Banca dati informativa ed esenzione ex § 230 CDA

Una banca dati, che ospita informazioni di vario tipo sulle persone , disponibili a pagamento per i terzi, può fruire del § 230 CDA per il caso di informazioni inaccurate (violazioni penali insussistenti /errate) e in violazione del Fair Credit Reporting Act (FCRA)?

Si tratta del sito publicdata.com.

Il problema si pone perchè raccoglie ed eroga  informazioni fornitele da enti terzi: o  meglio le commercia, dato che le acquista e poi rivende (soprattutto a datori di lavoro), magari strutturate in report di comoda lettura, p. 2.

La risposta è positiva, secondo la district court dell’eastern district della Virginia , 19.05.2021, caso n. 3:20-cv-294-HEH, Henderson c. The Source of Publica DAta. : un simile commerciante di informazioni può ripararsi dietro lo scudo del safe harbour.  Anche se c’è un suo ruolo nel selezionare ed organizzare le informazioni messe on line.

Si v. il § III.B.(ove si legge che si tratta di caso nuovo nella giurisprudenza USA, p. 7).

In dettaglio, il § 230 CDA si applica a questo tipo di violazioni (pp. 8-10).

E ricorrono i requisiti posti dalla disposizione predetta:

  1. si tratta di internet service provider, p. 11/12
  2. non è content provider, perchè le info provengono da terzi, p. 13. La mera selezione non rileva, dato che il filtraggio rientra nelle attività dell’access provider (§ 230.f.4.A)
  3. la pretesa azionata tratta il convenuto come creatore di contenuti (cioè ne fa valere la responsabilità editoriale, p. 13-14)

Il punto delicato  è il secondo , relativo al ruolo svolto nella organizzazione dei materiali. Ma effettivametne la disposizione citata delinea un concetto molto ampio di <access provider>.

(Purtroppo la sentenza  reperita  è un pdf solamente grafico)

Responsabilità dell’amministratore di fatto e onere della prova per fatti di distrazione

Trib. Milano 01.02.2021 n. 711/2021, Rg 57943/2017, Fallimento P.G.P. srl c. Pecchioli ed altri, decide una causa in tema di responsabilità.

Non ci sono principi di diritto sconvolgenti: si tratta però di condotte frequentemente incontrate nella pratica,

Qui ricordo solo due questioni

1 – onere della prova per ammanchi e fatti distrattivi :

<<Con riferimento alla responsabilità dell’organo gestorio per le operazioni distrattive la violazione degli obblighi inerenti la conservazione dell’integrità del patrimonio sociale compromessa da prelievi di cassa o pagamenti a favore di terzi ingiustificati per la mancanza di idoneo riscontro nella contabilità e documentazione sociale della loro causa deve ritenersi dimostrata per presunzioni, ove l’ amministratore convenuto non provi la riferibilità all’attività sociale delle spese o la destinazione dei pagamenti all’estinzione di debiti sociali ( v. fra le molte Cass. 18.6.2014 n. 13907 in motivazione). ….  In mancanza della documentazione contabile che l’amministratore convenuto non ha tenuto o, comunque, non ha consegnato al Curatore, deve, dunque, presumersi l’avvenuta distrazione delle somme in questione dalpatrimonio sociale non avendo i convenuti, rimasti tutti contumaci, assolto all’onere di dimostrare che i prelievi fossero destinati ad estinguere debiti sociali fondati su comprovati titoli contrattuali>>p 10/11.

2  – amministratore di fatto.

<<Del danno derivato da tutte le distrazioni in questione devono rispondere, sotto il profilo soggettivo, l’amministratore di diritto Pecchioli ed il socio Poltronieri che, per quanto emerge dalla documentazione acquisita, ha assunto il ruolo di amministratore di fatto.   Con riguardo alla “ ripartizione” dei ruoli di gestione ed amministrazione fra i due è lo stesso amministratore Pecchioli a riferire al curatore nel corso della sua audizione che mentre lui si occupava della parte tecnica e operativa relativa allo smaltimento di farine: valutare i prezzi, stipulare i contratti, trasportare le farine” il socio Poltronieri si occupava di “ quella legale e amministrativa,  aveva la firma sui conti correnti della società..” ospitava la sede legale della società presso il suo studio ove “ arrivava tutta la documentazione fiscale e contabile, per cui era compito di Poltronieri occuparsi degli adempimenti ” relativi alla redazione dei bilanci ( v. doc. 11 a pag. 1,2,6).  Il fatto che il socio Poltronieri avesse la delega ad operare sui conti correnti sociali e che se ne avvalesse per gestire il denaro sociale anche attraverso l’emissione di assegni bancari trova conferma nella documentazione prodotta dal fallimento ( doc. 40 e doc. da 35 a 38) così come il ruolo cardine assunto nella gestione dei rapporti con gli istituti di credito ed in particolare con la banca Unicredit nell’operazione di finanziamento indiretto alla Via Lattea che va ben oltre la prestazione di assistenza legale per andare ad involgere l’assunzione stessa delle scelte gestorie come risulta dal tenore delle missive all’istituto di credito e ai soci ( v. doc. 23 e 25),  ove addirittura il Poltronieri consiglia all’amministratore di far difendere in giudizio la società da un altro legale per consentire a lui di testimoniare nel processo sulla vicenda.  Le dichiarazioni confessorie rese dal Pecchioli in ordine al fatto di aver irresponsabilmente demandato la funzione amministrativa al Poltronieri e le risultanze documentali evidenziate consentono di ritenere accertata l’assunzione da parte del Poltronieri del ruolo di amministratore di fatto della società fallita>>, p. 15-16.

Infatti <<non costituiscono circostanze di esonero dalla responsabilità civile dell’amministratore peril danno derivato alla società ed ai creditori dalla violazione degli obblighi imposti dalla carica, né l’essersi prestato ad assumere solo formalmente la carica di amministratore fungendo da prestanome del soggetto a cui è demandata di fatto la gestione né lo svolgimento del mandato nella completa ignoranza dell’operato del terzo incaricato dell’esecuzione delle attività proprie dell’amministratore>>, p. 16-17.

Nullità di marchio depositato in mala fede (ancora sul caso Bansky)

Dopo la sconfitta nel caso <Flower thrower> (v. mio post su questo blog 28.09.2020), Bansky perde una altra volta in sede amministrativa e per la stessa ragione.

Il marchio è dichiarato nullo perchè depositato in mala fede ex art. 59.1.b deL reg. 2017/1001: la mala fede consiste nell’intenzione a priori di non usarlo.

La decisione è 18.05.2021, Cancellation Division EUIPO, n. 39 873 C, Full colour Balck ltd c. Pest Contro Office ltd (rappresentante di Bansky) https://files.lbr.cloud/public/2021-05/banksy%20monkey%20trademark%20cancellation.pdf?PjoCw7xOfeYRlSa6qorTXr9hkL4QcK1Y= .

Si tratta del marchio UE No 17 981 629 (the EUTM), depositato nel  luglio 2018 e concesso nell’agosto 2019, rappresentante la nota scimmietta con borsa bianca sul davanti (v.la in decisione), che riproduce una parte della creazione del 2002 <<Laugh now>> (“Laugh now, but one day we’ll be in charge”).

<<From the evidence submitted Banksy has not manufactured, sold or provided any goods or services under the contested mark or sought to create a commercial market for his goods until just before the filing of the present application for a declaration of invalidity. Only then, in October of 2019, after the applicant had brought prior proceedings 33 843 C against the proprietor, as referred to by the applicant in its initial observations, which were pending at the time, he opened an online store (and had a physical shop but which was not opened to the public) but by his own words, reported in a number of different publications in the UK, he was not trying to carve out a portion of the commercial market by selling his goods, he was merely trying to fulfil the trade mark class categories to show use for these goods to circumvent the non-use of the sign requirement under EU law. Both Banksy and Mr. M.S, who is a Director of the proprietor, made statements that the goods were created and being sold solely for this cause. Therefore, by their own words they admit that the use made of the sign was not genuine trade mark use in order to create or maintain a share of the market by commercialising goods, but only to circumvent the law.
The contested EUTM was filed on 07/11/2018. The evidence shows that the proprietor did not sell any goods or provide any services under the sign until October 2019. In fact the evidence shows that Banksy repeatedly made statements that he was not making or selling any of these goods and that the third parties were doing this without his permission. Banksy started to sell goods in late 2019 only one month prior to the filing of the present application but specifically stated that they were only being sold to overcome non-use for trade mark proceedings and not to commercialise the goods. Banksy by his own admission is clearly against intellectual property laws, but this does not mean that he is not afforded the same protection under these laws as everybody else. However, there are restrictions to the right to register a trade mark and that would be in the case where the mark is filed in bad faith>, pp.11-12.

E poi sull’art. 59.1.b:

<<Article 59(1)(b) EUTMR meets the general interest objective of preventing trade mark registrations that are abusive or contrary to honest commercial and business practices. These registrations are contrary to the principle that EU law cannot be extended to cover abusive practices on the part of a trader, which do not make it possible to attain the objective of the legislation in question (23/05/2019, T-3/18 & T-4/18, ANN TAYLOR / ANNTAYLOR et al., EU:T:2019:357, § 33).
Bad faith may apply if it transpires that the EUTM proprietor never had any intention to use the contested EUTM, for example, a trade mark application made without any intention to use the trade mark in relation to the goods and services covered by the registration constitutes bad faith if the applicant for registration of that mark had the intention either of undermining, in a manner inconsistent with honest practices, the interests of third parties, or of obtaining, without even targeting a specific third party, an exclusive right for purposes other than those falling within the functions of a trade mark. (29/01/2020, C 371/18, SKY, EU:C:2020:45, § 81).>>, p. 12.

