Forma scritta a pena di nullità per il patto sul compenso tra avvocato e cliente

Così Cass. 08.09.2021 n. 24.213, rel. Tedesco, sull’argomento in oggetto,. la cui norma pertinente è l’art. 2233/3 cc, secondo cui:

(Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra
gli avvocati ed  i  praticanti  abilitati  con  i  loro  clienti  che
stabiliscono i compensi professionali)). >>)

La precisazione è praticamente importante, alla luce dei dubbi generati dall’art. 13/2 della legge professionale forense.

Ebbene, secondo la disposizione predetta, il  patto di determinazione del compenso <<deve essere redatto in forma scritta, sotto pena di nullità. Si osserva che la norma non può ritenersi implicitamente abrogata dalla L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 2: tale norma stabilisce che il compenso spettante al professionista sia pattuito di regola per iscritto. Infatti, secondo l’interpretazione preferibile, la novità legislativa ha lasciato impregiudicata la prescrizione contenuta nell’art. 2233 c.c., comma 3. In base a questa interpretazione, la norma sopravvenuta non si riferisce alla forma del patto, ma al momento in cui stipularlo: essa, cioè, stabilisce che il patto deve essere stipulato all’atto del conferimento dell’incarico (cfr. Cass. n. 11597 del 2015). Si osserva che se il legislatore avesse realmente voluto far venir meno il requisito della forma scritta per simili pattuizioni, è ragionevole ritenere che avrebbe provveduto ad abrogare esplicitamente la previsione contenuta nell’art. 2233 c.c., comma 3, il quale commina espressamente la sanzione della nullità per quei patti che siano privi del requisito formale ivi prescritto. Chiarito che il requisito formale è prescritto a pena di nullità, valgono le regole generali: a) la scrittura non può essere sostituita da mezzi probatori diversi (Cass. n. 1452 del 2019), neanche dalla confessione (Cass. n. 4431 del 2017), né è applicabile il principio di non contestazione (Cass. n. 25999 del 2018); b) ai sensi dell’art. 2725 c.c., la prova testimoniale è ammissibile nella sola ipotesi dell’art. 2724 c.c., n. 3, di perdita incolpevole del documento (Cass. n. 13459 del 2006; Cass. n. 13857 del 2016); c) l’inammissibilità della prova, diversamente da quanto avviene quando il contratto deve essere provato per iscritto (Cass., S.U., n. 16723 del 2000), è rilevabile d’ufficio e può essere eccepita per la prima volta anche in cassazione (Cass. n. 1352 del 1969; Cass. n. 281 del 1970)>>.

Il Tribunale non si è attenuto ai principi predetti, dice la SC,  visto che <<l’esistenza dell’accordo è stata ritenuta provata grazie alla prova per testimoni e sulla base di una corrispondenza intercorsa fra le parti. La considerazione congiunta di tali elementi ha indotto il giudice a ritenere verosimile che le parti avessero raggiunto un accordo di analogo contenuto a quello riguardante le cause che il professionista curava per la diversa società Bio Orto soc. coop. a r.l.

Il tribunale, in ultima analisi, ha ritenuto raggiunta la prova dell’accordo per la determinazione del compenso sulla base di una presunzione, non tenendo conto che l’esistenza del requisito di forma non può essere sostituito da mezzi probatori diversi.>>

Comunicazione al pubblico in diritto di autore e ruolo delle piattaforme di condivisione dei file caricati dagli utenti

In giugno, giorno 22,  è finalmente stata emessa la sentenza della Corte di Giustizia CG nei due procedimenti C‑682/18 e C‑683/18, promossi da titolari ti diritti (Peterson e Elsevier) contro Google-Youtube e rispettivamente Cyando.

La due cause si assomigliano molto (sono state riunite), anche se c’è qualche differenza fattuale, soprattutto tecnica nel funzionamento delle due piattaforme.

Il quesito è duplice (ce ne è un terzo specifico al diritto tedesco sulle condizioni dell’inibitoria, di cui non mi occupo) :

i) la presenza e proposizione di file illeciti rende la piattaforma autrice di violazione della comunicazione al pubblico in diritto di autore (art. 3 dir. 29/2001)?

ii) la piattaforma può fruire del safe harbour ex art. 14/1 dir. commercio elettronico 2000/31?

