Conflitto di interessi dell’intermediario e risarcimento dei danni cagionati

Cass. 20.251 del 15.07.2021 rel. Marulli, decide una lite sul conflitto di interessi (cdi)  tra intermediario (I.)  e cliente, regolato dalla’rt. 21.1bis TUF e spt. dall’art. 23 reg. congiunto BANCA D’ITALIA E DELLA CONSOB AI SENSI DELL’ARTICOLO 6, COMMA 2-BISTUF del 29.10.2007.

Detto art. 23 recita: << 1.  Gli intermediari adottano ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere con il cliente o tra clienti, al momento della prestazione di qualunque servizio e attività di investimento o servizio accessorio o di una combinazione di tali servizi.
2. Gli intermediari gestiscono i conflitti di interesse anche adottando idonee misure organizzative e assicurando che l’affidamento di una pluralità di funzioni ai soggetti rilevanti impegnati in attività che implicano un conflitto di interesse non impedisca loro di agire in modo indipendente, così da evitare che tali
conflitti incidano negativamente sugli interessi dei clienti.
3. Quando le misure adottate ai sensi del comma 2 non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato, gli intermediari informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura e/o delle fonti dei conflitti affinché essi possano assumere una decisione informata sui servizi prestati, tenuto conto del contesto in cui le situazioni di conflitto si manifestano>>

Per l’I., non c’era più l’obbligo di astensione in caso di cdi (§ 3.1) a seguito di modifiche normtive.

Per contro, la SC precisa che semplicemente è stato ritenuto sufficiente il consenso tacito, nulla di meno.

Dice la SC: <<L’art. 23 Reg. congiunto, nel testo applicabile alla specie, non ha affatto abdicato al principio “disclose or abstain” alla base della previgente disciplina del conflitto di interesse risultante dall’art. 27 Reg. Consob 1 luglio 1998, n. 11522, ma nel quadro di una riorganizzazione di essa fondata sul principio della prevenzione si è passati, quanto alla posizione dell’investitore, da un’impostazione basata sul principio del consenso espresso ad un’impostazione basata ora sul principio del consenso tacito.

In ragione dei mutamenti che attraversano senza sosta il mercato finanziario e che rendono il conflitto di interessi una dimensione potenzialmente presente in qualunque contrattazione finanziaria, l’intento dei riformatori si è infatti indirizzato in direzione di un’attualizzazione della relativa disciplina per mezzo principalmente di un’accresciuta responsabilizzazione degli intermediari, chiamati, qui, come già più in generale previsto dall’art. 21, comma 1 bis, TUF, ad adottare “ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere con il cliente o tra clienti” (art. 23, comma 1) e a gestire “i conflitti di interessi anche adottando idonee misure organizzative… da evitare che tali conflitti incidano negativamente sugli interessi dei clienti” (art. 23, comma 2); e ciò non senza, però, fare nel contempo salva l’avvertenza che “quando le misure adottate ai sensi dell’art. 2 non sono sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato, gli intermediari informano chiaramente i clienti, prima di agire per loro conto, della natura generale e/o delle fonti dei conflitti affinché essi possano assumere una decisione informata sui servizi prestati, tenuto conto del contesto in cui le situazioni di conflitto si manifestano” (art. 23, comma 3).

Quest’ultima disposizione rafforza la convinzione che l’intermediario che intenda promuovere la conclusione di un’operazione in conflitto di interessi deve informarne previamente il cliente (“gli intermediari informano chiaramente i clienti prima di agire per loro conto”) e solo dopo averne ottenuto il consenso (“possano assumere una decisione informata”) l’operazione può avere seguito. E’ vero, a questo riguardo, che la norma non ne fa cenno, ma la prestazione del consenso è implicitamente presupposta dalla circostanza che l’intermediario non può agire se non dopo aver posto il cliente nella condizione di prendere una decisione informata, che non può che essere perciò espressione di assenso da parte sua, dato che diversamente l’intermediario si troverebbe nella condizione di non potere portare a termine l’operazione. Il passaggio normativo rilevante sta piuttosto nel fatto non già che l’intermediario possa prescindere dal consenso dell’investitore, ma che quel consenso che in precedenza doveva essere prestato in forma espressa oggi può essere manifestato anche per mezzo di un comportamento concludente, quale è da ravvisarsi nel fatto che l’investitore, debitamente notiziato della conflittualità dell’operazione, non si opponga ad essa e ne autorizzi così tacitamente la conclusione. Il che e’, all’evidenza, cosa ben diversa da quella predicata dal motivo, persistendo in difetto di /’disclosure,, il dovere dCabstain,, dell’intermediario, che non può infatti effettuare l’operazione in conflitto di interessi se non dopo aver informato il cliente ed avere da questo ottenuto, sia pure per effetto di un comportamento concludente, il consenso alla sua esecuzione.>>

Inoltre  circa la censura dell’aver ravvisato nesso di causa in re ipsa tra inadempimento e danno, quando dovere di astensione -per il ricorrente- non c’era, la SC ribadisce sia il dovere di astensione che la esattezza della tesi della causalità in re ipsa.

