La Cassazione civ. torna sull’interest rate swap

Cass. sez. 1 29 luglio 2021 n. 21.830 , rel. Campese torna sulla disciplina del contratto derivato interest rate swap (IRS).

Ai §§ 2.4, 2.4.1 e 2.4.2 le premesse sugli IRS in generale (forma base detta plain vanilla).

Il punto centrale è la qualifica giuridica dell’elemento del c.d. mark to market: <<2.6.1. Nell’odierna vicenda, gli elementi contrattuali desumibili dal ricorso non evidenziano l’esistenza di una clausola upfront, sicché appare ragionevole concludere nel senso che il lamentato valore iniziale negativo dello strumento – il costo dell’operazione – fosse il compenso dell’intermediario per il servizio fornito. Ciò che assume rilievo nel presente giudizio, quindi, non è tanto riscontrare l’esistenza di margini di redditività per la banca previsti con la stipula del contratto in derivati, quanto, piuttosto, verificare se tale retribuzione abbia formato oggetto di accordo negoziale fra le parti che hanno perfezionato il contratto. Se, infatti, lo swap non è un prodotto finanziario che il cliente acquista sostenendo un esborso (come avviene quando si acquista un’azione, un’obbligazione, una quota di un fondo, ecc.), ma, attraverso esso, il cliente e la banca si impegnano ciascuno a pagare all’altro, a scadenze periodiche definite, un importo calcolato applicando dati parametri (diversamente prestabiliti per ciascun contraente) ad un medesimo valore di base (cd. nozionale), con l’effetto che a ciascuna scadenza i due importi si compensano e ne deriverà un differenziale a carico dell’uno, e correlativamente a favore dell’altro, o viceversa, l’esistenza di un margine di redditività del tutto legittimo in favore di una delle parti (e, normalmente, in favore dell’intermediario, quale soggetto che ha costruito e messo a disposizione il derivato) si configura esso stesso quale componente essenziale del contratto, sia in quanto onere sul quale necessariamente deve convergere l’accordo negoziale delle parti, sia in quanto componente che, determinando di fatto uno squilibrio iniziale dello swap (con passaggio dal suo valore teorico al valore di mercato), influisce sulla misura dell’alea che le contrapposte parti si assumono.

2.7. L’IRS, peraltro, può atteggiarsi ad operazione non par non solo in punto di partenza, ma può divenire tale anche con il tempo. In un dato momento, lo squilibrio futuro (sopravvenuto) fra i flussi di cassa, che sia attualizzato al presente, può essere oggetto di nuove prognosi ed indurre le parti a sciogliere il contratto. Per compiere queste operazioni, assume rilievo il cd. mark to market (MTM) o costo di sostituzione (rectius: il suo metodo di stima), ossia il costo al quale una parte può anticipatamente chiudere il contratto o un terzo estraneo all’operazione è disposto, alla data della valutazione, a subentrare nel derivato: così da divenire, in pratica, il valore corrente di mercato dello swap.

2.7.1. Alteris verbis, il mark to market – la cui locuzione significa “marcare il mercato” – esprime un metodo valutativo di un derivato e nasce come strumento di monitoraggio e criterio di calcolo della marginazione. Il metodo de quo consiste in una simulazione giornaliera di chiusura della posizione contrattuale e di stima del conseguente debito/credito delle parti.>>

La menzionata pronuncia delle Sezioni Unite 8770/2020 , trattando la natura aleatoria dei contratti di swap ed i limiti entro i quali l’ordinamento ne ammette la meritevolezza – e quindi la validità – sotto il profilo causale, <<richiama, al riguardo, il principio della necessaria sussistenza di alea “razionale”, intesa come “misurabile”, in quanto funzionale alla finalità di “gestione del rischio” ritenuta sottesa a tali strumenti finanziari: “razionalità” ravvisabile, in concreto, laddove siano esplicitati – e condivisi in accordo con l’investitore – gli elementi che consentono di conoscere la “misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti e oggettivamente condivisi”, tramite l’esplicitazione dei costi impliciti – che determinano uno squilibrio iniziale dell’alea -, del mark to market e, soprattutto, dei cd. “scenari probabilistici” (cfr. p. 6.2 della sentenza predetta)>>, § 2.8.3.