Ebbene, sub i) : <<l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva sul diritto d’autore deve essere interpretato nel senso che il gestore di una piattaforma di condivisione di video o di una piattaforma di hosting e di condivisione di file, sulla quale utenti possono mettere illecitamente a disposizione del pubblico contenuti protetti, non effettua una «comunicazione al pubblico» di detti contenuti, ai sensi di tale disposizione, salvo che esso contribuisca, al di là della semplice messa a disposizione della piattaforma, a dare al pubblico accesso a siffatti contenuti in violazione del diritto d’autore. Ciò si verifica, in particolare, qualora tale gestore sia concretamente al corrente della messa a disposizione illecita di un contenuto protetto sulla sua piattaforma e si astenga dal rimuoverlo o dal bloccare immediatamente l’accesso ad esso, o nel caso in cui detto gestore, anche se sa o dovrebbe sapere che, in generale, contenuti protetti sono illecitamente messi a disposizione del pubblico tramite la sua piattaforma da utenti di quest’ultima, si astenga dal mettere in atto le opportune misure tecniche che ci si può attendere da un operatore normalmente diligente nella sua situazione per contrastare in modo credibile ed efficace violazioni del diritto d’autore su tale piattaforma, o ancora nel caso in cui esso partecipi alla selezione di contenuti protetti comunicati illecitamente al pubblico, fornisca sulla propria piattaforma strumenti specificamente destinati alla condivisione illecita di siffatti contenuti o promuova scientemente condivisioni del genere, il che può essere attestato dalla circostanza che il gestore abbia adottato un modello economico che incoraggia gli utenti della sua piattaforma a procedere illecitamente alla comunicazione al pubblico di contenuti protetti sulla medesima>>, § 102.

Sub ii): <<Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alle questioni seconda e terza sollevate in ciascuna delle due cause dichiarando che l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva sul commercio elettronico deve essere interpretato nel senso che l’attività del gestore di una piattaforma di condivisione di video o di una piattaforma di hosting e di condivisione di file rientra nell’ambito di applicazione di tale disposizione, purché detto gestore non svolga un ruolo attivo idoneo a conferirgli una conoscenza o un controllo dei contenuti caricati sulla sua piattaforma .

L’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva sul commercio elettronico deve essere interpretato nel senso che per essere escluso, in forza di tale disposizione, dal beneficio dell’esonero dalla responsabilità previsto da detto articolo 14, paragrafo 1, un siffatto gestore deve essere al corrente degli atti illeciti concreti dei suoi utenti relativi a contenuti protetti che sono stati caricati sulla sua piattaforma>>, §§ 117-118.

I risultati interpretativi sono grosso modo condivisibili , anche se il percorso logico non è sempre rigoroso (ad es. l’affermazione per cui il carattere lucrativo non è <priva di rilevanza> circa la questione sub i): invero o fa parte della fattispecie costitutiva o non ne fa parte, tertium non datur. Non può essere <non privo di rilevanza> ma poi messo da parte nel caso specifico, a meno che la legge così preveda. . Per non dire che questa <eventuale rilevanza> non viene chiarita, ma lasciata nel vago: tanto vale tacerla. La lucratività ha rilevanza <del tutto relativa> per l’AG, § 87).

Più lineare il percorso svolto dall’avvocato generale SAUGMANDSGAARD ØE (qui: AG) nella sue Conclusioni 16.07.2020.

I passaggi importanti sono molti e non possono essere qui tutti riferiti.

Ne ricordo due:

– l’elemento soggettivo va riferito agli <atti illeciti concreti> e cioè, a mio parere, ad ogni singola violazione, una alla volta;

– la distinzione tra materie di competenza europea (violazione primaria) e di competenza nazionale (violazione secondaria), evidenziata soprattutto dall’AG.

Responsabilità dell’editore per i commenti diffamatori postati dai lettori sulla sua pagina Facebook

La Suprema corte australiana ha affermato che l’editore di giornali è (cor-)responsabile per diffamazione circa il post diffamtorio dei lettori, pubblicati nella sua pagina Facebook come commento ad articolo giornalistico. In altre parole l’editore, dando visibilità ai post, ne diventa <publisher> .

Si tratta di Fairfax Media Publications Pty Ltd v Voller [2021] HCA 27, Nationwide News Pty Limited v Voller , Australian News Channel Pty Ltd v Voller, 8 Sep 2021, Case Number: S236/2020  – S237/2020  – S238/2020.

Il testo è leggibile qui e la sintesi per il pubblico qui.

La principale difesa degli editori consisteva (non soprrendentemente , dato l’innegabile loro contributo materiale) , nella mancanza di elemento soggettivo (consapevoleza della lesività): The appellants now contend that the common law requires that the publication of defamatory matter be intentional. It is not sufficient that a defendant merely plays a passive instrumental role in the process of publication. To be a publisher a person must intend to communicate the matter complained of, which is to say the relevant words. This is said to follow from what was said by Isaacs J in Webb v Bloch[1] and to accord with the holding in Trkulja v Google LLC[2], that Google’s intentional participation in the communication of the defamatory matter supported a finding of publication , § 18.

Secondo la Suprema Corte , però, tale elemento non è richiesto: The liability of a person as a publisher “depends upon mere communication of the defamatory matter to a third person”, Dixon J said[1] in Lee v Wilson & Mackinnon. No question as to the knowledge or intention of the publisher arises. His Honour said “[t]he communication may be quite unintentional, and the publisher may be unaware of the defamatory matter”, but the person communicating the defamatory matter will nevertheless be liable. The exception identified by his Honour was the case of certain booksellers, news vendors and messengers, to which reference will later be made, § 28.

E poi:  The Court of Appeal was correct to hold that the acts of the appellants in facilitating, encouraging and thereby assisting the posting of comments by the third-party Facebook users rendered them publishers of those comments, Concl. al § 55.