Così motiva:  <<Esso riposa su un presupposto (l’insussistenza di un dovere di astensione da parte dell’intermediario in caso di conflitto di interessi) del tutto inveritiero come si è spiegato rigettando il secondo motivo di gravame, non avendo il legislatore – e, per esso, le autorità delegate all’adozione dei provvedimenti attuativi – con le disposizioni regolanti la specie inteso disgiungere l’obbligo di trasparenza, che impone di informare il cliente che l’operazione avviene in conflitto di interessi, ed il dovere di astensione ove il cliente non sia posto in condizione di prendere una decisione informata, prestando il proprio consenso all’operazione. Sicché, come bene ha indicato il P.M. una volta “individuato l’oggetto della tutela che è la consapevole e compiuta informazione del cliente su ogni aspetto dell’operazione in strumenti finanziari, la violazione delle misure apprestate in quella direzione e delle regole poste per impedire il pericolo del pregiudizio definisce come tale la responsabilità del soggetto intermediario o collocatore a titolo omissivo”.

Ciò del resto rispecchia un intendimento già enunciato da questa Corte in relazione alla fattispecie a suo tempo prevista dall’art. 27 Reg. Consob 11522/1998, che postulava, non diversamente del resto da quanto si è osservato in relazione alle disposizioni applicabili al caso di specie, l’obbligo dell’intermediario di astenersi dalle operazioni in conflitto di interessi se non debitamente autorizzate dall’investitori. In tali ipotesi si sosteneva, sottolineandosi segnatamente la peculiarità di essa rispetto alla violazione degli obblighi informativi più generalmente previsti a carico dell’intermediario, ove, come si è ricordato ancora di recente, la funzione dei medesimi di colmare l’asimmettria informativa tra le parti è foriera solo di una presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio (Cass., Sez. I, 17/04/2020, n. 7905), “la violazione dell’obbligo giuridico di astensione a carico dell’intermediario esclude la necessità dell’accertamento del nesso causale, da ritenersi in “re ipsa“; invece nella differente ipotesi dell’inosservanza dell’obbligo di informazione attiva, specificamente prevista dall’art. 28, comma 2, del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, l’esistenza del nesso causale andrà accertata in concreto, non potendosi escludere che l’investitore, una volta correttamente informato, avrebbe deciso di dar corso ugualmente all’investimento”.

Ne’ vi è ragione di deflettere da siffatto indirizzo in considerazione dei visti mutamenti normativi, poiché come si è precisato, rigettando il secondo motivo di ricorso, il principio in virtù del quale le operazioni in conflitto di interessi non possono avere seguito senza il consenso dell’investitore non è stato accantonato, ma ha solo visto mutare il suo assetto, con la conseguenza che l’operazione posta in essere dall’intermediario in una situazione di conflitto di interessi del quale egli non abbia previamente informato l’investitore e rispetto al compimento della quale, sia pure nella vista forma del consenso tacito, egli non sia stato perciò autorizzato, qualora si riveli pregiudizievole, è fonte di indubbia responsabilità dell’intermediario, dato che solo l’adesione ad essa dell’investitore recide il nesso di causalità altrimenti sussistente tra la violazione dello specifico obbligo informativo a cui è tenuto l’intermediario nel dar corso ad un’operazione in conflitto di interessi e il danno che ne patisce l’investitore.>>

<Indubbia responsabilità>, però, è eccessivo: la responsabilità c’è solo se c’è danno. E’ fonte di eventuale danno <indubbiamente collegato da nesso causale alla violazione>, semmai.

Sul quantum:

<<La Corte d’Appello, nel confermare sul punto l’assunto del giudice di primo grado e nel ritenere quindi corretta la liquidazione del danno patito dal R. nella differenza tra quanto investito e quanto riscosso, mostra di condividere il criterio più generalmente enunciato in materia da questa Corte, che ne raccomanda la parametrazione “in misura pari alla differenza tra il valore dei titoli al momento del relativo acquisto e quello degli stessi al momento della domanda risarcitoria” (Cass., Sez. I, 14/11/2018, n. 29353).>>.

Nell’indirizzarsi in questa direzione la C. di appello <<ha dato forma ad un giudizio di valore che basandosi sull’apprezzamento di circostanze di fatto emerse nel corso della vicenda sostanzia un accertamento di merito non suscettibile di essere sindacato da parte questa Corte, tanto più considerando che la pretesa “potenzialità” del danno, eccepita dalle ricorrenti nel formulare il motivo, è tale non già in forza dei dati concreti disponibili al momento della decisione ma in ragione di ipotetici e non prevedibili rimborsi futuri, sicché, come ancora annota il PM, potenziale non è il danno liquidato dal decidente ma, potenziali sono semmai gli ulteriori rimborsi che l’investitore potrebbe essere deputato a ricevere in futuro.>>.