E’ palese, dunque, che le Sezioni Unite abbiano espresso un <<chiaro segnale adesivo all’orientamento di quella parte della dottrina e della giurisprudenza di merito che valorizza l’indicazione del mark to market, ovvero dei suoi criteri di calcolo, la esplicitazione dei costi impliciti e la prospettazione dei cd. “scenari probabilistici”, quali elementi essenziali del contratto derivato, rilevanti ai fini della sua validità. Esse, in particolare, recepiscono la tesi incentrata sulla rilevanza dei contenuti contrattuali sopra detti ai fini della determinazione dell’oggetto negoziale, così avallando l’orientamento che ne valorizza il corrispondente difetto come ragione di nullità del contratto. In altri termini, l’indicazione del mark to market, che individua il valore del contratto ad una certa data, nonché l’esplicitazione dei costi impliciti e dei cd. “scenari probabilistici”, finiscono con il rappresentare il contenuto di un’obbligazione che sorge con la stipula del contratto concorrendo ad integrarne la determinabilità del suo oggetto.

2.8.6. La “scommessa razionale” meritevole di tutela, cui le Sezioni Unite hanno ricondotto la tipologia di derivato quale lo swap, postula, allora, che, in quest’ultimo, l’alea che comunque lo caratterizza debba essere misurabile “secondo criteri scientificamente riconosciuti e oggettivamente condivisi”: ciò impone che siano esplicitati – e condivisi con l’investitore – i costi impliciti, che determinano uno squilibrio iniziale dell’alea, il mark to market e, soprattutto, i cd. “scenari probabilistici”. In altri termini, l’omessa esplicitazione di tali elementi si traduce, sostanzialmente, nella mancata formazione di un consenso in ordine agli stessi, e, dunque, nella inconfigurabilità di una precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l’investitore di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto.>>

Non si tratta, allora, di semplice violazione di obblighi informativi (come tale idonea a determinare solo eventuali responsabilità risarcitorie. Cfr. Cass., SU, n. 26724 del 2007; Cass. n. 8462 del 2014), ma di una <<carenza che – tenuto conto delle descritte peculiarità caratterizzanti la causa e l’oggetto dello strumento in esame, nonché delle innegabili interazioni tra essi configurabili – investe proprio l’essenza (di una parte) dell’accordo, vale a dire del contratto medesimo (quest’ultimo consistendo, appunto, in un “accordo”. Cfr. art. 1321 c.c. e art. 1325 c.c., n. 1), così da cagionarne la nullità (il dovere di informazione, invece, è fuori del contratto ed è oggetto di mera obbligazione di una delle parti, sanzionata, come si è già detto, con la responsabilità per i danni, e non con la nullità).

2.8.8. Il mark to market, peraltro, non costituisce – secondo le Sezioni Unite – un valore storico o di acquisizione attualizzato mediante indici di aggiornamento monetario, bensì il valore corrente di mercato che scaturisce da una simulazione giornaliera di chiusura della posizione contrattuale e di stima dei rapporti di debito e di credito delle parti. Nondimeno, nemmeno la mera deduzione, nelle pattuizioni contrattuali, di un indice numerico di riferimento è suscettibile di consentire il superamento del sindacato di determinabilità; è necessario, altresì, che l’accordo investa “gli scenari probabilistici” ed abbia ad oggetto “la misura qualitativa e quantitativa dell’alea e, dunque, la stessa misura dei costi pur se impliciti” affinché possa realizzarsi la funzione di gestione del rischio finanziario. E, infatti, ciò appare confermato, secondo quanto statuito dalle stesse Sezioni Unite, anche dal disposto normativo del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 5 (cd. T.U.F.), in virtù del quale gli strumenti finanziari derivati non sarebbero equiparati ad una scommessa, intendendo la disposizione “delimitare, con un criterio soggettivo, la causa dello swap, ricollegandola espressamente al settore finanziario”.>>

L’intestazione fiduciaria di azioni per la corte di appello milanese

DA App. Milano 26 maggio 2021, sent. n. 1669/2021-RG 1926/2019, graziano re c. roberto re, rel. Bonaretti, due spunti utili:

