La violazione di un contratto di licenza di software rientra nell’ambito applicativo della direttiva 2004/48? Si, per la Corte di Giustizia

E’  capitato in Francia che un soggetto, dopo aver licenziato un software, abbia citato in giudizio il licenziatario per violazione del contratto di licenza (per modifica non autorizzata del programma).

Ivi vige il divieto di cumulo tra tutela aquiliana e tutela contrattuale: per il medesimo fatto non si può rispondere sia per l’uno che per l’altro titolo; inoltre, se il contratto è valido e il danno deriva dall’inadempimento, è esclusa la responsabilità aquiliana ( §  23 della sentenza cit. infra).

Processualmente era capitato -se ben intendo- che era stata chiesta la condanna al risarcimento per contraffazione (responsabilità aquiliana), pur emergendo dagli atti che il danno era conseguenza di una violazione contrattuale (§ 18).

la corte d’Appello di Parigi sollevava dunque la seguente questione:

«Se il fatto che un licenziatario di software non rispetti i termini di un contratto di licenza di software (per scadenza di un periodo di prova, superamento del numero di utenti autorizzati o di un’altra unità di misura, quali i processori utilizzabili per far eseguire le istruzioni del software, o per modifica del codice sorgente allorché la licenza riserva tale diritto al titolare originario):

–        costituisca una contraffazione (ai sensi della direttiva [2004/48]) subita dal titolare del diritto d’autore del software riservato dall’articolo 4 della direttiva [2009/24] relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore,

–        oppure possa essere soggetto a un regime giuridico distinto, come quello della responsabilità contrattuale di diritto comune».

In breve, si chiede se la violazione di un contratto di licenza di software sottosti alla disciplina posta dalla direttiva 2004/48 oppure se questa si riferisca solo alle violazioni commesse da terzi privi di rapporti contrattuali col titolare.

E’ allora intervenuta la Corte di Giustizia con sentenza 18.12.2019, C-666/18,  IT Development SAS c Free Mobile SAS.

La questione può essere risolta in termini semplici, anche se presenta spazi interessanti di approfondimento.

La soluzione è infatti senz’altro nel senso che pure le violazioni contrattuali della proprietà intellettuale sottostanno alla dir. 2004/48.

Come ricorda la Corte  (§ 35-36), la dir.,  parlando di “rispetto” e di “violazione” dei “diritti di proprietà intellettuale”, non c’è dubbio che si riferisca non solo ai diritti ex lege ma anche a quelli conformati o modulati da atto dispositivo (quindi da contratto).

Nè c’è dubbio che si riferisca anche ai diritti sul software ex dir. 2009/24

Dopo che l’atto contrattuale ha disposto della privativa, infatti, violarla nella modalità così conformata rimane una violazione. Cioè violare l’atto pattizio conformativo della privativa significa violare la privativa stessa, seppur nella conformazione emersa dall’atto dispositivo.

Lo spazio di approfondimento a cui accennavo riguarda il caso, in cui il titolare leso scelga la tutela contrattuale, anziché aquiliana. Poichè anche la prima, come appena visto, rientra nell’ambito della direttiva 2004/48, ci si può chiedere se la tutela offerta dalla disciplina del contratto (nazionale anzichè armonizzata; essendo difficile pensare all’incidenza della normativa consumeristica che eventualmente prevarrebbe come norma speciale) risponda alle prescrizioni della direttiva medesima. Profilo nuovo e meritevole di approfondimento.

Il concorso tra le due responsabilità,  in linea generale, è tema assai risalente e trova un’applicazione nazionale in materia di marchi: precisamente nel comma 3 dell’articolo 23 c.p.i. Tale disposizione viene interpretata  come regola che permette la scelta a favore dell’azione contrattuale, anziché di quella aquiliano/contraffattoria (quantomeno l’interpretazione preferibile) .

Un’importante sentenza inglese sulla comunicazione al pubblico effettuata da aggregatore di radio internet (Warner e Sony v. TuneIn)

Con l’importante sentenza del 1 novembre 2019, [2019] EWHC 2923 (Ch) Case No: IL-2017-000025, la High Court of Justice-Business & Property Courts of England and Wales. Intellectual Property List, a firma del giudice Birss , interviene sul dibattito inerente la comunicazione al pubblico di opere già rese pubbliche in precedenza (esiste poi una seconda sentenza parallela nella medesima lite,  [2019] EWHC 3374 (Ch) – claim No. IL-2017-000025, relativa solo ad inibitoria e costi, qui non esaminata). Ne dà notizia

Nella fattispecie Warner Music e Sony Music Entertainment sostenevano che la TuneIn Incorporated, quale aggregatore di internet radio stations, dovesse ottenere da loro licenza (§ 11), come avviene quando le radio si rivolgono a collecting societies per diffondere musica dei loro repertori (§§ 3-4). TuneIn lo contestava, affermando di limitarsi a fornire hyperlinks ad opere già rese pubbliche.

La Corte (EWHC) affronta la questione con pregevole approfondimento, tutto concentrato sui fatti e sulla giurisprudenza, come nella prassi anglosassone.

Prima compare un’introduzione sui fatti (§§ 1-10: v. spt. quelli che descrivono l’attività di TuneIn) e l’esame della (fondamentale, per gli operatori) questione di giurisdizione, c.d. audience targeting test (§§ 12-34), usato in common  law (v. ad es. Belfield, Establishing personal jurisdiction in an internet context: reconciling the fourth circuit “targeting” test with Calder v. Jones using awareness, in UNIVERSITY OF PITTSBURGH LAW REVIEW vol. 80, winter 2018).

Poi il giudice Birss affronta la questione relativa alla comunicazione al pubblico. Inizia ricordando la normativa rilevante (§§ 35 ss) e poi -con un apprezzabile dettaglio- la giurisprudenza europea (§§ 48 ss)

In particolare come ovvio si riferisce essenzialmente ai casi Svensson del 2014 e GS Media del 2016: si v. ad es. § 66 dove coglie la novità costituita dalla rilevanza dello stato soggettivo di conoscenza in capo alla persona che crea il link per capire se o meno ha commesso comunicazione al pubblico , rilevanza propria della accessory tort liability (corresponsabilità aquiliana), che non è armonizzata in UE.

Al § 90 esamina la sentenza Renckhoff del 2018, che potrebbe essere ritenuta confliggente con GS Media . La  conciliazione da parte del giudice è trovata nei §§ 101-102. Il punto è molto importante: quando taluno acconsente alla pubblicazione su un sito, è vero che prende in considerazione tutti i potenziali utenti del web, ma solo come destinatari di link al sito stesso, non dei file ivi presenti (si v. al § 109 la sintesi di altra sentenza inglese del 2013 sull’acquis europeo in tema di comunicazione al pubblico ).

Questo passo centrale della motivazione è però di dubbia esattezza: si v. in senso contrario le conclusioni dell’Avvocato Generale Sanchez-Bordona nella causa  Renckhoff , andate disattese dalla Corte europea.

Il giudice Birss ricorda che la differenza tra Renckhoff e Soulier del 2016, da una parte, e Svensson, dall’altra, sta nel fatto che la divulgazione tramite link permette al titolare di rimuovere da internet il materiale, quando lo voglia; il che invece non è possibile se la divulgazione è avvenuta riproducendo il file su un nuovo sito (§ 104).

Questo però -preciso io- non toglie che i pubblici considerati siano i medesimi: allora la differenza non è tra i pubblici considerati in assoluto , ma tra pubblici considerati a seconda del possibile successivo mezzo di diffusione del materiale e o della notizia. Si tratta di fictio iuris. Il punto -centrale, lo ripeto- richiederebbe approfondimento.

Al § 113 il giudice categorizza le internet radio stations in quattro tipi, per poi analizzarli partitamente:

i) music radio stations which are licensed in the UK (Category 1);

ii) music radio stations which are not licensed in the UK or elsewhere (Category 2);

iii) music radio stations which are licensed for a territory other than the UK (Category 3); and

iv) Premium music radio stations (Category 4).

Ssuccessivamente valuta l’applicabilità della comunicazione al pubblico al servizio di TuneIn ( § 120 ss.).

