Pinterest corresponsabile per violazione di diritto di autore?

Il Northern District della California affronta la questione del ruolo di Pinterest (P.) in possibili violazioni di copyright (decisione 9 marzo 2021, caso 19-cv-07650-HSG, Davis c. Pintereset inc.).

(non è chiara la fonte delle immagini su P.:  <<These images may be captured by Defendant’s users, or may be copied from other sources on the internet>> p. 3. Copiate da altre sources da parte di chi? da P.?).

L’attore, fotografo professionista, cita P. per correponsabilità (contributory infringement) in violazione di copyright.

Allo scopo, <<to establish a claim for contributory copyright infringement, Plaintiff “must establish that there has been direct infringement by third parties…. Once this threshold issue has been established, Plaintiff must further allege that Defendant “(1) has knowledge of another’s infringement and (2) either (a) materially contributes to or (b) induces that infringement.”>> p. 3.

La material contribution <<“[i]n the online context” requires the defendant to have “actual knowledge that specific infringing material is available using its system, and . . . simple measures [would] prevent further damage to copyrighted works, yet [the defendant] continues to provide access to infringing works.” Id. at 671 (quotation omitted). And inducement requires the defendant to “distribute[] a device with the object of promoting its use to infringe copyright, as shown by clear expression or other affirmative steps taken to foster infringement.” See id. at 672. Here, Plaintiff alleges theories of liability premised on both material contribution and inducement, and Defendant challenges both theorie>>, ivi.

Sebbene riconoscendo la debolezza della propria prova di knowledge, l’attore afferma che -almeno in quello stadio processuale- poteva bastare il  constructive knowledge and willful blindness, p. 4 .

Ma la corte esclude pure la prova di questo elemento soggettivo alleggerito, facilitato. Bisogna infatti che la sua prova riguardi lo specifico atto in violazine dedotto in casua, p. 5 .

Si tratta del passaggio più importante a fini pratici, pure per il nostro ordinamento.

Non è <conoscenza presunta>  lo scambio pregiudiziale di email con l’azienda P., dice la corte: che anzi danneggia l’attore, perchè l’azienda gli aveva chiesto informazioni di dettaglio, che lui non aveva poi inviato, ivi.

Nemmeno è willful blindness la consapevolezza della generica possibilità di materiali illeciti , dovendo anche qui riguardare materiali specifici, p. 5/6.

Infine l’attore allega che P. rimuove metadati, che che potrebbero far capire la provenienza illecita dei materiali ospitati. Ma ciò -conclude la corte- al più rappresenta una indifferenza al rischio di P. alle violazioni, non una sua consapevolezzaa di quella specificamente dedotta in lite, p. 6

Eccezione probabilmente esatta a fil di legge, ma troppo penalizzante per i titolari dei diritti lesi.

Non è menzionata la questione del safe harbour (qui del § 512 DMCA, trattandosi di copyright).

(notizia e link alla notizia tratti dal blog di Eric Goldman)

Sulla willfull blindness , pur se nel diritto dei marchi, v. ora il saggio di Andrew Ligon Fant, Reconsidering the Willful Blindness Doctrine in Contributory Trademark Infringement, 29 J. Intell. Prop. L. 318 (2022).

Appello sul safe harbour § 230 CDA in caso di chiusura di account Vimeo

L’appello conferma decisione della corte newyorkese di prima istanza in una lite su chiusura di account Vimeo (piattforma per video, sia gratuita che premium) per violazione di regola contrattuale, lite decisa in base all’immancabile  safe harbour ex § 230 CDA.

Così il  secondo circuito di appello 11.03.2021 , Docket No. 20-616, Domen c. Vimeo.

Domen e l’ente da lui creato, dunque,  citano Vimeo (V. ) per avergli chiuso l’account per violazione delle sue regole che vietano <<the promotion of sexual orientation change efforts (“SOCE”) on its platform>>, p.3.

Gli attori citano V. perchè ha <<discriminated against them on the basis of their religion and sexual 3 orientation by deleting Church United’s account from Vimeo’s online video 4 hosting platform>> p. 3.

La corte conferma la decisione di primo grado , rigettando in limine per l’esimente del § 230. CDA.

Ricorda poi che l’attore era stato in un primo tempo avvisato di togliere i video contestati, altrimenti avrebbe subito la chiusura dell’account. Non avendovi provveduto, ha giustamente subito la chiusura, p. 14.

Non è però chiara la rilevanza del previo warning da parte della piattaforma: la legge non lo chiede, a differenza dal § 512 DMCA in tema di copyright. Tuttavia la corte vi insiste, per cui a fini pratici la piattaforma farà bene a dare un preavviso conrguo.

Le accuse di discriminazione sono reciproche: cioè stanno alla base sia della domanda giudiziale (p.8) che della decisione di V.

La corte di prima istanza rigetta per i commi sia 1 che 2 del § 230(c), p.8.

La corte di appello precisa che, sebbene fosse possibile una misura minore (rimozione solo dei video de quibus invece che di tutto l’account), a ciò non era tenuta V., p. 14 . Cioè la proporzionalità della reazione non è obbligata (secondo la disposizine di legge, che in effetti non la menziona, come invece da noi la dir. UE c.d enforcement 48/2004 art. 3/2).

Inoltre, prosegue la corte, circa il § 230.c.2, V. non può dirsi in malafede (la norma chiede la good faith) per il solo fatto di aver “lasciato su” altri video, che dal titolo paiono trattare la stessa materia. Infatti dal mero titolo non è chiaro che si tratti (la cit. SOCE), p. 16. Dunque avviso importante per i prossimi litigators: documentare bene i  materiali altrui  non rimossi perchè si potrebbe  ottenere ragione.

Ancora, nemeno può ravvisarsi malafede per intento anticompetetitivo o conflitto di interessi, p. 15). Infatti nel caso <<it was a straightforward consequence of Vimeo’s content policies, which Vimeo communicated to Church United prior to deleting its account>>, p. 15.