Considerazioni generali che, applicate ai fatti di causa, portano l’ufficio a dire:

<<The predicament of Banksy’s right to the work ‘Laugh Now’ (or part thereof) is clear. To protect the right under copyright law would require him to lose his anonymity which would undermine his persona. It is clear that when the proprietor filed the EUTM he did not intend to use the EUTM and actual use was only made of the EUTM, after the initiation of the previous proceedings No 33 843 and approximately one month prior to the filing of the present proceedings, and such use was identified as use to circumvent the requirements of trade mark law and thus there was no intention to genuinely use the sign as a trade mark. Banksy was trying to use the sign only to show that he had an intention of using the sign, but his own words and those of his legal representative, unfortunately undermined this effort. Thus, it must be concluded that there was no intention to genuinely use the sign as a trade mark and the only eventual use made of the sign was made with the intention of obtaining an exclusive right to the sign for purposes other than those falling within the functions of a trade mark.>>, p. 12-13

Disperato tentativo di difesa con considerazioni genrali di policy: <<In this respect the proprietor claims that where a party is taking advantage of a sign due to their knowledge that the owner of the sign cannot enforce unregistered trade mark rights and copyright without prejudicing his public persona or business interests, obtaining a trade mark registration through an incorporated company in order to enforce these rights is a ‘legitimate objective’ and not an application in bad faith. Later it also argues that the person and the company are distinct and that the opinions of the individual cannot harm or show the position of the business. However, as seen above in the present decision the proprietor is deemed to be the representative or agent of Banksy as the principal>>.

Risposta tranciante dell’ufficio: <<As such, this argument cannot be accepted. Moreover, Banksy has chosen to remain anonymous and for the most part to paint graffiti on other people’s property without their permission rather than to paint it on canvases or his own property. He has also chosen to be very vocal regarding his disdain for intellectual property rights, although clearly his aversion for intellectual property rights does not annul any validly acquired rights to copyright or trade marks. It must be pointed out that another factor worthy of consideration is that he cannot be identified as the unquestionable owner of such works as his identity is hidden. The contested EUTM was filed in order for Banksy to have legal rights over the sign as he could not rely on copyright rights, but that is not a function of a trade mark. Therefore, the filing of a trade mark cannot be used to uphold these rights which at least may not exist for the person claiming to own them.>>, p. 15

In sintesi:

<<Moreover, applying the above cited judgment and the previous findings it is clear that Banksy did not have any intention to use the EUTM in relation to the contested goods and services at the time of filing of the EUTM which is the relevant time period to be taken into consideration. He only began using the sign after the previous application for a declaration of invalidity 33 843C was filed and only one month prior to the filing of the present application. Moreover, at the time of said use Banksy and his representative stated that the use was only to overcome EU laws regarding the issue of non-use in relation to a trade mark dispute which shows that his intention was not to use the mark as a trade mark to commercialise goods or provide any services in order to carve out a portion of the relevant market, but only to circumvent the law. These actions are inconsistent with honest practices. They show that his intention was to obtain, without even targeting a specific third party, an exclusive right for purposes other than those falling within the functions of a trade mark. Although the proprietor also states that he intends to make genuine use of the EUTM in the coming years what must be examined in the present application is the proprietor’s intention at the time of the application of the contested mark.
Following from the case law cited above bad faith may apply if it transpires that the EUTM proprietor never had any intention to use the contested EUTM or if the intention in filing the EUTM was to obtain an exclusive right for purposes other than those falling within the functions of a trade mark. Therefore, for the reasons given above the proprietor’s actions are inconsistent with honest practices as it had no intention to use the EUTM as a trade mark according to its function and thus the EUTM was filed in bad faith. This finding is also in line with the decision of the Cancellation Division of 14/09/2020, 33 843 C in the ‘Flower Thrower’ decision which has become final. Moreover, the filing of other marks under the same circumstances is a strong indication that the present mark was also applied for in bad faith (see, for analogy, 25/02/2013, No R 2448/2010, ‘AERMACCHI MILANO’, § 22).>>, p. 16.

Questioni interessanti sia sulla malafede al deposito sia sul rapporto col diritto di autore ( ove: i) impossibilità di esercitare i diritti restando nell’anonimato; v. però da noi diverse norme che paiono portare ad un esito diverso, come l’art. 9 in generale e l’art. 126 n 1. l. aut. per il contratto di edizione; ii) bypassare il termine settantennale p.m.a. tramite la tutela da marchio)

Ancora sul (pericoloso) “speed filter” di Snap e il safe harbour ex § 230 CDA

Altra lite sulle conseguenze mortali dell’uso del software <speed filter> di Snap Inc., che permette di eseguire e condividere filmati dal veicolo con riproduzione della velocità oraria raggiunta.

I genitori di ragazzi morti in incidente automobilistico, causato anche dall’incoraggiamento di Snap a correre forte, citano Snap INc. (poi: S.) per progettazione difettosa del prodotto (responsabilità da prodotto difettoso)

Decide la corte di appello californiana del 9° cicuito, 4 maggio 2021, Lemon ed altri c. Snap Inc. No. 20-55295,  D.C. No. 2:19-cv-04504-MWF-KS.

In primo grado era stata accolta l’eccezione di safe harbour ex § 230 CDA; in  appello viene respinta, per cui viene riformata la decisione di primo grado.

In breve, per la Corte la domanda dei genitori dei ragazzi era basata su design negligente del prodotto e dunque nulla aveva a che fare con il ruolo di publisher/speaker chiesto dal § 230 CDA.

Va anche tenuto conto che <<many of Snapchat’s users suspect, if not actually “believe,” that Snapchat will reward them for “recording a 100-MPH or faster [s]nap” using the Speed Filter. According to plaintiffs, “[t]his is a game for Snap and many of its users” with the goal being to reach 100 MPH, take a photo or video with the Speed Filter, “and then share the 100-MPH-Snap on Snapchat.”>>, p. 7.

Dunque <<Snapchat allegedly knew or should have known, before May 28, 2017, that its users believed that such a reward system existed and that the Speed Filter was therefore incentivizing young drivers to drive at dangerous speeds. Indeed, the Parents allege that there had been: a series of news articles about this phenomenon; an online petition that “called on Snapchat to address its role in encouraging dangerous speeding”; at least three accidents linked to Snapchat users’ pursuit of high-speed snaps; and at least one other lawsuit against Snap based on these practices. While Snapchat warned its users against using the Speed Filter while driving, these warnings allegedly proved ineffective. And, despite all this, “Snap did not remove or restrict access to Snapchat while traveling at dangerous speeds or otherwise properly address the danger it created.”>>, ivi.

<<Here, the Parents seek to hold Snap liable for its allegedly “unreasonable and negligent” design decisions regarding Snapchat. They allege that Snap created: (1) Snapchat; (2) Snapchat’s Speed Filter; and (3) an incentive system within Snapchat that encouraged its users to pursue certain unknown achievements and rewards. The Speed Filter and the incentive system then supposedly worked in tandem to entice young Snapchat users to drive at speeds exceeding 100 MPH.
The Parents thus allege a cause of action for negligent design—a common products liability tort>>, p. 11.

Non si tratta quindi di causa petendi basata sull’attività di publisher/speaker: <<The duty underlying such a claim differs markedly from the duties of publishers as defined in the CDA. Manufacturers have a specific duty to refrain from designing a product that poses an unreasonable risk of injury or harm to consumers. See Dan B. Dobbs et al., Dobbs’ Law of Torts § 478 (2d ed., June 2020 Update). Meanwhile, entities acting solely as publishers—i.e., those that “review[] material submitted for publication, perhaps edit[] it for style or technical fluency, and then decide[] whether to publish it,” Barnes, 570 F.3d at 1102—generally have no similar duty. See Dobbs’ Law of Torts § 478.
It is thus apparent that the Parents’ amended complaint does not seek to hold Snap liable for its conduct as a publisher or speaker. Their negligent design lawsuit treats Snap as a products manufacturer, accusing it of negligently designing a product (Snapchat) with a defect (the interplay between Snapchat’s reward system and the Speed Filter). Thus, the duty that Snap allegedly violated “springs from” its distinct capacity as a product designer. Barnes, 570 F.3d at 1107. This is further evidenced by the fact that Snap could have satisfied its “alleged obligation”—to take reasonable measures to design a product more useful than it was foreseeably dangerous—without altering the content that Snapchat’s users generate. Internet Brands, 824 F.3d at 851. Snap’s alleged duty in this case thus “has nothing to do with” its editing, monitoring, or removing of the content that its users generate through Snapchat. Id. at 852>>, 12-13.

Tuttavia un hosting di materiali di terzi c’era: quello dei video (snaps) dei tre sfortunati ragazzi (i quali sono terzi rispetto a S.).

