Assicurazione sulla vita per il caso di morte e designazione dei beneficiari negli “eredi legittimi”

Arriva Cass. sez. un. n. 11.421 del 30.04.2021, BNP PARIBAS CARDIF VITA COMPAGNIA DI ASSICURAZIONE E RIASSICURAZIONE S.p.A c. ALESSANDRO BIAGIO GAETANO, rel. Antonio Scarpa, a dirimere la questione della valenza dell’espressione “Beneficiari in caso di morte dell’assicurato: eredi legittimi“, quale designazione dei beneficiari, contenuta in una polizza sulla vita per il caso di morte (si legge che tale tipo di designazione sarebbe alquanto diffuso)

La SC conferma l’indirizzo maggioritario (§ 6.1): l’espressione va intesa solo come mezzo per identificare i soggetti, senza diventare negozio mortis causa, e dunque senza dare rilevanza alle quote ereditarie.

Vediamo i principali passaggi:

  1. può dirsi ormai del tutto preponderante l’esegesi <<che ravvisa nell’atto di designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita, quale che sia la forma prescelta fra quelle consentite dell’art. 1920 c.c., comma 2, un negozio inter vivos con effetti post mortem: la morte dell’assicurato segna, cioè, il riferimento cronologico di differimento dell’esecuzione della prestazione assicurativa e di consolidamento del diritto già acquistato dal beneficiario in forza della designazione, restando la somma assicurata comunque estranea al patrimonio del de cuius che cade in successione (come può desumersi altresì dell’art. 1920 c.c., comma 2, ultimo periodo)>>
  2. L’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte dello stipulante assicurato <<resta riconducibile, quindi, alla categoria del contratto a favore di terzi, ex art. 1411 c.c.>>
  3. la designazione del terzo è elemento <<strutturale essenziale, o comunque normale, dell’assicurazione sulla vita per il caso morte, dovendo la prestazione essere attribuita a persona diversa dallo stipulante, il cui interesse è implicito nella funzione assistenziale e previdenziale dell’operazione. Dalla mancanza della designazione discenderebbero, altrimenti, l’ingresso del credito nel patrimonio dell’assicurato e la successiva devoluzione agli eredi iure successionis.>>
  4. Essendo la designazione del beneficiario dei vantaggi di un’assicurazione sulla vita, quale che sia la forma prescelta fra quelle previste dell’art. 1920 c.c., comma 2, atto inter vivos con effetti post mortem, da cui discende l’effetto dell’immediato acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione, <<la generica individuazione quali beneficiari degli “eredi (legittimi e/o testamentari)” ne comporta l’identificazione soggettiva con coloro che, al momento della morte dello stipulante, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione ereditaria prescelto dal medesimo contraente, indipendentemente dalla rinunzia o dall’accettazione della vocazione. Deve invero sempre rammentarsi che qui il termine “eredi” viene attribuito dalla designazione allo scopo precipuo di fornire all’assicuratore un criterio univoco di individuazione del creditore della prestazione, e perciò prescinde dall’effettiva vocazione.>>
  5. L’eventuale istituzione di erede per testamento compiuta dal contraente assicurato dopo aver designato i propri “eredi (legittimi)” quali beneficiari della polizza <<non rileva, pertanto, nè come nuova designazione per attribuzione della somma assicurata, nè come revoca del beneficio, agli effetti dell’art. 1921 c.c., ove non risulti una inequivoca volontà in tal senso, operando su piani diversi l’intenzione di disporre mortis causa delle proprie sostanze e l’assegnazione a terzi del diritto contrattuale alla prestazione assicurativa>>
  6. la natura inter vivos del credito attribuito per contratto agli “eredi” designati quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione <<esclude l’operatività riguardo ad esso delle regole sulla comunione ereditaria, valevoli per i crediti del de cuius, come anche l’automatica ripartizione dell’indennizzo tra i coeredi in ragione delle rispettive quote di spettanza dei beni caduti in successione. La qualifica di “eredi” rivestita al momento della morte dello stipulante sopperisce, invero, con valenza meramente soggettiva, alla generica determinazione del beneficiario, in base al disposto dell’art. 1920 c.c., comma 2, che funziona soltanto al fine di indicare all’assicuratore chi siano i creditori della prestazione, ma non implica presuntivamente, in caso di pluralità di designati, l’applicazione tra i concreditori delle regole di ripartizione dei crediti ereditari>>
  7. Rimane ovviamente ferma <<la libertà del contraente, nel designare gli eredi quali beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, di indicare gli stessi nominativamente o di stabilire in quali misure o proporzioni debba suddividersi tra loro l’indennizzo, o comunque di derogare all’art. 1920 c.c. (arg. dall’art. 1932 c.c.)>>
  8. In forza della designazione degli “eredi” quali beneficiari dell’assicurazione sulla vita a favore di terzo, <<la prestazione assicurativa vede quali destinatari una pluralità di soggetti in forza di una eadem causa obligandi, costituita dal contratto. Rispetto alla prestazione divisibile costituita dall’indennizzo assicurativo, come in ogni figura di obbligazione soggettivamente complessa (secondo quanto si argomenta in via di generalizzazione dall’art. 1298 c.c., comma 2 e dall’art. 1101 c.c., comma 1), ove non risulti diversamente dal contratto, a ciascuno dei beneficiari spetta una quota uguale (in conformità a quanto sostenne la sentenza n. 9388 del 1994), il cui pagamento ciascuno potrà esigere dall’assicuratore nella rispettiva misura.>>
  9. <<L’attribuzione del diritto iure proprio al beneficiario per effetto della designazione giustifica altresì l’applicabilità all’assicurazione sulla vita per il caso morte dell’art. 1412 c.c., comma 2, secondo il quale “la prestazione deve essere eseguita a favore degli eredi del terzo se questi premuore allo stipulante, purchè il beneficio non sia stato revocato o lo stipulante non abbia disposto diversamente”, con conseguente trasmissibilità agli eredi del terzo premorto della titolarità dei vantaggi dell’assicurazione. In tal caso, l’acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto rispetto allo stipulante opera, peraltro, iure hereditatis, e non iure proprio, e quindi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, trattandosi di successione nel diritto contrattuale all’indennizzo entrato a far parte del patrimonio del designato prima della sua morte, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto, secondo la logica degli acquisti a titolo derivativo. (…) La premorienza di uno degli eredi del contraente, già designato tra i beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, comporta, quindi, non un effetto di accrescimento in favore dei restanti beneficiari, ma, stando l’assenza di una precisa disposizione sul punto ed in forza dell’assimilabilità dell’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte alla categoria del contratto a favore di terzi, un subentro per “rappresentazione” in forza dell’art. 1412 c.c., comma 2 (senza che la comune denominazione delle fattispecie obliteri le evidenti differenze di ambito soggettivo ed oggettivo correnti tra detta norma e l’istituto previsto dall’art. 467 c.c.). Beninteso, il contraente potrebbe avere altrimenti espresso in sede di designazione una diversa volontà per il caso di premorienza di uno dei beneficiari, come potrebbe, a seguito della stessa, revocare il beneficio con le forme e nei limiti di cui all’art. 1921 c.c.>>