Altro avviso ai difensori prossimi circa l’interpretazione del concetto di good faith, che faranno bene a tener presenti questi concetti. Infatti , esaminado meglio la struttura del business della piattaforma convenuta, portrebbero far emergere un rapporto concorrenziale col loro cliente e dunque pure la malafede della prima.

Non è stata dedotta nè esaminata la questione dell’applicabilità a V. (e in generale agli internet provider) del primo emendamento della costituzione USA sul diritto di parola.

(notizia e link alla sentenza tratti dal blog di Eric Goldman)

Prova dell’erroneo addebito di interessi nel conto corrente bancario: necessità assoluta di tutti gli estratti conto?

La prova dell’erroneo addebito degli interessi, operato dalla Banca, non necessariamente deve consjstere in tutti gli estratti conto pertinenti al tempo dedotto.

Essi possono infatti essere integrati da CTU , purchè questa poggi su un minino di documenti da cui risalire per coprire i periodi non documentati da estratti conto. La CTU ad es. può partire da un dato contabile della banca stessa, la quale non può poi negarlo (§ 3 , citando la sentenza di appello).

Così  Cass. 04.03.2021 n. 5887, rel. Dolmetta.

In pareticolare così scrive il rel.: <<La giurisprudenza della Corte – occorre subito riscontare in proposito – ha infatti chiarito che il giudice del merito deve in ogni caso valutare la possibilità che la prova dell’indebito sia desumibile aliunde, in maniera diversa dagli estratti conto, cioè.

Ben può – si è così precisato – il giudice integrare la prova offerta dal correntista; nel caso, pure con mezzi di cognizione disposti d’ufficio, come la CTU, alla quale il giudice può ricorrere quando la prova dei movimenti del conto, che sia prodotta dal correntista, non risulti completa, ma comunque tale da consentire al CTU di operare il calcolo delle competenze trimestrali (cfr., in specie, Cass., n. 31187/2018; Cass., n. 29190/2020; si veda, altresì, la pronuncia di Cass., n. 30822/2018, la quale – al di là della imperfetta sintesi approntata dall’Ufficio del Massimario – ha in realtà puntualizzato che, in caso di produzione parziale degli estratti, il calcolo dei rapporti di dare e di avere decorre “dalla data della posta iniziale a debito annotata sul primo estratto conto disponibile” e dalla misura data da questo saldo, senza alcun previo azzeramento dello stesso).

In realtà, è improprio e scorretto – così si è rilevato in particolare – considerare gli estratti conto come “veicolo di una prova legale” di fatti, che invece sono suscettibili di prova libera, cioè dimostrabili anche mediante argomenti di prova ed elementi indiretti che compete al giudice di merito valutare nell’ambito del suo prudente apprezzamento (Cass., n. 29190/2021)>>, § 12.

Non risultano però chiarissimi i fatti e  la pertinenza ad essi del ragionamento della SC. Infatti , ad una prima lettura, da un lato, la lacuna documentale riguardava solo il periodo 1983-1990, mentre il correntista  era “a posto” per il prosieguo (1991-2012, anno di chiusura del conto); dall’altro , egli aveva poi limitato la domanda appunto solo a detto prosieguo.

Le coordinate bancarie IBAN costituiscono “dato persponale”

Secondo Cass. 19.02.2021 n. 4475, rel. Campese, le coordinate IBAN costituiscono <dato personale> ai sensi della disciplina privacy.
Nel caso specifico, un’assicurazione, risarcito il danno da infiltrazione ad un condomino per conto di altri condomino e proprio assicurato, aveva poi girato <<una stampa del sistema informativo interno della medesima compagnia nonchè un atto di liquidazione ove erano riportate, tra l’altro, le loro coordinate IBAN;>> a quest’ultimo (dal cui immobile erano provenute le infiltrazioni).

Il condomino/assicurato poi produceva tale documento in assemblea condominiale.

Per la S.C. :

a) l’IBAN è dato personale (§ 2.4, sostanzialmente immotivato);

b) non rende lecito il trattamento (cioè l’aver girato tale documento al suo assicurato) il dovere contrattuale di renderlo edotto del pagamento eseguito e di dargli copia del relativo documento probatorio: poteva infatti oscurarne l’IBAN (§ 2.5.2 e § 2.5.2.1).

La sentenza non convince.

Circa 1) la lamentata pubblicità del dato, reso pubblico dalla produzione in assemblea, prevede appunto anche quest’ultimo elemento, che è però riconducibile solo al condomino/assicurato (non all’assicurazione). La SC non valorizza tale circostanza.

Inoltre andrebbe precisato che l’IBAN costituisce dato personale solo se abbinato ad un nome, non da solo (nel qual caso nessuna riconoscibilità è possibile).

Circa 2) , è dubbio che il documento con IBAN oscurato sia prova sufficiente per l’assicurato. Se il danneggiato contestasse di aver ricevuto il risarcimento, come protrebbe provarlo il condominuo responsabile/assicurato? Gli servirebbe la contabile bancaria di versamento (che contiene l’IBAN). Tra l’altro, nel caso non c’è nemmeno l’azione diretta verso la compagnia, come nella RC auto.

La SC dispone l’oscuramento della sentenza ex art. 52 cod. priv. (d’ufficio, pare, non  essendo specificata istanza di parte)

La fattispecie storica è anteriore al GDPR.

Riproducibilità dell’opera tramite “framing” (prohibente domino) e comunicazione al pubblico

la Corte di Giustizia con sentenza 09.03.2021, C-392/19, VG Bild-Kunst contro Stiftung Preußischer Kulturbesitz, si pronuncia sulla legittimità della riproduzione tramite framing di opera messa on line dal titolare, ma che intenda sottoporla (o a farla sottoporre da parte del licenziatario) a misure di protezione. In particolare sul se ciò costituisca comunicazione al pubblico (c.a.p.).