Ma ciò non toglie che la causa petendi era di prodotto difettoso: <<Notably, the Parents do not fault Snap in the least for publishing Landen’s snap. Indeed, their amended complaint fully disclaims such a reading of their claim: “The danger is not the Snap [message using the Speed Filter] itself. Obviously, no one is harmed by the post. Rather, the danger is the speeding.” AC ¶ 14. While we need not accept conclusory allegations contained in a complaint, we must nonetheless read the complaint in the light most favorable to the Parents. See Dyroff, 934 F.3d at 1096. And this statement reinforces our own reading of the Parents’ negligent design claim as standing independently of the content that Snapchat’s users create with the Speed Filter.
To sum up, even if Snap is acting as a publisher in releasing Snapchat and its various features to the public, the Parents’ claim still rests on nothing more than Snap’s “own acts.” Roommates, 521 F.3d 1165. The Parents’ claim thus is not predicated on “information provided by another information content provider.” Barnes, 570 F.3d at 1101>>, p. 15.

La decisione pare corretta.

Notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman (critico invece sulla sentenza)

Danno alla persona: sua determinazione e applicazione delle tabelle locali

Cass. 10.579 del 21.04.2021 , rel. Scoditti, Schembri + 1 c. Fondiaria SAI, interviene sul tema in oggetto.

Alcuni passaggi:

Sulla rilevanza delle tabelle milanesi: <<La censura ha ad oggetto l’applicazione delle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano, in luogo di quelle del Tribunale di Roma, nonostante che il giudice di primo grado, applicando le tabelle romane, non avesse liquidato il danno in modo sproporzionato rispetto alla quantificazione che l’adozione delle tabelle milanesi avrebbe consentito. L’interesse a sollevare la questione di quale tabella applicare deriva naturalmente dalla circostanza che il giudice di appello, facendo applicazione delle tabelle milanesi, è pervenuto alla liquidazione di un importo inferiore rispetto a quello di primo grado. In linea generale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, i parametri delle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale ovvero quale criterio di riscontro e verifica della liquidazione diversa alla quale si sia pervenuti; ne consegue l’incongruità della motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri tratti dalle tabelle di Milano consenta di pervenire (Cass. 28 giugno 2018, n. 17018; 18 novembre 2014, n. 24473; 30 giugno 2011, n. 14402).>>, § 1.1

ma la questione psota dal motivo è, in realtà, più specifica e riguarda segnatamente il profilo del danno c.d. parentale. Ciò che deve allora essere valutato è <<se, con riferimento a tale tipologia di danno, le tabelle elaborate dal Tribunale di Roma possano essere considerate recessive rispetto a quelle meneghine, per cui il parametro, ai fini della conformità a diritto della liquidazione, debba essere fornito dalle tabelle milanesi, rispetto alle quali quindi andrebbe apprezzata l’eventuale sproporzione della quantificazione del risarcimento. Per sciogliere lo specifico nodo del danno parentale è necessario un chiarimento più generale sulla problematica delle tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale>>, ivi.

Come affermato da Cass. 19 maggio 1999, n. 4852, <<l’utilizzo da parte del giudice delle tabelle redatte dall’ufficio giudiziario per la liquidazione del danno non patrimoniale trova fondamento nel potere del giudice di valutazione equitativa del danno previsto dall’art. 1226 c.c.. Quest’ultima norma, prefigurante l’equità giudiziale c.d. integrativa o correttiva e dunque ancora un giudizio di diritto e non di equità (fra le tante, da ultimo, Cass. 30 luglio 2020, n. 16344 e 22 febbraio 2018, n. 4310), per una parte risponde alla tecnica della fattispecie, quale collegamento di conseguenze giuridiche a determinati presupposti di fatto, per l’altra ha natura di clausola generale, cioè di formulazione elastica del comando giuridico che richiede di essere concretizzato in una norma individuale aderente alle circostanze del caso. Quale fattispecie, l’art. 1226 richiede sia che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, la prova del danno nel suo ammontare, sia che risulti assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno medesimo. Quale clausola generale, l’art. 1226 definisce il contenuto del potere del giudice nei termini di “valutazione equitativa”. Come precisato da Cass. 11 novembre 2019, n. 28990, si tratta di norma che non disciplina la fattispecie sostanziale (della responsabilità risarcitoria), ma l’esercizio del potere giudiziale (da cui, sempre per Cass. n. 28990 del 2019, l’applicazione della norma contenuta nel D.L. n. 158 del 2012, art. 3, comma 3, riprodotta nella L. n. 24 del 2017, art. 7, comma 4, – la quale prevede il criterio equitativo di liquidazione del danno non patrimoniale fondato sulle tabelle elaborate in base al D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, – anche nelle controversie relative a danni prodotti anteriormente alla sua entrata in vigore, nonchè ai giudizi pendenti a tale data).>>, § 1.1.1.

La liquidazione del danno non patrimoniale mediante valutazione equitativa ha il carattere di norma del caso concreto <<non solo nella sua proiezione di giudicato (formale e sostanziale), ma anche, in senso lato, quale regola insuscettibile di estensione oltre le circostanze del caso perchè non corrisponde all’applicazione di una fattispecie generale e astratta che sia suscettibile di reiterazione in altri casi. La determinazione del danno biologico corrisponde alla concretizzazione nel particolare episodio di vita di una clausola generale. L’esigenza che sorge è quella dell’uniformità di trattamento nei giudizi aventi ad oggetto la domanda di risarcimento del danno biologico>>, ivi

Cass. 7 giugno 2011, n. 12408, ha affermato che <<nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c., deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perchè esaminati da differenti uffici giudiziari. >, ivi

Si è così consolidato l’orientamento secondo cui <<l’omessa o erronea applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano può essere fatta valere, in sede di legittimità, come violazione dell’art. 1226 c.c., costituendo le stesse parametro di conformità della valutazione equitativa alla disposizione di legge (Cass. 21 novembre 2017, n. 27562). In questa chiave le tabelle milanesi hanno acquistato una sorta di efficacia para-normativa (Cass. 6 maggio 2020, n. 8532), in base alla quale, ai fini del rispetto del precetto dell’art. 1226, il giudice ha la possibilità di discostarsi dai valori tabellari a condizione che le specificità del caso concreto lo richiedano ed in sentenza sia fornita motivazione di tale scostamento (Cass. 20 ottobre 2020, n. 22859; 6 maggio 2020, n. 8508; 20 aprile 2017, n. 9950). In questo senso va compresa l’affermazione che le tabelle milanesi di liquidazione del danno non patrimoniale si sostanziano in regole integratrici del concetto di equità, atte quindi a circoscrivere la discrezionalità dell’organo giudicante, sicchè costituiscono un criterio guida e non una normativa di diritto>> , ivi.

Precisa la corte che <<non c’è la buona fede in astratto [ovvio], ma un comportamento conforme a buona fede, date determinate circostanze di fatto. Ciò significa che la clausola generale è un precetto in grado di operare solo se concretizzato alla luce delle circostanze del caso [ovvio]. La clausola generale non fissa il contenuto della regola giuridica, in via generale ed astratta, secondo la tecnica della norma a fattispecie, non regola cioè una classe di azioni o eventi, ma fissa per il giudice il criterio di identificazione della regola giuridica relativa al caso concreto. La disposizione che contempla una clausola generale non enuncia quindi una norma in senso proprio, ma un ideale di norma cui fare appello per l’identificazione della norma del caso concreto. Il comportamento secondo buona fede, come ogni altra clausola generale, fissa la disciplina ideale cui la regolazione giudiziale di ciascuno caso concreto deve tendere. La clausola generale può quindi essere definita come un ideale di norma cui parametrare la norma individuale che il giudice pone concretizzando il valore enunciato dalla norma elastica. La valutazione equitativa è un’idea-limite, per adoperare un’espressione emersa nella dottrina tedesca, cui tendere per determinare il danno quando questo non può essere provato nel suo preciso ammontare>>, § 1.1.2.

Sul concetto di tabella: << La tabella, elaborata per astrazione dalle sentenze di merito monitorate, rinvia in un’ultima istanza alla valutazione equitativa del danno di cui all’art. 1226 e, alla stessa stregua dei Falgruppen, identifica regole uniformi per la liquidazione del danno non patrimoniale. Si tratta in definitiva della conversione della clausola generale in una pluralità di ipotesi tipizzate risultanti dalla standardizzazione della concretizzazione giudiziale della clausola di valutazione equitativa del danno. L’omessa o erronea applicazione delle tabelle del Tribunale di Milano ha comportato, secondo l’insegnamento di questa Corte, l’integrazione della violazione dell’art. 1226 c.c., per la corrispondenza del precipitato tabellare delle prassi giurisprudenziali alla corretta interpretazione della clausola di valutazione equitativa del danno. (…) Quando il caso concreto impone la presa di distanza rispetto alla standardizzazione tabellare dei precedenti della giurisprudenza, e si torni in modo diretto alla clausola generale, determinante diventa la motivazione, la quale non è qui solo forma dell’atto giurisdizionale imposta dalla Costituzione e dal codice processuale, ma è anche sostanza della decisione, perchè la valutazione equitativa del danno, nella sua componente valutativa, si identifica con gli argomenti che il giudice espone. Gli argomenti (così come quando si bilanciano principi costituzionali) coincidono con la valutazione. Valutare è argomentare. L’argomentazione è la procedura che mira ad assicurare il più esteso esame delle circostanze del caso. Una liquidazione del danno, oltre i valori massimi o minimi, priva di specifica motivazione, è pertanto violazione non solo della legge processuale, ma anche dell’art. 1226, perchè ciò che difetta è non solo la motivazione, ma anche la valutazione>>, § 1.1.3.