Parità di trattamento e applicazione diretta del principio costituzionale

La Corte di Giustizia (CG) ha affermato che la parità di trattamento tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile, posta dall’art 157 TFUE, è direttamente applicabile nelle controversie tra privati e ciò sia nel caso di <stesso lavoro>  sia nel caso di <lavoro di pari valore>.

Si tratta di CG 03.06.2021, C-624/19, vari lavoratori c. Tesco Stores ltd.

Così ragiona la CG:

<<20   Si deve anzitutto osservare che la formulazione stessa dell’articolo 157 TFUE non può suffragare tale interpretazione. Conformemente a quest’ultimo, ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Pertanto, tale articolo impone, in modo chiaro e preciso, un obbligo di risultato e ha carattere imperativo tanto per quanto riguarda uno «stesso lavoro» quanto con riferimento a un «lavoro di pari valore».

21      In tal senso, la Corte ha già dichiarato che dal momento che l’articolo 157 TFUE ha carattere imperativo, il divieto di discriminazione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile non solo riguarda le pubbliche autorità, ma vale del pari per tutte le convenzioni, che disciplinano in modo collettivo il lavoro subordinato nonché per i contratti fra singoli (sentenza dell’8 maggio 2019, Praxair MRC, C‑486/18, EU:C:2019:379, punto 67 e giurisprudenza citata).

22      Secondo giurisprudenza costante della Corte, tale disposizione produce effetti diretti creando, in capo ai singoli, diritti che i giudici nazionali hanno il compito di tutelare (v., in tal senso, sentenza del 7 ottobre 2019, Safeway, C‑171/18, EU:C:2019:839, punto 23 e giurisprudenza citata).

23     Il principio introdotto da detta disposizione può essere fatto valere dinanzi ai giudici nazionali in particolare nel caso di discriminazioni che traggano direttamente origine da norme o da contratti collettivi di lavoro, nonché qualora il lavoro sia svolto nella stessa azienda o ufficio, privato o pubblico (v., in tal senso, sentenze dell’8 aprile 1976, Defrenne, 43/75, EU:C:1976:56, punto 40, e del 13 gennaio 2004, Allonby, C‑256/01, EU:C:2004:18, punto 45).

24    Ai punti 18 e da 21 a 23 della sentenza dell’8 aprile 1976, Defrenne (43/75, EU:C:1976:56), la Corte ha rilevato, in particolare, che le discriminazioni che traggono origine da disposizioni legislative o dai contratti collettivi di lavoro rientrano tra quelle che possono essere accertate con l’ausilio dei soli criteri di identità del lavoro e di parità di retribuzione indicati dall’articolo 119 del Trattato CEE (divenuto, a seguito di modifica, articolo 141 CE, a sua volta divenuto articolo 157 TFUE), rispetto a quelle che possono essere individuate solo con riferimento a disposizioni d’attuazione più precise. La Corte ha aggiunto che lo stesso vale nel caso di una diversa retribuzione di lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile per uno stesso lavoro, svolto nella stessa azienda o ufficio, privato o pubblico, e che, in tale ipotesi, il giudice è in grado di procurarsi tutti gli elementi di fatto che gli consentono di accertare se un lavoratore di sesso femminile sia retribuito meno di un lavoratore di sesso maschile che svolge le stesse mansioni>>.

Tesco aveva invece sostenuto <<che il criterio del «lavoro di pari valore», a differenza di quello relativo a uno «stesso lavoro», deve essere precisato da disposizioni di diritto nazionale o del diritto dell’Unione.>>, § 19.

Esimente della forza maggiore per il mancato adempimento dell’obbligo tributario

La forza maggiore, oltre che nella responsabilità penale, opera anche nel rapporto di imposta.

Così si legge in  Cass. sez. 5, n° 15.415 del 03.06.2021, rel. Taddei:

<<Vero è che secondo una successiva precisazione , questa Corte non esclude che, in astratto, si possano configurare casi che giustificano l’invocarsi di assenza del dolo o di assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria ma l’ apprezzamento di tali casi è devoluto al giudice del merito e come tale è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato ed al fine di una verifica in merito è necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l’aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l’azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo, il ricorso al credito bancario). 