Al § 121 esamina i normali motori di ricerca e quindi afferma che Tunein non  è equiparabile ad un ordinario search engine ( § 121) :

<<In argument neither party put it this way but it seems to me that when making a comparison with internet search engines it is necessary to identify the appropriate comparator. The relevance of the comparison is to illuminate where the balance lies between the functioning of the internet and the freedoms associated with that on the one hand, and the high protection to be afforded to intellectual property rights on the other. The issue is whether TuneIn does something different from the kind of search engine service which is a necessary part of the normal functioning of the internet. I call that a conventional search engine. A conventional search engine provides a service which the functioning of the internet depends on. It has a database with a search facility. It will no doubt have a prominent box for search on its home page. It will (internally) have structured indices of what is on the database. It may use fuzzy logic and automatic completion of text strings. When a search term is entered, the engine simply provides links to other websites in response to search terms. If a user selects the link then, at least from their point of view, the user is taken to that other website and the involvement of the search engine ceases. The search function is optimised in all sorts of ways to try and offer users what the search engine provider thinks the user really wants, nevertheless the search results provided are essentially neutral. Sponsored links (i.e. advertisements) may also be provided, reflecting a direct relationship between the search engine and particular websites or advertisers, but that sort of material is provided alongside the search results, not instead of them>>

Al § 123 elenca le caratteristiche del servizio Tunein: aggregation, categorization, curation of stations Lists, personalisation of content, search functionality, Station information, Artist information:

i) Aggregation: TuneIn collates and provides access to a vast array of international radio station streams. It essentially acts as a ‘one-stop shop’ for users, who are easily able to browse, search for and listen to stations in one place. The alternative for users is to use a standard internet search engine to locate a webcast / simulcast station by using tailored search terms, and then click-through to their websites to listen to the specific stream. One aspect of the difference there is that in the latter case the advertising targeted to the user once they access the stream will be entirely distinct in the two cases.

ii) Categorisation: TuneIn Radio enables users to browse by categories of music, such as location, genre and language, including sub-categories within those categories. This is the most commonly used method for users to find audio content. Music stations are placed in categories based on information provided by the stations and factors such as geographical location.

iii) Curation of station lists: In addition to categorising stations, TuneIn curates lists of radio stations and programmes to present them to users as part of the browsing experience on its website and via the apps. These stations are collated by factors such as location and language or themed around current events. For example, TuneIn promotes lists of stations to users, such as “Spin the Globe” (comprising international music stations) and “Editor’s Choice – Music” (a hand-curated list of music stations). Certain stations are also listed in a “Featured” section, which is frequently updated by TuneIn to keep content relevant and non-repetitive.

iv) Personalisation of content: TuneIn Radio provides a personalised service to users, which facilitates their ability to find and listen to radio stations. TuneIn recommends stations to users based on their location, the reliability of audio streams and (in respect of registered users) the user’s listening history. Registered users are also able to view their listening history and tag their ‘favourite’ stations and/or artists, which enables them to quickly access radio stations they have previously listened to via TuneIn Radio or their favourite stations and artists.

v) Search functionality: Users are able to search TuneIn Radio for specific radio stations and artists by name. The search functionality prioritises inter alia reliable station streams and stations which are popular at that time.

vi) Station information: TuneIn collates information about music stations, which is presented on individual station pages. This includes the genre of the station and, where available, the artist and track currently playing, the station’s show timetable and related podcasts or featured shows.

vii) Artist information: TuneIn also collates information about artists on dedicated artist pages, which can be accessed by searching for the particular artist. The artist pages include a list of stations which play the particular artist (based on metadata provided by the stations) and a list of the artist’s albums. Users are also able to click-through to each album page, which displays the individual tracks on each album.

Ai §§ 127-128 indica perché TuneIn non è paragonabile al motore di ricerca che fornisce link. Si tratta del punto centrale della sentenza (§ 128):

i) The fact that TuneIn aggregates links to audio streams as opposed to links to some other form(s) of content is relevant. The audio streams carry music and as a result they engage various intellectual property rights, as TuneIn is well aware.

ii) The data collected and curated by TuneIn allows for searches of stations to be carried out by artist. Such a search returns internet radio stations which are playing music by the artist at that moment. As I understand it this is only possible as a result of TuneIn’s own monitoring stream metadata and the AIR APIs. There was evidence about what a search for internet radio stations would produce on the commonly used Google search engine but, as far as I am aware, there is no evidence that a similar search on that search engine would produce results of the same kind as TuneIn.

iii) The fact that when a station is selected, although a hyperlink to the stream is provided at a technical level, from the user’s point of view content is provided to them at the TuneIn site. In effect this is a kind of framing. The fact that framing was not relevant to answer the questions posed in Svensson (para 29) does not mean it is irrelevant to considering the nature of TuneIn’s activity.

iv) The persistent nature of the content to which the user wishes to link. This is connected to (iii) but is a different point. One of the consequences of providing streams is that they persist over time as the user listens to them. In a conventional search engine, once a user has clicked on a link, they go to the new website and the involvement of the search engine is over. That is not how TuneIn’s service works and if it was then TuneIn would not be able to provide its own visual advertisements while the user was listening.

Date queste differenze il giudice Birss conclude che << For all these reasons I find that TuneIn intervenes directly in the provision of the links to the streams in a manner which neither conventional search engines nor hyperlinks on conventional websites do. TuneIn’s service is not the same as either a conventional search engine or the conventional hyperlinks considered in Svensson and GS Media.                 Before getting to individual categories, I find therefore that the activity of TuneIn does amount to an act of communication of the relevant works; and also that that act of communication is to a “public”, in the sense of being to an indeterminate and fairly large number of persons (see Arnold J’s summary at paragraph >> (§§ 130/131)

La, pur pregevole ed accurata, disamina non riesce però persuasiva. TuneIn non appare nulla più che un fornitore di link, per quanto tailorizzato e customizzato in base ad algoritmi magari autoapprendenti, non sostanzialmente diverso -sotto il profilo della comunicazione al pubblico- da un normale motore di ricerca

Il giudice deve quindi esaminare se l’atto sub iudice, accertato come di comunicazione al pubblico,  era rivolta ad un pubblico nuovo (§ 132 seguenti, soprattutto §§ 135/136), secondo l’elaborazione giurispruedneziale europea della comunicazione al pubblico di opere già pubblicate in precedenza (quando si tratti di uso del medesimo mezzo diffusivo).

La risposta è positiva: << Therefore it is appropriate to analyse the facts on the footing that the whole internet public, insofar as they encounter a link to a Category 3 station which is provided either by a conventional search engine or some other conventional sort of website, has been taken into account. It is an inherent aspect of making this material available on the internet that that sort of linking is likely to happen.       On the other hand, absent evidence to the contrary, there is no reason why the kind of public to whom TuneIn’s system is addressed should have been taken into account. TuneIn’s activity is a different kind of act of communication and is targeted at a particular public, i.e. users in the UK>> ( §§ 139-140)

Questo per la categoria di Radio Station numero 3. Le altre categorie non le esamino ma comunque seguono subito dopo: v. §§ 143 160 per la categoria 2, §§ 161 163 per la categoria 4, §§ 164 171 per la categoria 1.

Successivamente esamina la qualificazione giuridica del servizio Premium cioè senza pubblicità (§§ 172 e seguenti)

Interessante anche la disamina sulla responsabilità di coloro che forniscono i servizi radio cioè delle singole radio (§§ 192 e seguenti) : circa la categoria 3 (condivisibilemtne) afferma che c’è comunicazione al pubblico (§ 193).

Infine ai §§  205 ss nega l’applicazione della direttiva e-commerce n. 31 del 2000 nella parte in cui concede il safe harbour agli internet providers (artt. 12-15).

La conclusioni sono al paragrafo 213:

i) TuneIn’s service (web based or via the apps), insofar as it includes or included the sample stations in Categories 2, 3, and 4, infringes the claimants’ copyright under s20 of the 1988 Act.

ii) TuneIn’s service (web based or via the apps), insofar as it includes the sample stations in Category 1, does not infringe the claimants’ copyright under s20 of the 1988 Act.

iii) TuneIn’s service via the Pro app when the recording function was enabled infringed the claimants’ copyright under s20 of the 1988 Act insofar as it included the sample stations in Categories 1, 2, 3, and 4.

iv) Individual users of the Pro app who made recordings of sound recordings in claimants’ repertoire will themselves have committed an act of infringement under s17 of the 1988 Act. Some but not all will have fallen within the defence in s70.

v) The providers of sample stations in Categories 2, 3, and 4 will (or did) infringe when their station was targeted at the UK by TuneIn.

vi) TuneIn is liable for infringement by authorisation and as a joint tortfeasor.

vii) TuneIn cannot rely on the safe harbour defences under Arts 12, 13 and 14 of the E-Commerce Directive.

Sull’evocazione di una D.O.P. tramite segno figurativo anziché denominazione

Nello scorso maggio la Corte di Giustizia si è pronunciata su interessanti questioni teoriche in materia di DOP , di sicura rilevanza pratica: sentenza 2 maggio 2019, C-614/17, Fundación Consejo Regulador de la Denominación de Origen Protegida Queso Manchego c. Industrial Quesera Cuquerella SL-Juan Ramón Cuquerella Montagud.

