Riprodurre l’aspetto di un formaggio protetto da D.O.P. può violare quest’ultima?

Si , secondo la Corte di Giustizia (CG), 17.12.2020 , C-490/19,  Syndicat interprofessionnel de défense du fromage Morbier c. Société Fromagère du Livradois SAS, relativo al formaggio <Morbier> prodotto da DOP, il cui aspetto esteriore veniva riprodotto da un concorrente (già legato in passato da rapporti contrattuali-associativi col Syndicat).

Questo il formaggio Morbier:

da www.labasilicadisanformaggio.it

Questa l’analitica descrizione del formaggio nel disciplinare (§ 10) : <<«Il “Morbier” è un formaggio prodotto con latte crudo vaccino, a pasta pressata, non cotta, di forma cilindrica piatta a facce piane e scalzo lievemente convesso, con diametro da 30 a 40 cm, altezza da 5 a 8 cm e peso da 5 a 8 kg.    Esso presenta al centro una striscia nera orizzontale, unita e continua lungo tutto il taglio.          La crosta è naturale, strofinata, di aspetto regolare, ammuffita, segnata dalla trama dello stampo, di un colore che va dal beige all’arancione, con sfumature aranciate tendenti al marrone, al rosso e al rosa. La pasta è omogenea, di un colore che va dall’avorio al giallo pallido e presenta spesso un’occhiatura sparsa del diametro di un ribes o bollicine appiattite. Essa è morbida al tatto, burrosa e tenera, poco collosa al palato, a grana liscia e sottile. Il gusto è schietto, con note lattiche, di caramello, vaniglia e frutta; i sapori sono equilibrati e, con la stagionatura, la gamma aromatica si arricchisce di note tostate, speziate e vegetali. Il contenuto di grassi è di almeno 45 g/100 g dopo completa essiccazione. Il tasso di umidità nel formaggio scremato deve essere compreso tra il 58% e il 67%. La stagionatura del formaggio dura almeno 45 giorni a partire dal giorno di produzione, senza interruzione del ciclo»>>

Nonostante il lemma DENOMINAZIONE DI ORIGINE PROTETTA, la tutela vieta non solo il richiamo del nome, ma qualunque pratica commerciale possa evocare il prodotto protetto.

L’art. 13 del reg.1151/2012 (e prima del reg. 510/2006) ha una portata molto ampia: solo la lettera a) menziona il profilo denominativo; le lettere b-d) invece si riferiscono in sostanza  a qulsiasi altra pratica che generi rischio di confusione.

Inevitabilmente dunque <<non si può escludere che la riproduzione della forma o dell’aspetto di un prodotto oggetto di una denominazione registrata, senza che tale denominazione figuri sul prodotto di cui trattasi o sul suo imballaggio, possa rientrare nell’ambito di applicazione di dette disposizioni. Ciò si verifica quando tale riproduzione può indurre in errore il consumatore sulla vera origine del prodotto di cui trattasi>>, § 38.

Per capire se ciò si verifichi, occorre <<da un lato, fare riferimento alla percezione di un consumatore europeo medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto (…) e, dall’altro, tener conto di tutti i fattori rilevanti nel caso di specie, ivi comprese le modalità di presentazione al pubblico e di commercializzazione dei prodotti di cui trattasi, nonché del contesto fattuale (…)>>, § 39.

In particolare, per quanto riguarda, come nel caso de quo,  un elemento dell’aspetto del prodotto oggetto della denominazione registrata, occorre soprattutto valutare <<se tale elemento costituisca una caratteristica di riferimento e particolarmente distintiva di tale prodotto affinché la sua riproduzione possa, unitamente a tutti i fattori rilevanti nel caso di specie, indurre il consumatore a credere che il prodotto contenente detta riproduzione sia un prodotto oggetto di tale denominazione registrata>>, § 40.

Sulla confondibilità tra marchio denominativo e marchio figurativo-denominativo per prodotti alimentari (il caso Halloumi)

Il marchio denominativo (e collettivo) <HALLOUMI> per prodotti caseari e alimenti impedisce la registrazione del marchio denominativo-figurativo sotto riportato?