In altri termini, il ricorrente che voglia giovarsi in concreto dell’ esimente, evidentemente riconducibile alla forza maggiore, dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili. ( cass. pen. N.10813/2014).   Nel caso in esame tali prove non sono state prodotte ,neanche sotto il profilo della rendicontazione dei rapporti intercorsi con la Provincia, essendosi limitata la ricorrente a rivendicare il proprio ruolo di società in house senza alcuna evidenza circa la situazione di crisi economico-finanziaria dedotta>>

(si noti la lunghezza e dunque la tortuosità e la non immediata comprensibilità del periodo)

Protezione del personaggio di fantasia col diritto d’autore

Trib. Roma 16.04.2021 n. 6504/2021, RG 27160/2017, UNIDIS JOLLY FILM SRL c. PARAMOUNT PICTURES CORPORATION ed altri, decide (con motivazione poco lineare) la questione della riproducibilità (meglio: evocabilità) di un personaggio cinematografico da parte di successivo film (“Rango”, diretto soprattutto a bambini, parrebbe).

Il personaggio è il cow boy cinico e astuto rappresentato da Clint Eastwood (CE) nel film di Sergio Leone <Per un pugno di dollari> del 1964, che in Rango  viene evocato per poco più di un minuto.

La tutelabilità del personaggio di fantasia, come autonoma opera dell’ingegno, è questione annosa e risolta per lo più positivamente.

La difesa dei convenuti eccepisce:

<<Paramount co la cui difesa appare riproposta anche dalle altre società eccepiva in ordine logico:
a) l’inesistenza di caratteristiche autoriali in capo al personaggio “l’uomo senza nome”,
b) La non titolarità in capo alla società attrice del diritto d’autore sul personaggio,
c) La diversità fra “l’uomo senza nome” e “Lo spirito del West” visibile nel film Rango,
d) il legittimo esercizio del diritto di parodia>>.

Il Tribunale (T.) ritiene che l’evocazione, pur indiscussa, sia all’attore Eastwood e non al personaggio del film di Leone, p. 11-13: <<Questo collegio ritiene che la citazione contenuta nei minuti dal 1.21:08 al minuto 1.22.45 sia chiaramente indirizzata all’attore, alla luce non solo della evidente sembianza fisica, vocale e di atteggiamento fra lo Spirito Del West e l’attore Clint Eastwood, ma anche del fatto che l’attore viene raffigurato anziano e con i capelli bianchi, ovverosia come appare oggi al pubblico e non come appariva all’epoca della realizzazione del film “per un pugno di dollari”.
Anche il contesto cinematografico appare suggerire un immediato riferimento all’attore: l’abbigliamento western è quello che ha utilizzato Clint Eastwood non solo nel film prodotto e realizzato dall’attrice, ma nell’intera trilogia diretta da Sergio Leone e tutti i dettagli dal sigaro, all’inquadratura in primo piano contribuiscono ad una precisa ed immediata identificazione e riconoscimento non tanto del personaggio “uomo senza nome” del quale, come si dirà, si dubita dell’esistenza, ma dello stesso attore Eastwood del quale, non a caso, vengono emblematicamente mostrati tutti gli Oscar conseguiti nella lunga e brillante carriera artistica.>>.

L”affermazione è discutibile, dato che l’attore è così evocato nella modalità scenica ideata da Leone (ad ogni modo: accertamento in fatto, a fini ad es. di eventuale ricorso in Cassazione).

Poi: <<Difettano quindi ab origine i presupposti del plagio allegato da parte attrice, anche alla luce del fatto che “lo Spirito del West” è personaggio relegato nella realizzazione dell’opera di VERBINSKY ad un ruolo temporalmente limitato alla durata di neanche due minuti; il regista ritaglia quindi per Clint Eastwood (CE) un breve “cameo” all’interno della trama del film, evidentemente al solo fine di soddisfare la smania di “citazionismo” evidente nell’opera cinematografica in questione (ed evidenziata da tutti i consulenti le cui analisi sono state prodotte in atti), per rendere un chiaro omaggio all’attore protagonista della saga degli spaghetti western ed al suo regista Sergio Leone, consona con lo scenario dell’opera “Rango”.>>, p. 13.

Mortivazione ultronea e confondente, se il richiamo non è all’opera dell’ingegno leoniana.

Soprattutto confondente ,laddove evoca il fair use statunitense (p. 14 e p. 19), senza minimamente curarsi do collocarlo nelle categorie giuridico-dogmatiche nazionali (e/o europee, vista l’armonizazione in materia). Operazione di trapianto giuridico da respingere, dunque. La rigidità delle eccezioni al diritto di autore, pur criticabile de jure condendo, va però superata dopo apposito esame delle eccezioni vigenti e della possibilità di una loro estensione tramite analogia (legis o iuris), tenendo conto della disciplina eurounitaria.