Nel caso specifico si trattava della DOP <<queso manchego>> relativa a formaggi provenienti dalla regione spagnola de La Mancia

Era capitato che un produttore della zona (IQC), commercializzante formaggi non conformi al disciplinare della DOP,  con le sue etichette richiamava non direttamente la DOP bensì la regione spagnola appunto de La Mancia: ciò faceva soprattutto tramite richiami al personaggio letterario di Don Chisciotte della Mancia.

La sentenza (§ 7) menziona i tre tipi sotto ricordati (che potrebbero essere quelli rappresentati nelle fotografie linkate, tratte dalla Rete):

<<Adarga de Oro>>;

<<Super Rocinante>>;

<<Rocinante>>;

La Fondazione riteneva che ciò costituisse evocazione illegittima della DOP sulla base dell’art. 13 lett. b) del reg. 510/2006 (§ 7 sentenza CG). Il testo dell’art. 13 il cui testo è:

<< 1.   Le denominazioni registrate sono tutelate contro:

a)  qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di una denominazione registrata per prodotti che non sono oggetto di registrazione, nella misura in cui questi ultimi siano comparabili ai prodotti registrati con questa denominazione o nella misura in cui l’uso di tale denominazione consenta di sfruttare la reputazione della denominazione protetta;

b) qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali «genere», «tipo», «metodo», «alla maniera», «imitazione» o simili;

c) qualsiasi altra indicazione falsa o ingannevole relativa alla provenienza, all’origine, alla natura o alle qualità essenziali dei prodotti usata sulla confezione o sull’imballaggio, nella pubblicità o sui documenti relativi ai prodotti considerati nonché l’impiego, per il condizionamento, di recipienti che possono indurre in errore sull’origine;

d) qualsiasi altra prassi che possa indurre in errore il consumatore sulla vera origine dei prodotti.

Se una denominazione registrata contiene il nome di un prodotto agricolo o alimentare che è considerato generico, l’uso di questo nome generico sui corrispondenti prodotti agricoli o alimentari non è considerato contrario al primo comma, lettera a) o b).>>.

La Fondazione agiva quindi verso IQC ma vedeva respinta la domanda in primo e secondo grado. Successivamente il Tribunal Supremo formulava tre importanti questioni pregiudiziali (§ 14):

<<1 – Se l’evocazione della [DOP], evocazione che è vietata dall’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 510/2006, debba necessariamente derivare dall’uso di denominazioni che presentano una somiglianza visiva, fonetica o concettuale con la [DOP] o se possa derivare dall’uso di segni figurativi che evocano la [DOP].

2  –   Nel caso di una [DOP] di natura geografica [articolo 2, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 510/2006] e in presenza degli stessi prodotti o di prodotti simili, se l’uso di segni che evocano la regione cui è associata la [DOP] possa essere considerato un’evocazione della stessa [DOP], ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 510/2006, che è inaccettabile anche nel caso in cui colui che utilizzi tali segni sia un produttore stabilito nella regione cui è associata la [DOP], ma i cui prodotti non sono protetti da tale [DOP], perché non soddisfano i requisiti, diversi dall’origine geografica, richiesti dal disciplinare.

3 – Se la nozione di consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, alla cui percezione deve fare riferimento il giudice nazionale per determinare se esista un’“evocazione” ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 510/2006, debba intendersi riferita a un consumatore europeo o possa essere riferita solo al consumatore dello Stato membro in cui si fabbrica il prodotto che dà origine all’evocazione dell’indicazione geografica protetta o cui è associata geograficamente la DOP, e in cui esso si consuma maggiormente>>.

Sulla prima,  la CG risponde che l’evocazione può derivare anche da un’immagine e non solo da un segno denominativo. La risposta è condivisibile, non essendoci alcun limite nella norma in tal senso, né essendo desumibile dalla successiva lettera c) nel senso che solo in questa fattispecie rileverebbe l’evocazione tramite immagine (§§ 23-28).

La seconda questione è meno semplice sotto il profilo teorico. Secondo la CG anche l’evocazione della Regione può costituire evocazione della dop e ciò anche se il produttore risieda nella regione stessa, purchè in tal modo il consumatore sia portato a pensare alla DOP.  Precisamente così dice (§§ 38-40):

<< 38  In tal modo, il giudice nazionale deve sostanzialmente fondarsi sulla presunta reazione del consumatore, essendo essenziale che il consumatore effettui un collegamento tra gli elementi controversi, nel caso di specie segni figurativi che evocano l’area geografica il cui nome fa parte di una denominazione d’origine, e la denominazione registrata (v., in tal senso, sentenza del 21 gennaio 2016, Viiniverla, C‑75/15, EU:C:2016:35, punto 22). 

39      A tale riguardo, spetta a tale giudice valutare se il nesso tra tali elementi controversi e la denominazione registrata sia sufficientemente diretto e univoco, di modo che il consumatore, in loro presenza, è indotto ad avere in mente soprattutto tale denominazione (v., in tal senso, sentenza del 7 giugno 2018, Scotch Whisky Association, C‑44/17, EU:C:2018:415, punti 53 e 54). 

40      Pertanto, spetterà al giudice del rinvio stabilire se esista una vicinanza concettuale, sufficientemente diretta e univoca, tra i segni figurativi di cui al procedimento principale e la DOP «queso manchego», che, conformemente all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), del regolamento n. 510/2006, rinvia all’area geografica alla quale essa è collegata, vale a dire la regione La Mancia.>>

La risposta della Corte è un pò frettolosa a fronte della complessità della questione. Infatti il monopolio comunicativo concerne solo il nome della DOP e non il termine amministrativo di un’articolazione statale o substatale , che deve rimanere nella libera disponibilità di tutti. Impedirlo significherebbe impedire di comunicare il pregio della propria regione, che non è detto sia costituito necessariamente e per sempre solo dalla DOP sub iudice. Inibire il richiamo alla regione a terzi , allora, ostacolerebbe altre iniziative imrpenditoriali locali, concorrenziali o meno con la DOP-.  Su questa ragione riposano norme come l’art. 11 c. 4 c.p.i. sul marchio collettivo: dopo aver precisato che <<Qualsiasi soggetto i cui prodotti o servizi provengano dalla zona geografica in questione ha diritto sia a fare uso del marchio, sia a diventare membro della associazione di categoria titolare del marchio, purche’ siano soddisfatti tutti i requisiti di cui al regolamento>>, ammette che ciònonostante <<l’Ufficio italiano brevetti e marchi puo’ rifiutare, con provvedimento motivato, la registrazione quando i marchi richiesti possano creare situazioni di ingiustificato privilegio o comunque recare pregiudizio allo sviluppo di altre analoghe iniziative nella regione. L’Ufficio italiano brevetti e marchi ha facolta’ di chiedere al riguardo l’avviso delle amministrazioni pubbliche, categorie e organi interessati o competenti>>. Che significa <<analoghe>>? in rapporto di concorrenzialità? Del resto l’art. 13 reg. 510/2006 parla di <<prodotti … comparabili>> per cui pare esclusa una tutela extramerceolgica del tipo di quella offerta ai segni rinomati (conf. Grisanti, L’ “evocazione” di elementi figurativi e l’interpretazione della CGUE in relazione alla tutela delle DOP/IGP dei prodotti agricoli ed alimentari: il caso “Queso Manchego”, Il dir. ind., 2019, 5, 439-440, in nota alla sentenza qui esaminata, che ricorda il dibattito sul punto).

Eventualmente si può dire forse che l’evocazione della regione è vietata, se porta ad evocare direttamente, inevitabilmente ed esclusivamente la DOP. Cosa che però sarà difficile da verificarsi e dipenderà dal parametro soggettivo di riferimento, oggetto della terza questione pregiudiziale.

Sulla terza questione pregiudiziale La Corte risponde che il parametro soggettivo di riferimento è il consumatore europeo medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto . Con riferimento poi al modo in cui si deve considerare il consumatore del paese della DOP (certamente più attento di quello  degli altri paesi), la risposta della Corte -non chiarissima- è la seguente

<< Ne risulta che occorre rispondere alla terza questione dichiarando che la nozione di consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, alla cui percezione deve fare riferimento il giudice nazionale per determinare se esista un’«evocazione» ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 510/2006, deve intendersi riferita a un consumatore europeo, compreso un consumatore dello Stato membro in cui si fabbrica e si consuma maggiormente il prodotto che dà luogo all’evocazione della denominazione protetta o a cui tale denominazione è associata geograficamente>>.