Tuttavia la questione viene esaminata solo incidentalmente, essendo strumentale alla soluzione di una questione ulteiore: se sia lecito il rifiuto di concedere licenza al potenziale licenziatario che si rifiuti di adottare le misure anti-framing pretese dal titolare (una collecting society).

Avevo già ricordato le analitiche conclusioni dell’AG Szpunar con mio post 20.09.2020.

La CG lo segue (come spesso ormai succede, però, con motivazione assai meno ricca), ma solo fino ad un certo punto: e cioè solo nella impostazione generale. Diverge invece sulla conclusione relativa alla fattispecie sub iudice, il framing.

La fattispecie concreta, dunque, dovrebbe essere la seguente. La SPK, fondazione che gestisce la Deutsche Digitale Bibliothek, dedicata alla cultura e al sapere tramite la messa in rete delle istituzioni culturali e scientifiche tedesche (con link alle opere ivi presenti e anticipazione online delle relative miniature),  aveva chiesto alla collegting VG Bild Kunst (poi: VG) licenza di riprodurre opere di terzi, gestite da VG. Questa però pretende l’impegno di SPK di adottare misure tecnologiche contro il framing.

Il punto allora è se sia lecito pretendere tale impegno.

La risposta, dipenderebbe, secondo il BGH tedesco, dalla ravvisabilità o meno di comuncazione al pubblico nel dare libero accesso come framing ad  un’opera, quando il titolare (la collecting) ha applicato o ha chiesto di applicare misure di protezione contro il framing stesso (§§ 16-17)

Questione pregiudiziale sollevata: «Se l’incorporazione, mediante framing, di un’opera disponibile su un sito Internet liberamente accessibile con il consenso del titolare del diritto sul sito Internet di un terzo costituisca una comunicazione al pubblico dell’opera, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, qualora ciò avvenga aggirando le misure di protezione contro il framing che il titolare del diritto ha adottato o ha fatto adottare», § 18.

La CG, ricordati  i soliti principi in tema di c.a.p. (§ 30 ss),  passa alla fattispecie concreta.

Dice che la riproduzione tramite framing, quando il titolare lo ha vietato con misure di protezione o vietandolo ai licenziatari, costituisce c.a.p., § 42-43: si tratta infatti di un nuovo atto di counicazione (pubblico nuovo).

Nega che ciò contrasti con la giurisprudenza sulla liceità del linking , § 44 (casi Svensson e Bestwater): casi che concernono un’opera già pubblicata ma lecitamente..

La CG precisa cosa siano le misure restrittiva adottabili, tali che, se violate , si realizzi una c.a.p.

Tali sono solamente le misure <efficaci> ex art. 6/1 e 3, dir. 29 del 2001, poichè una tutela più ampia sarebbe troppo penalizzante per i terzi: <<al fine di garantire la certezza del diritto e il corretto funzionamento di Internet, il titolare del diritto d’autore non dovrebbe essere autorizzato a limitare il suo consenso se non per mezzo di misure tecnologiche efficaci, ai sensi dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, della direttiva 2001/29 (v., a quest’ultimo proposito, sentenza del 23 gennaio 2014, Nintendo e a., C‑355/12, EU:C:2014:25, punti 24, 25 e 27). Infatti, in mancanza di simili misure, potrebbe rivelarsi difficile, in particolare per i privati, accertare se il titolare dei diritti abbia voluto opporsi al framing delle sue opere. Una verifica del genere risulterebbe ancor più difficile quando tali opere sono state oggetto di sublicenze (v., per analogia, sentenza dell’8 settembre 2016, GS Media, C‑160/15, EU:C:2016:644, punto 46).>>, § 46 (il <non> è un errore di traduzione: si confronti ad es. il testo inglese).

Del resto il pubblico, preso in considerazione dal titolare, è solo quello del sito web,  ove si è realizzata la prima messa on line: non  quello dell’intero orbe terracqueo digitale, § 47.

Tale posizione, visto che ribadisce la sentenza Renckhoff del 2018 (citata), al momento possiamo quelificarla come <insegnamento consolidato>.

La differenza dalle conclusioni dell’AG sta proprio sul framing.

L’AG aveva posto una distinzione fondamentale tra link cliccabili (§ 81 ss) e link automatici (§§ 92 ss): i primi non ampliano il pubblico originariamente considerato e dunque non vanno autorizzati, i secondi invece si (le ragioni di tale distinzione, § 114 ss, però, non riescono del tutto persuasive).

La CG invece non distingue: ogni riproduzione sul proprio sito del materiale, tratto da sito altrui  (meglio: con dettaglio tecnico tale da farlo apparire sul proprio sito) amplia il pubblico considerato dal titolare con la prima messa on line: Pertanto sottosta ad autorizzazione-

La prestazione dei sindaci di s.p.a. è unitaria oppure frazionata per i vari esercizi?

Interessante questione (anche per i profili teorici: l’individuazione della  prestazione dovuta) decisa da Cass. 6027 del 04.03.2021, est. Dolmetta.

Sindaci di spa chiedono l’ammissione al passivo dei loro compensi per gli anni 2014-2017. Il fallimento rigetta, affermando un inadempimento ai loro doveri per tutto il 2014 (presumibilmente perchè inadimplenti non est adimplendum, art. 1460 cc).

Su opposizione dei sindaci, il Tribunale di Vicenza limita il rigetto dell’insinuazione al 2014 (unico esercizio per il quale erano state dedotte le inadempienze), e lo esclude invece per il 2015-2017. Ciò perchè le prestazioni dei sindaci via via erogate, esercizio per esercizio, sono da ritenere reciprocamente autonome.