1) definizioni di negozio fiducuario – il giudice di primo grado aveva equivocato su interposizione fittizia e reale e la CdA insegna: <<L’operazione fiduciaria consta tipicamente di due negozi: l’uno reale, finalizzato al trasferimento della proprietà, e l’altro obbligatorio, efficace soltanto tra le parti (pactum fiduciae romanistico5 ). Nello schema di tale operazione l’alienante (fiduciante) trasferisce un diritto per uno scopo ulteriore al trasferimento della proprietà, scopo che l’acquirente (fiduciario) si obbliga a rispettare e a realizzare in forza del pactum fiduciae. Da tale patto sorge, dunque, l’obbligo del fiduciario di esercitare il diritto secondo le modalità pattuite  e nell’interesse del fiduciante, nonché di retrocedere il bene allo stesso fiduciante o a un terzo. Pertanto, gli obblighi di amministrare e di retrocedere il bene, assunti dal fiduciario, realizzano una scissione tra la proprietà formale (posta temporaneamente in capo al fiduciario) e la titolarità del bene (gestito per l’appunto nell’interesse del fiduciante e destinato ad essere a lui restituito). Dunque, tale scissione tra proprietà e titolarità, propria del pactum fiduciae, configura una interposizione reale di persona (e non fittizia, come nel caso della simulazione6 ), in quanto l’acquirente diviene a tutti gli effetti proprietario del bene, esercitando a nome proprio un diritto acquistato dall’alienante, nel cui interesse tuttavia gestisce lo stesso bene, con l’obbligo di retrocederlo secondo le modalità pattuite. Orbene, tale è stato il negozio accertato dalla sentenza d’appello n. 117/2011 (come riconosciuto dalla sentenza della Suprema Corte e dalle successive pronunce emesse all’esito dei procedimenti ex art. 98 L. Fall.), che nella “convenzione” del 1983 ha ravvisato l’interposizione reale dell’arch. Roberto Re nell’intestazione della quota de qua, consentendo il trasferimento temporaneo della proprietà della stessa dal sig. Guerino Re al figlio Roberto Re, con il relativo obbligo di restituire la quota quando a ciò richiesto dal padre, unico sostanziale ed esclusivo titolare della quota in ragione dell’accordo negoziale intervenuto con il figlio fiduciario>>

2) quantificazione del danno da violazione del patto: <<Se dunque, come già accennato, il rifiuto del fiduciario di restituire la quota ha integrato una violazione degli obblighi assunti nella “convenzione” del 1983, i possibili rimedi contro tale violazione riconosciuti dall’ordinamento al sig. Guerino Re (e all’odierno  appellante, suo erede) consistevano, almeno, nella possibilità di agire

(i) per la restituzione coattiva della quota ex art. 2932 cod. civ. o

(ii) per il risarcimento del danno, dato dalla diminuzione del valore della quota successivo alla mancata restituzione (che, in tesi, sarebbe stato ovviato dalla tempestiva disponibilità della stessa). 

Come già evidenziato, risulta ex actis che, da un lato, un’azione volta alla restituzione della quota controversa non è mai stata esperita; dall’altro lato, che la Corte non dispone degli elementi sufficienti ad accertare esistenza ed entità del lamentato danno.>>

Quattro causae petendi relative al First Amendment/libertà di parola per contrastare la sospensione dell’account Youtube, ma nessuna accolta

Interessante sentenza californiana sulla solita questione della libertà di parola  (First Amendement)  asseritamente violata da sospensione dell’account su social media (politicamente di destra) da parte di una state action.

Si tratta della corte distrettuale di S. Josè, Californa, 19 ottobre 2021, Case No. 20-cv-07502-BLF, Doe c. Google,.

Sono azionate quattro causae petendi, tutte rigettate visto che nessuna è applicabile alla censura/content moderation di Youtube:

1) Public function: curiosamente l’attore e la corte invocano in senso reciprocamente opposto il  noto precedente Prager Univ. c. Google del 2020.

2) Compulsion: <<Rep. Adam Schiff and Speaker of the House Nancy Pelosi and an October 2020 House Resolution, which “have pressed Big Tech” into censoring political speech with threats of limiting Section 230 of the Communications Decency Act (“CDA”) and other penalties.>>. Alquanto inverosimile (è però la più lungamente argometnata)

3) joint action: <<Joint action is present where the government has “so far insinuated itself into a position of interdependence with [a private entity] that it must be recognized as a joint participant in the challenged activity.” Gorenc v. Salt River Project Agr. Imp. and Power Dist., 869 F.2d 503, 507 (9th Cir. 1989) (quoting Burton v. Wilmington Parking Authority, 365 U.S. 715, 725 (1961)). Further, a private defendant must be a “willful participant in joint action with the state or its agents.” Dennis v. Sparks, 449 U.S. 24, 27 (1980). Joint action requires a “substantial degree of cooperative action” between private and public actors. Collins v. Womancare, 878 F.2d 1145, 1154 (9th Cir. 1989).>.

Per gli attori la  joint action theory starebbe in un  <<Twitter exchange between Rep. Schiff and YouTube CEO Susan Wojnicki in which Ms. Wojnicki states, “We appreciate your partnership and will continue to consult with Members of Congress as we address the evolving issues around #COVID19.” FAC, Ex. E at 1; Opp. at 10-15. Plaintiffs argue that this Twitter exchange shows Defendants and the federal government were in an “admitted partnership.”>>. Allegazione un pò leggerina.