Dopo lunga vicenda processuale, il tribunale UE ha detto di no: non c’è confondibilità, dato che si deve valorizzare la debolezza (meglio: nullità) del marchio anteriore (Halloumi è un tipo di formaggio cipriota), § 12, e l’importanza del prefisso <BBQ> (che fa riferimento a barbeque).

Si tratta di Trib. UE 20.01.2021, T-328/17 RENV, Foundation for the Protection of the Traditional Cheese of Cyprus named Halloum c. EUIPO (spt. §§ 56-75)

Tripadvisor è responsabile dei danni patiti durante la vacanza venduta suo tramite? Può fruire del safe harbour ex § 230 CDA?

La corte della Pennsylvania, in via provvisoria, non esclude che Tripadvisor possa essere ritenuto content provider e dunque non fruire del § 230 CDA: Corte distr. Pennsylvania East. dist. 25.01.2021, CIVIL ACTION n° 20-3836, Putt e altri c. Tripadvisor e altri.

L’attrice riferisce di aver subito danni durante un viaggio in autobus in Nuova Zelanda, in occasione di vacanza acquistata tramite Tripadvisor (poi: T.), anzi di una sua partecipata (Viator inc.)). La gita in bus era stata organizzata da Canterbury Leisure Tours (presumibilmente compagnia di trasporti neozelandese).

Cita T. <<for negligence, misrepresentation and negligent infliction of emotional distress>>: dice che i convenuti sono <<responsible for their injuries because Defendants failed to use reasonable care in  their duties to investigate, examine, select, monitor and supervise their tour operators to ensure they operated safely and were qualified aswell as to disclose any information relating to whether they vetted Plaintiffs’ tour operator or the risks associated with Plaintiffs’ tour, thereby “misrepresent[ing] and/or conceal[ing] material facts and perpetuat[ing] the illusion that the bus tour would be operated by qualified, vetted[] and safe operators.”>>, p. 3-4.

T. naturalmente eccepisce anche il safe harbour del § 230 CDA.

L’attrice però dice che T. non è hosting, ma content provider.

La Corte allo stato non rigetta (dismissal) la domanda , perchè non esclude che effettivamente T. possa essere content provider : infatti circa uno stesso item of information, possono esserci più content prpovider, non necessariamente uno solo, p. 8.

Inoltre si esamina se sia valida l’accettazione della clausola di responsabilità apparentemente acettata dall’attrice. Ma la Corte, allo stato, non prende posizione (p. 13; qui anche la distinzione tra clickwrap agreements e browsewrap agreements, p. 12).

Sulla responsabilità dei sindaci di cooperativa s.r.l.

La Cassazione interviene sul tema con sentenza condivisibile (Cass. sez. I – 11/12/2020, n. 28357, rel. Terrusi), anche se priva di spunti di reale interesse

L’addebito consisteva nel non aver curato che la somma, pur incassata dal liquidatore nel conto corr. sociale, andasse poi effettivamente “a buon fine” e cioè restasse a disposizione per l’attività sociale. Infatti il fallimento successivo non aveva più reperita  detta somma (oltre 80 mln euro),  pur transitata (versata) sul conto bancario sociale.

La corte eroga i soliti e condivisibili insegnamenti sulla responsabilità dei sindaci:

  • <<I doveri di controllo imposti ai sindaci sono certamente contraddistinti da una particolare ampiezza, poichè si estendono a tutta l’attività sociale, in funzione della tutela e dell’interesse dei soci e di quello, concorrente, dei creditori sociali>>, sub IV
  • Questo accade, in particolare, <<quando i sindaci non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità (ex aliis Cass. n. 13517-14, Cass. n. 23233-13), poichè in tal caso il mantenimento di un comportamento inerte implica che non si sia vigilato adeguatamente sulla condotta degli amministratori (o dei liquidatori) pur nella esigibilità di un diligente sforzo per verificare la situazione anomala e porvi rimedio, col fine di prevenire eventuali danni (cfr. di recente Cass. n. 18770-19)>>, ivi
  • La condanna richiede la prova <<di tutti gli elementi costitutivi del giudizio di responsabilità. E quindi: (i) dell’inerzia del sindaco rispetto ai propri doveri di controllo; (ii) dell’evento da associare alla conseguenza pregiudizievole derivante dalla condotta dell’amministratore (o, come nella specie, del liquidatore); (iii) del nesso causale, da considerare esistente ove il regolare svolgimento dell’attività di controllo del sindaco avrebbe potuto impedire o limitare il danno>>, sub V.
  • Il nesso di causa , in particolare, <<va provato da chi agisce in responsabilità nello specifico senso che l’omessa vigilanza è causa del danno se, in base a un ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione del controllo lo avrebbe ragionevolmente evitato (o limitato). Il sindaco non risponde, cioè, in modo automatico per ogni fatto dannoso che si sia determinato pendente societate, quasi avesse rispetto a questo una posizione generale di garanzia. Egli risponde ove sia possibile dire che, se si fosse attivato utilmente (come suo dovere) in base ai poteri di vigilanza che l’ordinamento gli conferisce e alla diligenza che l’ordinamento pretende, il danno sarebbe stato evitato>>, ivi