I giudici Gageler e Gordon:  98 Each appellant became a publisher of each comment posted on its public Facebook page by a Facebook user as and when that comment was accessed in a comprehensible form by another Facebook user. Each appellant became a publisher at that time by reason of its intentional participation in the process by which the posted comment had become available to be accessed by the other Facebook user. In each case, the intentional participation in that process was sufficiently constituted by the appellant, having contracted with Facebook for the creation and ongoing provision of its public Facebook page, posting content on the page the effect of which was automatically to give Facebook users the option (in addition to “Like” or “Share”) to “Comment” on the content by posting a comment which (if not “filtered” so as to be automatically “hidden” if it contained “moderated words”) was automatically accessible in a comprehensible form by other Facebook users.   99   Not to the point of the appellants having been publishers is the fact that: the appellants had no control over the facility by which the Facebook service was provided to them and to Facebook users; the “Comment” function was a standard feature of the Facebook service which the appellants could not disable; it was not possible for them to delete all comments in advance; or they could have effectively “hidden” all comments posted by Facebook users only by applying an extremely long list of common words as “moderated words”, §§ 98-99.

Dalla predetta  sintesi per il pubblico:
Fatto: The appellants are media companies which publish newspapers that circulate in New South Wales or operate television stations, or both. Each appellant maintained a public Facebook page on which they posted content relating to news stories and provided hyperlinks to those stories on their website. After posting content relating to particular news stories referring to Mr Voller, including posts concerning his incarceration in a juvenile justice detention centre in the Northern Territory, a number of third-party Facebook users responded with comments that were alleged to be defamatory of Mr Voller. Mr Voller brought proceedings against the appellants alleging that they were liable for defamation as the publishers of those comments.

Motivo: The High Court by majority dismissed the appeals and found that the appellants were the publishers of the third-party Facebook user comments. A majority of the Court held that the liability of a person as a publisher depends upon whether that person, by facilitating and encouraging the relevant communication, “participated” in the communication of the defamatory matter to a third person. The majority rejected the appellants’ argument that for a person to be a publisher they must know of the relevant defamatory matter and intend to convey it. Each appellant, by the creation of a public Facebook page and the posting of content on that page, facilitated, encouraged and thereby assisted the publication of comments from third-party Facebook users. The appellants were therefore publishers of the third-party comments.

Da vedere se nel diritto USA il fatto sarebbe stato coperto dal safe harbour ex § 230 CDA.

Immissioni sonore e limiti ex normativa tecnica speciale

Quanto alle immisisni sonore, I limiti posti da disciplina ammnistrativa mirano ad interessi pubblici e non sono vincolanti nei rapporti tra privati , ove vale solo la regola dlle normale tollerabilità ex art 844 cc

Così la -tralaticia -a pur sempre utile- precisazione di Cass. 28.07.2021 n. 21.649, Mongelli ed altri c. Fantappiè+1, rel. Giannaccari.

Di preciso: <<I primo luogo, va precisato che le normative tecniche speciali, che prescrivono i livelli di accettabilità delle immissioni, perseguendo esclusivamente interessi pubblici, operano in negativo nei rapporti fra privati e pubblica Amministrazione, al fine di assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di quiete. Esse possono valere come indici valutativi del limite di intollerabilità nei rapporti orizzontali di vicinato, ai sensi dell’art. 844 c.c., (Cassazione civile sez. II, 01/10/2018, n. 23754)

La disciplina delle immissioni moleste in “alienum” nei rapporti fra privati va rinvenuta, infatti, nell’art. 844 c.c., alla stregua delle cui disposizioni, quand’anche dette immissioni non superino i limiti fissati dalle norme di interesse generale, il giudizio in ordine alla loro tollerabilità va compiuto secondo il prudente apprezzamento del giudice che tenga conto delle particolarità della situazione concreta (conf. Cass. n. 17281/2005 che ribadisce che la valutazione compiuta sul punto, con particolare riguardo a quello del contemperamento delle esigenze della proprietà privata con quelle della produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità).

L’art. 844 c.c., affida al giudice il compito di individuare nel caso concreto il significato da attribuire a tale locuzione così ampia e generica, dal momento che la soglia di normale tollerabilità dell’immissione rumorosa non ha carattere assoluto, ma dipende dalla situazione ambientale, dalle caratteristiche della zona e dalle abitudini degli abitanti, tutelando il diritto al riposo, alla serenità e all’equilibrio della mente, nonché alla vivibilità dell’abitazione che il rumore e il frastuono mette a repentaglio. L’accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza (Cass. n. 26899 del 2014)>>.