4) Governmental nexus: ricorre quando c’è << “such a close nexus between the State and the challenged action that the seemingly private behavior may be fairly treated as that of the State itself.” Kirtley v. Rainey, 326 F.3d 1088, 1094-95 (9th Cir. 2003). “The purpose of this requirement is to assure that constitutional standards are invoked only when it can be said that the State is responsible for the specific conduct of which plaintiff complains.” Blum, 457 U.S. at 1004-1005>>. (sembra assai simile alla prcedente).

Non avendo accolto alcuna di quesrta, non affronta il safe harbour ex 230 CDA, p. 12. Curioso l’rodine logico : il criterio della ragine più liquidqa avrebbe potuto a rigttare (nel merito) con tale norma.

(sentenza e link dal blog di Eric Goldman)

Twitter & co. non sono nè “place of public accomadation” nè “common carrier”

Joachim Martillo cita Twitter e altre cinque piattaforme di social media (non identificate in sentenza, se non erro)  per avergli disabilitato o sospeso l’account a causa dei suoi post antisemiti.

La corte distrettuale del Massachusetts rigetta la domanda , che era basata su variae causae petendi.

In particolare, in base all’azionato Title II of the Civil Rights Act of 1964, 42 U.S.C. § 2000a (divieto di discriminazione nei places of public accomodation), la corte ritiene che i social non siano tali.

Analogo esito, poi, in  base al divieto di discriminazione ex legge statale del Massachussetts sui common carriers: per la corte  i social non sono tali . Diversi autori, però, propongono proprio tale qualifica, non è sempre chiaro se già de iure condito (tesi interessante anche di scarso successo prospettico  ; cmq. da noi è forse eccezionale il dovere di contrarre del monopolista, che cmq si estenderebbe al dovere di non interrompere arbitrariametne il rapporto post stipula; qui si inserirebbe il divieto di discriminzione) o de iure condendo.

E in tale caso opererebbe comunque il safe harbout ex § 230 CDA: le decisioni di bloccaggio sono discrezionali e non sindacabili (non è chiara però la pertinenza di tale afermazione , se la domanda era basata sulla qualifica di common carrier: bisognerebbe vedere il petitum di causa)

Così l ‘order 15,.10.2021 Case 1:21-cv-11119-RGS  .

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Sull’annoso problema interpretativo dell’estensione della licenza esclusiva: anche verso il licenziante o solo verso eventuali altri licenziatari?

La cattiva tecnica redazionale di contratti di licenza può portare anche a liti quale quella decisa da Trib. Milano 09.03.2021 sent. n° 1993/2021, Rg 69/2018, rel. Macchi, S§R Farmaceutici spa c. Ekuberg Pharma srl.

Questione ampiamente trattata in passato , per cui è strano che ancora si ponga nelle aule giudiziarie.

E’ il caso in cui il licenziante pattuisce l’esclusiva a favore del licenziatario: non si chiarisce però se <esclusiva> sia riferito solo ad eventuali altri licenziatari (in tale caso il licenziante può vendere in concorrenza al licenzitario) o sia riferita a chiunque, erga omnes (in tale caso il licenziante deve astenersene).

Non chiarire (per sciatteria redazionale o magari per silenzio strategico) il punto può costare chiaro e porta a liti quale quella de qua

Il Tribunale è per la prima interpretazioneà: il licenziante può continuare a vendere per conto proprio, non potendosi dedurre dal contratto un’esclusiva pure a carico suo: <<L’esame del testo del contratto deve essere condotta alla luce di un elemento di fatto che appare rivestire cruciale rilevanza. Ekuberg era già presente da tempo con quei tre propri prodotti in alcuni segmenti territoriali del mercato italiano, e in una serie di Paesi esteri. La circostanza era evidentemente ben nota sin da prima della stipulazione (come emerge con chiarezza anche dal
comportamento delle parti successivo alla stipulazione, su cui si tornerà  iffusamente più avanti), e non affatto “scoperta” in corso di rapporto. Osserva il Collegio che non può ragionevolmente ritenersi che Ekuberg intendesse obbligarsi ad autoescludere i propri prodotti dai mercati in cui essi erano affermati, ancor prima che la licenziataria si organizzasse per entrarvi con il proprio marchio, o a prescindere dall’idoneità delle iniziative della licenziataria a ciò finalizzate. Sullo sfondo di tale scenario fattuale, è da ritenersi che la previsione di un’esclusiva rigidamente imposta anche a Ekuberg dovrebbe trovare nel contratto forti indici testuali; il fatto che le parti, invece, non abbiano ritenuto di regolare  espressamente, e con puntualità di disciplina, un obbligo per Ekuberg di cessare l’attività di vendita diretta con propri marchi in favore di una licenziataria che ancora doveva organizzare le sue strategie, depone significativamente per l’insussistenza di un obbligo di esclusiva rivolto verso la stessa Ekuberg nei termini prospettati da parte attrice.
Se, come detto, nessuna specifica clausola contrattuale prevede espressamente un divieto per Ekuberg di vendere i propri prodotti, si deve rilevare che detta conclusione nemmeno può raggiungersi all’esito della ricerca della comune intenzione delle parti, attuata interpretando le clausole le une per mezzo delle altre come previsto dall’art. 1363 c.c.>>.