La tesi è confermata dalla SC, adita dal Fallimento.

la Sc imposta così la questione dedottale: << Segue alle osservazioni appena compiute che il problema posto dal motivo di ricorso viene nella sostanza a focalizzarsi  sul punto se le obbligazioni di controllo – che l’ordinamento vigente pone, ex art. 2403 cod. civ., in capo ai sindaci di società per l’intera durata del loro ufficio – siano passibili di una considerazione solo «globale e unitaria», quanto al riscontro del loro adempimento ovvero inadempimento. Detto altrimenti, è da chiedersi, con diretto e immediato riferimento alla fattispecie che è qui concretamente in esame, se il riscontro di un inadempimento materialmente caduto nell’esercizio 2014 porti con sé (oppure no) una violazione degli obblighi di controllo sindacale per sua propria natura destinata a protrarsi per l’intera durata dell’ufficio commesso ai sindaci, sì che questi ultimi non abbiano diritto a percepire nessun compenso per l’attività loro affidata>>, § 9.

Ed ecco la risposta:

<<Al quesito si deve fornire risposta di segno negativo: l’adempimento della prestazione di controllo, a cui sono tenuti i sindaci, appare in effetti suscettibile di essere considerato partitamente, tempo per tempo. Con la conseguenza che, per la parte ora in esame, il motivo presentato dal ricorrente si manifesta infondato. – Per questo proposito è prima da tutto da rilevare, su un piano generale, che le obbligazioni di carattere continuativo ben possono rimanere – pure nel riflesso della loro dimensione temporale – in parte adempiute e in parte inadempiute. Sul piano del diritto positivo decisiva risulta, al riguardo, la constatazione che la norma dell’art. 1458, comma 1, cod. civ. stabilisce – con riguardo, appunto, allo specifico caso della risoluzione dei «contratti a esecuzione continuativa» – che l’«effetto della risoluzione non si estende alla prestazioni già eseguite». Questo – è anche opportuno per chiarezza esplicitare – tanto nel caso in cui a un primo periodo di adempimento si contrapponga seccamente un successivo periodo di solo inadempimento, quanto in quello in cui le due situazioni vengano intermittenti ad alternarsi. Il che, naturalmente, non significa che non possa assumere rilievo pure la specifica collocazione temporale in cui, nel concreto, viene a porsi il periodo di inadempimento di un’obbligazione continuativa. Ciò, tuttavia, è destinato a poter accadere per un profilo diverso da quello del mero riscontro di un avvenuto inadempimento: come rappresentato, in particolare, dalla valutazione dell’efficacia causale del medesimo e, dunque, pure sulla misura del danno risarcibile (v. già sopra, nel n. 8)>>, §§ 10-11.

Protezione di un progetto di architettura d’interni con il diritto di autore: la vertenza Kiko c. Wjcon in Cassazione

Dopo la sentenza di appello (v. mio post 30.01.2019) , la lite è stata decisa in sede di legittimità nella scorsa primavera da Cass. n. 8433 del 30.04.2020, rel. Iofrida.

Si tratta della tutela chiesta da Kiko (k.) contro Wycon (w.) sull’originale soluzione di arredo dei propri negozi  che sarebbe stata copiata da w..

La sentenza rigetta i motivi di da 1 a 6 di Wycon (soccombente in primo e secondo grado) ma accoglie quelli 8-10 sulla concorrenza parassitaria e l’11° sulla liquidazione del lucro cessante. Rinvia poi ad altra sezione (composizione) di corte di appello milanese anche per le liquidazione delle spese di legittimità.

Non ci sono spunti particolarmente interessanti.

La SC ricorda che l’art. 110 l. aut. <<Questa Corte ha, di recente, affermato il principio secondo cui l’art. 110, non è applicabile quando il committente abbia acquistato i diritti di utilizzazione economica dell’opera per effetto ed in esecuzione di un contratto di prestazione d’opera intellettuale concluso con l’autore (Cass. 24 giugno 2016, n. 13171; conf. in materia di appalto relativo ad un format, Cass. 18633/2017): e ciò perchè, in tal caso, non ha luogo un trasferimento per manifestazione di volontà delle parti contraenti, dal momento che tali diritti sorgono direttamente in capo al committente, quale effetto naturale del rapporto di lavoro autonomo o del contratto di opera professionale, salvo patto contrario.

Peraltro, l’art. 110 L.A., in ordine alla necessità di prova scritta della trasmissione dei diritti di utilizzazione, non opera nelle azioni promosse dal titolare del diritto autorale contro i terzi che abbiano utilizzato illecitamente l’opera (cfr. Cass. 3390/2003: “la norma dell’art. 110 della Legge sul diritto d’Autore (L. 22 aprile 1941, n. 633), nel prevedere che la trasmissione dei diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno deve essere provata per iscritto, si riferisce all’ipotesi in cui il trasferimento viene invocato dal cessionario nei confronti di chi si vanti titolare del medesimo diritto a lui ceduto; essa pertanto non opera al di fuori del conflitto tra titoli, ovvero tra pretesi titolari del medesimo diritto di sfruttamento, allorchè il trasferimento sia invocato dal cessionario del diritto di utilizzazione nei confronti del terzo che, senza vantare una posizione titolata, abbia violato tale diritto, compiendo atti di sfruttamento del medesimo bene, in tal caso l’acquisto potendo, quale semplice fatto storico, essere provato anche mediante mezzi diversi dal documento”)>>, § 3.

W. aevava poi censurato la mancanza di forma espressiva nel progetto di arredo, § 5.

Il motivoi  perla SC è inammibbile, perchè presuppone la censura sull’apporto creativo. Ma questo è oggetto di valutazione <<destinata a risolversi in un giudizio di fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità soltanto per eventuali vizi di motivazione >>, § 5.

Soluzione errata: il giudizio sulla creatività è di diritto, consistendo in una (o essendo da equiparare a quello su) clausola generale.