Non è chiarissima poichè dire che va riferita <<al consumatore europeo compreso quello dello stato di produzione e consumo>> (ipotizzando che questi ultimi due aspetti coincidono nel medesimo stato)  non chiarisce se debbano considerarsi i più informati (i quali magari proprio per questo non faranno l’associazione mentale unica ed esclusiva alla DOP) o i meno informati

L’I.G.P. protegge la denominazione complessivamente presa o anche le singole componenti?

La Corte di Giustizia si è pronunciata sulla controversia tra il consorzio tutela Aceto Balsamico di Modena e la Balena GmBH (C.G. 04.12.2019, C-432/18, Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena c. Balema GmbH).

V. mio post 19.08.2019 sulle conclusioni dell’A.G. Hogan.

il Consorzio aveva registratato l’IGP <<Aceto Balsamico di Modena (IGP)>> ma Balema GmBH utilizzava nelle sue etichette il termine <<balsamico>> su prodotti a base di aceto che non rispondono al disciplinare dell’IGP (gli usi della Balema sono indicati al § 11).

La normativa pertinente è il reg. 1151/2012, che aveva abrogato e sostituito il 510/2006 il quale a sua volta aveva sostituito  reg. 2081/92. La norma invocata dal Consorzio, che dispone l’ambito dell’esclusiva, è l’articolo 13 paragrafo 1 e 2, il quale così dispone:

<<1.   I nomi registrati sono protetti contro:    a)     qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di un nome registrato per prodotti che non sono oggetto di registrazione, qualora questi ultimi siano comparabili ai prodotti registrati con tale nome o l’uso di tale nome consenta di sfruttare la notorietà del nome protetto, anche nel caso in cui tali prodotti siano utilizzati come ingrediente;     b)   qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera dei prodotti o servizi è indicata o se il nome protetto è una traduzione o è accompagnato da espressioni quali «stile», «tipo», «metodo», «alla maniera», «imitazione» o simili, anche nel caso in cui tali prodotti siano utilizzati come ingrediente;      c)   qualsiasi altra indicazione falsa o ingannevole relativa alla provenienza, all’origine, alla natura o alle qualità essenziali del prodotto usata sulla confezione o sull’imballaggio, nel materiale pubblicitario o sui documenti relativi al prodotto considerato nonché l’impiego, per il confezionamento, di recipienti che possano indurre in errore sulla sua origine;   d)   qualsiasi altra pratica che possa indurre in errore il consumatore sulla vera origine del prodotto.

Se una denominazione di origine protetta o un’indicazione geografica protetta contiene il nome di un prodotto considerato generico, l’uso di tale nome generico non è considerato contrario al primo comma, lettera a) o b).

  1.  Le denominazioni di origine protette e le indicazioni geografiche protette non diventano generiche>>.

L’ IGP era stata registrata con regolamento della Comm. 503 del 2009

La questione pregiudiziale sollevata dal giudice tedesco al suo massimo livello (BGH) è la seguente: <<«Se la tutela di cui beneficia la denominazione “Aceto Balsamico di Modena” nel suo insieme si estenda anche all’utilizzazione dei singoli termini non geografici che compongono tale denominazione (“Aceto”, “Balsamico”, “Aceto Balsamico”)».>>, §16

La questione dunque era se la protezione riguarda anche le sue singole componenti oppure solo la denominazione complessivamente e unitariamente considerata

La risposta della Corte è stata negativa.

la Corte, dopo aver detto che spetta al giudice nazionale stabilirlo (§ 25), pare ammettere che in certi casi la protezione può riguardare le sue singole componenti quando il regolamento che registra l’IGO così disponga (l’espressione è un pò contorta e lo dice in negativo) : <<Tuttavia, la Corte ha altresì dichiarato che, nel caso di una denominazione «composta» registrata conformemente al regolamento n. 2081/92, il fatto che per quest’ultima non esistano indicazioni sotto forma di note a piè di pagina nel regolamento recante registrazione della stessa, le quali precisino che la registrazione non è stata richiesta per una delle parti di questa denominazione, non implica necessariamente che ogni sua singola parte è protetta.>> (paragrafo 26, primo per.)

Questo però nulla dice per il caso in cui il regolamento di registrazione sia muto sul punto. In tal caso secondo la Corte la protezione potrà riguardare una singola componente denominativa solo <<se tale componente non è né un termine generico né un termine comune (v., in tal senso, sentenza del 9 giugno 1998, Chiciak e Fol, C‑129/97 e C‑130/97, EU:C:1998:274, punti 37 e 39>> (paragrafo 26 in fine)

Pertanto, andando al reg. 583/2009, secondo la Corte <<la protezione conferita a tale denominazione non può estendersi ai singoli termini non geografici della stessa.>>, § 28.

La Corte motiva ciò appoggiandosi al reg. di registrazione, il cit. 583/2009: il quale non solo non esplicita una protezione parziale della denominazione ma anzi offrirebbe argomenti in senso opposto. In particolare la Corte si basa sul suo cons. 10: <<sembra che la Germania e la Grecia, nelle obiezioni sollevate relativamente al carattere generico del nome proposto per la denominazione, non abbiano tenuto conto della suddetta denominazione nel suo complesso, ovvero «Aceto Balsamico di Modena», ma soltanto di alcuni suoi elementi, ossia i termini «aceto», «balsamico» e «aceto balsamico» o le rispettive traduzioni. Ora, la protezione è conferita alla denominazione composta «Aceto Balsamico di Modena». I singoli termini non geografici della denominazione composta, anche utilizzati congiuntamente, nonché la loro traduzione, possono essere adoperati sul territorio comunitario nel rispetto dei principi e delle norme applicabili nell’ordinamento giuridico comunitario.>> (§ 31)

Conseguirebbe <<inequivocabilmente dai considerando del regolamento n. 583/2009 che i termini non geografici dell’IGP di cui trattasi, vale a dire «aceto» e «balsamico», la loro combinazione e le loro traduzioni non possono beneficiare della protezione conferita dal regolamento n. 510/2006 e che è ormai assicurata dal regolamento n. 1151/2012 all’IGP «Aceto Balsamico di Modena»>> (§ 33).

Inoltre il termine <<balsamico>> è descrittivo e privo di connotazione geografica: <<è pacifico che il termine «aceto» è un termine comune, come già constatato dalla Corte (v., in tal senso, sentenza del 9 dicembre 1981, Commissione/Italia, 193/80, EU:C:1981:298, punti 25 e 26). Dall’altro lato, il termine «balsamico» è la traduzione, in lingua italiana, dell’aggettivo «balsamique», che non ha alcuna connotazione geografica e che, per quanto riguarda l’aceto, è comunemente usato per designare un aceto che si caratterizza per un gusto agrodolce. Si tratta quindi, anche in questo caso, di un termine comune ai sensi della giurisprudenza ricordata al punto 26 della presente sentenza.>>, § 34.

Da ultimo,  spinge per la protezione limitata al complesso della denominazione e non alle singole componenti anche la concessione di due  DOP: <<Infine, come parimenti rilevato, in sostanza, dall’avvocato generale ai paragrafi 57 e 58 delle sue conclusioni, tale interpretazione della portata della protezione conferita all’IGP in questione si impone alla luce delle registrazioni delle DOP «Aceto balsamico tradizionale di Modena» e «Aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia», le quali, come indicano i considerando del regolamento n. 583/2009, sono state peraltro prese in considerazione dalla Commissione al momento dell’adozione del medesimo regolamento. Infatti, non si può ritenere che l’uso nel testo di tali DOP dei termini «aceto» e «balsamico» nonché l’uso delle loro combinazioni e traduzioni possano pregiudicare la protezione conferita all’IGP di cui trattasi.>> (§ 35).  Cioè nel senso, se ben capisco, che, se venisse nel casode quo concessa la protezione anche al solo termine <<Balsamico>>, diverrebbe illecito paradossalmente l’utilizzo delle due DOP citate: il che non sarebbe possibile (i §§ 57-58 delle conclusioni dell’AG, richiamate dalla CG, non confortano in tal senso,  essendo oscure).

Pertanto la risposta è che <<l’articolo 1 del regolamento n. 583/2009 deve essere interpretato nel senso che la protezione della denominazione «Aceto Balsamico di Modena» non si estende all’utilizzo dei termini individuali non geografici della stessa.>> (§ 36).

Tre osservazioni finali sulla scarsa precisione concettuale (o motivazione) della CG.