Nel caso , il sindaco , essendosi dimesso l’11 luglio mentre la somma era stata messa in banca a fine maggio e a fine giugno precedenti, non aveva avuto il tempoi di raccogliere camapanelli di allarme sul fatto che dalla banca poi non sia stata concretamente messa a disposizione dell’impresa sociale (ma di terzi sine titulo).

O meglio, non è stata data prova di tali negligenze. Infatti <<il difetto di consequenzialità è infatti evidente, in quanto è pacifico che la T. aveva cessato dalla carica dopo pochi giorni dalla riscossione delle somme (l’11-7-1995) e niente è indicato, in motivazione, onde potersi sostenere che, medio tempore, le somme, regolarmente versate in conto, fossero state distratte, o alternativamente che vi fossero stati pagamenti cui associare ipotetiche anomalie d’impiego suscettibili di essere rilevate dal sindaco ancora in carica.   Tutto questo mina dalle fondamenta il ragionamento della corte del merito, poichè, ai sensi dell’art. 2407, non consente di giustificare – se non in termini assolutamente apodittici – il concorso nell’illecito del liquidatore>>, sub VI.

Si notino i tempi processuali: – fatti del 1995; – notifica della citazione di primo grado del maggio 2003; – sentenza di appello del 2014; – sentenza di Cassazione del dicembre 2020.

Si possono azionare diritto di parola e diritti fondamentali verso Google e Twitter? Non è pregiudizialmente escluso

L’annosa questione, del se il diritto di parola negli USA sia azionabile anche contro le grandi piattaforme (Big Tech), trova una possibile risposta positiva in US D.C. corte distrettuale del New Hampshire 28.01.2021, Civil No. 1:19-cv-978-JL, N. DeLima c. Google-Twitter.

Erano stato azionati (“pro se” : senza difesa tecnica) la violazione sia dei dirtti fondamentali ex 42 US Code § 1983 , sia  del Primo Emendamento: disposizioni, però, che sono riferite a condotte statali o pubbliche (state action), non a condotte di enti privati quali sono le Big Tech.

La corte ha rigettato ma non perchè sia pregiudizialmente escluso, bensì perchè l’attrice non ha sufficientemente argomentato in modo da poter ravvisare state acrtion anche nella condotta delle Big Tech.

Osserva infatti: <<Defendants are private companies and not state actors, and thus cannot be held liable under 42 U.S.C. § 1983, absent factual allegations that could lead to a finding of state action. DeLima’s complaint is devoid of any allegation that could transform either defendant into a state actor for purposes of a § 1983 claim>>, p. 12.

E poco sotto, circa il Primo Emendamento: <<DeLima repeatedly alleges in her complaint that Defendants’ have violated the First Amendment and discriminated against her based on her protected speech and viewpoint. Yet she acknowledges that Defendants are private companies and not government entities, which is fatal to her claim. “[T]he constitutional guarantee of free speech is a guarantee only against abridgment by government, federal or state.” Hudgens v. NLRB, 424 U.S. 507, 513 (1976). “[E]very First Amendment claim thus requires state action in some sense,” and DeLima has failed to allege any state action on the part of Defendants that could give rise to an alleged violation of her free speech rights. … She accordingly has failed to state a claim for violation of the First Amendment and Defendants’ motion to dismiss this claim is granted>>, p. 13.