In aggiunta per il Trib. il personaggio rapresentato da CE non è sufficientemente originale: <<Ciò che però appare difettare a “l’uomo senza nome” nella ricostruzione fornita da parte attrice, è proprio il possesso di caratteristiche creative che lo possano identificare quale “personaggio” autoriale in senso stretto e quindi quale potenziale predicato di diritti autoriali.
Un personaggio potenzialmente oggetto di diritti autoriali è difatti un soggetto frutto di un’autonoma e personale creazione artistica da parte del suo ideatore il quale racchiuda delle caratteristiche tali da renderlo immediatamente riconoscibile in quanto tale, quale estrinsecazione della personalità artistica del creatore, anche al di fuori del contesto in cui originariamente è stato collocato ed inventato. (…) Ciò che però appare difettare a “l’uomo senza nome” nella ricostruzione fornita da parte attrice, è proprio il possesso di caratteristiche creative che lo possano identificare quale “personaggio” autoriale in senso stretto e quindi quale potenziale predicato di diritti autoriali.
Un personaggio potenzialmente oggetto di diritti autoriali è difatti un soggetto frutto di un’autonoma e personale creazione artistica da parte del suo ideatore il quale racchiuda delle caratteristiche tali da renderlo immediatamente riconoscibile in quanto tale, quale estrinsecazione della personalità artistica del creatore, anche al di fuori del contesto in cui originariamente è stato collocato ed inventato. Nel caso di specie “l’uomo senza nome”, che ha costituito sicuramente il protagonista della trilogia di Sergio Leone, non è successivamente più comparso in alcuna altra opera cinematografica al di fuori della nota trilogia (in cui naturalmente è riapparso come tale in quanto le due successive opere rappresentano la prosecuzione di un percorso narrativo iniziato con la prima), non appare frutto di un’idea creativa ed originaria, quanto la rielaborazione personale e non evolutiva (bensì contestualizzata nel mondo western) da parte di Sergio Leone di prototipi noti alla narrazione letteraria e cinematografica (quali quelli ben evidenziati dalle convenute) e non ha acquisito ad avviso del collegio una penetrazione ovvero una permanenza nel pubblico, nella critica cinematografica o nelle successive opere tale da renderlo qualificabile come opera creativa ed identificabile come tale>>, p. 14-15

Sulla distinzione necessaria tra personaggio e attore: <<Un personaggio autoriale, quando addiviene ad una caratterizzazione tale da farlo diventare immediatamente percepibile come tale dal pubblico o dalla critica, e quindi potenzialmente latore di diritti autoriali, deve necessariamente diversificarsi dall’attore che lo impersona; si pensi per esempio al personaggio di “James Bond” o al personaggio narrativo di Sherlock Holmes, i quali, caratterizzati da una nota ed inequivocabile iconografia, senz’altro sono soggetti a titolarità autoriale in quanto assolutamente determinati nel contesto narrativo e potenzialmente interpretabili da una pluralità di attori ed in contesti storici e geografici totalmente differenti>>, p. 16.

Il collegio non ritiene pertanto <<di percepire nel “l’uomo senza nome” quello scarto semantico rispetto ai precedenti archetipi necessario a configurarlo quale momento creativo del regista Sergio Leone. Se si sottopone invero ad un attento vaglio autoriale rispetto alla letteratura ed iconografia precedente “l’uomo senza nome”, emergono molteplici e ricorrenti caratteristiche già note nella letteratura (lo stereotipo dell’eroe negativo, ambiguo, doppiogiochista, straniero, fuorilegge risale ai primordi della letteratura occidentale con l’Odissea) e nello specifico settore cinematografico.>>, p. 17.

Anche qui, osservazioni estranee alla ratio decidendi, se è vero che poco sopra aveva accertato che il film censurato non si riferiva al personaggio ma all’attore.

Sulla parodia (anche qui in modo ultroneo, alla luce dell’accoglimento della prima difesa ed anzi ancor prima della citata non evocazione del personaggio ma solo di CE): il Trib. la nega nel secondo film , dicendo <<nel caso di specie non ritiene questo collegio che quanto visibile nel film “Rango” appartenga alla sfera interpretativa della parodia, in quanto tutti i contenuti riferibili alle opere cinematografiche menzionate nel film Rango, pur essendo immediatamente riconoscibili, non assumono una funzione dissacratoria o comunque rielaborativa con finalità difformi da quelli dell’opera originale>>, p. 18-19.

Purtuttavia , a parere del Tribunale, il fair use permetterebbe un diffuso “citazionismo” e cioè la plurima evocaozione di opere anteriori e/o dei loro personaggi: <<purtuttavia anche in questo caso, che come si è detto precedentemente è inquadrabile nell’alveo del cosiddetto “citazionismo”, questo collegio deve osservare come lo stesso, analogamente al diritto di parodia e con i medesimi criteri di immediata percepibilità ed innocuità, appaia lecito e non foriero di responsabilità per violazione del diritto d’autore nel momento in cui la citazione avviene in forma manifesta e limitata a dei singoli spezzoni che non assumono significato nell’economia dell’opera artistico letteraria secondo la precedentemente menzionata dottrina del “fair use”.
In sostanza anche un chiaro richiamo ad un’opera precedente, lungi dal costituire violazione del diritto d’autore, è ammissibile nel momento in cui evoca sobriamente l’opera antecedente come breve omaggio, tributo all’attore o al regista, in quanto è lo stesso autore/regista che “confessa” la propria estraneità all’opera autoriale precedente e la incorpora come tale nella propria al solo fine di denunciare i propri riferimenti narrativi o bibliografici.>>, p. 19

Right of publicity e sua circolazione giuridica: novità dallo Stato di New York

Il diritto di NY regola ora espressamente la circolazione , anche mortis causa, del right of publicity.

Ne dà notizia Tyler Ochoa con post 1 giugn 2021 nel blog di Eric Goldman. e con un secondo post 2 giugno 2021 (ove anche menzione di analoghe legislazioni di altri stati) .

Viene inserita la sec. 50-F nelle consolidated laws di NY, Civil Rights ove dettagliata disciplina.

Si v. il § 2.a: <<Any person who uses a deceased personality’s name, voice, signature, photograph, or likeness, in any manner, on or in products, merchandise, or goods, or for purposes of advertising or selling, or soliciting purchases of, products, merchandise, goods, or services, without prior consent from the person or persons specified in subdivision four of this section, shall be liable for any damages sustained by the person or persons injured as a result thereof.>>

Sanzioni:

<<In any action brought under this section:

i. the person who violated the section shall be liable to the injured party or parties in an amount equal to the greater of two thousand dollars or the compensatory damages suffered by the injured party or parties, as a result of the unauthorized use, and any profits from the unauthorized use that are attributable to such use and are not taken into account in computing the compensatory damages.

ii. in establishing profits under this subdivision, the injured party or parties shall be required to present proof only of the gross revenue attributable to the unauthorized use, and the person who violated this section is required to prove his or her deductible expenses.

iii. punitive damages may also be awarded to the injured party or parties>>.