Poi che l’arredo di  interni sia al più tutelabile come design ex arrt .2 n. 10 l. aut. , ma mai come opera dell’architettura, è derrato, dice la SC: ricorrendone i presupposti, infatti, anche quest’ultima tutela  è a disposizione, § 6 (oltre che quella da marchio di forma o diritto connesso ex art. 99 l.aut.)

La SC ha del resto ricordato che per orientamento costante ormai è ammesso il cumulo di tutela tra disegno e modello da un parte e diritto di autore dall’altra, citando giurisorudenz europea.

Lascia il principio di diritto seguente circa la creatività (confermando che si tratta di valutazione in diritto e contraddicendosi con quanto osservato poco prima):  “in tema di diritto d’autore, un progetto o un’opera di arredamento di interni, nel quale ricorra una progettazione unitaria, con l’adozione di uno schema in sè definito e visivamente apprezzabile, che riveli una chiara “chiave stilistica”, di componenti organizzate e coordinate per rendere l’ambiente funzionale ed armonico, ovvero l’impronta personale dell’autore, è proteggibile quale opera dell’architettura, ai sensi dell’art. 5, n. 2 L.A. (“i disegni e le opere dell’architettura”), non rilevando il requisito dell’inscindibile incorporazione degli elementi di arredo con l’immobile o il fatto che gli elementi singoli di arredo che lo costituiscano siano o meno semplici ovvero comuni e già utilizzati nel settore dell’arredamento di interni, purchè si tratti di un risultato di combinazione originale, non imposto dalla volontà di dare soluzione ad un problema tecnico-funzionale da parte dell’autore“.

Il motivo sette (§ 9) riguarda la parzialità della riproduzione. La SC , ricordati i concetti (dottrinali, non legislativi) di contraffazione, plagio e plagio-contraffazione , così osserva: <<per la sussistenza del plagio, che si riferisce alla sola violazione del diritto morale di paternità (allorchè quindi taluno spaccia per propria un’opera altrui), o della contraffazione, che rappresenta una lesione del diritto di proprietà e comprende tutte le forme di utilizzazione economica dell’opera dell’ingegno effettuate senza autorizzazione dell’autore allo scopo di trarne benefici economici, ovvero ancora del plagio-contraffazione, figura questa che implica la lesione contemporanea del diritto patrimoniale e del diritto morale, occorre la coincidenza degli elementi essenziali costituenti la rappresentazione intellettuale dell’opera imitata con quelli dell’opera in cui sarebbe avvenuta la trasposizione e devono essere presi in considerazione non l’idea ispiratrice o i singoli elementi dell’opera ma l’originale composizione ed organizzazione di tutti gli elementi che contribuiscono alla creazione dell’opera stessa e che costituiscono la forma individuale di rappresentazione del suo autore. Va quindi esclusa la sussistenza del plagio o della contraffazione o del plagio-contraffazione, ove l’idea altrui sia utilizzata in una diversa rappresentazione o vengano organizzati in modo nuovo elementi già appartenenti al patrimonio culturale comune e susciti in chi la osserva diverse sensazioni, essendo necessario quindi verificare se siano state introdotte delle mere varianti secondarie inidonee a dare vita ad una nuova opera percepibile come risultato di scelte espressive individuali distinte dalla prima opera ovvero se, per effetto anche di un’elaborazione tecnica, pur all’interno di un percorso ideale già da altri tracciato, valutato l’insieme degli elementi che caratterizzano l’oggetto, muti la capacità espressiva dell’opera ovvero la capacità di suscitare emotività nel pubblico, attraverso le caratteristiche estetiche dell’opera, e si raggiunga una creatività nuova meritevole di autonoma tutela. Il plagio può aversi in caso di riproduzione totale dell’opera ovvero di elaborazione “non creativa”, cioè con utilizzazione di elementi originali di un’altra opera, o “creativa”, ma senza superamento dell’individualità di rappresentazione dell’opera precedente ispiratrice, con conseguente sostanziale identità di rappresentazione, ma abusiva, ovvero ancora di trasformazione da una in altra forma, letteraria o artistica; particolarmente difficile diventa l’accertamento del plagio, nelle forme di elaborazione, laddove si sia in presenza di opere dell’ingegno fortemente stereotipate, nelle quali è complesso distinguere le parti originali da quelle derivanti da consuetudine legata al genere, essendovi possibilità di frequenti coincidenze creative, ed occorrendo allora valutare se non si tratti di veri e propri elementi volgarizzati e non individualizzanti, non meritevoli di tutela sotto il profilo della Legge d’Autore (Cass. n. Euro 7077/1990).>>

Si badi che, in presenza di un livello non particolarmente elevato di creatività presente nell’opera tutelata, <<varianti pur minime possono essere sufficienti ad escludere la contraffazione>>.

Da ultimo, la SC censurala sentenza per la superficialità nel giudizio essitenza di di concorrenza parassitaria (§ 11 e segg.)

Anche qui c’è un errore sul giudizio di fatto: << la valutazione complessiva delle singole condotte del concorrente e della loro idoneità, sulla base di una considerazione cumulativa, al fine di evidenziare la sussistenza o meno di un disegno unitario volto a sfruttare sistematicamente l’altrui lavoro, implica un tipico apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità>> § 11.3.  Il fatto è solo il fatto storico; il suo inquadramento nei concetti giuridici (dottrinali o legislativi) è giudizio di diritto.

Quanto alle spese, ricorre l’ultima censura. La liqudazione, anche se equitativa, non può essere irrazionale: come invece nel caso de quo in cui il lucro cessante è stato dalla C. di A. stimato pari al decuplo della parcella dello studio d’architettura che aveva elaborato il progetto di arredo.