Pertanto, motivo di ricorso inammissibile.

L’intelligenza artificiale può essere “inventor” per il diritto australiano

La querelle aperta dal dr. Thaler con la sua DABUS machine, che sta cercando di ottenere brevetto inventivo a nome proprio ma come avente causa dall’inventore costituito da intelligenza artificiale (IA), trova ora una soluzione posiiva in Australia.

Qui la Corte Federale con decisione 30.07.2021, Thaler v Commissioner of Patents [2021] FCA 879, file n° VID 108 of 2021, con analitico esame,  riforma la decisione amministrativa di rifiuto.

<<Now whilst DABUS, as an artificial intelligence system, is not a legal person and cannot legally assign the invention, it does not follow that it is not possible to derive title from DABUS. The language of s 15(1)(c) recognises that the rights of a person who derives title to the invention from an inventor extend beyond assignments to encompass other means by which an interest may be conferred.>>, § 178

Per cui dr. Thaler legittimanente dichiara di essere avente causa da DABUS: <<In my view, Dr Thaler, as the owner and controller of DABUS, would own any inventions made by DABUS, when they came into his possession. In this case, Dr Thaler apparently obtained possession of the invention through and from DABUS.  And as a consequence of his possession of the invention, combined with his ownership and control of DABUS, he prima facie obtained title to the invention.  By deriving possession of the invention from DABUS, Dr Thaler prima facie derived title.  In this respect, title can be derived from the inventor notwithstanding that it vests ab initio other than in the inventor.  That is, there is no need for the inventor ever to have owned the invention, and there is no need for title to be derived by an assignment.>>, § 189.

E poi: <<In my view on the present material there is a prima facie basis for saying that Dr Thaler is a person who derives title from the inventor, DABUS, by reason of his possession of DABUS, his ownership of the copyright in DABUS’ source code, and his ownership and possession of the computer on which it resides. Now more generally there are various possibilities for patent ownership of the output of an artificial intelligence system. First, one might have the software programmer or developer of the artificial intelligence system, who no doubt may directly or via an employer own copyright in the program in any event.  Second, one might have the person who selected and provided the input data or training data for and trained the artificial intelligence system.  Indeed, the person who provided the input data may be different from the trainer.  Third, one might have the owner of the artificial intelligence system who invested, and potentially may have lost, their capital to produce the output.  Fourth, one might have the operator of the artificial intelligence system.  But in the present case it would seem that Dr Thaler is the owner>>, §§ 193-194.

In sitnesi, <<in my view an artificial intelligence system can be an inventor for the purposes of the Act. First, an inventor is an agent noun; an agent can be a person or thing that invents.  Second, so to hold reflects the reality in terms of many otherwise patentable inventions where it cannot sensibly be said that a human is the inventor.  Third, nothing in the Act dictates the contrary conclusion.>>, § 10.

Si osservi che dr Thaler <<is the owner of copyright in DABUS’s source code. He is also the owner, is responsible for and is the operator of the computer on which DABUS operates.  But Dr Thaler is not the inventor of the alleged invention the subject of the application.  The inventor is identified on the application as “DABUS, The invention was autonomously generated by an artificial intelligence”.  DABUS is not a natural or legal person.  DABUS is an artificial intelligence system that incorporates artificial neural networks.>>, § 8

Avevo segnalato il precedente inglese contrario con post 02.10.2020.

Un mese prima dr. Thaler aveva ottenuto il brevetto sulla stessa invenzione in Sud Africa: ne dà notizia www.ipwatchdog.com con post 29 luglio u.s. ove anche il link al documento amministrativo in cui si legge che l’istante è Thaler ma l’inventore è DABUS.

(notizia e link alla sentenza da gestaltlaw.com)

Copyright, fair use e Application Programming Interfaces (APIs) alla Corte Suprema (fine della lite Oracle v. Google?)

La Suprema Corte (SC) ha deciso la causa Oracle v .Google reltiva al copiaggio della seconda dilinee di codice della prima proprie di Application Programming Interfaces (APIs) : Supreme Court No. 18–956, April 5, 2021, GOOGLE LLC v. ORACLE AMERICA, INC.

Molti i commenti : ad es. v. la sintesi di  Bernardini-Borgogno in www.lavoce.info del 4 agosto 2021    e l’approfondito esame di Lemley-Samuelson, Interfaces and Interoperability After Google v. Oracle, Texas Law review, 2021, vol. 100/1 .

