se la nozione di unità economica debba essere estesa nell’ambito dei rapporti infragruppo facendo esclusivamente riferimento a fattori relativi al controllo o se possa fondarsi anche su altri criteri, tra cui il fatto che la società figlia abbia potuto trarre beneficio dalle infrazioni.

[3])      Nel caso in cui sia riconosciuta la possibilità di estendere la responsabilità della società madre alla società figlia, quali siano i relativi requisiti.

[4])      Se la risposta alle precedenti questioni fosse favorevole a riconoscere l’estensione alle società figlie della responsabilità delle società madri per le condotte poste in essere da queste ultime, se sia compatibile con tale orientamento [della Corte] una norma nazionale, come l’articolo 71, paragrafo 2, della [legge sulla tutela della concorrenza], che contempla unicamente la possibilità di estendere la responsabilità della società figlia alla società madre, purché sussista una situazione di controllo della società madre sulla società figlia».

Risposta (sulla 2 e 3):

<<48   … un’entità giuridica che non sia indicata in tale decisione come autrice dell’infrazione al diritto della concorrenza può nondimeno essere sanzionata per il comportamento illecito di un’altra persona giuridica allorché tali persone giuridiche facciano tutte e due parte della stessa entità economica e formino così un’impresa, che è l’autrice dell’infrazione ai sensi del citato articolo 101 TFUE (…)

49      Infatti, la Corte ha già dichiarato che il rapporto di solidarietà che unisce i membri di un’unità economica giustifica in particolare l’applicazione della circostanza aggravante della recidiva nei confronti della società madre sebbene quest’ultima non sia stata oggetto di precedenti procedimenti, che hanno dato luogo a una comunicazione degli addebiti e a una decisione. In una situazione del genere, appare determinante il precedente accertamento di una prima infrazione derivante dal comportamento di una società figlia con la quale detta società madre, coinvolta nella seconda infrazione, formava, già all’epoca della prima infrazione, una sola impresa ai sensi dell’articolo 101 TFUE (…)

50     Di conseguenza, nulla osta, in linea di principio, a che la vittima di una pratica anticoncorrenziale proponga un’azione di risarcimento danni nei confronti di una delle entità giuridiche che costituiscono l’unità economica e, pertanto, dell’impresa che, commettendo una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, abbia causato il danno subito da tale vittima.

51     Pertanto, ..  la vittima di tale infrazione può legittimamente cercare di far valere la responsabilità civile di una società figlia di tale società madre anziché quella della società madre, conformemente alla giurisprudenza citata al punto 42 della presente sentenza. La responsabilità della società figlia in parola può tuttavia sorgere solo se la vittima prova, sulla base di una decisione adottata in precedenza dalla Commissione in applicazione dell’articolo 101 TFUE, o con qualsiasi altro mezzo, in particolare qualora la Commissione abbia taciuto su tale punto in detta decisione o non sia stata ancora chiamata ad adottare una decisione, che, tenuto conto, da un lato, dei vincoli economici, organizzativi e giuridici di cui ai punti 43 e 47 della presente sentenza e, dall’altro, dell’esistenza di un legame concreto tra l’attività economica di tale società figlia e l’oggetto dell’infrazione di cui la società madre è ritenuta responsabile, la suddetta società figlia costituiva un’unità economica con la sua società madre.

52     Dalle considerazioni che precedono risulta che una siffatta azione di risarcimento danni proposta nei confronti di una società figlia presuppone che il ricorrente provi (…) i vincoli che uniscono tali società menzionati al punto precedente di quest’ultima, nonché il legame concreto, di cui al medesimo punto, tra l’attività economica di tale società figlia e l’oggetto dell’infrazione di cui la società madre è stata ritenuta responsabile. Pertanto, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, la vittima dovrebbe dimostrare, in linea di principio, che l’accordo anticoncorrenziale concluso dalla società madre per il quale essa è stata condannata riguarda gli stessi prodotti commercializzati dalla società figlia. Così facendo, la vittima dimostra che è proprio l’unità economica cui appartiene la società figlia, insieme alla sua società madre, che costituisce l’impresa che ha effettivamente commesso l’infrazione previamente accertata dalla Commissione ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, conformemente alla concezione funzionale della nozione di «impresa» accolta al punto 46 della presente sentenza.

53   (…)  54    A questo proposito, detta società figlia deve poter confutare la sua responsabilità per il danno lamentato, in particolare facendo valere qualsiasi motivo che avrebbe potuto dedurre se fosse stata coinvolta nel procedimento avviato dalla Commissione nei confronti della sua società madre, che ha portato all’adozione di una decisione della Commissione che constata l’esistenza di un comportamento illecito contrario all’articolo 101 TFUE (public enforcement).