1 – la protezione non è offerta dal reg. 583/2009, che si limita a registrare la IGP richeista, bensì dal reg. 510/2006 (o da quello applicabile ratione temporis);

2 – lascia sconcertati interpretare la norma di legge (art. 13 del reg. 510/2006 o 1151 del 2012) in base al reg. 583/2009 e cioè tramite regole presenti nel suo atto applicativo: cioè interpretare l’atto normativo in base al suo regolamento esecutivo (tra l’altro , emanato da altra autorità). Ciò in mancanza di norma ad hoc nella legge che sarebbe però del tutto incostituzionale o contraria ai Trattati UE.

A meno di intendere che sia il richiedente stesso a limitare la protezione ad una parte solo della denomunazione che indica. Ipotesi che non pare ricorrere nel caso sub iudice e comunque assai diversa dal se -in assenza di tale limitazione chiesta dall’istante- vada concessa protezione anche su singole componenti di una denomnuiazione complessa.

3 – lascia sconcertati pure determinare l’estensione della protezione in base alla presenza di due precedenti DOP che verrebbero pregiudicate dalla intepretazione respinta: come se la protezione dipendensse non dalla legge ma dall’affollameno del settore.

Parrebbe aver deciso in senso opposto alla C.G. la Corte di Appello di Colonia, 18.01.2019, pubblicata in italiano in Il dir. ind., 2019/5, 457 ss con nota critica di F. Buenger (secondo la traduzione ivi presente): << 72 Inoltre, la Corte di giustizia ritiene che la protezione diuna denominazione d’origine composta non si riferisce necessariamente a tutti i suoi elementi se nel regolamento di registrazione non vi è una nota a piè di pagina in cui si afferma che la protezione non è richiesta per una parte della denominazione (cfr. BGH, GRUR2018, 848 – Deutscher Balsamico, mwN).73 Da quanto precede risulta chiaramente, anche alla luce della giurisprudenza della Corte federale tedesca e della Corte di giustizia sopra citata, che la tutela della denominazione composta può comprendere anche la tutela di singoli elementi di tale denominazione. Ne risulta inoltre che la protezione copre in ogni caso quegli elementi che indicano l’origine geografica, il che è evidente anche dall’eccezione relativa alla denominazione generica. Questi principi sono stati confermati dalla Corte di giustizia nella decisione “Glen Buchenbach” (C-44-17, GRUR2018, 843), riassumendo i presupposti per poter ritenere sussistente un’evocazione nell’ambito dell’interpretazione dell’articolo 16 del regolamento (CE) n. 110/2008 (regolamentosulle bevande spiritose), che è identico nei punti essenziali con il regolamento oggetto della presente decisione (…) 74 Nel complesso, la giurisprudenza della Corte di giustiziae, successivamente, della Corte federale tedesca chiarisceche singoli elementi, in particolare quelli che indicanol’origine geografica, possono essere protetti. Inoltre, lacitata decisione della Corte di giustizia stabilisce anchele norme e le condizioni alle quali un’evocazione ai sensidei regolamenti deve essere assunta a livello europeo.>>

Questa decisione tedesca si segnala, oltre che per alcune interessanti considerazioni sulla giurisdizione, anche perchè ha ritenuto che <<la denominazione “Culatello di Parma” per un prosciutto crudo affettato in confezioni trasparenti è  un’evocazione alla denominazione di origine protetta “Prosciutto di Parma”>> (massima ivi presente). In pratica negando specificità al Culatello, cosa forse ammissibile in Germania ma non in Italia: ma allora bisogna indagare quale sia il parametro soggettivo di riferimento (sul che si sofferma la terza massima)

Legittimazione del Fallimento alle azioni di responsabilità (art. 146 l. fall.): tra gli “organi di controllo” rientrano pure i revisori?

La risposta data da Trib. Bologna-sez. imprese n. 2651/2019 del 12.12.2019, RG 7348/2016, è positiva: il Fallimento è legittimato ad agire in responsabilità anche verso i revisori.

Ecco il ragionamento sul punto condotto dal Collegio:

<<L’art. 146 l.f. è norma di natura processuale e meramente ricognitiva della legittimazione  del  Curatore  ad  esercitare  le  azioni  di  responsabilità  civilistiche, presentando  una  formulazione  ampia  rispetto  ai  soggetti  passivi  destinatari  della predetta azione. Inoltre trattasi di disposizione a carattere “normativo”, in quanto necessita  di  essere  letta  non  atomisticamente,  ma  alla  luce  delle  disposizioni codicistiche  di  natura  sostanziale.  Alla  luce  della  giurisprudenza  sul  punto  e  in sintonia  con  la ratio della  disposizione  in  esame,  l’ampia  nozione  di  organi  di controllo non può essere circoscritta solamente ai componenti dell’organo sindacale ma, tenuto conto della attività espletata, può ragionevolmente essere estesa anche ai revisori,  in  quanto  soggetti  deputati  al  controllo  contabile  della  società.  Tale interpretazione “estensiva” trova ulteriore conferma nel regime di responsabilità a cui  sono  assoggettati  i  revisori  ai  sensi  dell’art.  2409 sexies,  applicabile ratione temporis. Tale disposizione prevede che “i soggetti incaricati del controllo contabile sono  sottoposti  alle  disposizioni  dell’art.  2407  e  sono  responsabili  nei  confronti della  società, dei soci e dei terzi per i danni derivanti dall’inadempimento ai loro doveri.  Nel  caso  di  società  di  revisione  i  soggetti  che  hanno  effettuato  il  controllo contabile  sono  responsabili  in  solido  con  la  società  medesima”. E’  proprio  il richiamo  integrale  all’art.  2407  c.c.  e,  significativamente,  al  suo  terzo  comma, nonché  l’espresso  riferimento  ai  “terzi”,  da  leggersi  quali  “creditori  sociali”,  a radicare   la   legittimazione   della   Curatela   ad   agire   anche   a   tutela   dei   diritti patrimoniali  dei  creditori.  Pertanto, alla luce dell’art. 146 l.f. –norma  che,  giova ripeterlo,  riassume  in  sé  e  legittima  la  Curatela  ad  agire  tanto  a  tutela  della  società quanto della  massa creditoria -e sulla base della giurisprudenza  maturata sul tema, si  può  ragionevolmente  affermare  che  al  Curatore  spettano  tutte  le  azioni  di responsabilità esperibili nei confronti dei soggetti che a vario titolo abbiano operato all’interno  della  società.  Ne  deriva  che  l’eccezione  sollevata  dalle  convenute  è destituita di fondamento e, pertanto, va rigettata>>.

La tesi pare difficilmente contestabile

Distintività del marchio denominativo, costituito da termine riferito ad un’attività un tempo illegale ma ora legale

Con sentenza 19 dicembre 2019, causa/501/18, Currency One S.A. c. EUIPO,  il tribunale Ue ha deciso una lite in cui era in questione la distintività del segno denominativo (in lingua polacca) CINKCIARZ.

La normativa di riferimento invocata dalla ricorrente è costituita dall’articolo 7 paragrafo 1 lettera C (<<Sono esclusi dalla registrazione: … c) i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire per designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio;>>), da un lato, e dall’articolo 7 paragrafo 1 lettera B (<<Sono esclusi dalla registrazione: …  b) i marchi privi di carattere distintivo;>>), dall’altro, del regolamento 2017/1001. Si tratta di norme relative al requisito di distintività.

La registrazione era avvenuta per le classi 9 (software etc),  36 (affari bancari, operazioni di cambio, cambiavalute etc.) e 41 (pubblicazione di testi eccetera).

Sul significato del  termine in questione nella lingua polacca, così dice il Trib.: <<23 le definizioni ricavate dai dizionari (allegati da E.1 a E.15) sono ambigue. Infatti, sebbene indichino tutte che il sostantivo «cinkciarz» è un termine familiare che designa un trafficante di valute, le citazioni sembrano corrispondere al significato storico di tale termine. Tuttavia, alcuni articoli pubblicati su Internet attestano che detto termine ha continuato ad essere utilizzato e inteso per designare una persona che si dedica attualmente al cambio di valute in modo clandestino e fraudolento, e pertanto illegale, al pari dei «cinkciarz» esistiti all’epoca della Repubblica popolare di Polonia (allegati E.32 e E.33) e, per connessione, ad una qualsiasi attività avente natura fraudolenta, irregolare o disonesta, o considerata tale (allegato E.31).>>) e poi << 32  In conclusione sul punto in esame, due accezioni del termine «cinkciarz» sembrano collegate ai servizi di cambio di valute. In primo luogo, si tratta di un’accezione storica, in cui esso designa una persona che esercitava clandestinamente e illegalmente il cambio di valute all’epoca della Repubblica popolare di Polonia. In secondo luogo, detto termine ha un’accezione contemporanea, in cui è utilizzato in senso derivato, generale, come sinonimo di truffatore o di frodatore, ma anche, in un senso che si avvicina all’accezione storica, per designare una persona che ancora oggi pratica il commercio clandestino e fraudolento, e quindi illegale, di valute. Per contro, come correttamente rilevato dalla commissione di ricorso, non è stato dimostrato che il termine «cinkciarz» designi attualmente, in modo neutro, una persona o un’impresa che fornisce servizi di cambio di valute.>>).