Ricordo poi il più approfondito lavoro di Lemley-Samuelson, Interfaces and Interoperability After Google v. Oracle, luglio 2021, per cui la SC ha errato nel non esaminare la questione della proteggibilità o meno delle Sun Java Application Program Interface (API), limitandosi a dar ragione a Google in base al fair use (per la ragine più liquida in sostanza; ). Meglio, più che <non esaminando>, si dovrebe dire <ipotizzandone la proteggibilità: “assume[d], but purely for argument’s sake, that the entire Sun Java API falls within the definition of that which can be copyrighted”. Metodo decisionale incomprensibile, dovendosi decidere via via le questioni secondo l’ordine logico, che prevede l’anteriorità di quella sulla proteggibilità rispetto a quella sulla difesa da fair use.

Per gli aa. invece la proteggibilità via copyright va negata.

Rigettata (per ora) la domanda antitrust della FTC statunitense contro Facebook

Leggo in post odierno del prof. Hovenkamp su promarket.org che sono state rigettate le domande giudiziali della FTC Federal Trade Commission  e degli Attorney General statali separatamente presentate contro Faceook: v. sentenze 28 giugno 2021 reperibili qui e rispettivamente qui (link forniti dal cit. post dell’illustre studioso).

La censura si appunta sulla misurazione del market share:

<<Even accepting that merely alleging market share “in excess of 60%” might sometimes be acceptable, it cannot suffice in this context, where Plaintiff does not even allege what it is measuring. Indeed, in its Opposition the FTC expressly contends that it need not “specify which . . . metrics . . . [or] ‘method’ [it] used to calculate Facebook’s [market] share.” FTC Opp. at 18.  In a case involving a more typical goods market, perhaps the Court might be able to reasonably infer how Plaintiff arrived at its calculations e.g., by proportion of total revenue or of units  sold. See U.S. Dep’t of Justice & FTC, Horizontal Merger Guidelines § 5.2 (2010) (suggesting these to be the typical methods). As the above marketdefinition analysis underscores, however, the market at issue here is unusual in a number of ways, including that the products therein are not sold for a price, meaning that PSN services earn no direct revenue from users. The Court is thus unable to understand exactly what the agency’s 60%plus figure is even referring to, let alone able to infer the underlying facts that might substantiate it.  

Rather than undergirding any inference of market power, Plaintiff’s allegations make it even less clear what the agency might be measuring. The overall revenues earned by PSN services cannot be the right metric for measuring market share here, as those revenues are all earned in a separate market viz., the market for advertising. See Redacted Compl., ¶ 164; see also, e.g., id., ¶ 101 (noting that prior to its acquisition, in addition to competing in the PSN services market, “Instagram also planned and expected to be an important advertising competitor” to Facebook). Percent of “daily users [or] monthly users” of PSN services metrics the Complaint mentions offhandedly, see Redacted Compl., ¶¶ 3, 97 are not much better, as they might significantly overstate or understate any one firm’s market share depending on the various proportions of users who have accounts on multiple services, not to mention how  often users visit each service and for how long>> (v. a p. 28-29).

Ottimista (dal punto di vista della FTC) ciò nonostante  è il post 19 luglio del prof. Newman su promarket.org.

La fusione tra società determina l’estinzione della incorporata

Le sezioni unite enunciano il seg. principio di diritto <<«La fusione per incorporazione estingue la società incorporata, la quale non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore, avendo facoltà della società incorporante di spiegare intervento in corso di causa, ai sensi dell’art. 105 cod. proc. civ., nel rispetto delle regole che lo disciplinano». >> (CAss, SU 21970 del 30.07.2021, rel. Nazzicone).

Conclusione esatta (si noti la conseguenza processuale, qui non interessante, ma fondamentale nella pratica): mi pare incoerente con i dati dell’ordinamento e logici ravvisare solamente una vicenda  modificativa del contratto sociale.

L’approfondita analisi è riassunta nelle Conclusioni, p. 30 sub 2.4: <<Gli aspetti «sostanziali» della vicenda della fusione societaria – che si possono riassumere in quelli della concentrazione, della successione e dell’estinzione – non possono essere disgiunti da quelli «processuali»: occorre, infatti, stabilire una coerenza fra di essi, derivando peraltro i profili processuali dalla questione concreta che venga all’esame nel giudizio>>.

I punti su cui si articolano le Conclusioni:

a) concentrazione

b) estinzione

c) successione: <Non si prospetta una mera vicenda modificativa, ricorrendo invece una vera e propria dissoluzione o estinzione giuridica, contestuale ad un fenomeno successorio.  La fusione realizza una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell’estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati. La successione universale, come vicenda giuridica, ben si attaglia invero anche a quella fra enti, avente ad oggetto un patrimonio unitariamente  considerato e non soltanto elementi che lo compongono>>.

Seguono: d) legittimazione processuale;  e) fusione incorso di causa.

Nella specie il problema proessuale era nato dal fatto che la citazione in primo grado aveva visto attore una  SRL , che era stata  in precedenza incorporata in altra società: e dunque, secondo l’orientamento diffuso e fatto proprio dalla CAss., da considerarsi già estinta al momento della proposizione della domanda.