55   Tuttavia, per quanto riguarda la situazione in cui un’azione di risarcimento danni si basa sulla constatazione, da parte della Commissione, di un’infrazione all’articolo 101, paragrafo 1, TFUE in una decisione rivolta alla società madre della società figlia convenuta, quest’ultima non può contestare, dinanzi al giudice nazionale, l’esistenza dell’infrazione così accertata dalla Commissione. Infatti, l’articolo 16, paragrafo 1, del regolamento n. 1/2003 prevede, segnatamente, che quando le giurisdizioni nazionali si pronunciano su accordi, decisioni o pratiche rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 101 TFUE che sono già oggetto di una decisione della Commissione, non possono prendere decisioni che siano in contrasto con la decisione adottata dalla Commissione>>.

Requisiti della delibera dei soci che promuove l’azione contro gli amministratori (art. 2393 cc)

Se ne occupa Cass. 23.07.2021 n. 21.245, rel. Caradonna.

Premesso che <costituisce una condizione dell’azione, la cui sussistenza va verificata d’ufficio dal giudice e che, come tale, è sufficiente che sussista al momento della pronuncia della sentenza che definisce il giudizio (Cass., 26 agosto 2004, n. 16999; Cass., 11 novembre 1996, n. 9849)>, entra nel merito del caso.

La delibera dei soci era del seguente tenore: <<dare mandato al legale di verificare se ci siano gli estremi per un’azione di responsabilità nei confronti di tutto il precedente Consiglio di Amministrazione, dei Consigli ancora precedenti, oltre che dei Collegi dei sindaci, che avevano operato dalla costituzione della Cooperativa ad oggi e, nel caso ci siano i presupposti di dare, fin da ora, formale mandato al legale di intraprendere tutte le azioni del caso».>>

Correttamente , dice la SC, il Tribunale ha affermato che <<l’assemblea dei soci non avesse espresso la consapevole volontà di adire l’autorità giudiziaria per promuovere l’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci, proprio in considerazione del contesto complessivo della riunione del 28 ottobre 2011, che aveva visto come oggetto genericamente il grave dissesto finanziario creato dai precedente consiglio di amministrazione e che aveva deliberato di dare mandato al legale di verificare la sussistenza dei presupposti dell’azione di responsabilità «nei confronti di tutto il precedente Consiglio di amministrazione, dei Consigli ancora precedenti oltre che dei Collegi dei sindaci che avevano operato dalla costituzione della Cooperativa ad oggi» e di intraprendere, in presenza dei presupposti, «tutte le azioni del caso», nella mancata indicazione, per l’appunto, non solo degli addebiti mossi agli ex amministratori, ma anche dei soggetti contro i quali si sarebbe concretamente agito, elementi che avrebbero consacrato in modo formale e inderogabile l’espressione della volontà della società di cui, per quanto già detto, non sono ammessi equipollenti. E ciò anche in ragione della duplice considerazione spiegata dai giudici di merito che gli addebiti poi azionati nella causa in esame non coincidevano con quelli sui quali il Presidente della Cooperativa aveva specificamente relazionato all’assemblea del 28 novembre 2011 e che l’indicazione del totale dei debiti e del disavanzo negativo di euro 3.918.630,00 era stata genericamente rimproverata al precedente Consiglio di Amministrazione. 9 Corte di Cassazione – copia non ufficiale

2.7  Questa Corte, al riguardo, ha ritenuto valida l’autorizzazione di un’assemblea di una Cooperativa che aveva esteso l’autorizzazione all’azione di responsabilità «per tutte quelle negligenze ed addebiti che emergono nel corso del giudizio», ma dopo una prima autorizzazione riguardante l’azione di responsabilità per il danno derivante dai pagamenti effettuati in favore del Consorzio appaltatore al di fuori degli stati di avanzamento dei lavori, (Cass., 10 settembre 2007, n. 18939). E’ stato, pure, affermato conriguardo alla sottoposizione di istituto di credito ad amministrazione straordinaria, cresta -C–orte–h-a-afferrriatq che l’autorizzazione rilasciata dalla Banca d’Italia al commissario straordinario ai sensi dell’art. 72, quinto comma, del d.lgs. n. 356/1990, per l’esercizio dell’azione di responsabilità dei disciolti organi sociali, copre tutte le pretese ed istanze strumentalmente pertinenti al conseguimento dell’obiettivo del giudizio cui il provvedimento si riferisce, anche se di natura accessoria e consequenziale, non essendo necessario che contenga nel dettaglio tutte le iniziative processuali da intraprendere ma esclusivamente l’enunciazione degli elementi essenziali, oggettivi e soggettivi, dell’azione (Cass., 12 giugno 2007, n. 13765).