Il problema della uniformità: <<La funzione di garanzia dell’uniformità delle decisioni svolta dalla tabella elaborata dall’ufficio giudiziario è affidata al sistema del punto variabile, per il grado di prevedibilità che tale tecnica offre pur con limitate possibilità di deroga, derivanti dalla eccezionalità del caso di specie e consentite dalla circostanza che, a differenza della tabella unica prevista dall’art. 138, si tratta non di una norma di diritto positivo, ma del diritto vivente riconosciuto da questa Corte>>, § 1.1.4.

Sulla ecessiva ampiezza delle fasce tabellari: <<Sotto questo aspetto non può sfuggire che la tabella meneghina, con riferimento al danno da perdita parentale, non segue la tecnica del punto, ma si limita ad individuare un tetto minimo ed un tetto massimo, fra i quali ricorre peraltro una assai significativa differenza (ad esempio a favore del coniuge è prevista nell’edizione 2021 delle tabelle un’oscillazione fra Euro 168.250,00 e Euro 336.500,00). L’individuazione di un così ampio differenziale costituisce esclusivamente una perimetrazione della clausola generale di valutazione equitativa del danno e non una forma di concretizzazione tipizzata quale è la tabella basata sul sistema del punto variabile. Resta ancora aperto il compito di concretizzazione giudiziale della clausola, della quale, nell’ambito di un range assai elevato, viene indicato soltanto un minimo ed un massimo. In definitiva si tratta ancora di una sorta di clausola generale, di cui si è soltanto ridotto, sia pure in modo relativamente significativo, il margine di generalità. La tabella, così concepita, non realizza in conclusione l’effetto di fattispecie che ad essa dovrebbe invece essere connaturato.

Garantisce invece uniformità e prevedibilità una tabella per la liquidazione del danno parentale basata sul sistema a punti, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione. In particolare, i requisiti che una tabella siffatta dovrebbe contenere sono i seguenti: 1) adozione del criterio “a punto variabile”; 2) estrazione del valore medio del punto dai precedenti; 3) modularità; 4) elencazione delle circostanze di fatto rilevanti (tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza) e dei relativi punteggi>>, ivi.

Sulla tabella per il danno parentale: <<Al riguardo va considerato che, coerentemente a quanto già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, bisogna guardare al profilo dell’effettiva quantificazione del danno, a prescindere da quale sia la tabella adottata, e, nel caso di quantificazione non conforme al risultato che si sarebbe conseguito seguendo una tabella basata sul sistema a punti secondo i criteri sopra indicati, a quale sia la motivazione della decisione.

Resta infatti fermo che, ove la liquidazione del danno parentale sia stata effettuata non seguendo una tabella basata sul sistema a punti, l’onere di motivazione del giudice di merito, che non abbia fatto applicazione di una siffatta tabella, sorge nel caso in cui si sia pervenuti ad una quantificazione del risarcimento che, alla luce delle circostanze del caso concreto, risulti inferiore a quella cui si sarebbe pervenuti utilizzando la tabella in discorso, o comunque risulti sproporzionata rispetto alla quantificazione cui l’adozione dei parametri tratti da tale tabella avrebbe consentito di pervenire. Il criterio per la valutazione delle decisioni adottate sulla base del precedente orientamento è dunque quello dell’assenza o presenza di sproporzione rispetto al danno che si sarebbe determinato seguendo una tabella basata sul sistema a punti. Ove una tale sproporzione ricorra, il criterio di giudizio riposa nell’esame della motivazione della decisione>>, § 1.1.5.

In conclusiione, il principio di diritto: <<“al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonchè l’indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella”>>

Commento di A. Palmieri d di R.Pardolesi-R.Simone in Foro it., 2021/6, coll. 2026 segg.

Software e tutela d’autore in sede europea (le conclusioni dell’A.G.)

Nella causa C-13/20 si discute sulla tutelabilità del software tramite diritto di autore.

Un ente pubblico belga procede a decompilazione di un software creato per lui da una software house, pure belga. Quesrta contesta la legittimità della decompilaizone.

La lite  è portata in sede europea sulla base della dir. 91/250 del 14.05.1991.

Sono state depositate il 10.03.2021 le conclusioni del bravo A.G. Szpunar in causa Top System SA c. Stato Belga .

Questioni sollevate dal giudice belga:

«1)      Se l’articolo 5, paragrafo 1, della [direttiva 91/250] debba essere interpretato nel senso di consentire al legittimo acquirente di un programma per elaboratore di decompilarlo, in tutto o in parte, qualora tale decompilazione sia necessaria per consentirgli di correggere errori che incidono sul funzionamento di detto programma, anche quando la correzione consista nel disattivare una funzione che incide sul corretto funzionamento dell’applicazione di cui fa parte il programma stesso.

2)      In caso di risposta affermativa, se egli debba soddisfare anche i requisiti di cui all’articolo 6 della [direttiva 91/250] o altri requisiti».

Sulla prima, così conclude l’AG: <<Propongo dunque di rispondere alla prima questione pregiudiziale dichiarando che l’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 91/250 dev’essere interpretato nel senso che consente al legittimo acquirente di un programma per elaboratore di procedere alla decompilazione di tale programma qualora sia necessaria per correggere errori che incidono sul suo funzionamento.>>, § 64.

Sulla seconda, così conclude: <<Propongo dunque di rispondere alla seconda questione pregiudiziale dichiarando che l’articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 91/250 dev’essere interpretato nel senso che la decompilazione di un programma per elaboratore, in forza di tale disposizione, da parte del legittimo acquirente, per correggerne gli errori, non è subordinata ai requisiti di cui all’articolo 6 di tale direttiva. Una siffatta decompilazione può invece essere effettuata soltanto nella misura necessaria per tale correzione ed entro i limiti degli obblighi contrattuali dell’acquirente>>, § 89.

Esame analitico ed equilbirato: sono sempre interessanti le opinioni dell’AG Szpunar.

Mediaset c. Vivendi: le sentenze milanesi di aprile 2021 (ma ora pace è fatta, parrebbe)

Accenno prima alla ponderosa sentenza Trib. Milano 3227/2021 del 19.04.2021, RG 47205 (e 47575) /2016, Mediaset e RTI c. Vivendi.

Dopo all”altra di pari data, di minori dimensioni, la  n. 3228/2021, RG 30071/2017.

In entrambi i casi,  relatore Daniela Marconi

PRIMA SENTENZA

Prendiamo la prima, di cui riporterò solo pochi passaggi.

Causa petendi azionata da M. è stato l’indempimento di V. al preliminare di permuta di partecipazioni.

Sulla causa: <<La causa, come elemento costitutivo del contratto inteso nella sua accezione più evoluta di funzione individuale della singola e specifica convenzione risultante dalla sintesi degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare a prescindere dal modello astratto del tipo di negozio impiegato dai contraenti ( c.d. causa concreta), va scrutinata in relazione all’assetto impresso dalle parti agli interessi coinvolti nel regolamento negoziale al momento della stipulazione dell’accordo.
La mancanza di causa è, quindi, vizio attinente alla fase genetica del contratto che deve emergere dal contenuto dell’accordo attraverso l’esame del regolamento degli interessi che vi è cristallizzato, insensibile alla sopravvenuta inattuazione del programma negoziale, che attiene invece alla fase successiva dell’esecuzione del contratto, così come all’erronea valutazione della convenienza economica dell’affare in relazione al difetto di qualità supposte dell’oggetto della prestazione che attiene, invece, alla possibile esistenza di vizi del consenso o di vizi redibitori>>

Nel caso specifico: <<Nonostante la notevole complessità del regolamento contrattuale, infatti, la causa emerge evidente dal contenuto del testo dell’accordo con cui le parti hanno adottato lo schema causale astratto tipico del contratto preliminare di permuta di azioni, introducendo nella struttura causale commutativa dello scambio l’alea dell’oscillazione del valore delle azioni tra la stipulazione dell’accordo preliminare e la conclusione del contratto definitivo, con lo scopo pratico di “costituire una partnership strategica nel settore dei contenuti audiovisivi, mirante a realizzare idonee sinergie industriali per sfruttare qualsiasi opportunità di sviluppo nello scenario industriale dei nuovi media internazionali..”.
Si trae, infatti, proprio dal testo delle premesse dell’accordo che “Come una delle fasi per la realizzazione della partnership strategica… le Parti si sono impegnate ad effettuare un’operazione globale mediante la quale Vivendi acquisirà il 100% del capitale di Target e il 3,5% del capitale di Mediaset in cambio di azioni di Vivendi rappresentanti il 3,5% del capitale di Vivendi, secondo termini e condizioni del presente Accordo.” (v. doc. 1 di parte attrice a pag. 4).>>, p. 31-32.