Durata:

 <<8. An action shall not be brought under this section by reason of any use of a deceased personality’s name, voice, signature, photograph, or likeness occurring after the expiration of forty years after the death of the deceased personality.>>

Circolazione

I §§ 3-7 regolano la circolazione giuridica di questo diritto, tra vivi e mortis causa. In quest’ultima eventualità, opera l’eventuale disposizione testamentaria (§ 3) oppure la disciplina legale della successione ab intestato (§ 5).

Obbligo di restituzione dei dati dal responsabile del trattamento al titolare

Sulla nota querelle tra Movimento 5 Stelle (M5S) e Associazione Rousseau (AR) si è pronunciato il Garante in via di urgenza sulla istanza di consegna dei dati (degli iscritti al M5S) ex art. 28.3.g reg. 676/2016 UE (provv. 01.06.2021 reg. provv. n. 223 del 01.06.2021, doc. web n. 9592011).

La disposizione citata prevede in capo al responsabile il dovere di restituire al trattamento i dati personali trattati .

La mancata consegna nella fase precedente  era sostanzialmente articolata sulla carenza di legittimazione attiva nella persona che aveva agito e sulla base del fatto che mancava un contratto regolativo del rapporto responsabile/titolare, come impone il reg. UE nell’incipt dell’art. 28.3.

Il Garante accoglie l’istanza di M5S così motivando:

<<RILEVATO che in base all’art. 28, par. 3, lett. g) del Regolamento, il responsabile del trattamento, “su scelta del titolare del trattamento”, è tenuto a cancellare o a restituire tutti i dati personali “dopo che è terminata la prestazione dei servizi relativi al trattamento” e a provvedere alla cancellazione delle copie esistenti “salvo che il diritto dell’Unione o degli Stati membri preveda laconservazione dei dati”; ritenuto che la predetta disposizione debba trovare applicazione anche laddove l’atto regolatorio delrapporto titolare/responsabile non lo preveda espressamente ovvero, come nel caso esame, sia precedente alla data di entrata invigore del Regolamento (come da atto di designazione dell’Associazione Rousseau quale responsabile del trattamento del 25aprile 2016); ciò allo scopo di tutelare – nel momento in cui subentri un rapporto conflittuale tra le parti – gli interessi del titolare deltrattamento e, in particolar modo, degli interessati che abbiano nel corso degli anni conferito i propri dati al Movimento 5 Stelle sullabase dell’informativa dal medesimo resa;

RITENUTO che, essendo circostanza incontestata che il Movimento sia il titolare del trattamento, è di conseguenza pacifico che, in tale qualità, abbia diritto di disporre dei dati personali degli iscritti per utilizzarli, limitatamente al perseguimento delle proprie finalità.  Tali dati, pertanto, potranno essere utilizzati per il perseguimento delle sole finalità istituzionali del Movimento per le quali tali datisono stati ad esso conferiti

RITENUTO pertanto che, con riferimento alla richiesta di consegna dei dati personali degli iscritti al Movimento ricorrano i presupposti per un intervento correttivo dell’Autorità ai sensi dell’art. 58. par. 2, lett. d) del Regolamento; ritenuto quindi di dover ingiungere all’Associazione Rousseau di provvedere, quale responsabile del trattamento, a dare attuazione al disposto di cui all’art.28, par. 3, lett. g) mediante consegna al Movimento 5 Stelle, nelle forme e secondo le modalità indicate dal titolare medesimo, di tutti i dati personali degli iscritti al Movimento, di cui l’Associazione risulti responsabile, entro 5 (cinque) giorni dal ricevimento del presente provvedimento; ciò fermo restando l’ulteriore trattamento dei dati personali di quegli iscritti rispetto ai quali l’AssociazioneRousseau sia al contempo autonomo titolare del trattamento. Nelle more della consegna al Movimento dei dati in questione,Associazione Rousseau dovrà astenersi da ogni ulteriore trattamento dei dati stessi, tranne esplicite, specifiche richieste delMovimento>>.

Due osservazioni:

i) l’anteriorità dei fatti rispetto al reg. UE non risulta dedotta da AR, in base a quanto si legge nel provvedimento (salvo errore).

ii) l’affermazione di esistenza del dovere di riconsegna anche in mancanza di contratto (scritto, direi, pur se la disposizione tace sul punto) è probabilmente giusta. In quanto elemento centrale della difesa AR, però, meritava una motivazione più approfondita.

Possesso ad usucapionem del coerede

Un figlio, che abitava col padre, al decesso doi questi continua ad abitarvi a madre e fratelli però non viene consegnata copia della casa di casa nè costoro la reclamano o contestano l’uso della casa.

Ciò costituisce possesso idoneo all’usucapione? Dice di no Cass. sez. II n. 9359 del 08.04.2021, rel. Besso Marcheis.

Così osserva: <<La circostanza, poi, non poteva essere ritenuta “elemento di per sè sufficiente ad attestare il possesso” necessario per l’acquisto per usucapione della proprietà del bene. E’ vero che secondo questa Corte “il coerede che, a seguito della morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso” (ex multis, Cass. 966/2019). A tal fine, però “egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus” (Cass. 10734/2018, Cass. 7221/2009, Cass. 13921/2002), “non essendo sufficiente l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune” (Cass. 966/2019). Pertanto, il fatto che M.Q., che già abitava con il padre l’appartamento e quindi aveva le chiavi del medesimo, abbia continuato ad essere il solo ad averne la disponibilità non indica, di per sè, il possesso esclusivo dell’immobile.>>

Affermazione ineccepibile, anche se tutto sommato pianamente discendente dai principi in tema di usucapione.