2.8 Sussiste, dunque, la denunciata carenza di autorizzazione all’esercizio dell’azione di responsabilità, essendo evidente che, la delibera societaria in esame, mancando, alla data del 28 ottobre 2011, della individuazione degli elementi costitutivi dell’azione di responsabilità, sia sotto il profilo oggettivo, che soggettivo, essendo stato dato mandato al legale di verificare se vi fossero gli estremi per «le azioni del caso» nei confronti di una pluralità di organi collegiali (consigli di amministrazione e collegi sindacali in carica fin dalla data di costituzione della società), non era idonea ad esprimere una volontà, compiutamente informata, dei soci.>>

Se la annotino gli operatori.

L’eccezione di sperimentazione (c.d. eccezione Bolar) verso il brevetto inventivo ex art. 68.1.b cod. propr. ind.

L’ecczione alla privativa brevettuale posta c.d di sperimetnazione o occezione Bolar da un noto caso giudiziario è cos’ discipolinata dalll’arty. 68.1.b:

<<1. La facolta’ esclusiva attribuita dal diritto di brevetto non si estende, quale che sia l’oggetto dell’invenzione:

a) ..

b) agli studi e sperimentazioni diretti all’ottenimento, anche in paesi esteri, di un’autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco ed ai conseguenti adempimenti pratici ivi compresi la preparazione e l’utilizzazione delle materie prime farmacologicamente attive a cio’ strettamente necessarie; >>

L’interessante questione sub iudice è quella del se l’eccezione copra solo il futuro produttore che chiederà l’AIc oppure anche eventuali terzisti incaricati dal produttore stesso, che non ha il tempo o le risorse per provvedere in proprio alla sperimentazione.

La corte di appello di Milano 08.06.2021, n. 1785/2021-Rg 858/2019, Sicor-Teva c. Boheringer, confermando la decisione di primo greado, ha così statuito:

– L’art. 68.1.b cpi << è  volta  a  conferire  una  maggiore rapidità nell’ingresso dei farmaci generici sul mercato, poiché il genericista non è obbligato a portare a termine tutti gli studi clinici atti a dimostrare l’efficacia e la sicurezza del prodotto, basandosi sugli  studi  già  effettuati  in  relazione  al  farmaco  di  riferimento,  il  cd.  originator.  Tuttavia, non sono esclusi, per il genericista, gli studi di bioequivalenza, idonei a dimostrare che il medicinale generico ha la stessa efficacia terapeutica ed analoghi effetti collaterali dell’originator.   Per questa ragione, l’art. 10, comma IX del D. lgs.    n.    219/06  stabilisce  che  gli  studi  necessari  per  consentire  al  genericista  la procedura abbreviata non comportano pregiudizio alla proprietà industriale>>;

<< il  giudice  di  primo  grado,  pur  dando  conto  del  carattere  eccezionale  che contraddistingue la disposizione citata, a tutela della privativa industriale brevettuale, ha valorizzato la finalità delle sperimentazioni necessarie ad introdurre farmaci generici sul mercato in tempi relativamente rapidi.  Nel tentativo, dunque,  di contemperare le opposte esigenze, del titolare della privativa e  del genericista, il  giudice di  prime  cure   ha  ritenuto  che la clausola  Bolar   non possa  applicarsi ai meri produttori/rivenditori di principio attivo:  “a    coloro, cioè,   che svolgano un’attività di sperimentazione e produzione non  finalizzata ex  ante  all’ottenimento  di  un’AIC,  bensì  finalizzata  ad  ottenere    il prodotto/principio attivo oggetto della privativa e ad offrirlo  in  vendita ad altri; in questi casi, invero, la  produzione/offerta del prodotto è obiettivamente slegata  dalla  finalità  di  ottenere  un’AIC  ed  il  profitto  che  il  produttore  ricava  dalla vendita  dello  stesso  è  la  remunerazione  di  un’attività  di  studio  e  produzione, offerta e pubblicizzazione, ovvero di un’attività  di sfruttamento commerciale del principio brevettato avvenuta senza alcuna copertura della scriminante”.   Sempre  in  un’ottica  teleologica,  il  giudice  di  prime  cure  ha  ritenuto  che  i genericisti  privi  delle  necessarie  attrezzature  tecnologiche  e  competenze  possano rivolgersi  a  terzi  produttori  del  principio  attivo  per  richiedere  un’attività  di produzione e di consegna, da ritenere legittima in quanto funzionale all’ottenimento di un’AIC. 25.