Sulla finzione di avveramento della condizione ex art. 1359 (V. avrebbe bloccato il procedimento per ottenere le autorizzazioni europee: fatto a p. 9).: <<Nella situazione descritta l’inapplicabilità del meccanismo della fictio iuris previsto dall’art. 1359 c.c. – secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento – deriva: (i) dal carattere bilaterale della condizione, chiaramente apposta dai contraenti nell’interesse di entrambe le parti alla costituzione dell’alleanza strategica che costituisce la causa del contratto; (ii) dalla natura dell’evento dedotto in condizione, costituito dal rilascio di autorizzazioni amministrative, indispensabili a realizzare la finalità economica del contratto, che non possono essere sostituite dalla semplice finzione legale della loro effettiva emanazione.
Afferma, al riguardo, la giurisprudenza di legittimità che la previsione dell’art. 1359 c.c. “non è applicabile alla “condicio iuris” sospensiva non potendosi sostituire con una semplice finzione legale la effettiva emanazione dell’atto amministrativo di autorizzazione, richiesto dalla legge come requisito legale dell’efficacia del negozio e come tale, peraltro, eventualmente considerato dalle stesse parti private.” ( v. Cass. 22.3.2001 n. 4110 in motivazione; Cass. 2.6.1992 n. 6676; Cass. 5.2.1982 n. 675).
E’ evidente, infatti, che il mancato avveramento della condizione del rilascio dell’autorizzazione da parte dell’autorità preposta alla verifica della compatibilità della concentrazione con il mercato comune, prevista dall’art. 7 comma 1 del Regolamento 139/2004 CE, determina l’impossibilità dello scambio azionario che si risolva in concentrazione di dimensione comunitaria, e non può essere surrogata dalla finzione di avveramento.
In conclusione, alla stregua delle considerazioni appena svolte, deve essere accertata l’inefficacia dell’accordo dell’8 aprile 2016 soggetto a condizione sospensiva non avveratasi nel termine pattuito, con conseguente assorbimento di tutte le domande proposte in via subordinata dalla società convenuta>, p. 41.

Sul dolo omissivo dennciato da V.: <<In ogni caso, non può dirsi ricorrente, nella fattispecie descritta, neanche il dolo omissivo rilevante come vizio del consenso ai fini dell’applicazione del rimedio previsto dall’art. 1439 c.c. che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità,
a) non è integrato dal mero silenzio o dalla reticenza anche su situazioni di interesse per l’altro contraente che non abbiano immutato la rappresentazione della realtà ma abbiano avuto il limitato effetto di non contrastare la percezione di essa alla quale dovesse essere pervenuto l’altro contraente, atteso che, per assumere rilevanza, il silenzio o la reticenza devono inserirsi in un comportamento complessivamente preordinato con astuzia a perpetrare l’inganno;
b) e deve, comunque, essere valutato in relazione alle particolari circostanze di fatto ed alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilire se il silenzio e la reticenza erano idonei a sorprendere una persona di normale diligenza, giacché l’affidamento non può ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza (v. fra le molte Cass. 8.5.2018 n. 11009; Cass. 20.1.2017 n. 1585; Cass. 15.3.2005 n. 5549; Cass. 12.2.2003 n. 2104).>>, p. 35

Sul fatto che non era maturato il diritto di recedere dopo scoperta la situazione economcia di M.: <<In sintesi, quindi, l’aleatorietà del contratto e la tassatività delle ipotesi di risoluzione e recesso contemplate nell’accordo, in particolare con riferimento agli indicatori fondamenti di funzionamento delle imprese del comparto, inducono a ritenere che la rivelazione all’esito della due diligence dei dati taciuti da Mediaset nel corso delle trattative non possa rilevare quale ragione giustificatrice del rifiuto di dar corso all’operazione programmata, tanto più che nessuna garanzia era stata direttamente accordata a Vivendi sulla realizzabilità del business plan.
Le clausole liberamente accettate da Vivendi e interpretate nel loro complesso evidenziano essenzialmente l’intento comune delle parti di costituire l’alleanza strategica per l’espansione nello spazio europeo e internazionale anche a prescindere dall’effettivo valore di Mediaset Premium che sarebbe servita a Vivendi semplicemente quale “veicolo” per l’ingresso nel mercato italiano della televisione a pagamento.>>, p. 51

Sul danno all’immagine allegato da M.: <<Con riguardo al danno all’immagine della società e, in generale, degli enti la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che il pregiudizio non possa essere rinvenuto in re ipsa nella diffusione di notizie denigratorie non vere lesive del diritto all’immagine dell’ente ma richieda l’allegazione puntuale e la prova che abbia effettivamente pregiudicato la reputazione commerciale dell’impresa presso i consociati con cui interagisce nel settore di mercato ove opera, non potendo nel sistema della responsabilità civile ascriversi al risarcimento del danno una mera funzione punitiva della violazione dell’interesse tutelato.
Afferma, infatti, la suprema corte che “ In materia di responsabilità civile, anche nei confronti delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, da identificare con qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione – compatibile con l’assenza di fisicità del titolare – di diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine, il cui pregiudizio, non costituendo un mero danno-evento, e cioè “in re ipsa”, deve essere oggetto di allegazione e di prova, anche tramite presunzioni semplici” (Cass. 13.10.2016 n. 20643; Cass. 1.10.2013 n. 22396; Cass. 25.7.2013 n. 18082; Cass. 18.9.2009 n. 20120).
La società che lamenti un pregiudizio dalla lesione del suo diritto all’immagine per la diffusione di notizie denigratorie deve, pertanto, allegare e dimostrare elementi di fatto specifici che consentano di presumere il pregiudizio alla sua reputazione commerciale presso i fruitori dei suoi prodotti e servizi nel mercato in cui opera, fermo restando, come già rilevato, che l’illecito diffamatorio richiede, in ogni caso, la prova della diffusione di notizie non corrispondenti al vero.

Nel caso in esame, a prescindere dal fatto che, come già detto, non vi è prova della diffusione da parte di Vivendi di notizie non veritiere sulla vicenda, Mediaset non ha neanche dedotto di aver subito per effetto dell’offuscamento della sua immagine un pregiudizio alla sua reputazione presso i committenti di pubblicità o gli utenti dei servizi che offre nell’esercizio della sua attività di impresa nel settore della diffusione di contenuti su canali televisivi in chiaro. Si è limitata, infatti, genericamente a sostenere, tramite il suo consulente di parte, che la violazione del suo diritto all’immagine avrebbe compromesso la sua “capacità di realizzare a favorevoli condizioni le operazioni straordinarie finalizzate alla gestione strategica della complessa fase di ristrutturazione” senza neanche indicare quali specifiche operazioni straordinarie programmate in quel periodo le sarebbero state in concreto precluse dal discredito.
L’andamento al ribasso del prezzo di borsa del titolo per il c.d. effetto annuncio costituisce, poi, un riflesso sul mercato finanziario della notizia della rottura dell’accordo che non necessariamente sottintende la lesione della reputazione dell’impresa sul mercato economico in cui opera e che non crea di per sé danno al patrimonio della società quotata emittente, strutturalmente esposta alla fluttuazione del valore di borsa delle sue azioni, limitandosi a costituire indice del momentaneo volgere del rischio dell’investimento a sfavore della platea dei suoi azionisti.
L’ipotesi accademica del pregiudizio derivante dalla penalizzazione della capacità della società quotata di realizzare a condizioni favorevoli le operazioni straordinarie di ristrutturazione, per costituire danno risarcibile, avrebbe dovuto essere supportata dalla prova in giudizio della perdita effettiva, a seguito del ribasso del titolo, della possibilità di concludere specifiche operazioni già programmate alle condizioni attese.
Anche questa domanda risarcitoria è, pertanto, priva di fondamento.>> p. 72-73

Sul danno lamentato dalla controllatne di M. e cioè dall’intervenuta Fininvest: <<La questione si risolve, a questo punto, nel verificare l’esistenza di un diritto soggettivo o di un’aspettativa giuridicamente tutelata della socia controllante all’adempimento del contratto concluso dalla società controllata con un terzo che possano essere lesi dal comportamento inadempiente di quest’ultimo, dando luogo ad un danno ingiusto risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Per escludere l’esistenza di una qualsiasi posizione giuridica soggettiva del socio che tuteli il suo interesse economico all’adempimento dei contratti conclusi dalla società con i terzi nell’esercizio dell’attività di impresa è sufficiente evidenziare che, in forza del contratto sociale e del rapporto che ne deriva, il socio è tenuto a sopportare, nella misura corrispondente all’entità della partecipazione sociale di cui è titolare, il rischio dell’attività economica comune entro cui è ricompreso anche lo specifico rischio dell’inadempimento dei soggetti con cui la società partecipata ha stretto vincoli negoziali.
Il danno derivato dall’inadempimento del contratto fra la società ed un terzo, giuridicamente riferibile solo alla società lambisce il socio di riflesso, colpendolo nel suo interesse meramente economico al successo delle iniziative intraprese nell’esercizio dell’attività comune di impresa, la cui lesione non può configurare il danno ingiusto, elemento costitutivo dell’illecito aquiliano secondo la previsione dell’art. 2043 c.c.
Diversamente si finirebbe per affiancare ad ogni ipotesi di inadempimento dei contratti stipulati dalla società con i terzi,>>, p. 79