Nemmeno la sostituzione della serratura sarebbe di per sè decisiva: <<diverso valore, invece, può avere secondo la giurisprudenza di questa Corte “la sostituzione della serratura – della quale tutti i coeredi hanno però la chiave – anche se, per tale ipotesi, devesi, comunque, provare che l’azione sia stata voluta e manifestata al fine d’escludere il compossesso dei coeredi e non piuttosto a fini d’ordinaria manutenzione o di migliore preservazione dell’immobile e di quanto in esso contenuto” (Cass. 1370/1999).>>. Precisazione anche questa ineccepibile ma ovvia.

Sulla tolleranza da parte degli altri coeredi , la SC osserva:  <<quanto, infine, al riferimento operato dalla Corte d’appello alla tolleranza da parte degli altri compossessori, va precisato – come sottolineano le ricorrenti – che “in tema di usucapione, per stabilire se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacchè nei secondi, di per sè labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo” (così, da ultimo, Cass. 11277/2015)>>.   Si tratta del passaggio più interssante.

Su quest’ultimo punto, conclude così la SC: <<In ogni caso, però, il riferimento alla tolleranza non è conferente nel caso di specie, in cui M.Q. essendo coerede era già (con)possessore e quello che doveva essere provato era l’esercizio esclusivo, nel senso di esclusione del compossesso dei coeredi, del dominio sulla res comune, prova il cui onere gravava sull’usucapiente (v. Cass. 13921/2002).>>

“Accomodamenti ragionevoli” nel rapporto di lavoro con persona disabile, ragionevolezza e buona fede nell’esecuzione del contratto

La Corte di CAssazione interpreta il concetto di <accomodamenti ragionevoli> nel d. lgs. 216/2003 (Cass. 6497 del 09.03.2021 rel. Amendola). .

il D.L. 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), conv. con modif. dalla L. 9 agosto 2013, n. 99, ha inserito nel testo del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3 un comma 3 bis del seguente tenore: <<Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie, e strumentali disponibili a legislazione vigente>>.

Ebbene così dice la SC: <<Il legislatore … ha deliberatamente scelto di trasporre nell’ordinamento interno la formula delle fonti sovranazionali, in dichiarata attuazione della direttiva n. 78/2000/CE, affidandosi ad una nozione a contenuto variabile – categoria dogmatica estesa, nell’ambito della quale possono variamente collocarsi clausole generali, norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, finanche i principi – che ha come caratteristica strutturale proprio l’indeterminatezza: consapevole dell’impossibilità di una tipizzazione delle condotte prescrivibili, il legislatore ha conferito all’interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto.>>, § 5.1

<<Si tratta dunque di adeguamenti, lato sensu, organizzativi che il datore di lavoro deve porre in essere al fine di “garantire il principio della parità di trattamento dei disabili” e che si caratterizzano per la loro “appropriatezza”, ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa>>, § 5.2.

Il limite del <onere sproprozinato o eccessivo> è stato già <<sottolineato da questa Corte  che ha legittimato il rifiuto dell’imprenditore all’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, a mansioni diverse, ove comporti “oneri organizzativi eccessì)i”, pronuncia a sua volta ispirata dalla giurisprudenza costituzionale dell’epocà sulla “autodeterminazione” della organizzazione interna dell’impresa “in modo che ne vengano preservati gli equilibri finanziari” (cfr. Corte Cost. n. 78 del 1958; Corte Cost. n. 316 del 1990; Corte Cost. n. 356 del 1993)>>.

 Al limite espresso della “sproporzione” del costo <<si affianca quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”.

Limite ulteriore perchè dotato di autonoma valenza letterale, atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro dal porre in essere l’adattamento, fosse l’onere “sproporzionato”, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”.

Infatti, se può sostenersi che ogni costo sproporzionato, inteso nella sua accezione più ampia di “eccessivo” rispetto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, renda l’accomodamento di per sè irragionevole, non è necessariamente vero il contrario, perchè non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti.>>, § 5.3-§ 5.4.

Il criterio della ragionevolezza, tradizionalmente utilizzato nei giudizi di legittimità costituzionale come controllo di razionalità della legge, <<penetra anche i rapporti contrattuali, quale forma di osservanza del “canone di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.” (cfr, Cass. SS.UU. n. 5457 del 2009) e che risulta “immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost.” (cfr. Cass. SS.UU. n. 15764 del 2011; v. pure Cass. SS.UU. n. 23726 del 2007; cfr. Cass. SS. UU. n. 18128 del 2005), esplicando “la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” (Cass. SS.UU. n. 28056 del 2008)>> , § 5.4

<Se può tuttavia dubitarsi, nonostante talune suggestioni dottrinali, che, sulla base del diritto vivente (v. Cass. SS.UU. nn. 6030, 6031, 6032, 6033, 6034 del 1993), possa configurarsi nei rapporti di lavoro un obbligo giuridico a valenza generale,di “ragionevolezza” nell’esercizio dell’attività di impresa, tale da consentire un esteso sindacato giudiziale diretto ed ex post di congruità causale degli atti del datore di lavoro, non è invece discutibile che, laddove il legislatore esplicitamente stabilisca, come nella specie – che la condotta datoriale debba essere improntata al canone della ragionevolezza, il controllo sia dovuto anche su questo specifico profilo.>, ivi.