La  Corte  reputa  corretta  tale  interpretazione,  che  costituisce  a  tutti  gli  effetti  un valido compromesso tra la libertà di iniziativa economica in un settore particolarmente significativo per la collettività mondiale e la necessaria tutela del titolare della privativa. Ed è dunque nel solco dell’attività  di  produzione  e  di consegna  dietro  specifica  richiesta  del  genericista  che  il  terzo  produttore  può muoversi  senza  trasmigrare  nell’ambito  della  commercializzazione  e  della pubblicizzazione  del  prodotto.        In altri termini, ciò significa che l’attività  del terzo  produttore,  non  potendo  essere  svincolata  da  una  specifica  richiesta  del genericista,    non  può    comprendere  una  vera  e  propria  attività  di  marketing, perché  il  concetto  di  marketing  si  pone  in  evidente  contrasto  con  le    finalità sperimentative  e registrative tipiche dell’eccezione  consentita dalla disposizione legislativa;  come,  del  resto,  anche  la  produzione  del  principio  attivo  in  quantità svincolate da una specifica richiesta e, perciò  stesso, neppure ex ante controllabili (come anche infra spiegato).   Ebbene, Sicor e Teva – che non hanno impugnato in maniera specifica l’interpretazione della disposizione nei termini sopra esposti – si sono  limitate  ad affermare che sarebbe “irrealistico” pensare che un produttore di  principi  attivi  inizi  a  sviluppare  il  processo  di  produzione  di  un  principio soltanto dopo aver ricevuto richiesta da un genericista, proprio perché, in tal caso, egli  non  sarebbe  mai  in  grado  di  soddisfare  tempestivamente  tale  richiesta  (cfr. atto di citazione in appello, I  cpv,  pag. 22).   Coerentemente, Sicor e Teva hanno ammesso nei propri atti di aver avviato le attività di produzione e pubblicizzazione del tiotropio prima ed indipendentemente da una specifica richiesta  ed  incarico  da  parte  di  una  società  genericista  (cfr.  pagg.  20  –  21  della comparsa conclusionale delle appellanti), in contrasto proprio con l’interpretazione pure estensiva ammessa dal giudice di prime cure. 26. Poste queste premesse di ordine generale, occorre passare in rassegna le obiezioni sollevate  dalle  parti  appellanti  e  ritenute  non  adeguatamente  valorizzate  dal Tribunale, alla  luce delle quali la  produzione  del principio attivo dovrebbe ritenersi  coperta  e  avallata  dalla  clausola  Bolar.    Le  impugnanti,  infatti,  hanno evidenziato  di  aver  sempre  avvertito  i  genericisti  di  poter  vendere  soltanto  per finalità Bolar, come, del resto, risultava dal sito internet.  Non avendo adeguatamente valorizzato tale circostanza, il giudice di prime cure aveva dunque errato.  Parimenti non era stato considerato il fatto che la stessa Sicor, pur avendo chiesto  ed  ottenuto  da  AIFA  un’autorizzazione  alla  produzione  del  tiotropio bromuro  a  fini  di  sola  sperimentazione  anche  clinica  e  per  mero  errore  avendo invece ottenuto l’autorizzazione a fini commerciali, si era poi attivata  per  far riscontrare detto errore, come risultava dai documenti nn.  34 – 3d.  27. La  Corte  premette  che  concorda  con  l’interpretazione  proposta  dal  giudice  di prime cure, sulla base della quale il mero inserimento del prodotto nel sito internet costituisce  espressione  della  nota  attività  di  marketing,  funzionale  a  catturare l’attenzione dei possibili clienti genericisti>>.

Il passaggio chiave è <dietro  specifica  richiesta  del  genericista> 

E’ infine interessante la discussione infatto sul se nel caso specifico ricorresse tale requisito o se invece il c.d. terzista avesse messo in vendita i propri risultati sperimentali.

Azione di regolamento di confini o azione di rivendica?

Sul classico (e molto pratico) problema dominicale (artt. 948 e 950 cc ), interviene Cass. 21.07.2021 n. 20.912, rel. Tedesco.

si esprime così:

<<- si è affermato, con costanza di indirizzo che mentre l’azione di revindica presuppone un conflitto di titoli, determinato dal convenuto che nega la proprietà dell’attore contrapponendo al titolo da lui vantato il suo possesso della cosa (possideo quia possideo) ovvero un proprio diverso ed incompatibile titolo d’acquisto, nell’Azione di regolamento di confini i titoli di proprietà non sono controversi e la contestazione attiene alla delimitazione dei rispettivi fondi (conflitto tra fondi) per la incertezza dei confini, oggettiva (derivante dalla promiscuità del possesso della zona confinaria) o soggettiva (provocata dall’assunto attoreo di non corrispondenza del confine apparente a quello reale) (Cass. n. 2212/1984; n. 9900/1995; n. 1204/1998; n. 28349/2011; n. 1006/2018);