Responsabilità dell’amministratore di società eterodiretta

Cass. 5795 del 03.03.2021, rel. Mercolini , decide su un’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro amminstratore di società eterodiretta per aver violato il (prevgigente) art. 22449cc (divieto di nuove operazioni in presenza di causa di scioglimento, corrispondente all’attuale art. 2486 cc)

La corte di appello aveva rigettato l’impugnazine dell’amministratore, ritenendo irrilevante -sul punto qui di interesse- <<l’appartenenza della società ad un gruppo imprenditoriale ed il carattere meramente formale e fittizio dell’am-ministrazione affidata al Casà, osservando che egli aveva colposamente omesso qualsiasi controllo sull’attività del gruppo, consentendo il compi-mento di iniziative di gestione in violazione dei doveri di diligenza e degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del capitale sociale. Ha escluso che la predetta condotta potesse trovare giustificazione in quelle at-tribuite a soggetti diversi, rilevando che egli era perfettamente in grado dì accorgersi delle gravi irregolarità che venivano commesse, ed aggiungendo che non risultava provato che egli si fosse diligentemente attivato e non avesse potuto esercitare la vigilanza a causa del comportamento ostativo di altri soggetti >>.

La SC sostanzialmente conferma.

Col quarto motivo di ricorso , infatti, la ricorrente aveva denunciato  <<l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impu-gnata per aver addebitato al Casà l’omissione di qualsiasi controllo in ordine all’attività del gruppo imprenditoriale, senza tener conto delle differenze esi-stenti tra la relativa disciplina e quella del gruppo di società. Premesso che nella specie proprio l’accertamento dell’appartenenza della società ad un gruppo imprenditoriale aveva consentito di estendere la responsabilità a soggetti diversi dalle società di capitali formalmente operanti, sostiene che in tal caso la società capogruppo costituisce lo strumento operativo delle persone fisiche che ne hanno il governo, le quali esercitano anche il control-lo sulle società del gruppo, mediante la gestione diretta delle stesse o l’ado-zione di prescrizioni imperative, con la conseguenza che la fattispecie risulta incompatibile con l’affermazione della responsabilità degli amministratori delle singole società, a meno che gli stessi non siano consapevoli della si-tuazione patrimoniale e finanziaria del gruppo e conniventi con le persone che lo gestiscono. Afferma che nella specie l’appartenenza della società al gruppo d’imprese era comprovato da un contratto di  finanziamento individuato nella procedura fallimentare e dall’ingerenza esercitata nella gestione da Anselmo e Biagio Manganaro, la quale aveva comportato la perdi-ta di qualsiasi autonomia da parte delle singole società, con il conseguente venir meno della responsabilità dei rispettivi amministratori>>, § 4.

In breve, par di capire (ma il motivo è un pò confuso), allegava una sorta di legittima deresponsabilizzazione dell’amminstratore dela società , quando fosse inserita in un gruippo.

La SC palesa l’errore di tale  tesi.

La circostanza che l’amministratore sia rimasto di fatto estraneo alla gestione della società, avendo consentito ad altri di ingerirsi nella conduzione dell’impresa sociale o essendosi limitato ad eseguire decisioni prese in altra sede, dice la SC, <<non è sufficiente ad escludere la sua responsabilità, riconducibile all’inosservanza dei doveri posti a suo carico dalla legge e dall’atto costitutivo, la cui assunzione, collegata all’accettazio-ne dell’incarico, gl’imponeva di vigilare sull’andamento della società e di at-tivarsi diligentemente per impedire il compimento di atti pregiudizievoli.

Tale responsabilità non è esclusa dall’appartenenza della società ad un gruppo d’imprese, la quale, in mancanza di un accordo fra le varie società, diretto a creare una impresa unica, con direzione unitaria e patrimoni tutti destinati al conseguimento di una finalità comune e ulteriore, non esclude la necessità di valutare il comportamento degli amministratori alla stregua dei doveri specificamente posti a loro carico, della cui inosservanza essi sono tenuti pur sempre a rispondere nei confronti della società di appartenenza (cfr. Cass., Sez. I, 8/05/1991, n. 5123).  In tema di società di capitali, que-sta Corte ha infatti affermato costantemente che il fenomeno del collega-mento societario, anche laddove implichi la gestione di attività economiche coordinate, l’utilizzazione di sedi comuni e la proprietà in capo ad una o più società di parte delle azioni delle altre, pur essendo stato preso in conside-razione dal legislatore, per fini specifici e determinati, quale causa di una configurazione unitaria del gruppo, non è idoneo a determinare l’esistenza di un nuovo soggetto di diritto o di un centro d’imputazione di rapporti di-verso dalle società collegate, le quali conservano la propria distinta persona-lità giuridica (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 18/11/2010, n. 23344; Cass., Sez. lav., 9/ 01/2019, n. 267; 14/11/2005, n. 22927). La riprova è costitui-ta dalla disciplina dettata dalla legge 8 luglio 1999, n. 270, che in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi conferisce rilievo alla nozione di gruppo d’imprese, prevedendo la possibilità di estendere la  procedura alle imprese controllanti, controllate o soggette ad una direzione comune a quella dell’impresa sottoposta alla procedura madre: indipenden-temente dalla considerazione che le speciali regole dettate per l’amministra-zione straordinaria sono ritenute non estensibili al di fuori delle peculiari ipotesi da esse contemplate, trattandosi di norme eccezionali che non auto-rizzano una diversa configurazione del gruppo (cfr. Cass., Sez. I, 14/04/ 1992, n. 4550; 2/07/1990, n. 6769; 8/02/1989, n. 795), occorre infatti ri-levare che proprio in tema di responsabilità l’art. 90 conferma l’operatività dei principi generali, prevedendo, in caso di direzione unitaria delle imprese del gruppo, la responsabilità solidale degli amministratori delle società che hanno abusato del relativo potere, senza però escludere la responsabilità di quelli della società dichiarata insolvente. Nella medesima ottica, l’art. 2497 cod. civ. (introdotto dal d.lgs. n. 6 del 2003, e quindi inapplicabile ratione temporis alla fattispecie in esame) prevede, in caso di sottoposizione della società a direzione o coordinamento, che la società o l’ente che nell’esercizio di tale potere abbiano agito nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui o in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale, ri-spondono direttamente nei confronti dei soci e dei creditori sociali, per il pregiudizio arrecato rispettivamente alla redditività ed al valore della parte-cipazione o alla integrità del patrimonio della società, ma senza escludere, in linea di principio, la responsabilità degli amministratori. Benvero, si è anche precisato che la formale esistenza di un gruppo, con conseguente assetto giuridico predisposto per una direzione unitaria, non è incompatibile con l’amministrazione di fatto di singole società del gruppo stesso, poiché mentre la prima corrisponde ad una situazione di di-ritto nella quale la controllante svolge l’attività di direzione della società controllata nel rispetto della relativa autonomia e delle regole che presiedo-no al suo funzionamento, la seconda dà invece luogo ad una situazione di fatto in cui i poteri di amministrazione sono esercitati direttamente da chi sia privo di una qualsivoglia investitura, ancorché irregolare o implicita: tale considerazione, peraltro, se per un verso può giustificare l’affermazione del-la responsabilità concorrente del soggetto cui siano attribuiti poteri di dire-zione, in quanto amministratore di una holding, ove abbia di fatto esercitato  anche poteri di amministratore delle società controllate, disattendendo l’au-tonomia delle stesse e riducendo i relativi amministratori a meri esecutori dei suoi ordini, non consente per altro verso di escludere la responsabilità di questi ultimi, ove siano venuti meno al diligente adempimento dei loro do-veri nei confronti della società di appartenenza (cfr. Cass., Sez. I, 13/02/ 2015, n. 2952).>>, § 4.1.