Dalla connotazione della ragionevolezza come espressione dei piu’ ampi doveri di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali si possono <<trarre indicazioni metodologiche utili per orientare prima il destinatario della norma ad individuare il comportamento dovuto e poi, eventualmente, il giudice, al fine di misurare l’esattezza dell’adempimento dell’obbligo di accomodamento nella concretezza del caso singolo.

Detta collocazione sistematica consente di fare capo a quella ricca giurisprudenza che identifica la buona fede oggettiva o correttezza come criterio di determinazione della prestazione contrattuale, costituendo fonte di integrazione del comportamento dovuto che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, sulla scorta di una nota dottrina, al compimento di tutti gli atti giuridici e materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (tra le tante: Cass. n. 1460,5 del 2004; Cass. n. 20399 del 2004; Cass. n. 13345 del 2006; Cass. n. 15669,del 007; Cass. n. 10182 del 2009; Cass. n. 17642 del 2012; da ultimo, con riferimenti, v. Cass. n. 8494 del 2020)>>., ivi.

La funzione diretta alla protezione della controparte ed il dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse “altrui” <<pongono metodologicamente al centro dell’operazione interpretativa l’esigenza di una valutazione comparata di tutti gli interessi in gioco, al fine di un bilanciato contemperamento>>, ivi.

Così pure nel caso degli accomodamenti <<occorrerà soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte: l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; poi l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa, tenuto conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (Cass. SS.UU. n. 7755/1998 cit.) e che la stessa direttiva 2000/78/CE, al Suo considerando 17, “non prescrive… il mantenimento dell’occupazione… di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”; non può, infine, aprioristicamente escludersi che la modifica organizzativa coinvolga, in maniera diretta o indiretta, altri, lavoratori, sicchè in tal caso, fermo il limite non valicabile del pregiudizio a situazioni soggettive che assumano la consistenza di diritti soggettivi altrui, occorrerà valutare comparativamente anche l’interesse di costoro>>, ivi.

All’esito di questo complessivo apprezzamento, potrà dirsi ragionevole <<ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale” (su tale formula v. Cass. SS.UU. n. 5688 del 1979, che, proprio a proposito dell’integrazione del comportamento dovuto dal datore di lavoro ex art. 1175 c.c., ha ritenuto che quest’ultimo deve “ritenersi vincolato non solo a non frapporre ostacoli alla realizzazione dell’interesse dell’altra parte, ma anche a fare tutto ed esattamente quanto la comune valutazione sociale consideri necessario”)>>.

Consenso al trattamento e oscurità algoritmica

La Cassazione chiarisce il concetto di <consenso>  nella disciplina privacy, inr elazione al caso <Mevaluate> (Cass. 14381 del 25.05.2021 , rel. Terrusi).

Il punto di partenza è il provvedimento 24.11.2016 col quale il Garante (G.) dichiarava incompatibile col cod. privacy il sistema di rating reputazionale progettato da società del gruppo Mevaluate (v. provvedimento Piattaforma web per l´elaborazione di profili reputazionali – 24 novembre 2016 Registro dei provvedimenti n. 488 del 24 novembre 2016, [doc. web n. 5796783] ).

L’impugnazione in Tribunale di Mevaluate era stata accolta.

L’Avvocatura dello Stato però ricorre in Cassazione e con successo.

Non è chiarissimo il contesto fattuale (cioè il funzionamento del meccanismo di controllo reputazionale) ; qui però conta il passaggio teorico sul rapporto tra consenso e algoritmi, ove invece la SC è chiara:

<<Il problema, per la liceità del trattamento, era invece (ed è) costituito dalla validità – per l’appunto – del consenso che si assume prestato al momento dell’adesione. E non può logicamente affermarsi che l’adesione a una piattaforma da parte dei consociati comprenda anche l’accettazione di un sistema automatizzato, che si avvale di un algoritmo, per la valutazione oggettiva di dati personali, laddove non siano resi conoscibili lo schema esecutivo in cui l’algoritmo si esprime e gli elementi all’uopo considera>>, VII, p. 7/8,.

Motivazione esatta (anche se quasi scontata: è inconcepibile una diversa soluzione), anche se troppo sintetica: nemmeno cita le norme pertinenti. Il ricorrente citava anche l’art. 7 reg. UE 679/2016, oltre che l’ex art. 23 cod. priv. Però la fattispecie normativa esatta è la seconda, essendosi il primo applicato solo a partire dal 25 maggio 2018 (v. il suo art. 99).

Solo che, in un’ottica generale, questo è solo l’inizio del problema.   Sempre più numerosi infatti sono i trattamenti algoritmici (peggio: tramite machine learning), il cui assenso allora diventa giuridicamente nullo perchè l’assenziente nulla sa del modus operandi della logica algoritmica impiegata.

Responsabilità amministrativa della società ex d. lgs. 231/2001 e Organismo di Vigilanza (operazioni Alexandria e Santorini del Monte dei Paschi)

La ponderosa sentenza penale Trib. Milano 07.04.2021 n. 10748-2020, dib. 15.10.2020, contro i vertici di Banca Monte dei Paschi di Siena  (BMP) (leggibile nel sito giurisprudenzapenale.com) ha una parte dedicata alla responsabilità amministrativa della società (capitolo XVI , p. 287 ss) e soprattutto sull’Organismi di Vigilanza (OdV)..

La responsabilità è stata affermata , non essendo stati riscontrati i  requisiti per l’operatività dell’esimente posti dall’art. 6 d. lgs. 231/2001.