– si esperisce azione di regolamento di confini quando si chiede in giudizio la “rettificazione” dell’attuale confine di fatto tra il proprio fondo e quello del vicino, deducendosi che esso non corrisponde alle correlative estensioni delle singole proprietà interessate, come risultanti nella realtà giuridica dai rispettivi, non contestati, titoli;

– si esercita, invece, azione di revindica allorché, deducendosi l’insussistenza, a favore del vicino, di alcun titolo di proprietà su una zona di terreno, esattamente indicata, di fatto arbitrariamente ricompresa nel fondo di lui, si chieda – mediante la determinazione di confini a sé più favorevoli – in realtà l’affermazione del proprio diritto di proprietà su tale zona e la consegna di essa nel proprio possesso (Cass. n. 5589/1977; n. 4457/1976);

– è stato anche chiarito che mentre nell’azione di revindica, l’attore non ha alcuna incertezza circa il confine, ma lo indica in modo certo e chiaro e chiede nell’atto introduttivo la restituzione usurpata, specificandone con esattezza l’estensione, la misura ed i confini, nell’azione di regolamento dei confini, invece, l’attore non sicuro ab initio della individuazione dei confini del suo fondo e non è nemmeno certo che questo sia stato parzialmente occupato dall’avversario, ma si rivolge al giudice proprio per ottenere una giuridica certezza al riguardo. Poiché la determinazione del confine può comportare l’attribuzione ad una delle parti di una zona occupata dall’altra, la richiesta di tale attribuzione non incide sulla essenza dell’Azione, trasformandola in revindica, ma integra soltanto una naturale conseguenza della domanda di individuazione del confine (Cass. n. 671/1977);>>.

Non conta il nomen iuris speso: non c’è bisogmno di sottolinearlo: <<così quando l’attore, pur dichiarando di esercitare un’azione di regolamento di confini, chieda, con espressione precisa ed univoca, l’affermazione del suo diritto di proprietà su zone possedute dal convenuto ed il rilascio di esse, indicando come vero un determinato confine a lui più favorevole, la domanda deve essere qualificata come azione di revindica (Cass. n. 1242/1977);>>

E’ interessante l’applicazione di tali principi (o regole, non sottilizziamo …) ai fatti di causa:

<< – nel caso di specie gli attori, nel proporre la domanda, dopo la identificazione catastale delle porzioni di rispettiva appartenenza, avevano chiarito che ai terreni si accedeva attraverso un distacco privato, comune alle proprietà delle parti in causa, nonché a una ulteriore particella catastale;

– a tale descrizione seguiva la denuncia che il convenuto, in modo del tutto arbitrario, non solo delimitava parte del suddetto terreno comune per realizzare un giardino di sua esclusiva pertinenza, ma si appropriava anche di una porzione del terreno di esclusiva proprietà degli esponenti, invadendola e occupandola con opere permanenti;

– dal canto suo il convenuto, costituendosi, aveva eccepito che il terreno interposto fra il proprio fondo e il mappale (OMISSIS) gli apparteneva in forza di titoli e non era affatto comune;

– anche da parte del convenuto, perciò, la richiesta di determinazione del confine non presupponeva alcuna incertezza, essendo egli sicuro che la porzione delimitata dal muretto era compresa nel lotto di sua proprietà;

– nessun argomento può trarsi dal fatto che il convenuto avesse proposto in riconvenzionale domanda di usucapione;

– è vero, giusti principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, che l’eccezione del convenuto con azione di regolamento di confini di avere usucapito il terreno in contestazione non snatura l’azione proposta trasformandola in rivendicazione, giacché il convenuto con quell’eccezione non contesta l’originario titolo del diritto di proprietà della controparte, ma si limita ad opporre una situazione sopravvenuta, idonea, se riconosciuta, fondata, ad eliminare la dedotta incertezza del confine (Cass. n. 2332/1995);

– è anche vero, però, che la proposizione di una tale domanda, da parte dell’ A., non fornisce argomento per sostenere che l’azione proposta dagli attori fosse per forza di cose quella di regolamento di confini;

– invero la domanda di usucapione era stata proposta dal convenuto solo in via subordinata, avendo egli primariamente sostenuto che il terreno conteso gli apparteneva in base ai titoli;

– i ricorrenti sostengono ancora nella memoria che le contestazioni di parte “avevano e hanno quale unico riferimento l’estensione dei fondi e la determinazione degli esatti confini di proprietà”, non essendoci alcun contrasto fra i rispettivi titoli di proprietà, del mappale (OMISSIS) quanto agli attori, e dei mappali (OMISSIS), quanto al convenuto;