Sul danno da oscillazione borsistica: <<A prescindere dalle aspre critiche mosse alla prospettazione sotto il profilo tecnico dai consulenti della società convenuta (v. doc. 242 di parte convenuta), tutta la ricostruzione teorica sottesa alla prospettazione del danno fornita da Fininvest nel corso del giudizio poggia su un evidente equivoco di fondo: assume, cioè, per scontato il fatto che dall’andamento al ribasso del prezzo del titolo quotato in borsa derivi necessariamente ed immediatamente una corrispondente perdita di valore economico della partecipazione del socio della società emittente e, quindi, un danno risarcibile.
Che l’assioma sia fuorviante è evidente anche solo notando che nessuno considera perduto o pregiudicato l’investimento dell’azionista per il momentaneo ribasso del prezzo di borsa dei titoli sino a che rimangono nel suo portafoglio in attesa del momento di rialzo propizio per la vendita.
Nella stima del valore della partecipazione sociale in una società quotata si accentua, indubbiamente, la sua natura di investimento del socio, soggetto oltre che al comune rischio derivante dall’ esercizio dell’attività di impresa anche all’oscillazione del prezzo del titolo in borsa dovuto ai fattori più svariati, non necessariamente connessi alla situazione patrimoniale economico e finanziaria della società emittente, che lo espone ad un rischio di perdita dell’investimento inversamente proporzionale alla curva di ribasso del titolo.

L’oscillazione del valore di borsa del titolo è, però, una componente fisiologica del rischio gravante sul socio di una società quotata che, anche se dovuto ad un evento anomalo, non determina di per sé alcun danno effettivo all’azionista ma resta a livello di indicatore della misura del rischio che l’investimento sta correndo in un determinato momento, per tradursi in perdita economica effettiva solo quando la partecipazione dovesse essere dismessa a prezzo inferiore rispetto a quello a cui è stata acquistata.
L’andamento al ribasso del prezzo di borsa del titolo rappresenta, quindi, per l’azionista un pregiudizio meramente potenziale che può tradursi in una perdita economica effettiva e attuale solo con la dismissione della partecipazione.
L’esistenza di un danno risarcibile per l’azionista richiede, quindi, che l’illecito prospettato abbia determinato l’assestarsi durevole e senza prospettive di risalita della tendenza al ribasso del titolo che lo abbia costretto alla dismissione della partecipazione a prezzo deteriore.
La situazione non muta per il socio titolare di una partecipazione rilevante, cioè di consistenza quantitativa tale da consentigli di esercitare un’influenza dominante o il controllo sulla società emittente.
In questo caso alla variazione del rischio di perdita dell’investimento comune alla platea degli azionisti può aggiungersi, a seconda della quantità e composizione del flottante, l’aumento del rischio della perdita del controllo della società emittente, rendendo possibili a costo contenuto acquisizioni c.d. ostili, cioè non concordate, finalizzate alla sostituzione del governo dell’impresa.
Anche questo è un rischio tipico del socio titolare di una partecipazione rilevante in una società quotata, connesso alla struttura stessa della sua compagine sociale, indistintamente aperta a chiunque intenda investire nell’impresa comune, che non gli consente di nutrire alcuna aspettativa alla conservazione dell’assetto proprietario che gli assicura il governo dell’impresa, meno che mai in un mercato che attraverso la disciplina della trasparenza degli assetti proprietari e dell’OPA tende ad incentivare la “contendibilità” del governo delle società quotate per assicurare una gestione quanto più efficiente possibile dell’impresa comune, finanziata attingendo alle risorse di azionisti di minoranza tendenzialmente inerti.
In ogni caso, anche questo rischio specifico del socio titolare di una partecipazione rilevante rappresenta un pregiudizio solo a livello potenziale che non può dirsi venuto ad effettiva esistenza ove, nel periodo di ribasso del titolo, il pacchetto azionario di controllo o la partecipazione rilevante siano rimasti saldamente nelle mani del socio di maggioranza.>>, p. 81-82.

A questo punto è chiaro, conclude il Tribunale, <<che il danno lamentato da Fininvest per la perdita di valore della sua partecipazione in Mediaset a seguito del momentaneo crollo di borsa del titolo derivato dal fallimento dell’operazione di creazione dell’alleanza strategica non sussiste in mancanza dell’avvenuta dismissione della partecipazione sociale a condizioni deteriori o dell’effettiva perdita del controllo della società emittente in ragione del ribasso del titolo, mai prospettate dalla società attrice nel corso del giudizio e, notoriamente, mai avvenute.
Del resto la società attrice si è ben guardata dall’allegare di aver proceduto alla svalutazione in bilancio della sua partecipazione in Mediaset in misura corrispondente all’ingente perdita di valore lamentata nel presente giudizio.
Anche in questo caso il consulente di parte della società attrice ha fornito una configurazione accademica delle potenzialità di danno a cui il valore della partecipazione di Fininvest in Mediaset sarebbe stata esposta nel periodo successivo al naufragio dell’operazione programmata, in alcun modo utile alla prova dell’esistenza effettiva del pregiudizio economico lamentato>>.,p. 82-83

SECONDA SENTENZA

La seconda sentenza decide le domande relative alla scalata di Mediaset asseritamente contrastante sia coi patti preliminari sia col divieto ex art. 43 TUSMAR: <<Le tre società attrici Fininvest, Mediaset e RTI per sostenere l’illiceità della scalata ostile a Mediaset tentata da Vivendi nel mese di dicembre 2016 acquistandone le azioni quotate in borsa sino a detenere una partecipazione di “ blocco” pari al 28,8 % del capitale sociale, hanno lamentato, innanzitutto, la violazione da parte della società convenuta dell’accordo preliminare di scambio azionario dell’ 8 aprile 2016, stipulato con Mediaset e RTI, per la creazione di un’alleanza strategica nel settore dei media a livello internazionale e del patto parasociale accessorio che avrebbe dovuto sottoscrivere con Fininvest al momento del trasferimento reciproco delle azioni.
Con il tentativo di scalata Vivendi avrebbe violato, in particolare, la previsione implicita nel regolamento contrattuale e sottesa allo scopo della realizzazione di un’alleanza strategica paritetica, dell’obbligo di mantenere invariata “ la situazione di partenza” dell’azionariato di Mediaset implicante la preclusione a Vivendi dell’ingresso nella compagine sociale prima dell’esecuzione dello scambio azionario programmato, quando, con la sottoscrizione del patto parasociale sarebbero divenuti vincolanti i limiti quantitativi degli ulteriori acquisti di azioni Mediaset pattuiti per evitare l’OPA obbligatoria.
In particolare, nello scopo della complessa operazione negoziale mirante alla creazione tra i due gruppi imprenditoriali di un’alleanza paritetica e nel contenuto complessivo del regolamento contrattuale doveva ritenersi implicita, secondo l’interpretazione ed esecuzione di buona fede del contratto, la previsione di una vera e propria clausola di standstill che vietava a Vivendi di acquistare azioni Mediaset prima del closing.>>, p. 19.

La domanda è respinta: <<In sintesi il fatto storico che, secondo la prospettazione delle società attrici avrebbe configurato l’inadempimento ad un’obbligazione di standstill implicita nel regolamento del contratto sospensivamente condizionato e nel dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione, si è verificato quando il mancato avveramento della condizione era divenuto definitivo a seguito della scadenza del termine pattuito ed ogni effetto del vincolo negoziale condizionato era cessato per espressa previsione contrattuale, e, dunque, quando non era più neanche ipotizzabile la persistenza di un simile impegno.>>, p. 24.

Circa la violazione dell’art. 43 TUSMAR, dopo la nota sentenza della Corte di Giustizia 03.09.2020, C-719/18, la soluzione giudiziale era scontata, dovendosi disapplicare la norma invocata da Mediaset, p. 27/8.

Interessanti, per concludere, sono le considerazioni sulla concorrenza sleale ex art. n. 3 dell’art. 2598 cc.

Per il giucice non c’è rapporto di concorrenza (alla luce di una valorizzazione dell’inziaitiva economica privata ex 41 Cost.).

Precisamente: <<Così delineati i contorni essenziali dell’illecito civile di concorrenza sleale è escluso che la norma possa essere invocata con riferimento a relazioni di concorrenza, in senso lato, riferite alla competizione fra gruppi imprenditoriali per la realizzazione di un medesimo progetto industriale o alla gara per l’acquisizione sul mercato di uno stesso bene, avulse dalla contesa della clientela che ne costituisce l’essenza.
Né la norma, chiaramente riferita al mercato dei prodotti, può essere traslata ad operare sul mercato dei capitali, riconducibile al mercato dei fattori produttivi, o la slealtà derivante dalla clausola generale della violazione dei “ principi di correttezza professionale” invocata per tacciare di illiceità una qualsiasi competizione fra imprenditori che, in mancanza di specifiche violazioni di norme a tutela del dinamismo del mercato, corrisponde all’esercizio di una libertà costituzionalmente garantita>>, p. 31.

<<A prescindere dall’estrema genericità nella delimitazione del perimetro anche geografico del mercato comune individuato da Fininvest nella formulazione del suo addebito verso Vivendi, prioritaria e dirimente è la questione della configurabilità del mercato del controllo societario come possibile scenario della concorrenza sleale delineata dall’art. 2598 comma 1 n. 3 c.c.>, p. 32.