La motivazione è interessante perchè dettaglia sulle circosatnze fattuali anche post stipula , ragionando sui criteri legali di interpretazione del contratto ex art. 1362 segg. c.c.

Non è chiarissimpo il tipo contrattuale sub iudice , chiamato “contratto di produzione e fornitura in full service e licenza di formulato”: forse licenza di know how? E’ infatti il TITOLARE della c.d. formula produttiva (distribuita dal livenziatario , attore in causa, con proprio marchio) ad essere convenuto per asserita violazione del contratto.

Diffamazione via Facebook verso il datore di lavoro con successivo licenziamento per giusta causa (e grave insubordinazione ex CCNL)

Qualche spunto utile in Cass. sez. lav. n. 27.939 del 13.10.2021, rel.  Patti , circa diffamzione compiuta dal lavoratore su Facebook ai danni del datore, che lo hapoi licenziato per giusta causa ex 2119 cc e art. 48B del CCNL.

1) circa la privatezza o meno del post a seconda che sia in gruppo chiuso o nel proprio profilo pubblico :

<<Premessa l’esigenza di tutela della libertà e segretezza dei messaggi scambiati in una chat privata, in quanto diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, pertanto da considerare come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile (Cass. 10 settembre 2018, n.21965: nella specie, conversazione in chat su Facebook composta unicamente daiscritti ad uno stesso sindacato), nella fattispecie in esame non sussiste una tale esigenza di protezione (e della conseguente illegittimità dell’utilizzazione infunzione probatoria) di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro diffuso su Facebook. Il mezzo utilizzato (pubblicazione dei post sul profilo personale del detto social : così secondo il Tribunale, come riportato alterz’ultimo capoverso di pg. 2 e al terz’ultimo di pg. 5 della sentenza impugnata) è, infatti, idoneo (secondo l’accertamento della Corte territoriale, ancherecependo dal provvedimento del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 13giugno 2013 il supporto tecnico di comprensione dell’articolata modulazione dei messaggi su Facebook e della diversa fruibilità esterna a seconda di essa: all’ultimo capoverso di pg. 12 della sentenza), a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone (Cass. 27 aprile 2018, n.10280, che ha ritenuto tale condotta integrare gli estremi della diffamazione ecostituire giusta causa di recesso, siccome idonea a ledere il vincolo fiduciario nelrapporto lavorativo)>>.

2) Sulla grave insubordinazione ex ccnl:

<<È insegnamento di questa Corte che la nozione di insubordinazione debba essere intesa in senso ampio: sicché, nell’ambito del rapporto di lavorosubordinato, essa non può essere limitata al rifiuto del lavoratore di adempiere alle disposizioni dei superiori (e dunque ancorata, attraverso una lettura letterale,alla violazione dell’art. 2104, secondo comma c.c.), ma implica necessariamente anche qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed ilcorretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazioneaziendale (Cass. 27 marzo 2017, n. 7795; Cass. 11 maggio 2016, n. 9635; Cass. 2 luglio 1987, n. 5804 e la più recente 19 aprile 2018, n. 9736, in riferimento adun rapporto di lavoro pubblico).