– ma neanche la mancanza di conflitto su questo aspetto è in contraddizione con la qualificazione operata dalla corte d’appello;

– il conflitto fra titoli, ravvisato dalla corte d’appello, non è riferito ai mappali sopra indicati, ma alla porzione antistante la casa di abitazione del convenuto;

– da qui l’implicazione, desunta dalla corte di merito e coerente con le premesse, che fosse onere degli attori fornire la prova imposta a colui che agisce in rivendicazione;

– invero, in presenza di una domanda quale quella a suo tempo proposta dagli attuali ricorrenti, essenzialmente caratterizzata dalla richiesta del riconoscimento della proprietà comune della porzione di cui sopra, l’interpretazione operata dalla corte d’appello non incorre in alcun vizio logico o giuridico;>>

Coprire con propri annunci concorrenti il sito web dell’azienda, cercata col motore di ricerca, è illecito da parte di Google?

La risposta è positiva.

I fatti sono semplici: quando un un utente cerca sul campo di ricerca Google, installato sulla home page dei telefoni android, una certa azienda (Best carpet) , e poi clica sulla sua home page , Google sovrappone ad essa propri annunci oscurandola per tre quarti.

L’azienda ha citato Google proponendo più domande e ha ottenuto ragione .

Qui   interessa solo quella c.d. trespass to chattels e cioè turbativa possessoria : qualcosa di simile alla nostra reintegrazione o (forse meglio) manutenzione possessoria ex art. 1170 cc)

Si tratta della molto interessante sentenza Best CArpets c. Google, Case No. 5:20cv04700, NORTHERN DISTRICT OF CALIFORNIA SAN JOSE DIVISION del 24.09.2021.

Limpstazione è qui_: <<Here, there are two potential chattels: the computers hosting Plaintiffs’ websites and the copies of Plaintiffs’ websites appearing on users’ screens. Google contends the trespass to chattels claim fails as a matter of law as to both potential types of chattel because its Search App does not cause physical injury (i.e., intrusion, interference or harm) to any tangible property. Mot. at 6. In making this argument, Google implicitly acknowledges that the computers hosting Plaintiffs’ websites are tangible property, but contends that the Search App does not interact with those computers, much less damage them. As for the copies of Plaintiffs’ websites appearing on users’  screens, Google contends that they are not tangible property, and therefore cannot be the subject of a trespass claim. >>

Ma la corte dice che un website può essere ogetto di una trespass to chattels claim. p.8.

Gli atto  dicono che  un <<website ownership grants them a right to be paid for the advertising space occupied by Google on their websites. And like a domain name, a website is a form of intangible property that has a connection to an electronic document. “A website is a digital document built with software and housed on a computer called a ‘web server,’ which is owned or controlled in part by the website’s owner. A  website occupies physical space on the web server, which can host many other documents as well.” Compl. ¶ 34. Plaintiffs’ website is also connected to the DNS through its domain name, bestcarpetvalue.com, just as Kremen’s domain name was connected to the DNS. Under the Kremen court’s reasoning, Plaintiffs’ website has a connection to a tangible object, which satisfies
the Restatement’s merger requirement>>, p. 10

E non si può negare che sia stata avanzata la pur necessaria allegazione di danno: <<Here, although Plaintiffs are not alleging physical harm to their websites, they do allege functional harm or disruption.  Specifically, Plaintiffs allege that “[b]y obscuring and blocking the contents of [Plaintiffs’] website homepages when viewed on Android’s Search App, Google’s ads substantially interfered with and impaired the websites’ published output and exposed the website owners to unwanted risks of lost advertising revenues and lost sales to competitors, thereby materially reducing the websites’ value and utility to the website owners.  Defendant’s unauthorized interferences proximately caused Plaintiffs . . . actual damage by impairing the condition, quality and value of their websites.”  Id. ¶ 186.  Plaintiffs seek damages equal to the diminished market value of their websites and a permanent injunction requiring Google to disable the ad-generating feature of its Search App on every Android phone on which it is installed and preventing Google from installing any similar feature in the future.  Id. ¶¶ 187-90.  Google argues that there is no cognizable injury because its Search App does not affect how Plaintiffs’ websites function or how they are displayed by other programs.  Mot. at 2.  Google explains that its Search App does not alter Plaintiffs’ websites at all, but rather “displays additional content in a separate, user-controlled frame that overlays and coexists on phone screens with Plaintiffs’ sites.”  Mot. at 7 (citing Compl. ¶¶ 73-74).  But at the pleading stage, Plaintiffs’ factual allegations must be taken as true.  Ashcroft, 556 U.S. at 678.  Plaintiffs allege that the ads obscured and blocked their websites, which if true, would interfere with and impair their websites’ published output.  Google’s ad allegedly obscured the “Cove Base” product link on Best Carpet’s home page.  Compl. ¶ 73.  Although Google’s ad may not have disabled or deactivated the “Cove Base” product link, it nevertheless allegedly impaired the functionality of the website: an Android phone user cannot engage a link that cannot be seen.  At the pleading stage, the alleged decrease in functionality of Plaintiffs’ website is sufficient to plausibly state a cognizable injury for a trespass to chattels claim.  See Compuserve Inc. v. Cyber Promotions, 962 F. Supp. 1015, 1026 (S.D. Ohio 1997) (plaintiff asserting injury aside from physical impact on computer equipment stated cognizable trespass to chattels claim based on decreased utility of plaintiff’s e-mail service and resulting customer complaints); eBay, Inc. v. Bidder’s Edge, Inc., 100 F. Supp. 2d 1058, 1070 (N.D. Cal. 2000) (granting injunction based on likelihood of success on merits of trespass to chattels claim based, in part, on showing that web crawlers diminished the quality or value of eBay’s computer system, even though eBay did not claim physical damage>>, p. 12-13