E la risposta è negativa: <<L’avvicendamento nella posizione di controllo è, infatti, lecito a prescindere dal consenso del soggetto che la detiene e dalla strategia impiegata per l’acquisizione, purché l’operazione sia compiuta nell’osservanza del complesso apparato di norme che, nel preminente interesse generale degli azionisti investitori, regola l’acquisizione di partecipazioni rilevanti in modo tale da assicurarne la trasparenza, funzionale a consentire loro di operare consapevolmente le proprie scelte, eventualmente anche di disinvestimento, in occasione del mutamento del governo dell’impresa.
Non solo la scalata ostile non è illecita nell’ambito della disciplina speciale sottesa al richiamo da parte della società attrice al “ mercato del controllo societario” ma la tutela giuridica dell’interesse a conservare il controllo dell’emittente da parte del socio di maggioranza non è affatto assicurata, e sarebbe, peraltro, in contrasto con la struttura stessa della società quotata che è, per definizione, aperta all’ingresso indiscriminato nella sua compagine sociale di chiunque acquisti le azioni sul mercato dei capitali e all’avvicendarsi nel suo governo di chiunque abbia la forza economica di conquistare la posizione di controllo nell’osservanza delle norme che regolano il mercato.
Nel contesto dei principi ispiratori della disciplina speciale del trasferimento del controllo societario, in estrema sintesi richiamati, appare chiaro che nessuno spazio applicativo potrebbe trovare l’art. 2598 c.c. essendo la “contesa” del pacchetto di controllo di una società quotata sul mercato dei capitali completamente estranea alla fattispecie della concorrenza sleale fondata sulla contesa della clientela nel mercato dei beni e servizi.
Nè la norma che tutela l’interesse privato dell’imprenditore alla correttezza della contesa della clientela all’interno del mercato economico di beni e servizi, può essere invocata a disciplinare la competizione tra due imprenditori che si contendono la partecipazione di controllo della stessa società quotata sul mercato dei capitali, soggetto alla disciplina pubblicistica specifica che lo regola.>>, p. 34.

<<Nel presente giudizio risulta, invece, acquisito un elemento che stride irrimediabilmente con la ricostruzione della vicenda offerta dalla società attrice a supporto della tesi dell’illecito civile da concorrenza sleale: il fatto che le azioni Mediaset sono state acquistate da Vivendi sul mercato, nel mese di dicembre 2016, ad un prezzo medio superiore alla quotazione del giorno antecedente l’accordo dell’8 aprile 2016, come risulta dalla documentazione non contestata prodotta dalla società convenuta (doc. da 155 a 162 di parte convenuta) e dalla nota tecnica della Consob del 20 dicembre 2016 anteriore all’ultima trance di acquisti, ove si legge “ la maggior parte ( il 17% circa del capitale sociale dell’emittente) delle azioni costituenti la partecipazione acquisita da Vivendi è stata acquistata a valori prossimi ai prezzi massimi di periodo; pertanto appare scarsamente verosimile un’ipotesi di manipolazione da parte di Vivendi con l’obiettivo di determinare un ribasso del prezzo del titolo strumentale ad acquisire una partecipazione rilevante in Mediaset a condizioni favorevoli.” (v. doc. All. G.5 di parte convenuta allegato alla nota depositata il 9.2.2021)>>, p. 35

Nemmeno esiste un mercato europeo delle pay tv, a causa delle barriere linguistiche: <<Al di là della confusione generata, anche sotto questo profilo, dalla stratificazione delle difese di Mediaset è palese l’insussistenza dell’elemento costitutivo dell’illecito di concorrenza sleale attesa la mancata delineazione del mercato merceologico e geografico ove le due società sarebbero in condizioni di contendersi la clientela e l’estraneità alla fattispecie invocata della competizione fra imprenditori avente ad oggetto la realizzazione di uno stesso progetto industriale.
Sotto il primo aspetto l’esistenza del mercato europeo della pay tv ove, secondo Mediaset, si sarebbe consumato l’illecito di concorrenza sleale addebitato a Vivendi presuppone la configurabilità di un’utenza europea del servizio televisivo che le barriere, soprattutto linguistiche, impediscono ancora di concepire così che deve escludersi sotto questo profilo la possibilità che si attui fra imprenditori del settore la contesa della clientela che esprima una vera e propria “nazionalità” europea.
Ed è appena il caso di rilevare che non opera su un mercato di dimensioni europee nel senso descritto, l’imprenditore del settore che sia semplicemente attivo, con le sue emittenti, all’interno di una pluralità di singole nazioni degli Stati membri dell’UE, potendo, in tal caso, la contesa dell’utenza essere concepita solo all’interno del mercato di ogni singola nazione.
Tanto è vero che la difesa di Mediaset, nella prospettazione originaria, aveva accennato all’esistenza di un rapporto di concorrenza con Vivendi, a livello quantomeno potenziale, all’interno del mercato italiano della pay tv, in ragione dell’intento preannunciato dalla società convenuta di realizzare, tramite la società controllata Telecom, un progetto di ingresso nel settore anche mediante la partecipazione alle aste per l’acquisto del diritto di trasmissione di contenuti sportivi.>>, p. 37.

<<In particolare, l’ostacolo alla realizzazione del progetto industriale di costituzione di “ un gruppo pan-europeo nel settore dei media” perseguito da Mediaset che Vivendi avrebbe frapposto attraverso l’occupazione “ abusiva” nella compagine sociale di Mediaset della “ casella” del partner strategico non è materia riconducibile all’illecito di concorrenza sleale per due ordini di ragioni:
– la competizione fra imprenditori in relazione alla realizzazione dei rispettivi progetti industriali non implica necessariamente la contesa della clientela sul mercato dei beni e servizi, tanto più se il progetto prevede la “creazione” di un nuovo mercato di sbocco dell’offerta dei propri servizi;
– l’occupazione “ abusiva” della “ casella” del partner nella compagine sociale di una società quotata in borsa, strutturalmente aperta all’ingresso nell’azionariato di chiunque acquisti il titolo sul mercato dei capitali a cui si rivolge per il finanziamento dell’attività di impresa e, dunque, naturalmente esposta all’eventualità della presenza di soci “sgraditi” finanche “ ostili” o addirittura concorrenti, è un’immagine difficilmente traducibile in termini giuridici di illiceità.
Tanto più se si considera che il divieto di concorrenza legalmente stabilito dall’art. 2390 c.c. riguarda gli amministratori e non i soci a cui neanche è precluso, in linea di principio, perseguire politiche economico- commerciali in contrasto o divergenti rispetto a quelle della società partecipata, salvo i limiti, in concreto, derivanti dal conflitto di interessi, come operante ai sensi dell’art. 2373 c.c., o dall’abuso o eccesso di potere nell’esercizio del diritto di voto (v. sulla questione l’ampia ed esaustiva motivazione di Tribunale di Milano 28 novembre 2014 in RG 35766/2014).
L’art. 2598 comma 1 n. 3 c.c. non si presta, in altri termini, a sanzionare con l’eliminazione dalla compagine sociale l’imprenditore concorrente che semplicemente vi abbia fatto ingresso né a reprimere la condotta del socio concorrente che persegua la realizzazione di un proprio progetto industriale in contrasto con l’interesse della società, trattandosi di situazione che trova rimedio, ove ne ricorrano in concreto i presupposti, nella disciplina del conflitto di interessi tra la società ed il socio nell’esercizio delle sue prerogative assembleari.>>, p. 38-39.

Però il 3 maggio 2021 è uscito un comunicato congiunto Fininvest, Mediaset e Vivendi di transazione delle liti.

Sintesi della transazione e degli scenari economici in Preta, lavoce.info.

Marchi rinomati, scissioni aziendali e liti tra familiari

La corte di appello di Venezia nel 2017 aveva giudicato la lite tra esponenti della nota famiglia di ristoratori Cipriani intorno a marchi denominativi contenenti il detto cognome (APP. Venezia 2798/2017 del 30.11.2017, rel. Bazzo).