9.1. Infatti, ciò che conta, ai fini di una corretta individuazione di una condotta diinsubordinazione, nel contemperamento dell’interesse del datore di lavoro alregolare funzionamento dell’organizzazione produttiva con la pretesa dellavoratore alla corretta esecuzione del rapporto di lavoro, è il collegamento al sinallagma contrattuale: nel senso della rilevanza dei soli comportamenti suscettibili di incidere sull’esecuzione e sul regolare svolgimento dellaprestazione, come inserita nell’organizzazione aziendale, sotto il profilo dell’esattezza dell’adempimento (con riferimento al potere direttivodell’imprenditore), nonché dell’ordine e della disciplina, su cui si basa l’organizzazione complessiva dell’impresa, e dunque con riferimento al poteregerarchico e di disciplina (Cass. 13 settembre 2018, n. 22382). In particolare, lanozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempiere alledisposizioni impartite dai superiori, ma si estende a qualsiasi altrocomportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazioneaziendale (giurisprudenza consolidata fin da Cass. 2 luglio 1987, n. 5804, citata):sicché, la critica rivolta ai superiori con modalità esorbitanti dall’obbligo dicorrettezza formale dei toni e dei contenuti, oltre a contravvenire alle esigenze ditutela della persona umana riconosciute dall’art. 2 Cost., può essere di per sésuscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale, dal momento chel’efficienza di quest’ultima riposa sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigentie quadri intermedi ed essa risente un indubbio pregiudizio allorché il lavoratore,con toni ingiuriosi, attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli (Cass. 11maggio 2016, n. 9635)>>.

Il prezzo del consenso ex art. 125/2 cod. propr. ind. spetta non automaticamente ma solo se c’è prova del danno subito

Cass. sez. 1 n. 24.635 del 13.09.2021, rel. Caiazzo, offre utili precisazioni sul prezzo del consenso ex art. 125 c.2 cpod. propr. ind.

In breve, non spetta automaticamente al soggetto violato ma solo se dà una qualche prova -anche indiziaria, pare- di aver subito un danno.

Secondo il collegio , tale norma <<non costituisce una deroga in senso stretto alla regola ordinaria sul risarcimento dei danni e al relativo onere probatorio, ma rappresenti una semplificazione probatoria che pur presuppone un indizio della sussistenza dei danni arrecati, attuali o potenziali, dalla condotta di contraffazione del marchio. Ne’ va trascurata la ratio dei criteri risarcitori in caso di illeciti concorrenziali i quali sono configurati come un aspetto del ripristino di corrette condizioni di svolgimento della concorrenza in un mercato che ammette l’esistenza di esclusive.

Al riguardo, se è vero che la norma di cui all’art. 125 c.p.c., comma 2, può configurare una fattispecie di danno liquidabile equitativamente, mediante il criterio del “prezzo del giusto consenso”, inteso quale parametro agevolatore dell’onere probatorio gravante sull’attore, è altresì vero che tale liquidazione non possa essere effettuata, come invoca la ricorrente, sulla base di un’astratta presunzione, ovvero attraverso un’automatica applicazione del predetto criterio.>>

Ne segue che determinazione e liquidazione del danno ex art. 125 c.2  presuppone <<l’applicazione degli artt. 1223 c.c. e segg.>> e che <<non può prescindere dalla prova di un adeguato rapporto di causalità tra l’atto illecito e i danni sofferti ed allegati, secondo i criteri ordinari probatori.

Depongono in tal senso, in conformità della suddetta giurisprudenza, sia ragioni sistematiche, afferenti alla coerenza della norma in questione con i principi generali dell’ordinamento civilistico, sia motivi ermeneutici desunti dall’esegesi letterale e logica dell’art. 125, comma 2, c.p.i..

Invero, tale comma dispone che “..”. . Tale norma segue significativamente quella dettata nel comma 1, a tenore del quale “…” . La successione letterale e logica tra le norme dei primi due commi esprime l’intento del legislatore di non sganciare il criterio risarcitorio del “giusto prezzo del consenso” dalla norma generale di cui al comma 1, che richiama, appunto, i principi generali dettati dagli artt. 1223 c.c. e segg..

Pertanto, dal combinato disposto delle due norme in esame può ragionevolmente desumersi che l’introduzione del criterio contemplato dal comma 2, risponda a finalità indubbiamente agevolatorie dell’onere probatorio gravante sull’attore che può equivalere ad un’attenuazione del medesimo onere, ma non può certo tradursi in un’assoluta esenzione dal rispetto dello stesso, in quanto tale interpretazione “atomistica” del comma 2, svuoterebbe di significato la ratio e la stessa lettera del comma 1.>>

La precisazione è utile. Che non vi sia automatismo di prezzo del consenso, una volta accertata la violazione, parrebbe in effetti discendere dalla disposizione. In cosa consista però l’attenuiazione, diversa sia dalla prova piena che dall’esclusione della prova, resta al momento poco chiaro

Corresponsabilità delle puiattaforme digitali per la strage di Orlando (Florida, USA) del 2016? No

Nella strage di Orlando USA del 2016 Omar Mateen uccise 49 persone e ne ferì 53 con un fucile semiautomatico, inneggiando all’ISIS.