Nel caso specifico la corte di merito aveva accertato <<il superamento della normale tollerabilità sulla base delle conclusioni cui era pervenuto il CTU, il quale ha rilevato un significativo superamento di tre decibel rispetto agli standard previsti dalla normativa specifica (pag. 9 della sentenza) ed ha evidenziato come le immissioni sonore fossero inevitabili in relazione alle caratteristiche costruttive del secondo vano bagno, dal momento che lo scarico era stato installato nel muro divisorio ed al confine con la stanza da letto, tenuto conto del frequente utilizzo nelle ore notturne da parte del convenuto.>>

Sul c.d. rumore di fondo:

<<Quanto all’erroneità del criterio di rilevamento delle immissioni sonore, avvenute nelle ore notturne e quindi in assenza di rumori di fondo, la corte di merito si è conformata al principio secondo cui il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (cd. criterio comparativo), sicché la valutazione diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell’uomo medio e, dall’altro, alla situazione locale, appropriatamente e globalmente considerata (Cassazione civile sez. II, 05/11/2018, n. 28201).

Nel caso di specie, infatti, il giudice di merito, nel tenere conto della rumorosità di fondo, ha accertato in concreto che le immissioni rumorose prodotte da un bagno possono essere anche notturne e, in questo caso, verificarsi in una situazione di rumore di fondo pressoché inesistente. Cosicché non è illogico il giudizio della corte distrettuale operato in situazione di scarso rumore di fondo, ovvero alle 10 del mattino di un giorno feriale piovoso>>

Sulla liquidazione del danno, asseritamente liquidato senza prova:

<<La Corte di Strasburgo ha fatto più volte applicazione di tale principio anche a fondamento della tutela alla vivibilità dell’abitazione e alla qualità della vita all’interno di essa, riconoscendo alle parti assoggettate ad immissioni intollerabili un consistente risarcimento del danno morale, e tanto pur non sussistendo alcuno stato di malattia. (Cass. sez. 3, n. 20927, 16/10/2015, Rv. 637537). Si è analogamente affermato che pur quando non risulti integrato un danno biologico, la lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria casa di abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane sono pregiudizi apprezzabili in termini di danno non patrimoniale (Cass. n. 7875 del 2009).

A tali principi si è conformata la corte di merito che ha accertato la sussistenza di un danno risarcibile correlato al pregiudizio al diritto al riposo, che ridonda sulla qualità della vita di un individuo e conseguentemente sul diritto alla salute costituzionalmente garantito.

Non si tratta di danno in re ipsa ma di danno-conseguenza, che, secondo l’accertamento della corte di merito, è stato provato in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa.>>

Patto di non concorrenza tra datore di lavoro e lavoratore: nullità per condizione meramente potestativa

Poco chiara sentenza della SC sul tema del patto in oggetto, relativo al periodo successico allo scioglimento del rapporto, regolato dalla’rt. 2125 cc.

Si tratta di Cass. 23.723 del 01.09.2021, Canova c. Adecco , rel. Cinque.

La particolarità stava nel fatto che era stato pure stipulato il recesso da tale patto a favore del datore, che venne di fatto esercitato sei anni prima dello scioglimento del rapporto.

La Corte di merito avedva rilevato  <<che il patto de quo era sottoposto ad una condizione potestativa a favore di parte datoriale, che si era riservata, al momento della risoluzione del rapporto, di decidere se avvalersene o meno e che una siffatta clausola era stata ritenuta nulla, per contrasto con norme imperative, in sede di legittimità. Tuttavia, la Corte territoriale ha sottolineato che, nella fattispecie, il contrasto con le norme imperative non era ravvisabile perché il datore di lavoro aveva esercitato il diritto di recesso ben sei anni prima della risoluzione del rapporto di lavoro per cui la lavoratrice non aveva subito alcun sacrificio, in relazione alla facoltà di riorganizzare il proprio futuro lavorativo e da indennizzare con la indennità pretesa>>, § 2.

Così risponde la SC: <Invero, è stato affermato che la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative; inoltre, è stato  altresì precisato, sempre con la richiamata giurisprudenza di legittimità, che il fatto che, nella fattispecie, il recesso del patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro non rileva, poiché i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, il che impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà; ma detta compressione, appunto ai sensi dell’art. 2125 cc, non poteva avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore: corrispettivo che, nella specie, finerebbe per essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo (cfr. Cass. n. 3 del 2018)>>

Tali argomentazioni rendono, conseguentemente, non condivisibile l’assunto della Corte territoriale <<secondo cui, la circostanza che il recesso fosse avvenuto in costanza di rapporto di lavoro, addirittura diversi anni prima (oltre sei) dallo scioglimento dello stesso, non concretizzava alcuna compressione della libertà del lavoratore di progettare il proprio futuro lavorativo.             8. Pertanto, premesso che l’obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto sorge,  nella fattispecie, sin dall’inizio del rapporto di lavoro (Cass. n. 8715 del 2017), tamquam non esset va considerata la successiva rinuncia al patto stesso appunto perché, mediante questa, si finisce per esercitare la clausola nulla, tramite cui la parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso, in virtù di una condizione risolutiva affidata in effetti a
mera discrezionalità di una sola parte contrattuale (Cass. n. 3 del 2018).>>

Certamente erra la corte di appello nel vanificare la nullità con la tempestività del recesso.