Il tribunale  doveva dunque decidere se in tale contesto fattuale il segno violasse l’articolo 7 paragrafo 1 lettera C. La risposta è stata negativa poichè oggi  l’attività  di cambia valute è legale, per cui il riferimento ad una figura di operatore illegale/truffatore oggi è inteso in senso ironico e per gioco mentale . Il ragionamento, più precisamente, è stato il seguente.

Il Collegio inizia ricordando che il segno è distintivo <<quando rende necessario uno sforzo interpretativo da parte del pubblico di riferimento e presenta una certa originalità e ricchezza di significato che lo rendono facilmente memorizzabile (v., in tal senso, sentenza del 21 gennaio 2010, Audi/UAMI, C‑398/08 P, EU:C:2010:29, punto 59).>> § 17.

Poi il Trib. ricorda che <<affinché la registrazione di un segno sia rifiutata sulla base dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera c), del regolamento 2017/1001, non è necessario che i segni e le indicazioni che compongono il marchio previsti da detto articolo siano effettivamente utilizzati, al momento della domanda di registrazione, a fini descrittivi di prodotti o di servizi come quelli oggetto della domanda ovvero di caratteristiche dei medesimi. È sufficiente, come emerge dal testo stesso di detta disposizione, che questi segni e indicazioni possano essere utilizzati a tal fine (sentenza del 23 ottobre 2003, UAMI/Wrigley, C‑191/01 P, EU:C:2003:579, punto 32).>>, § 43.

Ricorda ancora che la descrittività ricorre <<solo se, tenendo conto della percezione che il pubblico di riferimento ha del segno contestato, quest’ultimo presenta con il servizio di cui trattasi un nesso sufficientemente diretto e concreto tale da consentire a tale pubblico di percepire immediatamente e senza ulteriore riflessione una descrizione di detto servizio o di una sua caratteristica.>>, § 48.

Precisa che il consumatore medio si presume sia consapevole che il diritto dei marchi tutela solo prodotti relativi ad attività lecite , <<quantomeno perché sa che l’Unione si fonda sui valori dello Stato di diritto, come emerge dall’articolo 2 TUE, e che è insito in uno Stato di diritto che l’obiettivo della legge non può essere quello di proteggere o di favorire atti illegali, considerato che tale caratteristica di uno Stato di diritto è di pubblica notorietà. Va sottolineato, in proposito, che, contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, non si può ritenere che il termine «cinkciarz» designi una «professione» quando è riferito esclusivamente al compimento di atti illegali.  52 Pertanto, nel caso di specie, il pubblico di riferimento è consapevole del fatto che i servizi contrassegnati dal marchio contestato non possono essere attività clandestine e illegali di cambio di valute>>.

Ne segue che il termine «cinkciarz», che costituisce tale marchio e che designa siffatte attività clandestine e illegali, <<53 …. non può essere utilizzato, nell’ambito di un uso normale dal punto di vista del pubblico di riferimento, per designare i servizi di cambio di valute leciti. Al riguardo, è possibile effettuare un confronto con la giurisprudenza secondo cui, per quanto riguarda i segni o le indicazioni che, nel commercio, possono servire a designare la provenienza geografica del prodotto o del servizio per il quale è chiesta la registrazione, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera c), del regolamento 2017/1001 non osta alla registrazione di nomi geografici per i quali, date le caratteristiche del luogo designato, non è verosimile che gli ambienti interessati possano ritenere che la categoria di prodotti di cui trattasi provenga da tale luogo (v. sentenza del 6 settembre 2018, Bundesverband Souvenir – Geschenke – Ehrenpreise/EUIPO, C‑488/16 P, EU:C:2018:673, punto 39 e giurisprudenza ivi citata). [NB : punto non chiarissimi, per vero, sia nel primo periodo sia nel riferimento ai segni geografici, poco pertinente].

54    Di conseguenza, il termine «cinkciarz» non consente al pubblico di riferimento di percepire immediatamente e senza ulteriore riflessione una descrizione dei servizi di cambio di valute leciti o di un’entità che fornisce servizi del genere. Infatti, poiché una caratteristica intrinseca a detto termine, ossia il fatto che faccia riferimento ad attività clandestine e illegali, è in totale contrasto con una caratteristica di tali servizi, vale a dire la loro natura intrinsecamente lecita, il pubblico di riferimento potrà stabilire un collegamento tra il marchio contestato e i servizi leciti di cambio di valute solo superando tale contraddizione, per giungere alla conclusione che, per ironia e per effetto di un gioco mentale, il marchio contestato, contrariamente al suo significato, copre i servizi di cambio di valute forniti legalmente.  55      Pertanto, il marchio contestato non presenta un nesso sufficientemente diretto e concreto con i servizi di cambio di valute da esso designati.>>

Il Trib. precisa poi che, se è vero che i segni descrittivi non ammessi sono non solo quelli “attualmente usati” ma anche quelli che “potrebbero venire usati” , <<tuttavia, tale possibilità di utilizzo può essere presa in considerazione solo se si può ragionevolmente presumere che il segno di cui trattasi costituisca in futuro, agli occhi degli ambienti interessati, una descrizione delle caratteristiche dei prodotti o dei servizi in questione (v., per analogia, sentenza del 12 febbraio 2004, Koninklijke KPN Nederland, C‑363/99, EU:C:2004:86, punto 56 e giurisprudenza ivi citata). Pertanto, detta possibilità non può basarsi su mere speculazioni, ma, al contrario, deve essere suffragata da alcuni elementi che la rendono, in particolare, ragionevolmente plausibile [v., in tal senso, sentenza del 12 marzo 2008, Compagnie générale de diététique/UAMI (GARUM), T‑341/06, non pubblicata, EU:T:2008:70, punto 43]. 61      Orbene, costituisce tale speculazione l’eventualità, prevista dalla ricorrente, che il termine «cinkciarz» perda in futuro la connotazione negativa connessa alla natura clandestina e illegale dell’attività cui fa riferimento, che costituisce una delle sue caratteristiche essenziali, e, di conseguenza, designi in modo neutro l’esercizio di un’attività di cambio di valute>>, §§ 60-61.

La questione non è semplice da risolvere. Può infatti astrattamente dirsi che, anche se i consumatori sanno che oggi si tratta di attività lecite e quindi il marchio ha una valenza ironica, pur tuttavia una certa aderenza concettuale ai servizi offerti (descrittività) esiste; cioè che l’estraneità del segno rispetto ai prodotti/servizi marcati è evanescente. La questione andrebbe approfondita, in particolare circa la forza del richiamo mentale che la legge richiede per  applicare la norma de qua.

Il Trib. in conclusione conferma la decisione dell’Ufficio, secondo cui l’art. 7 § 1 lett. c) non è invocabile (per i servizi di cambia valute, § 64 ; nei §§ segg. -secondo motivo- è esaminata la questione relativa alle altre categorie merceologiche, sempre però giungendo alla stessa conclusione)

Il concorso in contraffazione di chi tiene in deposito (ed eventualmente spedisce) merci contraffatte per conto terzi (sulla posizione di Amazon Logistics)

Pende presso la Corte di Giustizia una causa relativa alla posizione di Amazon per lo stoccaggio e l’eventuale invio di merci per conto di un venditore, qualora si tratti di merci contraffatte: Coty Germany GmbH contro Amazon Services Europe Sàrl, Amazon FC Graben GmbH, Amazon Europe Core Sàrl, Amazon EU Sàrl, C-567/18.

Sono state pubblicate le conclusioni 28.11.2019 dell’avvocato generale M. CAMPOS SÁNCHEZ-BORDONA  (di seguito solo : AG) , delle quali mi occupo in questo post.    Si tratta di causa importante, quanto alle questioni trattate.

Coty, già protagonista di un’altra vertenza in tema di divieto di avvalersi di piattaforme elettroniche (amazon.de) nella distribuzione selettiva (Coty Germany GmbH c. Parfümerie Akzente GmbH, Corte di Giustizia 6 dicembre 2017, C-230/16), ha poi iniziato una lite in Germania, chiedendo ad Amazon il nome del venditore da cui provenivano i prodotti contraffatti. Amazon ha risposto che non sarebbe stato possibile risalire a tale impresa, § 12 (non è chiaro se per scelta o per impossibilità di recupero dei dati: verosimilmente si trattava della prima alternativa)

Coty allora ha proposto domanda di inibitoria contro Amazon, ritenendo che violasse il diritto di marchio : in particolare proponendo domanda di inibitoria dello stoccaggio o spedizione dei profumi marcati Davidoff hot water, § 13.