Le vittime proposero domanda giudiziale contro Twitter Google e Facebook sia in base Anti-Terrorism Act, 18 U.S.C. §§ 2333(a) & (d)(2) (è respponsabile chi , by facilitating his access to radical jihadist and ISIS-sponsored content in the months and years leading up to the shooting) sia per legge statale, avendo cagionato  negligent infliction of emotional distress and wrongful death.

La cit. legge ATA imposes civil liability on “any person who aids and abets, by knowingly providing substantial assistance, or who conspires with the person who committed . . . an act of international terrorism,” provided that the “act of international terrorism” is “committed, planned, or authorized” by a designated “foreign terrorist organization.

Nega ogni responsabilità in capo alle piattaforme (confermando la sentenza di primo grado della Florida) la corte d’appello dell’11° circuito 27.09.2021, No. 20-11283 , Colon ed altri c. Twitter-Facebook-Google.

La prima domanda è respinta sia perchè non si trattò di terrorismo internazionale (pur se reclamato dal’lISIS), come richiede la cit legge, sia perchè non fu una foreign terroristic organization a commetterlo (ma un c.d. lupo solitario).

Ma soprattutto è rigettata la seconda domanda (negligenza nel causare danni e decdessi) : gli attori non hanno superato la prova della proximate causation circa il ruolo delle puiattaforme, sub IV.A, p. 21 ss

La corte parla si del nesso di causalità ma in astratto e in base ai precedenti, senza applicarlo al ruolo delle piattaforme nella commissione di delitti.

La corte stranamente non menziona il safe harbour ex 230 CDA che avrebbe potuto essere invocato (cosa che quasi certanente le piattafirme avranno fatto)

(notizia e link dal blog di Eric Goldman)

Web/data scraping e secondary ticketing: è inadempimento contrattuale?

Un’agenzia di viaggio acquista biglietti aerei da Southwest Airlines (SA), rivendendoli poi a terzi, ed estrae sistematicamente vari dati, pubblicamente accessibili nel sito web di questa: ciò nonostante le condizioni di acquisto lo proibissero.

SA agisce per varie causae actiones tra cui violazione contrattuale. Decide la NORTHERN DISTRICT COURT OF TEXAS – DALLAS DIVISION , CIVIL ACTION NO. 3:21-cv-00098-E, Soutwest Airlines c. Kiwi, 30.09.2021, accogliendone la domanda.

Kiwi cita il noto precedente hiQ Labs c. Linkledin del 2019, ove fu ritenuto lecito lo scraping dei dati.

Però prevale l’orientmento del divieto di scrapintg fondato su patto apposito, presente nelle Terms  and Conditions : <<Kiwi has purchased over 20,000 flights on the Southwest Digital Platforms.  In connection with its sales of Southwest flights, Kiwi specifically acknowledges that: “All services provided by Southwest Airlines are subject to their Terms and Conditions. More information is available on their website.”  The Terms are hyperlinked at the bottom of each page of Southwest’s website with a statement that use of the website constitutes acceptance of the Terms. For all online purchases, the  user  must  affirmatively  acknowledge  and  accept  the  Terms  by  clicking  a  button  that  states:  “By clicking ‘Purchase,’ I agree to the Terms and Conditions below, the privacy policy, and the contract of carriage,” which appears just above a yellow “Purchase” button with hyperlinks to the Website Terms, Privacy Policy, and Contract of Carriage.  For each purchase, Kiwi affirmatively accepted  the  Terms.    Southwest  sent  multiple  cease-and-desist  notices  to  Kiwi’s  chief  legal  counsel, Kiwi’s CEO, and to Kiwi’s registered agents in the United States.  Southwest specifically referenced the Terms and attached a copy of them, pointing out examples of how Kiwi’s conduct violated the Terms. Kiwi acknowledged receipt of one such cease-and-desist notice in September 2019.  As  in  BoardFirst, when  Kiwi  continued  to use  the  Southwest  website  in  connection  with  Kiwi’s  business  with  actual  knowledge  of  the  Terms,  Kiwi  “bound  itself  to  the  contractual  obligations imposed by the Terms.”  See BoardFirst, 2007 WL 4823761, at *7>>, p. 7