Dubbio invece che il diritto di recesso renda nullo il patto di non concorrnza: lo stesso allora potrebbe dirsi per qualunque pattuizione di recesso aggiunta ad un contratto. Come patto accessorio, andrebbe probabilmente vagliato ai sensi dell’art. 1419 cc sulla nullità parziale.

Infine, se si tien ferma la nullità, dovrebbe discenderne il diritto alle restituzioni (prestazioni già eseguite) e l’estinzione degli obblighi (prestazioni ancora da eseguire).

Raccolta, a fini di successiva vendita, di informazioni personali altrui: right of publicity e safe harbour ex 230 CDA

La corte distrettuale del Nord California, 16.08.2021, 21cv01418EMC , Cat Brooks e altri c. THOMSON REUTERS CORPORATION (poi, TR), decide la lite iniziata dai primi per raccolta e sucessiva vendita a terzi di loro dati personali.

Il colosso dell’informazione TR , data broker, raccoglieva e vendeva informazioni altrui a imprese interessate (si tratta della piattaforma CLEAR).

Precisamente: Thomson Reuters “aggregates both public and nonpublic information about millions of people” to create “detailed cradletograve dossiers on each person, including names, photographs, criminal history, relatives, associates, financial information, and employment information.” See Docket No. 11 (Compl.) ⁋ 2. Other than publicly available information on social networks, blogs, and even chat rooms, Thomson Reuters also pulls “information from thirdparty data brokers and law enforcement agencies that are not available to the general public, including live cell phone records, location data from billions of license plate detections, realtime booking information from thousands of facilities, and millions of historical arrest records and intake photos.”

1) Tra le vari causae petendi, considero il right of publicity.

La domanda è rigettata non tanto perchè non ricorra l’uso (come allegato da TR) , quanto perchè non ricorre l'<Appropriation of Plaintiffs’ Name or Likeness For A Commercial Advantage>: Although the publishing of Plaintiffs’ most private and intimate information for profit might be a gross invasion of their privacy, it is not a misappropriation of their name or likeness to advertise or promote a separate product or servic, p. 8.

2) safe harbour ex § 230 CDA, invocato da TR

Dei tre requisiti necessari (“(1) a provider or user of an interactive computer service (2) whom a plaintiff seeks to treat, under a state law cause of action, as a
publisher or speaker (3) of information provided by another information content
provider.”
), TR non ha provato la ricorrenza del 2 e del 3.

Quanto al 2, la giurisprudenza insegna che <<a plaintiff seeks to treat an interactive computer service as a “publisher or speaker” under § 230(c)(1) only when it is asking that service to “review[], edit[], and decid[e] whether to publish or withdraw from publication thirdparty content.” Id. (quoting Barnes, 570 F.3d at 1102). Here, Plaintiffs are not seeking to hold Thomson Reuters liable “as the publisher or speaker” because they are not asking it to monitor thirdparty content; they are asking to moderate its own conten>>

Quanto al requisito 3, l’informazione non è fornita da terzi ma da TR: the “information” at issue herethe dossiers with Plaintiffs’ personal informationis not “provided by another information content provider.” 47 U.S.C. § 230(c)(1). In Roomates.com, the panel explained that § 230 was passed by Congress to “immunize[] providers of interactive computer services against liability arising from content created by third parties.” 521 F.3d at 1162 (emphasis added). The whole point was to allow those providers to “perform some editing on usergenerated content without thereby becoming liable for all defamatory or otherwise unlawful messages that they didn’t edit or delete. In other  words, Congress sought to immunize the removal of usergenerated content, not the creation of content.” Id. at 1163 (emphases added). Here, there is no usergenerated contentThomson Reuters generates all the dossiers with Plaintiffs’ personal information that is posted on the CLEAR platform. See Compl. ⁋⁋ 13. In other words, Thomson Reuter is the “information content provider” of the CLEAR dossiers because it is “responsible, in whole or in part, for the creation or development of” those dossiers. 47 U.S.C. § 230(f)(3). It is nothing like the paradigm of an interactive computer service that permits posting of content by third parties.

Concorrenza sleale denigratoria e interferenza illecita nelle relazioni contrattuali altrui

Un tribunale della California giudica la lite promossa da ENIGMA SOFTWARE GROUP USA LLC, contro MALWAREBYTES INC., competitors nel settore del software antivirus e antiintrusioni (US D.C.NORTHERN DISTRICT OF CALIFORNIA SAN JOSE DIVISION, Enigma c. Malwarebytes, 9 agosto 2021, Case 5:17-cv-02915-EJD) . 

L’azione si basa spt. su concorrenza sleale denigratoria e interferenza nelle relazioni contrattuali: M. aveva qualificato come “malicious,” a “threat,” and as a Potentially Unwanted Program (“PUP”) il software di E.

1) Ex Lanham act, § 43.a , a plaintiff must allege that: (1) the defendant made a false statement of fact in a commercial advertisement, (2) the statement actually deceived or has the tendency to deceive a substantial segment of its audience, (3) the statement is material, (4) the defendant caused the statement to “enter interstate commerce,” and (5) the plaintiff has been or is likely to be injured as a result of the false statement.