Non c’è quindi chiusura pregiudiziale. Bisogna però argomentare, nel senso che la condotta delle Big Tech, in relazione alla esigenze soddisfatte dalle disposizioni de quibus, è parificabile alla condotta statale.

Da noi è pacifico che l’art. 2 Cost. riguiardi il rapporto verso qualunque ente, pubblico o privato che sia.

La corte poi rigetta pure per il safe harbour posto dal noto § 230 CDA communication decency act

(notizia della sentenza  e link presi dal blog di Eric Goldman)

L’uso del marchio/nome commerciale altrui nel keyword advertising costituisce “furto di proprietà”?

Edible IP cita Google presso una corte delle Georgia per quattro causae petendi in relazione all’uso del suo nome commerciale (“Edible Arrangements”) all’interno del suo keyword advertising(.

Ques’ultimo è la pubbicità tramite asta di Google sui termini ai fini dell’elenco dei risultati sponsorizzati della ricerca: di quelli “sponsorizzati”, non di quelli “naturali” (che nulla hanno di naturale, essendo frutto di precisi, studiatissimi e continuamente modificati algoritimi).

Ricordo qui solo la prima causa petendi, “theft of property”, secondo il codice della Georgia: <<Any owner of personal property shall be authorized to bring a civil action to recover damages from any person who willfully damages the owner’s personal property or who commits a theft as defined in Article 1 of Chapter 8 of Title 16 involving the owner’s personal property>> ( O.C.G.A. § 51-10-6 ).

Però la corte di appello , 2nd division, 29.01.2021, caso  A20A1594, EDIBLE IP, LLC v. GOOGLE, LLC, rigetta tutte le domande , tra cui quella basata sul cit. furto di porprietà, pp. 4-7.

Infatti l’allegazione di proprieà intellettuale sul termine non permette di ravvisare furto, per quanto possa essere creativa l’allegazione del difensore: <<Creative pleading cannot convert Google’s advertising program into a theft by taking. Edible IP has not alleged that it has a proprietary interest in Google’s search results pages or any right to control the advertising on those pages. It claims only that it ownsthe intellectual property associated with “Edible Arrangements.” The alleged “sale” of that term for advertising placement does not constitute theft.>>, p. 6/7.

La proprietà  intellettuale (PI), diremmo noi, non può essere qualificata come proprietà di cose, di res, nemmeno di energie. Vecchia questione quella del se alla PI possano applicarsi le regole dominicali di origina romane.

A me pare di si , in linea di principio: anche se non indiscriinatamente bensì solo dopo una attenta estensione analogica.

Resta da capire perchè non abbia azionato la tutela specifica per i marchi.

(notizia e link alla sentenza presi dal blog di Eric Goldman)

Può un politico bannare un follower dal proprio account Twitter? Si , se non si tratta di account ufficiale

La canditata Reisch (R.)  alle elezioni del parlamento del Missouri 44° distretto banna un follower (Campbell; poi: C.) per il semplice di aver ritweettato un post critico (caricato da terzi) nei suoi confronti.

C. agisce, facendo valere la violazione del diritto di parola in connessione con il 42 US Code § 1983, che suona così : “Every person who, under color of any statute, ordinance, regulation, custom, or usage, of any State or Territory or the District of Columbia, subjects, or causes to be subjected, any citizen of the United States or other person within the jurisdiction thereof to the deprivation of any rights, privileges, or immunities secured by the Constitution and laws, shall be liable to the party injured in an action at law, suit in equity, or other proper proceeding for redress, except that in any action brought against a judicial officer for an act or omission taken in such officer’s judicial capacity, injunctive relief shall not be granted unless a declaratory decree was violated or declaratory relief was unavailable. For the purposes of this section, any Act of Congress applicable exclusively to the District of Columbia shall be considered to be a statute of the District of Columbia“.

La questione allora è se R. agì “under color of state law”: l’attore dice di si, il convenuto di no. Così la corte: <<so the question this case presents is whether Reisch acted under color of statelaw when she blocked Campbell on Twitter. Campbell maintains that she did becauseshe blocked him for criticizing her fitness for political office even though she hadcreated a virtual forum for the public to discuss “the conduct of her office.” Reischsays she didn’t act under color of state law because she runs this Twitter account ina private capacity, namely, as a campaigner for political office>>, p. 4.

La corte di primo grado aveva ravvisato azione under color of state law.