Non si ripercorrono qui le complesse vicende fattuali.  Solo si riporta il passaggio ove si dice che la fama della persona e quindi l’uso del proprio nome non può andare ad incidere su marchi anteriori: la tutela civile del nome  è altro dalla tutela del suo valore commerciale. Si tratta di tema spesso ricorrente per cui vale la pena di leggere le analitiche considerazione della Corte:

<<Ciò premesso, va rilevato che una volta avvenuta la scissione (vuoi a seguito dell’accordo del 1967, vuoi per effetto di vicende successive) tra la figura di Giuseppe Cipriani senior ed i segni “Cipriani”, ed “Hotel Cipriani” – il primo concesso su domanda risalente già al 1969 per le classi 43 (alberghi, ristoranti caffetteria), 35 (gestione d’alberghi) e 16 (stampati) – la notorietà del suddetto e del figlio Arrigo quali personaggi di rilievo (ed imprenditori di successo grazie alla fama dell’Harry’s Bar) non potrà minimamente giustificare l’uso del patronimico in contrasto con la tutela da assicurare ai citati marchi (italiani e comunitari), divenuti celebri, e che in quanto tali non possono tollerare interferenze ed agganciamenti di sorta, apparendo anzi irrilevante quanto ipotizzato dal tribunale circa la preesistente notorietà delle iniziative economiche nel settore della ristorazione della famiglia Cipriani (asseritamente anteriore ai marchi registrati, in capo ad Hotel Cipriani); basti rimarcare che – come già detto – detta notorietà va semmai ricollegata all’esercizio del locale suindicato (Harry’s Bar), e si rivela a ben vedere ininfluente dopo che Giuseppe Cipriani senior (con l’adesione del figlio) ebbe a disporre del suo nome al momento dell’uscita dalla compagine dell’Hotel Cipriani lasciando che la Società conservasse in esclusiva il nome Cipriani (giusta l’accordo del 1967: si veda al riguardo la recente pronuncia resa in data 29 giugno 2017 dal Tribunale dell’Unione a definizione del ricorso di Arrigo Cipriani sulla richiesta di annullamento del marchio comunitario, depositata all’udienza di conclusioni, laddove la statuizione di accertamento resa dal Tribunale di Venezia in altra controversia tra Arrigo Cipriani e l’odierna appellante – con sentenza n. 1838/2011 – non appare sufficiente a consentire diverse conclusioni).
Si osserva dunque che la diversa interpretazione prospettata dal Tribunale (coerente con la possibilità per gli odierni appellati di svolgere attività di ristorazione sotto un segno distintivo incentrato sul loro nome anagrafico poiché di per sé non decettivo, sempre che proposto in dimensioni grafiche “contenute”), presuppone che sia del tutto conforme alla correttezza professionale l’uso del suddetto nome al fine di veicolare un valore di qualità e tradizione (asseritamente “sinonimo di qualità, eleganza e stile in tutto il mondo”, come puntualizzato nella memoria di costituzione degli appellati, ricollegabile in modo esplicito al segno de quo), ma ciò avverrebbe in concorrenza ed aggancio con i marchi celebri “Cipriani” ed “Hotel Cipriani”, con ogni conseguente rischio di confusione e di associazione tra le attività contraddistinte dai segni in conflitto, in presenza di attività imprenditoriali svolte nello stesso settore o comunque in settori affini.>>

Poi così prosegue la Corte: <<Né risulta decisiva in contrario la sottolineata esigenza di comunicare al pubblico le competenze e professionalità acquisite, consentendo agli appellati di “firmare” in qualche modo le loro attività, dando loro una precisa impronta; i predetti a ben vedere non possono essere annoverati tra gli artisti o i “creatori” di moda, o “stilisti” che si affermino in attività artistiche o professionali che richiedano una puntuale informazione al pubblico della provenienza dell’attività creativa realizzata, appartenendo al mondo della ristorazione (per quanto di fascia alta) e provvedendo in detta veste ad aprire e gestire ristoranti nelle più disparate località, sulla base di personali scelte imprenditoriali, alle quali risultano non pertinenti i profili di “creatività” nel senso sopra indicato.
In definitiva, per quanto ogni valutazione concreta non sia stata resa agevole dalla scarsezza del materiale offerto in causa, gli argomenti addotti nell’impugnata sentenza per consentire l’utilizzo delle espressioni “by Arrigo Cipriani”, “by Giuseppe Cipriani”, “by famiglia Cipriani” e consimili (“managed by” o “directed by”), al fine di indicare la gestione di attività di ristorazione da parte delle persone delle persone individuate nelle stesse (o individuabili con esse), non si rivelano idonei a configurare l’asserita valenza descrittiva, ipotizzata sulla base di astratte (ed opinabili) considerazioni, a fronte di una indubbia valenza distintiva delle medesime, le quali – per loro natura – sono destinate (quali sinonimi di elevata ospitalità, convivialità e buon vivere) non certo a comunicare mere informazioni essenziali relative alla “specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca,,,” del servizio, bensì ad attirare l’attenzione dei potenziali clienti sul nome anagrafico sotto il quale il servizio è proposto e dunque sulla origine e sulla qualità dello stesso, in quanto tale in grado di connotarlo con il richiamo ad un patronimico divenuto famoso, poiché oggetto dei marchi celebri in legittima titolarità dell’appellante (nel settore alberghiero e della ristorazione).
In tal senso deve escludersi che l’utilizzo del patronimico Cipriani corrisponda ai principi di correttezza professionale ovvero alle consuetudini di lealtà in campo commerciale e industriale, tenuto conto dell’inevitabile rischio di aggancio e di confusione con i segni distintivi propri delle affini attività alberghiere e di ristorazione esercitate dalla società appellante mediante iniziative imprenditoriali sostenute da marchi celebri e tra l’altro rivolte alla medesima fascia alta di clientela.>>.

Separazione tra coniugi, costituzione di simil rendita vitalizia e successiva decisione sull’assegno divorzile

Cass. n. 11.012 del 26.04.2021 si occupa dell’incidenza dell’accordo post separazine sul giudizio circa l’assegno divorzile.

Il giudice di legittimità ribadisce che <<la giurisprudenza di questa Corte è costante nel sanzionare con la nullità gli accordi conclusi in sede di separazione in vista del futuro divorzio. In particolare, nella sentenza n. 2224 del 30/01/2017 (vedi anche Cass. 5302 del 10/03/2006) è stato enunciato il principio di diritto secondo cui gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all’art. 160 c.c. Ne consegue che di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludano il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto necessario a soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente tali esigenze, in quanto una preventiva pattuizione potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio.>>p. 4-5

La corte rigetta l’utilzizabilit àòdel precedente Cass. 8109/2000 in cui l’accordo medio tempore inrevenuto (ante divorzio) era una transazione.

Il principio di diritto allora è : <<“In tema di soluzione della crisi coniugale, ove in sede di separazione, i coniugi, nel definire i rapporti patrimoniali già tra di loro pendenti e le conseguenti eventuali ragioni di debito – credito portata da ciascuno, abbiano pattuito anche la corresponsione di un assegno dell’uno e a favore dell’altro da versarsi “vita natural durante”, il giudice del divorzio, chiamato a decidere sull’an dell’assegno divorzile, dovrà preliminarmente provvedere alla qualificazione della natura dell’accordo inter partes, precisando se la rendita costituita (e la sua causa aleatoria sottostante) “in occasione” della crisi familiare sia estranea alla disciplina inderogabile dei rapporti tra coniugi in materia familiare, perché giustificata per altra causa, e se abbia fondamento il diritto all’assegno divorzile (che comporta necessariamente una relativa certezza causale soltanto in ragione della crisi familiare)”.>>

Tutela d’autore e di marchio sulla medesima creazione

Si vedano le seguent immagini:

Il titolare della prima creazione ha agito sia in base a diritto di autore che di diritto di marchio contro il titolare della seconda (anzi la terza, essendo la secodna solo la rappresetnazione geografica dello stato del Michigan)

la Corte distrettuale del Michigan però ha rigettato ogni domanda (6 maggio 2021, Case No. 1:20cv604, High Five Threads c. Michigan Farm Boureau).

Il preteso disegno contraffattore << contain a basic line drawing of two hands. High Five does not possesscopyright protection overasimple outlineof a human hand. There is nothing original in such a drawing; it is the most basic representation of something from nature, familiar to every child who has ever traced herown hand. Does the juxtaposition of two such drawings at a right angle, as in the Hand Map, result in copyrightprotectible expression? If it does, the protectionfor that expression is “thin”at best,comprising no more than...original contribution to ideas already in the public domain.Satava v. Lowry, 323 F.3d 805, 812 (9th Cir. 2003).Two closefingered hands arranged perpendicular to one another as arepresentation of Michigan is simply a generic expression of the “popular idea of using ones’ hands to indicate the shape of Michigan.” (See Pl.’s Resp.24, ECF No. 17.)High Five did not invent this idea (see id.at 25) and copyright does not protectit. At most, copyright protects original contributions to, or expressions of, that idea.

To be sure, High Five’s Hand Map is not devoid of protected expression. For instance, the folded pinkyand overlapping index finger are arguably protected elements. But those elementsarenot presentin MFB’s design; thus,MFB did not copy them>>, p. 7

Segue poi analisi della domanda di violazione di marchio.

Il giudizio di confonbilitòà va dato in base ai seguenti fattori (che sarebbe interssante paragonare a quelli italiani o europei): <<(1) strength of the senior mark; (2) relatedness of the goods or services; (3)similarity of the marks; (4) evidence of actual confusion; (5) marketing channels used; (6) likely degree of purchaser care; (7) the intent of defendant in selecting the mark; and (8) likelihood of expansion of the product lines.>> p. 9

Come detto, viene rigettata anche tale domanda: <<In summary, the complaint contains very few facts from which to reasonablyinfer a likelihood of customer confusion. Indeed, the facts allegedindicate that such confusion is very unlikely.Only the distinctiveness of High Five’s marksweighs in its favor. But that distinctiveness cannot overcome the dissimilaritiesbetween its marksand the designsused by MFB, as well as the dissimilaritiesbetweenthe parties’ goods and services. Thus, High Five falls far short of stating a plausible claim under the Lanham Act>> p. 13.

Altro tema interessante è quello del rapporto tra le due tutele sulla medesima creazione: necessità di  ponderato coordinamento dogmatico o non ci sono attriti?