Domanda però rigettata poichè , come nel caso Asurvio LP, Enigma has not pleaded that Malwarebytes’ alleged labels are verifiably false rather than just subjective opinions. Enigma’s allegations that users view statements categorizing Enigma’s programs and domains as “malicious, “threats,” and PUPs as statements of fact rather than subjective opinions are not supported by the facts presented. The allegations ignore that users of Malwarebytes are aware of why it opines that a given software program may be a PUP based on Malwarebytes’ disclosed criteria and can choose to quarantine or unquarantine the detected program, p. 17.

Si tratta insomma di mere opinioni.

2) tortious Interference with Business Relations.

Quest’azione richiede che l’attore provi (1) an economic relationship between the [claimant] and some third party, with the probability of future economic benefit to the [claimant], (2) that the opposing party knew of the relationship, (3) an intentional, wrongful act designed to disrupt the relationship, (4) actual disruption of the relationship, and (5) that the act caused economic harm to the claimant..

Ebbene, il rigetto della precedente domanda porta al ritgetto pure di questa: Here, Malwarebytes argues that since Enigma’s Lanham Act and NYGBL § 349 claims fail, Enigma’s tortious interference claim must also fail because Enigma does not allege any other independently wrongful conduct. Mot. at 2021. The Court agrees, and, therefore, grants Malwarebytes’ motion to dismiss the claim for tortious interference with business relations on this ground, p. 19.

Rimedi risarcitori, restitutori e punitivi in caso di violazione brevettuale

E’ intervenuta in tema di violazione brevettuale Cass. n. 5.666 del 02.03.2021, rel. Iofrida, Cappellotto spa c. Farid Industrie spa.

A parte alcune interessanti spunti processuali (per i quali servirebbe conoscere gli atti di causa ma sui quali comunque non mi fermo), due sono quelli qui  ricordati: novità intrinseca e rimedi ex art. 125 cpi,

Sul primo, nulla di interessante, ripetendo tralatice posizioni sulla differenza tra invenzine e modello di utliità: <<In conclusione, mentre sono brevettabili come modello di utilità i trovati che incrementano la comodità d’uso, grazie a soluzioni che migliorano l’efficacia di un prodotto noto, senza introdurre modifiche rivolte a risolvere specifici problemi di funzionamento delle versioni precedenti di quello, sono brevettabili come “invenzioni di perfezionamento o di combinazione” tutti quei trovati che consistono in modifiche rappresentanti, ad un tecnico medio del ramo, una soluzione nuova e non evidente ad uno specifico problema posto dal funzionamento dei precedenti prodotti analoghi.

Orbene, poichè le cosiddette “invenzioni di combinazione” sono caratterizzate dall’esplicito utilizzo di tecniche e procedimenti in tutto o in parte già noti, raggiungendosi un risultato nuovo attraverso la loro coordinazione originale, rispetto ad esse i requisiti di novità ed originalità vanno valutati proprio in relazione al quid pluris rappresentato dalla combinazione ed utilizzazione dei suddetti elementi (ancorchè non nuovi), al fine di ravvisare la sussistenza di un contributo inventivo ulteriore rispetto alla pura e semplice continuità tecnica e, trattandosi di questione di fatto, tale accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato, ora nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5>>

Più interessante il secondo tema, relativo all’art. 125 cpi, che richiede ancora sistemazione ermeneutica.

– I-

Qualche passaggio lascia perplessi. Ad es.:  <<Il comma 1 della disposizione in esame individua, tuttavia, dei parametri da cui potere desumere indirettamente il danno, sia pure in via di approssimazione (quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall’autore della violazione e il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione): si fa rinvio, tra i criteri da seguire per determinare l’entità del pregiudizio subito dal titolare della privativa, non soltanto al tradizionale pregiudizio di tipo patrimoniale, ma anche alla categoria del danno morale, quale il danno all’immagine commerciale dell’imprenditore, o la perdita di investimenti pubblicitari, ed al parametro dei benefici ricavati dal contraffattore (indipendentemente quindi dalla retroversione degli utili, di cui al comma 3, della disposizione in esame, che può essere chiesta in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura eccedente tale risarcimento), in un’ottica non solo indennitaria ma anche riparatoria, giustificata dall’obiettivo di tutela di una corretta attività di mercato. Si tratta, in buona sostanza, di una regola speciale nell’ambito del rimedio risarcitorio, di norma volto a compensare per equivalente, attraverso un pagamento commisurato alla perdita et ricchezza sopportata, chi ha subito la violazione.>>

Il danno morale, anche concesso che si applichi alle imprese collettive e non solo alle persone fisiche, non comprende la perdita di inverstimenti pubblicitari (cocnetto -poi- che andrebbe prima definito) , i quali semmai costituiscono danno emergente.

Poi non cbhiarisce la distinzione (civilistica) tra indennità e riparazione, usandolo con troppa leggerezza

Ancora, non è una regola speciale all’interno del risarcimento: o è compensazione d ipregiudizio, e allora vi rientra in toto, o non mira a compensare, e allora è altro dalla compensazione.