Riporto alcuni passaggi:

  • <<in merito ai compliance program, risulta pacificamente devoluto al giudice l’accertamento della postulata idoneità preventiva, secondo una valutazione di prognosi postuma e in concreto (avuto riguardo alle specificità del caso singolo).>>, p. 288: dato pacifico.
  • <<Non può, invero, dubitarsi della finalità – sottesa ai reati e quantomeno concorrente con altre proprie dei prevenuti – di garantire a B. ingiusti profitti (pure integrante il dolo specifico del delitto di false comunicazioni sociali): come già ampiamente dimostrato, l’alterazione dei bilanci mediante erronea contabilizzazione delle operazioni strutturate rispondeva alla necessità di offrire agli investitori un più florido e rasserenante scenario societario (che ispirasse affidabilità e fiducia), in termini di patrimonio contabile e di vigilanza nonché, più in generale, di stabilità (dovendosi evitare, a ogni costo, lo svelamento dei rischi connessi alla massiccia esposizione in derivati di credito, che avrebbe esposto la Banca alle imprevedibili oscillazioni di mercato, destinate a impattare sul risultato d’esercizio).>>, p. 290.
  • l’esito dell’analisi affidata nel 2012 a KPMG sul modello ex d. lgs. 231: <<all’esito dell’analisi, il consulente ha evidenziato plurime criticità e manchevolezze, suggerendo:

    1) l’integrazione del modello, mediante illustrazione delle modalità di possibile perpetrazione dei reati nonché indicazione dei presidi di controllo in essere per ogni attività c.d. sensibile;

    2) l’aggiomamento del codice etico, da rendere parte integrante del compliance program;

    3) la predisposizione di protocolli di parte speciale atti a prevenire la commissione dei reati presupposto, che chiarissero per ogni unità organizzativa gli illeciti teoricamente perpetrabili, i presidi di controllo in essere, i principi di comportamento da tenere e i riferimenti alla normativa interna aziendale di disciplina della materia.>>, p. 291.

  • <<in definitiva, sino all’ottobre 2013, come emerge dagli appunti formulati al precedente modello del 2004 (neppure allegato), la Banca è risultata sprovvista di accorgimenti organizzativi concretamente idonei a prevenire il rischio criminoso. Né valevano i richiamati complessi sistemi di regole interne a sanare il deficit riscontrato, difettando gli stessi delle puntuali previsioni contemplate dal decreto del 2001, in particolar modo in merito alla mappatura delle aree a rischio, alla predisposizione di specifici protocolli diretti alla prevenzione dei reati, agli indispensabili flussi informativi verso l’OdV nonché al sistema disciplinare>>, p. 292.
  • sull’OdV: è il punto più interessante, anche se pleonastico e trattato ad abundantiam, essendo già stato riscontrato carente il modello ex art. 6.1.a). I requisiti posti dall’ar’t. 6/1 d. lgs. 231, infatti, devono pacificametne ricorrere tutti, essendo cumulativamente richiesti: lo si desume pianamente già dal tenore della disposizione e comunque la dottrina l’ha chiarito (Scoletta, in Diritto penale delle società. Accertamento delle responsabilità individuali e processo alla persona giuridica a cura di Canzio-Cer2qua-Lupoaria, Cedam, 2016, 856). C’è una cronologia dei fatti, da cui il Trib. desume in sostanza una condotta omissiva e attendista.              La sintesi è questa: <<In definitiva, l’organismo di vigilanza – pur munito di penetranti poteri di iniziativa e controllo, ivi inclusa la facoltà di chiedere e acquisire informazioni da ogni livello e settore operativo della Banca, avvalendosi delle competenti funzioni dell’istituto (così il regolamento del luglio 2012) – ha sostanzialmente omesso i dovuti accertamenti (funzionali alla prevenzione dei reati, indisturbatamente reiterati), nonostante la rilevanza del tema contabile, già colto nelle ispezioni di B.I. (di cui l’OdV era a conoscenza) e persino assurto a contestazione giudiziaria, con l’incolpazione dei confronti di B. (circostanza che disvelava, per l’atteggiamento conservativo della Banca, il patente rischio di ulteriori addebiti, come poi avvenuto). Nel periodo d’interesse l’organismo di vigilanza ha assistito inerte agli accadimenti, limitandosi a insignificanti prese d’atto, nella vorticosa spirale degli eventi (dalle allarmanti notizie di stampa sino alla débâcle giudiziaria) che un più accorto esercizio delle funzioni di controllo avrebbe certamente scongiurato.>>, p. 294-5).

Il giudizio del Trib pare un pò frettoloso. Che i membri dell’OdV godessero di <<penetranti poteri di iniziativa e controllo, ivi inclusa la facoltà di chiedere e acquisire informazioni da ogni livello e settore operativo della Banca, avvalendosi delle competenti funzioni dell’istituto (così il regolamento del luglio 2012) >> è affermazione apodittica , per cui non costituisce motivazione sufficiente: doveva indicarli analiticamente e motivare sul come il loro esercizio avrebbe evitato i fatti illeciti.         D’altro canto, giudicare inadeguato tale passaggio motivatorio perchè i poteri dell’OdV sono “poteri di terzo livello”, come è stato osservato in dottrrina, non pare esattissimo:  la legge lascia all’ente la loro definizione , per cui ogni giudizio sul punto impone l’analisi analitica di ciascun potere e dell’effetto possibile/prevedibile che si sarebbe prodotto col suo esercizio. Il fatto che si tratti di poteri definiti in sede statutaria o di regolamento ad hoc, invece che dalla legge, non li fa diventare di secondo o terzo livello: potrebbero essere anche di primo livello, dipende da come sono disegnati.

Tuttavia, lo ripeto, l’analisi dell’OdV è ultronea, avendo poco prima il Trib. ravvisato l’insufficienza del modello. Forse però in questo modo la sentenza potrà meglio resistere ad eventuale impugnazione.