Contraffazione di marchio denominativo nelle vendite online

Il marchio <ALIIGN> (denominativo, parrebbe) per abbigliamento e prodotti per yoga è contraffatto dal marchio <Align mat> (e altro ad es.: <Align pants>) per la stessa merce? Dice di no un Tribunale della California: US D.C. Central District of California ,Aliign Activation Wear, LLC v. lululemon athletica Canada Inc. and lululemon USA Inc., 06 luglio 2021, caso n° 2:20-cv-03339-SVW-JEM .

Secondo il precedente Sleekraft del 1979, secondo la Corte, <<to analyze the likelihood of confusion, courts consider eight factors known as the Sleekcraft factors: (1) strength of the mark(s); (2) relatedness of the goods; (3) similarity of the marks; (4) evidence of actual confusion; (5) marketing channels; (6) degree of consumer care; (7) the defendants’ intent; and (8) the likelihood of expansion by the trademark holder.2 See id. (citing AMF Inc. v. Sleekcraft Boats599 F.2d 341, 348–49 (9th Cir. 1979)>>

Inooltre distingue tra forward confusion, reverse confusion e initial interest confusion.

Segue analisi di ciascuno degli otto fattori nel caso de quo.

Conclusione: <<Although a plaintiff need not satisfy every Sleekcraft factor to survive summary judgment, they must make a “strong showing” with respect to at least some of them. Surfvivor, 406 F.3d at 631.  Here, no reasonable juror could find in AAW’s favor on six of the seven relevant Sleekcraft factors. See supra at 6–17. Under these circumstances, no reasonable juror could find that consumers purchasing lululemon think that AAW was either the source of, or was sponsoring, lululemon’s product line. To the contrary, the “record taken as a whole” could only lead a rational trier of fact to one conclusion: consumers
purchasing lululemon products know the products were created by lululemon and not AAW.  Matsushita, 475 U.S. at 587 (“Where the record taken as a whole could not lead a rational trier of fact to  find for the non-moving party, there is no ‘genuine issue for trial.’”) (quoting First National Bank of  Arizona v. Cities Service Co., 391 U.S. 253, 289 (1968)).
>>

Negativa risposta anche per la reverse confusion, sub B, e per la initial interest condision, sub C.

Si noti la pregevole idea (sarà una prassi) di allegare alla sentenza  tre appendici con la riproduzione delle schermate contenenti i risultati prodotti da Google Search.

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Tutela europea di modello parziale (partial design)

L’avvocato generale (AG) deposita le conclusioni 15.07.2021 nella causa C-123/20, Ferrari spa c.  Mansory Design & Holding GmbH.

L’azienda tedesca vende assetti modificati (tuning kit) per rendere la Ferrari 488 GTB (da strada) simile alla Ferrari FXX K (da pista).

Ferrari agisce per contraffazione di modello non registrato (ammesso dal reg. 6/2002), che sarebbe presente nel complesso del veicolo Ferrari FXX K .

La particolarità sta nel fatto che aziona spt. un modello costituito dall’aspetto della parte anteriore e soprattutto il disegno di una grande V sul cofano.

I temi sono assai interessanti , dato che la chiarezza in tema di design non è mai troppa. La trattazione dell’Ag offre un utile promemoria dei principali concetti in materia.

Il giudice tedesco pone queste due pregiudiziali:

«1)      Se la divulgazione della raffigurazione di un prodotto nella sua interezza, conformemente all’articolo 11, paragrafi 1 e 2, prima frase, del regolamento no 6/2002, possa dar luogo a disegni o modelli comunitari non registrati relativi a singole parti del prodotto.

2)      In caso di risposta affermativa alla prima questione: Quale sia il criterio giuridico da applicare nell’esame del carattere individuale previsto dall’articolo 4, paragrafo 2, lettera b), e dell’articolo 6, paragrafo 1, del regolamento no 6/2002, ai fini della valutazione dell’impressione generale suscitata da una componente – come, ad esempio, una parte della carrozzeria di un veicolo – incorporata in un prodotto complesso. In particolare, se sia decisivo stabilire se, nella percezione dell’utilizzatore informato, l’aspetto della componente non scompaia del tutto nell’aspetto del prodotto complesso, ma presenti una certa autonomia e compiutezza della forma la quale consenta di individuare un’impressione estetica generale indipendente dalla forma complessiva

Sub 1), la risposta che lAg propone ala Corte è -prevedibilmente- positiva: <<l’articolo 11, paragrafo 2, del regolamento no 6/2002 dev’essere interpretato nel senso che la divulgazione al pubblico del disegno o modello complessivo di un prodotto, quale l’aspetto di un’autovettura, comporta altresì la divulgazione al pubblico del disegno o modello di una parte del prodotto medesimo, quale l’aspetto di taluni elementi della carrozzeria dell’autovettura stessa, purché tale ultimo disegno o modello sia chiaramente individuabile all’atto della divulgazione>>.