Uso del pc per fini non lavorativi e controlli a distanza ex art. 4 Statuto dei lavoratori

Interviene Cass. n° 25.732 del 22.09.2021, rel. Raimondi, nel caso di dipendente licenziata per giusta causa per aver usato il pc per accedere a siti internet di interesse privato (cioè non lavorativo) e per aver così fatto entrare virus nel sistema informatico aziendale.

La dipendente contesta la legittimità del controllo aziendale predisposto per raccogliere prove di ciò e lo fa spt. ex art. 4 Statuto lav..

La SC si pronuncia sul punto dopo ampio eseme della materia .

Effettua una premessa generale: centrale è il concetto di <controlli difesivi> e soprattutto il capire se  siano ancora ammissibili dopo la rifoma ex legge 151 del 2015, art. 23.

Ebene: << 31. Occorre perciò distinguere tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti e “controlli difensivi” in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro. 32  Si può ritenere che questi ultimi controlli, anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore, si situino, anche oggi, all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4.>>

In particolare, poi, << 40 . Inoltre, e il punto è particolarmente rilevante nel caso in esame, per essere in ipotesi legittimo, il controllo “difensivo in senso stretto” dovrebbe quindi essere mirato, nonché attuato ex post, ossia a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto, sicché non avrebbe ad oggetto lmattività” – in senso tecnico – del lavoratore medesimo. Il che è sostanzialmente in linea con gli ultimi approdi della giurisprudenza di questa Corte, più sopra richiamati, in materia di “controlli difensivi” nella vigenza della superata disciplina. (…)  44. Può, quindi, in buona sostanza, parlarsi di controllo ex post solo ove, a seguito del fondato sospetto del datore circa la commissione di illeciti ad opera del lavoratore, il datore stesso provveda, da quel momento, alla raccolta delle informazioni.  45.    Facendo il classico esempio dei dati di traffico contenuti nel browser del pc in uso al dipendente, potrà parlarsi di controllo ex post solo in relazione a quelli raccolti dopo l’insorgenza del sospetto di avvenuta commissione di illeciti ad opera del dipendente, non in relazione a quelli già registrati>>.

Passa quindi ad applicare tale fattispecie astratta a quella concreta: <<46.  Applicazione dei principi suesposti alla fattispecie in esame 46. Così ricostruito il quadro entro il quale i “controlli difensivi” tecnologici possono considerarsi ancora legittimi dopo la modifica dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, si deve rilevare che la sentenza impugnata, nel ritenere l’esorbitanza della fattispecie litigiosa dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ha osservato che il controllo sul computer aziendale in uso alla C. è stato indotto dalla necessità di verificare l’origine del virus che aveva infettato il sistema informaticc della Fondazione criptando vari documenti e cartelle condivise, e di risolvere il problema; l’attività lavorativa, secondo la Corte di appello, è stata dunque sottoposta a verifica non durante il suo svolgimento, ma ex post e quale effetto indiretto di operazioni tecniche condotte su strumenti di lavoro appartenenti al datore di lavoro e finalizzate all’indifferibile ripristino del sistema informatico aziendale. In tale quadro, secondo la Corte territoriale, perderebbe quindi ogni importanza l’eccepita inutilizzabilità probatoria dei dati informatici acquisiti, inutilizzabilità ascritta dalla lavoratrice alla da lei allegata illecita acquisizione, presupposto da escludersi processualmente.  47. Se la statuizione della sentenza impugnata circa la serietà del sospetto di attività illecita indotto dalla scoperta del virus e dei danni da questo provocati può dirsi conforme alla necessità dell’accertamento del requisito del “fondato sospetto” della commissione di un illecito che i principi sopra ricostruiti assumono come presupposto della legittimità dei “controlli difensivi”, è evidente come sia mancata ogni indagine nella stessa decisione volta a stabilire se i dati informatici rilevanti, utilizzati poi in sede disciplinare, fossero stati raccolti prima o dopo l’insorgere del fondato sospetto, in violazione dei principi esposti. E’ pure mancata ogni valutazione circa il corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore>>.