La corte di appello del Missouri (8° circuito), con sentenza 27.01.2021, Campbell c. C. T. Reisch, n° 19-2994, invece, dice che non si tratta di account pubblico e dunque ben può il titolare bloccare chi vuole.

L’account era stato aperto prima dell’elezione e dunque non era ufficiale. Nè cambia tale qualificazione  il fatto che successivamente la canditata sia stata eletta: <<We don’t intimate that the essential character of a Twitter account is fixedforever. But the mere fact of Reisch’s election did not magically alter the account’scharacter, nor did it evolve into something different. A private account can turn intoa governmental one if it becomes an organ of official business, but that is not whathappened here. The overall theme of Reisch’s tweets—that’s she’s the right person forthe job—largely remained the same after her electoral victory. Her messagesfrequently harkened back to promises she made on the campaign trail, and she toutedher success in fulfilling those promises and in her performance as a legislator, oftenwith the same or similar hashtags as the ones she used while a candidate. So it seemsto us that Reisch used the account in the main to promote herself and position herselffor more electoral success down the road—a conclusion supported by the campaign-related tweet that led to this litigation>>, p. 7.

In breve, la corte pensa che l’account Twitter di R.  <<is more akin to a campaign newsletter than to anything else, and so it’s Reisch’s prerogative to select her audienceand present her page as she sees fit. She did not intend her Twitter page “to be like a public park, where anyone is welcome to enter and say whatever they want”>>.

La pensa all’opposto il giudice Kelly, autore della dissenting opinion: <<In short, Reisch’s persistent invocation of her position as an electedofficial overwhelmed any implicit references one might perceive to her campaign orfuture political ambitions>>.

(notizia e link alla sentenza presi dal  blog di Eric Goldman)

Prime decisioni del Facebook Oversight Board

Il Facebook Oversight Board (FOB) , organo creato da Facebook (F.) per decidere su ricorsi contro decisioni di content moderation di F. e di Instagram, ha emesso il 28 gennaio 2021 le prime sei decisioni.

E’ la prima volta che un Board così strutturato (indipendente, dice F.) e autorevole si pronuncia sulle decisioni sul <take down/keep> di un  social network (prob. è la prima volta in assoluto di un Board di qualunque tipo). Inoltre capita che lo faccia con il più grosso social del mondo.

E’ questione che da anni sta al centro del dibattito mondiale sulla content moderation praticata dalle piattaforme.

Si tratta allora di giorno importante e non solo per chi si occupa della materia.

Alcune delle sei decisioni hanno rovesciato la decisione in prima battuta di F.

Qui il link alle decisioni nel sito di FOB e qui invece il link al Facebook Oversight Board blog (FOBblog) di Lawfare , che, oltre a riprodurre le decisioni stesse (v. <Case Documents>) , le esamina approfonditamente con i migliori specialisti (v. <Lawfare Analysis> ove ad es. il post 28 gennaio 2021 di Evelyn Douek).

Approfondita sentenza d’appello sulla esenzione da responsabilità per gli internet provider (Twitter) ex § 230 CDA

La corte di appello della California approfondisce la interpretazione del § 230 Communication Decency Act, che offre il noto safe harbour agli inernet service providers.

Si tratta della 1st Appellate District-division one, 22.01.2021 n. A158214, Murphy c. Megan.

La sentenza è alquanto analitica e interessante, anche perchè affronta e supera due insidiose prospettazioni attoree, contrarie alla concedibilità del safe harbour a Twitter (poi: T.).

I fatti.   Meghan Murphy (M.), giornalista freelance con 25.000 follower,  aveva postato su T. messaggi intolleranti verso donne transgender. T. prima l’avvisa di rimuoverli e poi la sospende in via definitiva

M.  cita T. e fa valere violazione di contratto, promissory estoppel e violazione della legge sulla concorrenza sleale (unfair and fraudulent business practices).

E’ il § A della Discussion  ad esaminare il § 230(c)(1) CDA, unica questione qui ricordata.

Per la corte sono soddisfatti i tre requisiti previsti e dunque il safe harbour va concesso a T., p .13/4.

Si noti che non si tratta di mancata rimozione di contenuti di terzi asseritamente illeciti , bensì dell’opposto caso di illecita rimozione di contenuti dell’attore in causa.