Il processo è arrivato al Bundesgerichtshof, il quale, pur ritenendo che non vi fosse contraffazione addebitabile ad Amazon (§ 18), ha ugualmente proposto la seguente domanda pregiudiziale: «Se una persona che immagazzina prodotti lesivi dei diritti di un marchio per conto di un terzo, senza aver conoscenza della violazione, effettui lo stoccaggio di tali prodotti ai fini dell’offerta o dell’immissione in commercio, nel caso in cui solo il terzo, e non anche la persona stessa, intenda offrire o immettere in commercio detti prodotti».

La normativa applicabile è quella del regolamento 207 del 2009, poi sostituito dal reg. 2017 n° 1001. Il giudice del rinvio ragiona su entrambi , ma sottolinea che deve applicarsi quello ora in vigore (2017/1001), forse perché la misura richiesta è processuale (riporta infatti l’AG: <<, data la natura dell’azione proposta>>: § 4): affermazione però di dubbia esattezza, poiché è dubbio che sia processuale l’inibitoria, essendo una delle misure a tutela del diritto.  Tuttavia si dice ivi che non ci sono state modifiche significative tra le due normative.

Ragionerò quindi sul regolamento del 2017 n. 1001-

Le  norme rilevanti sono:

– l’articolo 9 comma 2, che indica quando c’è contraffazione : <<Fatti salvi i diritti dei titolari acquisiti prima della data di deposito o della data di priorità del marchio UE, il titolare del marchio UE ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio, in relazione a prodotti o servizi, qualsiasi segno quando: ...>>;

– l’articolo 9 comma 3, che precisa alcune fattispecie rientranti nel comma 2, e in particolare la lettera B : <<Possono essere in particolare vietati, a norma del paragrafo 2: …b) l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini oppure l’offerta o la fornitura di servizi sotto la copertura del segno;>>

L’AG nei §§ 33-43 esamina precedenti sentenze in tema di uso del segno di terzi da parte dell’intermediario e soprattutto la sentenza L’Oréal ed altri c. eBay 12.07.2011,  C‑324/09.

Ai §§ 41 e 42 propone una duplice alternative interpretativa, a seconda che si dia un’accezione ristretta o lata ai servizi offerti da Amazon (impostazione già presente i paragrafi 22 e 27) (impostazione importante visto che percorre tutte le sue Conclusioni)

Passa poi ad indicare i requisiti per aversi la fattispecie di “stoccaggio ai fini dell’immissione in commercio”, di cui all’articolo 9 c. 3 lettera b) (§ 44 ss); anche lo stoccaggio, del resto, rileva solo se finalizzato alla  immissione in commercio, come si ricava pianamente dal dettato della norma (§ 47).

L’ AG  conclude dunque che sono due le condizioni per  per ravvisare la ricorrenza di tale fattispecie: 1) un elemento materiale e 2) un elemento intenzionale (cioè la volontà di possesso ai fini dell’immissione in commercio) (§ 48).

POSSESSO – circa il possesso l’AG dice che, se si intende in senso stretto il servizio di Amazon Logistics, probabilmente non ricorre

Tuttavia  la valutazione potrebbe essere diversa, <<se si adottasse l’approccio alternativo ai fatti al quale ho fatto riferimento in precedenza. In tale ottica, la Amazon Services e la Amazon FC, che partecipano entrambe a un modello integrato di negozio, tengono un comportamento attivo nel processo di vendita, che è per l’appunto ciò che la norma esemplifica là dove elenca atti quali «l’offerta», «l’immissione in commercio» e «lo stoccaggio dei prodotti a tali fini». Corollario di siffatto comportamento attivo sarebbe l’apparente controllo assoluto del processo di vendita>> § 51.

In particolare l’AG ricorda la complessità del servizio offerto da Amazon Logistics:  <<con il programma «Logistica di Amazon» le imprese di tale gruppo, che agiscono in modo coordinato, non si occupano soltanto dello stoccaggio e del trasporto «neutri» dei prodotti, bensì di una gamma di attività molto più ampia.  Infatti, optando per detto programma, il venditore consegna ad Amazon i prodotti selezionati dal cliente e le imprese del gruppo Amazon li ricevono, li stoccano nei loro centri di distribuzione, li preparano (possono anche etichettarli, imballarli adeguatamente o confezionarli come regali) e li spediscono all’acquirente. Amazon può occuparsi anche della pubblicità (37) e della diffusione delle offerte sul proprio sito Internet. Inoltre, Amazon offre il servizio clienti per le richieste di informazioni e i resi e gestisce i rimborsi dei prodotti difettosi (38). Sempre Amazon riceve dal cliente il pagamento delle merci, trasferendolo poi al venditore sul suo conto bancario (39).      Tale coinvolgimento attivo e coordinato delle imprese del gruppo Amazon nella commercializzazione dei prodotti comporta l’assunzione di buona parte dei compiti del venditore, del quale Amazon svolge il «lavoro pesante», come evidenziato sul suo sito Internet. Su tale pagina si può leggere, quale incentivo al venditore per aderire al programma «Logistica di Amazon», la seguente frase: «Inviaci i tuoi prodotti e lascia che ci occupiamo del resto». In tali circostanze, le imprese del gruppo Amazon tengono «un comportamento attivo [ed esercitano] un controllo, diretto o indiretto, sull’atto che costituisce l’uso [del marchio]»>> (§§ 55-57).

Se dunque nel caso di specie fosse confermato che le imprese del gruppo Amazon hanno prestato tali servizi (o quanto meno i più importanti) nell’ambito del programma «Logistica di Amazon», <<si potrebbe ritenere che, in qualità vuoi di gestori del mercato elettronico vuoi di depositari, esse svolgano funzioni nell’immissione in commercio del prodotto che vanno oltre la mera creazione delle condizioni tecniche per l’uso del segno. Di conseguenza, dinanzi a un prodotto lesivo dei diritti del titolare di un marchio, la reazione di quest’ultimo potrebbe legittimamente consistere nel vietare loro l’uso del segno>> § 58.

Nè del resto sono applicabili le esenzioni alla responsabilità previste dalla direttiva 2000/31  articolo 14 paragrafo 1, stante la non neutralità di Amazon (paragrafo 62).

Quest’ultima affermazione lascia perplessi per due motivi:

motivo 1 :  perché è assai dubbio che il servizio di stoccaggio fisico rientri nel concetto di <<servizi della società dell’informazione>>. Tale nozione secondo  l’art. 2 dir. 2000/31 è costituita dai <<servizi ai sensi dell’articolo 1, punto 2, della direttiva 98/34/CE, come modificata dalla direttiva 98/48/CE>>, la quale così recita:

<< “servizio”: qualsiasi servizio della società dell’informazione, vale a dire qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi.

Ai fini della presente definizione si intende:

– “a distanza”: un servizio fornito senza la presenza simultanea delle parti;

– “per via elettronica”: un servizio inviato all’origine e ricevuto a destinazione mediante attrezzature elettroniche di trattamento (compresa la compressione digitale) e di memorizzazione di dati, e che è interamente trasmesso, inoltrato e ricevuto mediante fili, radio, mezzi ottici od altri mezzi elettromagnetici;

– “a richiesta individuale di un destinatario di servizi”: un servizio fornito mediante trasmissione di dati su richiesta individuale.

Nell’allegato V figura un elenco indicativo di servizi non contemplati da tale definizione.

La presente direttiva non si applica:

– ai servizi di radiodiffusione sonora,

– ai servizi di radiodiffusione televisiva di cui all’articolo 1, lettera a) della direttiva 89/552/CEE (*).>>

Ebbene, il servizio di stoccaggio e spedizione non è <<prestato (…) a distanza, per via elettronica>>!

Può essere invocata a conferma in tale senso Corte Giustizia 20.12.2017, C-434/15, Asociación Profesional Elite Taxi c. Uber Systems SpainSL. La C.G. ha detto che la mera intermediazione tra domanda ed offerta di servizi di trasporto rientra bensì nel concetto di «servizio della società dell’informazione» (§ 35). Però il servizio di Uber non è solo questo o meglio la sua intermediazione è così ampia che è essa stessa ad offrire sul mercato il servizio di trasporto (§§ 37-40): per cui complessivamente è questo il servizio offerto da Uber. Analoghe considerazioni valgono nel nostro caso: in Amazon Logistics lo stoccaggio e il deposito hanno importanza non minore della presenza sul marketplace digitale, come il software di Uber è la premessa per l’esecuzione poi del trasporto.