-II-

sul c. 2: <<senza l’onere per il titolare della privativa di dimostrare quale sarebbe stata la certa royalty pretesa in caso di ipotetica richiesta di una licenza da parte dell’autore della violazione, non rappresentando detto criterio il danno effettivamente subito ma un c.d. “minimo obbligatorio”.>>.

Bisogna intendersi: non deve dimostrare la propria ipotetica royalty, ma deve però dimostrare (ex onere della prova, art. 2697 cc) quella ipotetica di mercato per casi simili (cosa non facile, dovendosi trovare un’invenzione simile)

-III-

Circa il c. 3 della’rt. 125 cpi, <<il titolare danneggiato potrà chiedere il risarcimento del danno nella forma alternativa della restituzione degli utili del contraffattore.

Si tratta sempre di una forma di ristoro, forfettario, del lucro cessante, che può quindi cumularsi al danno emergente e che può essere chiesta o in via alternativa al risarcimento del mancato guadagno o nella misura in cui gli utili del contraffattore superino il suddetto pregiudizio subito>>.

Errore concettuale: non è risarcimento ma punizione o quanto meno restituzione di indebito (a scusa, però, va detto che c’è pure qualche dottrina che parla di compensazoine).

Quindi nemmeno è ristoro del lucro cessante, essendo statisticametne improbabilissimo che lo stesso utile l’avrebbe prodotto la vittima: esso dipende da svariati fattori (quindi a rigore nemmeno si tratta di restituzine di indebito).

-IV-

Ai sensi del risarcimenot ex c. 1, dice la SC,  <SI DEVE> tener conto degli utili del contraffattore. Passaggio importate, ma forse azzardato.

-V-

calcolo dei profitti: <<Questa Corte (Cass. 8944/2020) ha poi, di recente, rilevato che l’utile percepito dal contraffattore non corrisponde all’intero ricavo derivante dalla commercializzazione del prodotto contraffatto, ma al margine di profitto conseguito da colui che si è reso responsabile della lesione del diritto di privativa, deducendo i costi sostenuti (produttivi e di distribuzione) dal ricavo totale.>>.

Aspetto praticamente assai significativo e di competenza in prima battuta degli aziendalisti (ma poi pure dei giuristi)

-VI-

Perplessi lascia il § 6.8, che censura la royalty media a favore dell’applicazione del MOL (margine operativo lordo) incremetnale proprio della vittima , calcolato però sul fatturato del violatore.

Errato, però.

O si applica il c.1 (eventualmente col minimo sindacale del c.2) o  il c.3.

Se si applica il c-.1 , il fattorato del violatore è irrilevante dovendosi guardare ai suoi profitti/utili e comunqjue è solo  un possibile spunto (a mio parere rararamente sarà utile).

Se si applica il c.3, il MOL della vittima è irrilevante, rlevando solo quellodel violatore.

Discriminazione nelle ricerche di alloggi via Facebook: manca la prova

Una domanda di accertamento di violazione del Fair Housing Act e altre leggi analoghe statali (carenza di esiti – o ingiustificata differenza di esiti rispetto ad altro soggetto di diversa etnia- dalle ricerche presuntivamente perchè eseguite da account di etnia c.d. Latina) è rigettata per carenza di prova.

Da noi si v. spt. il d. lgs. 9 luglio 2003 n. 216 e  il d . lgs. di pari data n° 215 (autore di riferimento sul tema è il prof. Daniele Maffeis in moltri scritti tra cui questo).

Nel mondo anglosassone , soprattutto statunitense, c’è un’enormità di scritti sul tema: si v. ad es. Rebecca Kelly Slaughter-Janice Kopec & Mohamad Batal, Algorithms and Economic Justice: A Taxonomy of Harms and a Path Forward for the Federal Trade Commission, Yale Journal of Law & Technology

Il giudice così scrive:

<In sum, what the plaintiffs have alleged is that they each used Facebook to search for housing based on identified criteria and that no results were returned that met their criteria. They assume (but plead no facts to support) that no results were returned because unidentified advertisers theoretically used Facebook’s Targeting Ad tools to exclude them based on their protected class statuses from seeing paid Ads for housing that they assume (again ,with no facts alleged in support) were available and would have otherwise met their criteria. Plaintiffs’ claim  that Facebook denied them access to unidentified Ads is the sort of generalized grievance that is insufficient to support standing. See, e.g., Carroll v. Nakatani, 342 F.3d 934, 940 (9th Cir. 2003) (“The Supreme Court has repeatedly refused to recognize a generalized grievance against allegedly illegal government conduct as sufficient to confer standing” and when “a government  actor discriminates on the basis of race, the resulting injury ‘accords a basis for standing only to those persons who are personally denied equal treatment.’” (quoting Allen v. Wright, 468 U.S. 737, 755 (1984)).9 Having failed to plead facts supporting a plausible injury in fact sufficient to confer standing on any plaintiff, the TAC is DISMISSED with prejudice>.

Così il Northern District of California 20 agosto 2021, Case 3:19-cv-05081-WHO , Vargas c. Facebook .