Sub 2 (se serva chiarezza e autonomia nella parte del’aspetto che costituirebbe design parziale) ,  l’Ag così osserva:

<< Le suesposte precisazioni ricordano, a mio parere, le circostanze della causa principale. Infatti, ricordo che la Ferrari ha dedotto in particolare, a sostegno della sua azione per contraffazione, in estremo subordine, un disegno o modello comunitario non registrato relativo al rivestimento complessivo della Ferrari FXX K (43). Orbene, secondo la mia comprensione della decisione di rinvio, il giudice di appello, procedendo ad un raffronto di tale disegno o modello con l’aspetto complessivo della Mansory Siracusa 4XX (44), ha considerato, in sostanza, che tali due disegni o modelli non producono la stessa «impressione [visiva] generale», ai sensi dell’articolo 10 del regolamento n° 6/2002 (45) – e ciò malgrado similitudini visive riguardanti, in particolare, l’elemento a forma di «V» sul cofano e lo spoiler a due strati. Facendo valere un disegno o modello comunitario non registrato incentrato sull’aspetto della parte della FXX K in questione, la Ferrari cerca pertanto di aumentare al massimo le proprie possibilità di veder riconoscere, nel caso di specie, la contraffazione.

100. Alla luce di tali considerazioni, mi sembra che, con il secondo quesito, il giudice del rinvio s’interroghi in merito all’esistenza o meno di limiti alla possibilità, per gli autori, di suddividere l’aspetto complessivo dei propri prodotti in vari disegni o modelli di «parti [di prodotto]» ciascuna oggetto di una specifica protezione in quanto disegno o modello comunitario, al fine di aumentare al massimo il livello di protezione di cui essi godono…. 103  È pertanto necessario, nella specie, acclarare se l’aspetto di una parte di prodotto, al fine di poter formare oggetto di un disegno o modello comunitario a parte, distinto da quello eventualmente protetto dall’aspetto complessivo del prodotto stesso, debba effettivamente presentare «autonomia» e «compiutezza» in tal senso.>>

E la soluzione per disciplinare questo genere di tentativi risiede, per l’AG , <<non nell’adozione di criteri aggiuntivi, ma semplicemente nella rigorosa applicazione, da parte dell’esaminatore o del giudice, dei criteri risultanti dalla definizione di «disegno o modello», ai sensi dell’articolo 3, lettera a), del regolamento n° 6/2002. Come già rilevato supra al paragrafo 107, la parte di prodotto dev’essere, segnatamente, delimitata dal proprio aspetto particolare – le proprie linee, i propri contorni, il proprio colore, ecc. (53) In definitva, deve esservi un disegno o modello identificabile come tale e che possa prestarsi, di per sé, alla valutazione dei requisiti per l’ottenimento della protezione. Posso pertanto condividere la valutazione del giudice del rinvio secondo cui l’aspetto della parte dev’essere in grado di produrre, di per sé, un’«impressione generale», e non può quindi scomparire del tutto in quello complessivo del prodotto. Un disegno o modello comunitario di cui oggetto non rispondesse a tale definizione dovrebbe essere dichiarato nullo (54)– o, più esattamente, inesistente>>, § 116..

La verifica se il modello azionato integri il cocnetto di legge di <disegno o modello> spetta al giudice nazionale.

Ma dà alcune indicazioni: <<Osservo, a tal fine, che la parte della FXX K di cui la Ferrari rivendica l’aspetto in quanto disegno o modello comunitario non registrato, composta dall’elemento a forma di «V» sul cofano della FXX K, dall’elemento a forma di alettone sporgente dalla parte centrale di tale primo elemento e disposto longitudinalmente (lo strake), dallo spoiler anteriore a due strati integrato nel paraurti, e dal raccordo verticale centrale che collega lo spoiler anteriore e il cofano, costituisce una porzione dell’autovettura stessa. Tale porzione è visibile, così come già rilevato dal giudice del rinvio. Inoltre, mi sembra che detta porzione sia delimitata da linee, contorni, colori e forme particolari. Sono incline a ritenere, al pari della Ferrari, che tali diversi elementi possano essere percepiti come un tutto, che evochi in maniera caratteristica la parte anteriore di un’autovettura di Formula 1 .  Nel caso in cui il giudice del rinvio dovesse essere dello stesso avviso, spetterà al medesimo, poi, verificare se l’aspetto della parte di prodotto rivendicata soddisfi, di per sé, i requisiti per l’ottenimento della protezione in qualità di disegno o modello comunitario. I criteri da applicare nell’ambito della valutazione di tali requisiti dovrebbero essere gli stessi da applicare per qualunque disegno o modello. In particolare, per determinare l’impressione generale prodotta dal disegno o modello di una parte di prodotto, si deve tener conto – al fine di valutare il «carattere individuale» o la contraffazione – dell’aspetto di questa sola parte, indipendentemente dall’impressione generale suscitata dal prodotto considerato nel suo insieme.>>, § 119-120..