Nulla di nuovo .

Resta dubbio il significato dell’importante limitazione <<in mancanza di un accordo fra le varie società>: la SC deplorevolmente butta lì con noncuranza questo inciso, senza spiegarlo (intendeva forse riferirsi alla teoria e al principio dei vantaggi compensativi ex art. 2497 c.1 cc e art .2634 c. 3 cod. pen.)

Immunità per pubblicazione di dati personali tratti da annuari scolastici donati da terzi?

Un’interessante questione (anche se in fattispecie molto particolare) si è posta presso una corte californiana.

Ancestry.com (A.) pubblica annuari (scolastici) con foto, nomi e indirizzi, donatile da soggetti da lei sollecitati. Una volta ricevutili, li carica sul proprio data base e inoltre li invia in promozione commerciale a possibili interessati , inducendoli ad acquistare una sorta di pacchetto “premium” per l’accesso a maggiori dati. Questi <<donors>> degli annuari firmano una liberatoria ad A. che non ci sono diritti di terzi sugli annuari stessi.

Alcuni cittadini californiani notano i propri dati su tale data base e  si citano A. per queste quattro cauase petendi : <<(1) a violation of their right of publicity under Cal. Civ. Code § 3344, (2) unlawful and unfair business practices, in violation of California’s Unfair Competition Law  UCL), Cal. Bus. & Prof. Code § 17200, (3) intrusion upon seclusion, in violation of California common law, and (4) unjust enrichment resulting from Ancestry’s selling their personal information>>

Inevitgabilmente A. solleva l’immunnità ex §  230 CDA.

Il punto è se A, certamente provider e trattato come editore (primi due requisiti), metta on line  informazioni di terzi oppure proprie (terzo requisito).

Secondo la U. S. DISTRICT COURT NORTHERN DISTRICT OF CALIFORNIA, San Francisco Division, 1 marzo 2021,m Case No. 20-cv-08437-LB, Callahan c. Ancestry.com inc. e altri, si tratta di informazione di terzi ,. per cui  va concessa l’immunità.

Dice: <<First, Ancestry obtained the yearbook content from someone else, presumably other yearbook users.13 The plaintiffs assert that this is not enough because Ancestry did not obtain the content from the author of the content. To support this assertion, they cite two cases, “KNB Enterprises and Perfect 10[, where] the defendants copied photographs from rival websites [and] then sold access to the photos for a subscription fee.” Those defendants, the plaintiffs say, “could not have claimed the protection of § 230” “[b]ecause they did not obtain the photographs from the people who created them. . . .” They conclude that similarly, Ancestry cannot claim § 230(c)(1) immunity.14 But KNBEnterprises and Perfect 10 do not address § 230. Perfect 10, Inc. v. Talisman Commc’ns Inc., No. CV 99-10450 RAP MCX, 2000 WL 364813 (C.D. Cal. Mar. 27, 2000); KNB Enters. v.  atthews, 78 Cal. App. 4th 362 (2000). Moreover, no case supports the conclusion that § 230(a)(1) immunity applies only if the website operator obtained the third-party content from the original author. To the contrary, the Act “immunizes an interactive computer service provider that ‘passively displays content that is created entirely by third parties.’” Sikhs for Justice “SFJ”, Inc. v. Facebook, Inc., 144 F. Supp. 3d 1088, 1094 (N.D. Cal. 2015) (quoting Fair Hous. Council v. Roommates.com, LLC, 521 F.3d 1157, 1162) ), aff’d, 697 F. App’x 526, 526–27 (9th Cir. 2017). 