Il quale poi dice che anche rigattando quanto sorpa, F. srebbe protetta dal safe harbour ex § 230 CDA e ciò nonostante il noto precedente Roommates del 2008, dal quale il caso sub iudice si differenzia:

<<Roommates is materially distinguishable from this case based on plaintiffs’ allegations in the TAC that the nowdefunct Ad Targeting process was made available by Facebook for optional use by advertisers placing a host of different types of paidadvertisements.10 Unlike in Roommates where use of the discriminatory criteria was mandated, here use of the tools was neither mandated nor inherently discriminatory given the design of the tools for use by a wide variety of advertisers.

In Dyroff, the Ninth Circuit concluded that tools created by the website creator there, “recommendations and notifications” the website sent to users based on the users inquiries that ultimately connected a drug dealer and a drug purchaser did not turn the defendant who ontrolled the website into a content creator unshielded by CDA immunity. The panel confirmed that the tools were “meant to facilitate the communication and content of others. They are not content in and of themselves.” Dyroff, 934 F.3d 1093, 1098 (9th Cir. 2019), cert. denied, 140 S. Ct. 2761 (2020); see also Carafano v. Metrosplash.com, Inc., 339 F.3d 1119, 1124 (9th Cir. 2003) (where website “questionnaire facilitated the expression of information by individual users” including proposing sexually suggestive phrases that could facilitate the development of libelous profiles, but left “selection of the content [] exclusively to the user,” and defendant was not “responsible, even in part, for associating certain multiple choice responses with a set of physical characteristics, a group of essay answers, and a photograph,” website operator was not information content provider falling outside Section 230’s immunity); Goddard v. Google, Inc., 640 F. Supp. 2d 1193, 1197 (N.D. Cal. 2009) (no liability based on Google’s use of “Keyword Tool,” that  employs “an algorithm to suggest specific keywords to advertisers”).  

Here, the Ad Tools are neutral. It is the users “that ultimately determine what content to  post, such that the tool merely provides ‘a framework that could be utilized for proper or improper  purposes, . . . .’” Roommates, 521 F.3d at 1172 (analyzing Carafano). Therefore, even if the plaintiffs could allege facts supporting a plausible injury, their claims are barred by Section 230.>>

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Marchio di forma costituito dalla forma del calzare (sul sandalo Crocs)

Si pronuncia la corte di appello svedese IP sulla registrabilità del marchio di forma costituito dalla forma dei sandali Crocs:

Crocs - CLASSIC UNISEX - Sandali da bagno - red

(immagine presa da internet, in zalando.it)

Il sempre difficile tema dei marchi di forma è esaminato dal Patent and Market Court of Appeal (Patent- och marknadso ̈verdomstolen), decision of 2 December 2020 – PMT 7014-19: ne dà notizia GRUR International, in corso di pubblicazione , offrendo traduzione inglese e breve nota di B. Marusic.

Qui segnalo che:

1) le caratteristiche essenziali trovate in primo grado sono cinque: <<The parties in the case are of the opinion that the essential features of the mark are the heel strap, the flat rivets, the wide and round toe part, and that there are holes onthe top and on both sides.>>.

2) la corte di appello le riduce a due, anzi tre: <<According to the Patent and Market Court of Appeal, the essential features of the trade mark thus consist partly of the heel strap and partly of the holes on the top and on the sides>> (stringa di chiusura e fori superiori/laterali)

3) circa i fori, l’aspetto pià interessante, essi non sono dettati dalla esigenza funzionale di favorire la ventilazione e lo scorrimento dell’acqua, osserva la Corte: infatti avrebbero potuto essere collocati o disegnati diversamente o altrove,  senza pregiudicare la esigenza funzionale: <<The assessment of whether the mark consists only of a shape which results from the nature of the good will thus be made with regard to the holes on the shoe and the heel strap. Like the Patent and Market Court, the Patent and Market Court of Appeal assesses that the heel strap only has a generic function of holding the shoe in place. Regarding the holes on the shoe as an essential feature, in this context they must be understood as holes with the number, size and detailed design as well as the location that appears from the trade mark registration. The evidentiary procedure in the case shows that the holes have the function of increasing ventilation. The holes on the sides have been designed and placed in such a way that water, for example, should be able to flow out easily. The fact that an item of footwear of the current type has good ventilation and enables water to drain out must certainly be assumed to be considered as properties that a consumer demands from competitors’ goods. However, this can be accomplished in several different ways. It is possible to vary the design – for example in terms of the number of holes, their size, shape and location – to achieve the same functions as in the holes in the Crocs shoe. The scope for variations in the design is thus almost infinite. The conclusion of the Patent and Market Court of Appeal is therefore that the trade mark cannot be considered to consist only of a shape that results from the nature of the goods>>.

Questione spinosa: da un lato, il margine d manovra per i concorrenti  è limitato, non avendo altri spazi in cui inserire i fori; dall’altro, anche la diversa realizzabilità dei fori non toglie che il loro inserimento sia dovuto solo a motivi funzinali o comunque abbia di fatto scarsa arbitrarietà e dunque distintività.