Pertanto la risposta per il secondo questito è la seguente: <<l’articolo 3, lettera a), del regolamento n° 6/2002 dev’essere interpretato nel senso che costituisce «l’aspetto di una parte di prodotto», ai sensi di tale disposizione, che può formare oggetto di protezione in quanto disegno o modello comunitario, una porzione visibile di un prodotto, delimitata da linee, da contorni, da colori, da forme o ancora da una struttura superficiale particolare. Non occorre applicare, nell’esame della questione se un disegno o modello risponda a tale definizione, criteri aggiuntivi quali l’«autonomia» o la «compiutezza della forma»>>, § 121..

copyright su opera derivata

Il tentativo di registrare come opera dell’ingegno derivata la (nuova) statuetta dell’Oscar è stato rigettato anche in appello (amministrativo).

Si v. la decisione 23.07.2021 del Copyright review Board dello US Copyright Office, con le foto dell’opera originaria (non proprio tale, ad onor del vero, essendo anche essa a sua volta derivata: v. ivi, nota 1) messe vicino a quelle dell’opera derivata chiesta in registrazione-

la ragione del rigetto sta nella mancanza di originalità . che deve essere presente anche nella opera derivata (come da noi)

Le linee guida (Compendium) dell’Ufficio dicono al § 311.2 (3a ediz.): <<The amount of creativity required for a derivative work is the same as that required for a copyright in any other work. “All that is needed to satisfy both the Constitution and the statute is that the ‘author’ contributed something more than a ‘merely trivial’ variation, something recognizably ‘his own.’” Alfred Bell & Co. v. Catalda Fine Arts, Inc., 191 F.2d 99, 10203 (2d Cir. 1951) (citing Chamberlin v. Uris Sales Corp., 150 F.2d 512, 513 (2d. Cir. 1945)). Thus, “the key inquiry is whether there is sufficient nontrivial expressive variation in the derivative work to make it distinguishable from the [preexisting] work in some meaningful way.” Schrock v. Learning Curve International, Inc., 586 F.3d 513, 521 (7th Cir. 2009).“While the quantum of originality that is required may be modest indeed,” courts have recognized that derivative works “[l]acking even a modest degree of originality. . . are not copyrightable.” L.Batlin &Son, 536 F.2d at 490; Durham Industries, Inc. v. Tomy Corp.,630 F.2d 905, 911 (2d Cir. 1980).

Miniscule variations do not satisfy this requirement, such as merely changing the size of the preexisting work. Merely recasting a work from one medium to another alone does not support a claimin derivative authorship. See L. Batlin & Son, 536 F.2d at 491. “Nor can the requirement of originality be satisfied simply by the demonstration of ‘physical skill’ or ‘special training.’” Id.>>

E poi : <<A registration for a derivative work only covers the new authorship that the author contributed to that work. It does not cover the authorship in the preexisting work(s) that has been recast, transformed, or adapted by the author of the derivative work. H.R.REP.NO.941476,at 57 (1976), reprinted in1976 U.S.C.C.A.N. at 5670>> (precisaizone peraltro ovvia).

La decisione dunque così applica la regola:

<<Reviewing the new authorship, it is clear that the Work does not qualify for copyright protection. The circular and cylindrical shapes of the Work’s base are not copyrightable, nor is the color or material in which the work is cast or the letters and stylized font. 37 C.F.R. § 202.1 (prohibiting registration of “[w]ords and short phrases . . . familiar symbols or designs; [and] mere . . . coloring”); Darden v. Peters, 488 F.3d 277, 287 (4th Cir. 2007) (the addition of “color, shading, and labels using standard fonts and shapes [to a preexisting work] fall within the narrow category of works that lack even a minimum level of creativity” required for registration); L. Batlin & Son, 536 F.2d at 490 (noting that changes in medium alone do not constitute originality); COMPENDIUM (THIRD) §§ 310.9, 311.2, 906.2, 906.4. Indeed, the newly added cylindrical base is a common shape for standard trophy or statute bases.2 The addition of the words and lettering at the base of the Work is likewise not sufficiently creative, as it amounts to a minor variation of a common trophy design. Taken as a whole, the new authorship simply does not distinguish the Work from the Prior Statuette. While the Office and an observer may be able to identify differences in the Work, these few differences are not sufficient to satisfy the creativity requirement. As discussed above, the new expression merely adds non-copyrightable elements to a prior work. Where a design combines uncopyrightable elements, it is protected by copyright only when the “elements are numerous enough and their selection and arrangement original enough that their combination constitutes an original work of authorship.” Satava, 323 F.3d at 811. Here, the new contributions are too few and minor to make the Work distinguishable from the Prior Statuette in a meaningful way. A claim to register a derivative work that adds only non-copyrightable elements to a prior work is not entitled to copyright registration.SeeBoyds Collection, 360 F. Supp. at 661; Waldman Publ’g Corp., 43 F.3d at 782 (requiring sufficient creativity in the new authorship contained in a derivative work)>