Second, Ancestry extracts yearbook data (names, photographs, and yearbook date), puts the content on its webpages and in its email solicitations, adds information (such as an estimated birth year and age), and adds interactive buttons (such as a button prompting a user to upgrade to a more expensive subscription). The plaintiffs say that by these actions, Ancestry creates content. To support that contention, they cite Fraley.15 But Fraley involved the transformation of the Facebook user’s content (liking a product) into an advertisement that — without the user’s consent — suggested the user’s endorsement of the product (and resulted in a profit to Facebook by selling the ads). 830 F. Supp. 2d at 791–92, 797. In contrast to the Fraley transformation of personal likes into endorsements, Ancestry did not transform data and instead offered data in a form — a platform with different functionalities — that did not alter the content. Adding an interactive button and providing access on a different platform do not create content. They just add functionality. Kimzey v. Yelp! Inc., 836 F.3d 1263, 1270 (9th Cir. 2016) (Yelp! had § 230 immunity despite adding a star rating to reviews from other websites); Coffee v. Google, LLC, No. 5:20-cv-08437, ECF No. 56 at 13 (Google had § 230 immunity despite adding industry standards and requiring app developers to disclose the odds of winning). Instead of creating content, Ancestry — by taking information and photos from the donated yearbooks and republishing them on its website in an altered format — engaged in “a publisher’s traditional editorial functions [that] [] do not transform an individual into a content provider within the meaning of § 230.” Fraley, 830 F. Supp. 2d at 802 (cleaned up); cf. Roomates.com, 521 F.3d at 1173–74 (website is immune under §230 where it “publishes [] comments as written” that “come[] entirely from subscribers and [are] passively displayed” by the website operator). Ancestry did not contribute “materially” to the content. Roomates.com, 521 F.3d at 1167–68. In sum, Ancestry has immunity under § 230(c)(1).>>.

L’esattezza della tesi, però, non è certa.

DA un lato, è una scelta di A. quella di mettere on line: i donors non esprimono probabilmente alcuna volontà, ma solo autorizzazione, in tale senso. Quindi non c’è passive (ma semmai active) display da parte di A.

Dall’altro, è da vedere se l’aggregazione di dati trasformi o no i dati forniti  (informazione iniziale) in una nuova informazione (dal punto di vista della lesività della privacy altrui), tale da escludere il legame con i donors e da ravvisarlo solo verso A.

(notizia tratta dal blog di Eric Goldman)

Vedo ora che decide in senso opposto District Court of Nevada in Sessa v. Ancestry.com , Sep 16, 2021, caso 2:20-cv-02292-GMN-BNW: <Based on the facts alleged in the Complaint, Ancestry is not immune under Section 230 because it was responsible for posting the information in its database. The Complaint alleges that Ancestry has gathered millions of persons’ personal information through individual records, including many donated yearbooks, which Ancestry has used to build its database. (Compl. ¶¶ 46-50). Accordingly, while the yearbook publishers originated the content that Ancestry used to create its database, and the yearbooks were provided by third parties, Ancestry alone is responsible for posting the material on its website after it receives the records from others. Section 230 immunity therefore does not attach.> (p. 11).

Validità di marchio costituito da lettera “W” e sua confondibilità col successivo marchio in cui la lettera è inserita in marchio complesso

La Starwood Hotels & Resorts Wordlwide, grande catena titolare di strutture alberghiere in tutto il mondo,  è titolare di svariati marchi rappresentanti la lettera dell’alfabeto <W>.

Si accorge che altra azienda usa marchio simile pur se complesso , facendola precedere dalla parola <La Bottega>, in caratere più piccolo e con sovrapposizione merceologica.

Il Trib. di Roma con sent. 203/2021 del 07.01.2021, RG 36301/2016 accerta la validità del marchio attoreo, confemando un orientamento ormai consolidato (c’erano state opinioni opposte in passato): la lettera singola è tutelabile , almeno astrattametne (cioè tipologicamente).  E ciò anche senza particolari specifiche grafiche . Del resto la legge non è equivoca sul punto (art. 7/1 prima parte, cpi).

Anzi, è marchio forte, dice il Trib..

Nello stesso senso ricorda altri precedenti, anche propri (Trib. Roma sez. spec. sent. 9294/2012), cui si può aggiungere Trib. Roma  IX sez. 19.01.2015, G.A.D.I., 2016-XLV, § 6354, p. 171, massime 2 e 4 (sempre concernente il medesimo attore e il medesimo marchio <W>).

Trascura però di osservare che ciò non sottrae il marchio al giudizio sulla sua distintività in concreto.

Anzi è dubbio se si possa parlare di accertamento di validità in proposito, visto che il convenuto non ne ha contestato la validità (probabilmente è però esatto , se lo si ritiene un presupposto logico dei capi di sentenza accertativi della nullità e contraffazione del marchio del convenuto, quindi anche esso coperto da giudicato).

L’attrice aveva chiesto la dichiarazione sia di nullità che di contraffazione, la prima con inibitoria ex art. 21.3 cpi.  Quest’ultima è domanda non fondata , dato che la disposizione parla di nullità che comporti <<illiceità dell’uso>> e cioè ex art. 14/1.a-b (forse anche lettere c.bis segg., ma non la lettera c).

Un’inibitoria specifica poi non aggiunge nulla alla dichiarazione di nullità in termini di doverosità, dato che il divieto è già posto dal cit. art .21/3 cpi: però serve per agganciarla ad un’astreinte.

Nega il danno da lucro cessante (l’attrice aveva chiesto royalties al 10% come prezzo del consenso) dato che anche la condanna ex art. 125/2 cpu presuppone che un qualche danno sia provato. Liquida invece <<in via equitativa un risarcimento del danno emergente correlata all’incidenza negativa della contraffazione sulla unicità e sulla capacità distintiva del marchio ‘W’ contraffatto dalle convenute, che si quantifica in euro 10.000,00 alla data della decisione>> (motivazione un pò vaga).

Da notare che viene negato il rapporto di concorrnzialità (v. § 15). Se ne deduce che la violazione di un marchio altrui è possibile anche da parte di chi tecnicamente (e al momento) non ne è concorrente: cosa non strana, dato che solo il non uso per cinque anni penalizza chi non utilizzi il marchio per i prodotti per cui lo ha registrato.