M. cerca di evitare il § 230 CDA,  dicendo che no ns itratta di contenuti di terzi ma di promesse contrattuale dello stesso T.

La Corte rigetta questo argomento, dicendo che può applicarsi anche alle vioalazioni contrattuali e agli proissory estoppel, trattandosi sempre di materiale altrui (cioè non T..) . Riconosce però che altri giudici si son pronunciati in senso opposto, p. 15-23

Questo è il primo dei due punti particolarmente interessanti.

L’altro (il più importante)  riguarda il rapporto tra il n° 1 e il n° 2 del § 230(c) CDA.

Per M. , la piattaforma potrà tutt’al più invocare il n° 2 (irresponsabilità per rimozione), non il n° 1, p. 23 ss..

Per la corte invece opera il n° 1 , che copre tutte le decisioni interenti la pubblicazione, sia nel senso di di pubblicare che in quello di rimuovere, purchè si tratti di materiali di terzi.

Il n° 2 cit. dà protezione addizionale a condotte che già non siano coperte dal n° 1: ad es. [o soprattutto]  non coperte perchè non si tratta in tutto o in parte di materiali altrui ma invece totalmente/parzialmente riconducibili al service provider. Dice così : <<as the Ninth Circuit explained in Barnes, section 230(c)(1) “shields from liability all publication decisions, whether to edit, to remove, or to post, with respect to content generated entirely by third parties.” (Barnes, supra, 570F.3d at p.1105, italics added.) Section 230(c)(2), on the other hand, applies “not merely to those whom subsection (c)(1) already protects, but any provider of an interactive computer service”regardless of whether the content at issue was created or developed by third parties.(Barnes, at p.1105.) Thus, section 230(c)(2)“provides an additional shieldfrom liability,” encompassing, for example, those interactive computer service providers “who cannot take advantage of subsection (c)(1) ….because they developed, even in part, the content at issue.” (Barnes, at p.1105, italics added.)>>, p. 24.

(notizia e link alla sentenza presi dal law blog di Eric Goldman)

Copiare post di una community da un social ad un altro , per evitare di sottostare a condizioni d’uso non gradite: è lecito sotto il profilo copyright?

Un gestore/moderatore di una pagina , relativa ad una comunità locale, su un social (LiveJournal) non accetta che il social cambi le condizioni d’uso per adeguarle al diritto russo . Per questo si sposta su altro social (Dreamwith).

Un follower, però, gli fa causa, dicendo che tale riproduzione viola il copyright sui suoi post.

La corte distrettuale del Massachusetts nega che vi sia violazione, affermando il ricorrere del fair use (17 US COde § 107): si tratta di US D.C. of Mass., 21.01.2021, Monsarrat c. Newman, civ. act. n. 20-10810-RGS (sub Discussion.a, p. 3 ss). Sopratutto perchè è rispettato il criterio più imporante dei quatro (l’ultimo, quello relativo all’effetto economico-concorrenziale, pp. 7/8.

Sul fair use v. lo studio “quantitativo” della giurisprudenza 1978-2019 in <<An Empirical Study of U.S. Copyright Fair Use Opinions Updated, 1978-2019>>, di Barton Beebe, NEW YORK UNIVERSITY JOURNAL OF INTELLECTUAL PROPERTY & ENTERTAINMENT LAW, vol.10/1, 2020 .

Viene anche proposta una domanda ex diffamazione , a causa della ripubblicazione di vecchi messaggi diffamatori (parrebbe, non è chiarissimo; sub Discussion.b, p. 8 ss.; il republishing è citato a p. 10). Pertanto il moderatore con ciò sarebbe divenuto <publisher>, non più mero <host> di informazioni altrui : in breve, l’informazione sarebbe propria (anche) del moderatore, invece che (solo) di chi a suo tempo la caricò.

Il moderatore covneuto invoca tuttavia il § 230 CDA.

La Corte accoglie l’eccezione, non avcendo l’attore provato un coinvolgimento del moderatore nella produzione della notizia diffamatoria, p. 10-11.

La decisione è interessante: amplia assai il concetto di <internet service provider> , che in tali termini potrà probabilmente essere usato anche nel diritto nazionale ed euroipeo.

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)