Anche l’eccezione di “modernizzazione” dell’iconica statuetta è rigettata: <<HFPA focuses heavily on the aesthetic value and merit of the Work, asserting that it created a modern version of an award with a “classic and iconic look.” Second Request at 9. The Work, HFPA contends, is thus far from an “inexpensive youth soccer team award.” This argument, however, misses the mark. The Office must use only objective criteria to determine whether a work satisfies the originality requirement.See COMPENDIUM (THIRD) § 310. In doing so, the Office does not consider the aesthetic quality of the Work, look and feel of the Work, the author’s artistic judgment, or the commercial appeal or success of the Work. COMPENDIUM (THIRD) §§ 310.2, 310.4, 310.6, 310.10. As the Supreme Court has cautioned, it is imprudent to make such aesthetic and subjective judgments when evaluating the copyrightability of particular works. See, e.g., Bleistein, 188 U.S. at 251 (“It would be a dangerous undertaking for persons trained only to the law to constitute themselves final judges of [a work’s] worth.”). Therefore, no matter how aesthetically pleasing a work may be, that aspect does not weigh in favor of copyrightability.>>

La sentenza di solito citata intema di creatività nel US common law è quella del 1991 della Corte Suprema Feist Publications, Inc., v. Rural Telephone Service Co.,  più volte citata.

(notizia appresa dal post di R. Harvey nell’ottimo blog IPKat).

La nullità contrattuale per motivo illecito (art. 1345 cc) non comprende il contratto

In un’operazione di promessa di vendita di immobili pagati solo in parte con denaro e in parte con compensazione di crediti (sotto condizione sospensiva di omologa di concordato preventivo), nasce lite da parte del promissario acquirente, che chiede l’esecuzione in forma specifica della promessa.

Il convenuto cerca di sottrarsi , deducendo la nullità dell’impgno perchè basato su motivo illecito comune (art. 1345 cc): precisamente, in frode agli altri creditori, essendosi procurato il creditore contraente/attore in causa un vantaggio preferenziale assertiametne illecito.

La SC già nel 2011 nella stessa lite aveva detto: <<la Corte territoriale avesse disatteso l’orientamento «secondo cui il motivo illecito che, se comune ad entrambe le parti e determinante per la stipulazione, comporta la nullità del contratto, si identifica con una finalità vietata dall’ordinamento, poiché contraria a norma imperativa o ai principi dell’ordine pubblico o del buon costume, ovvero poiché diretta ad eludere, mediante detta stipulazione, una norma imperativa; onde l’intento delle parti di recare pregiudizio ad altri, ove non sia riconducibile ad una di tali fattispecie, non è illecito, non rinvenendosi nell’ordinamento una norma che sancisca in via generale, come per il contratto in frode alla legge, l’invalidità del contratto in frode dei terzi, ai quali, invece, l’ordinamento accorda rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio che essi possano risentire dall’altrui attività negoziale (Cass. Sez. Un. 10603/1993). Nel caso di pregiudizio ai terzi creditori per violazione della par condicio nell’ambito di procedure concorsuali, la sanzione specifica prevista, nei congrui casi, dall’ordinamento è semmai l’inefficacia relativa o l’inopponibilità dell’atto ai creditori concorsuali, non certo la nullità (cfr., Cass. 20576/2010)» (Cass,. 8541 del 14.4.2011, cittata nella setnenza).

Punto riaffermato da Cass. n. 4701 del 22.02.2021, rel. Vella.: <<Nel lungo corso del presente giudizio, questa Corte ha già escluso, con la sentenza n. 8541 del 2011, che l’eventuale intento delle parti di recare pregiudizio ai terzi creditori, mediante accordi che violino la par condicio nell’ambito di procedure concorsuali , non integra la nullità del contratto, poiché, a differenza dal contratto in frode alla legge, per il contratto in frode a terzi l’ordinamento allestisce altri rimedi, tra i quali l’inefficacia relativa o l’inopponibilità dell’atto ai creditori concorsuali (cfr. Cass. Sez. U, 10603/1993; Cass. 20576/2010).

5.2. Non può quindi essere nuovamente messa in discussione in questa sede la (non) rilevanza, ai fini auspicati dalla ricorrente, del vantaggio economico conseguito dal Vinella rispetto agli altri creditori – quanto alla percentuale di soddisfacimento dei rispettivi crediti (100% a fronte del 63%) – peraltro frutto di più articolate pattuizione in forza delle quali il Vinella si è reso cessionario di crediti concordatari (con conseguente “alleggerimento” della massa passiva) che ha poi utilizzato, insieme al proprio, per pagare, mediante compensazione, parte del prezzo dovuto al Pedone per la vendita promessa di alcuni immobili. Peraltro, tale complesso di accordi non ha inficiato la procedura di concordato, che si è conclusa con il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione.>>