Principio di diritto: “ Sono consentiti i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto.         Non ricorrendo le condizioni suddette la verifica della utilizzabilità a fini disciplinari dei dati raccolti dal datore di lavoro andrà condotta alla stregua della L. n. 300 del 1970, art. 4, in particolare dei suoi commi 2 e 3“.

Esecuzione in buona fede del rapporto di lavoro da parte datoriale e rispetto delle procedure previste i licenziamenti collettivi

Della nota vertenza tra GKN e i suoi dipendenti in Campi Bisenzio, riporto solo un passaggio del decreto che accoglie la domanda del sindacato (Trib. Firenze sez. lav. 23.09.2021, RG 1685/2021, giudice A.M. Brigida Davia): quello che attiene alla autonomia imprenditoriale.

Precisamante: <<Deve preliminarmente rimarcarsi che, pur non essendo in discussione la discrezionalità dell’imprenditore rispetto alla decisione di cessare l’attività di impresa (espressione della libertà garantita dall’art. 41 Cost.), nondimeno la scelta imprenditoriale deve essere attuata con modalità rispettose dei principi di buona fede e correttezza contrattuale, nonché del ruolo e delle prerogative del Sindacato. Nel caso di specie parte datoriale, nel decidere l’immediata cessazione della produzione, ha contestualmente deciso di rifiutare la prestazione lavorativa dei 422 dipendenti (il cui rapporto di lavoro prosegue per legge fino alla chiusura della procedura di licenziamento collettivo), senza addurre una specifica ragione che imponesse o comunque rendesse opportuno il suddetto rifiuto, il che è sicuramente contrario a buona fede e rende plausibile la volontà di limitare l’attività del sindacato>>

La donazione di azioni ai dipendenti di società del gruppo non realizza la fattispecie del “ricorso al mercato del capitale di rischio” ex art. 2325 bis cc

Nella vertenza Salini, il Trib. Milano ha detto che l’assegnazione a titolo liberale di azioni ai dipendenti di società del gruppo, da parte del socio di riferimento dell’emittente (46,92%; anzi da parte di uno dei due soci di riferimento, l’altro possedendo il 46,92%), non integra la fattispecie della <diffusione tra il pubblico in misura rilevante> , posta dal combinato disposto dell’art. 2325 bis cc, art. 111 bis disp. att. c.c. e art. 2 bis reg. emittenti n. 11971/99.

Così Trib. Milano 23.04.2021 n. 3395/2021, RG 32801/2017, rel. M.A. Ricci. soprattutto per due motivi:

– manca una conspevole scelta di collocamento, dato che fu fatto unilateralmente da parte di uno dei due soci di riferimento, che da solo non detiene il controllo;

– nemeno può dirsi ricorra un <investimento> da parte degli acquirenti, trattandosi di liberalità, addirittura revocabile in base alle condizioni poste a quest’ultima (gravata pure da vincolo di incedibilità ad tempus): il che <<non ha generato neanche potenzialmente sul mercato alcun movimento finanziario, tantomeno a beneficio dell’emittente e certamente senza alcun reale rischio che la pretesa controllante potesse perdere la maggioranza azionaria relativa di cui è detentrice>>, p. 12 (requisito però assente nel reg. emittenti).

L’operazione è stata -secondo il Trib.- orchestata per rendere applicabile all’emittente la disciplina speciale per il computo delle azioni proprie nei quorum assembleari

Non è chiaro, però, per qual motivo il Tribunale non abbia accolto la domanda di accertamento (svolta dall’altro socio di riferimento, quello <tagliato fuori>) sotto il più immediato profilo del mancato coinvolgimento di almeno il 5% del capitale: nel caso specifico, infatti, l’assegnazione a dipendenti o ex dipendenti riguardò solo lo 0,23% del capitale.

Sarebbe anche da chiarire l’esatto titolo di trasferimento azionario ai dipendenti: la liberalità, se donativa, chiede l’atto pubblico a pena di nullità.