E’ poi intgersante anche il ragionamemnot sul danno irreparabile , requisito per la cocnessione della cautgela: viene ravvisato e la cautela  èconcessa: <<Balance of harms: Southwest must also demonstrate the threatened injury if the injunction is denied outweighs any harm that will result if the injunction is granted. Southwest argues Kiwi’s business practices interfere with customer communications, misrepresent Southwest customer-friendly policies,
charge customers unnecessary fees, divert traffic away from Southwest’s website, and tarnish  Suthwest’s reputation and goodwill. Southwest argues Kiwi will suffer little if any damage by ceasing unauthorized sales of Southwest flights and that Kiwi’s interest in using the Southwest website for its own commercial purposes is entitled to “scant consideration.” Kiwi can continue its business and sell flights for other carriers.
Kiwi alleges the balance of harms tips strongly in its favor. Kiwi argues an injunction poses a significant threat to its business model, reputation, and partner relationships. Kiwi asserts removing Southwest flights from its website will drastically affect its ability to build dynamic travel itineraries for its customers. According to Kiwi, for many key travel routes and destinations,
it is impossible to fly without traveling on Southwest. It also contends that an unspecified “threat of further injunctions against brokering ticket sales poses a potentially existential threat to Kiwi.com’s US operation.”
The Court concludes the threatened injury to Southwest if the injunction is denied outweighs the harm to Kiwi. Southwest has shown that Kiwi’s unauthorized sales of its flights  poses a significant disruption to its customer operations. Kiwi has not convinced the Court that the injunction will significantly threaten its business. As Southwest notes, Southwest is not listed as one of Kiwi’s “top 20 airlines” on its website>

(notizia e link alla sentenza  dal blog di Erik Goldman)

Marchio “Borro” (o “il Borro”) per vini: valido, invalido o valido ma debole?

Altra lite sul marchio <Borro> per vini: la SC conferma che è segno debole e rigetta il ricorso .

Così Cass. 26.872 del 04.10.2021, rel. Terrusi, Il Borro Agricola srl c. Il Sapito srl +1.

La corte di appello fiorentina aveva confermato la decisione del tribunale della stessa città <che aveva ravvisato il carattere debole del marchio “Il Borro”, registrato dall’attrice Il Borro soc. Agricola s.r.l., in quanto corrispondente a un sostantivo comune e a toponimo diffuso in ambiente toscano, peraltro dotato di una certa capacità distintiva, ed escluso l’illiceità della condotta di contraffazione e concorrenza sleale ascritta alla convenuta Omnibus s.r.l. (incorporante la Animar Tognetti s.r.l.) e alle chiamate in causa R.S. (titolare della ditta Podere La Casetta) e Il Sapito s.r.l. in conseguenza della commercializzazione di vini da parte loro con marchio in parte riproducente il termine “borro”;

la corte d’appello ha ritenuto il marchio debole perché non svincolato dai caratteri dell’azienda e del prodotto, né assurto a chiara fama, essendo corrispondente a un termine che, nell’idioma toscano, indica una particolare conformazione orografica del terreno, non di rado associata al posizionamento di vigne, che si rinviene in molte indicazioni toponomastiche di poderi, tenute e borghi sì da esser divenuta di uso comune nell’ambiente;

ha dunque osservato che legittimamente il termine poteva essere utilizzato da altri imprenditori vinicoli con varianti idonee, come nella specie, a evitare confusione, mediante adozione di accorgimenti distintivi collaterali di tipo estetico/grafico e con indicazione della specifica casa produttrice, che non potevano sfuggire all’attenzione del consumatore del prodotto vinicolo di qualità;>>

La SC è della stessa idea: <nella specie la sentenza impugnata ha infine comunque specificato in qual senso il marchio “il Borro” dovesse esser intendersi come marchio debole, essendo incentrato per l’appunto su un termine (“borro”) indicativo di un elemento morfologico e naturalistico del terreno; e questa Corte, in separate controversie tutte riferibili alla tutela del citato marchio, ne ha confermato la conclusione in base al fatto che l’uso di un vocabolo indicativo di una determinata conformazione del territorio, sovente tipica proprio dei luoghi di produzione del vino, è a tal punto di uso comune da appartenere, in pratica, al linguaggio quotidiano (Cass. n. 4254-19, Cass. n. 10980-21);>, sub III (si notino le altre pronuncie della SC sul medesiumo marchio).

La Sc però rettifica la decisione diappello negando che si tratti di marchio geografico: <va detto, a parziale correzione di quanto sostenuto nella sentenza d’appello, che non è propriamente un marchio geografico quello che indica una semplice caratteristica morfologica di un elemento naturale, come la conformazione del terreno, trattandosi in tal caso di una mera indicazione di comune linguaggio>, sub II.

<Borro> nel Grande Dizionario dell’Uso di T. De Mauro, è così spiegato:

“borro /’borro/ (bor•ro) s.m. (RE) sett., tosc.
1 stretto avvallamento, canale in declivio scavato dall’erosione delle acque | fosso che raccoglie le acque di scolo dei campi | canale di scarico delle paludi
2 (LE) burrone”.