La Corte di Giustizia invece ha ragionato in modo opposto nel recente caso Airbnb (sentenza 19.12.2019, C-390/18). Qui ha ravvisato un «servizio della società dell’informazione» , dato che <<la raccolta delle offerte presentate in modo coordinato con l’aggiunta di strumenti per la ricerca, la localizzazione e il confronto di tali offerte costituisce, per la sua importanza, un servizio che non può essere considerato come un semplice accessorio di un servizio globale al quale vada applicata una qualifica giuridica diversa, ossia una prestazione di alloggio>> (§ 54 e in generale §§ 52-57)

motivo 2: perché la domanda azionata da Coty era di inibitoria e le inibitorie verso gli intermediari prescindono per opinione comunemente ricevuta dalle necessità di una loro corresponsabilità civile.

L’ELEMENTO INTENZIONALE  (il fine di offrire o immettere in commercio i prodotti stoccati o posseduti) – Nei §§§ 64 ss. , l’AG ricorda che già l’impostazione del giudice a quo escludeva la presenza dell’elemento del possesso o detenzione, dal momento che elemento soggettivo veniva ravvisato solamente in capo al terzo e non ad Amazon (§ 67). Anche qui però la l’AG dice che , aderendo ad un concetto più ampio di servizio offerto da Amazon, la conclusione potrebbe essere diversa:  <<anche in tal caso, però, la risposta potrebbe essere diversa qualora si adottasse un’interpretazione dei fatti che ponga l’accento sulla situazione specifica delle imprese di Amazon in quanto ampiamente implicate nella commercializzazione dei prodotti in questione, nell’ambito del programma «Logistica di Amazon» . In tale prospettiva, che supera ampiamente quella di un mero assistente neutro del venditore, è difficile negare che dette imprese intendano anch’esse, insieme al venditore, offrire o immettere in commercio i prodotti controversi.>> (§ 68-69).

LA RESPONSABILITà (RISARCITORIA, PARREBBE) – Circa la responsabilità infine, da intendere parrebbe come soggezione al rimedio del risarcimento del danno, l’AG offre alcune considerazioni alla lettera C), §§ 70 ss. Se tale mia interpretazione (riferimento al risarcimento del danno) è corretta, la pertinenza di quest’ultima parte delle conclusioni è dubbia: il rinvio pregiudiziale infatti si concentrava solo sul se ricorresse o meno il concetto normativo di stoccaggio, senza menzionare il rimedio risarcitorio (v. quesito al paragrafo 19). La violazione del diritto e la risarcibilità dell’eventuale , però, costituiscono due profili diversi.

L’AG ai §§ 71-75 ricorda alcune norme europee, che danno rilevanza all’elemento soggettivo. Egli ancora distingue le due configurazioni possibili del servizio di Amazon Logistics, distinguendo infatti in base al ruolo concretamente svolto dall’intermediario. L’AG concede che i meri depositari vadano esenti da responsabilità (§§ 79-80). Il panorama è invece diverso <<quando si tratta di imprese come le resistenti, che, fornendo i loro servizi nell’ambito del programma «Logistica di Amazon», partecipano all’immissione in commercio dei prodotti con le modalità precedentemente illustrate. Il giudice del rinvio afferma che tali imprese non erano a conoscenza del fatto che i prodotti violassero il diritto di marchio di cui era licenziataria la Coty Germany, ma ritengo che tale mancata conoscenza non le esima necessariamente da responsabilità. Il fatto che tali imprese siano fortemente coinvolte nella commercializzazione dei prodotti attraverso il suddetto programma implica che si possa richiedere loro una cura (diligenza) particolare quanto al controllo della liceità dei beni che immettono in commercio. Proprio perché sono consapevoli che, senza un tale controllo (52), potrebbero facilmente servire da tramite per la vendita di «prodotti illeciti, contraffatti, piratati, rubati o comunque illeciti o contrari all’etica, che ledono i diritti di proprietà di terzi» (53), esse non possono sottrarsi alla propria responsabilità semplicemente attribuendola in via esclusiva al venditore>>. ( § 81-82).

L’intera causa lascia perplessi dal momento che le condizioni per l’emissione delle  inibitorie (ciò che aveva chiesto Coty inizialmente in Germania) sono notoriamente lasciate ai diritti nazionali, come si ricava senza particolari difficoltà dall’articolo 11 dir. 48/2004, ultima parte. Per cui la ricerca di un elemento soggettivo per la sottoposizione ad inibitoria è probabilmente non pertinente. Del resto il giudice a quo aveva semplicemente chiesto se, secondo la normativa europea, la fattispecie integrasse o meno il concetto di <<stoccaggio>> dei prodotti contraffatti, senza alludere minimamente il profilo soggettivo (v. quesito al § 19).

Staremo a vedere la risposta della Corte su questi importanti -anzi apicali- aspetti  del diritto europeo della proprietà intellettuale

Sul giudizio di validità e (quindi) di contraffazione di un disegno o modello comunitario

Il Tribunale di Roma  offre qualche insegnamento sul giudizio di validità e (successivamente) di contraffazione in tema di modelli o disegni comunitari disciplinati dal reg. CE 6/2002  del 12.12.2001.

Si tratta di Trib. Roma 19.11.2019 n. 22320/2019, Rg 72218/2016, Federal Signal Vama s.a. c. INTAV srl.

Le parti erano due società specializzate nella produzione e nella commercializzazione di dispositivi, apparecchi e accessori di segnalazione luminosa e acustica destinati ad essere installati su veicoli di emergenza, mezzi della polizia, nonché su veicoli ad uso della Pubblica Amministrazione in diversi settori. Il disegno (rectius: modello) comunitario azionato dall’attrice (dopo una fase cautelare sfavorevole) era appunto relativo ad un dispositivo segnalatore luminoso per autoveicoli .

Il collegio inizia ricordando che <<costituisce quindi contraffazione di un disegno registrato la produzione e/o commercializzazione di prodotti aventi forme che suscitano, nell’utilizzatore informato, la medesima impressione generale, riproducendo le caratteristiche individualizzanti del titolo di privativa, tenuto anche conto del margine di libertà del designer nel realizzare il modello.

Il giudizio sulla contraffazione di un design prende dunque come riferimento quello di un utilizzatore informato, ossia un consumatore finale attento che, pur non essendo un esperto di settore e/o un designer, usi il prodotto e conosca il mercato specifico all’interno del quale si colloca il modello.

All’utilizzatore informato si chiede quindi di operare un confronto tra il modello ed il prodotto asseritamente contraffattivo, al fine di accertare se quest’ultimo susciti o meno, all’esito di una analisi di insieme e complessiva, una impressione generale diversa rispetto alle linee rivendicate dal disegno o modello registrato.

Nella conduzione di tale test il disegno o modello va considerato nel suo effetto di insieme e non va dato peso alle modifiche insignificanti apportate dal presunto contraffattore; va invece attribuito particolare rilievo all’identità degli elementi formali che conferiscono al disegno o modello un proprio carattere individuale. (…) In sintesi, il carattere individuale, consiste nella capacità di un design di farsi notare per la peculiarità del suo aspetto e tale requisito consente al prodotto di riferimento di istituire un contatto privilegiato con l’utilizzatore informato >> (§ 8).

Osserva poi che <<il giudizio (incidentale) di validità del Design comunitario VAMA, da un canto, e il confronto tra i prodotti INTAV dedotti in contraffazione e il predetto Design VAMA, dall’altro, vanno effettuati alla luce dei criteri comuni innanzi indicati, esaminando le loro somiglianze e le loro differenze, al fine di stabilire, prendendo in considerazione l’affollamento del settore e il margine di libertà dell’autore nel realizzare il disegno o modello contestato, se essi producono nell’utilizzatore informato un’impressione generale significativamente diversa.

I due profili sono strettamente collegati, in quanto il riconoscimento del carattere individuale del Disegn VAMA rispetto allo stato dell’arte nota e dell’affollamento del settore, condiziona necessariamente l’estensione dell’ambito di tutela del disegno registrato rispetto alle sue possibili contraffazioni.

Conseguentemente, le analisi e le valutazioni sviluppate in funzione dell’eccezione di nullità del Design VAMA, sollevata in riconvenzionale da INTAV, vanno tenute in considerazione anche nel successivo giudizio di contraffazione, al fine di accertare se il confronto produce o meno nell’utilizzatore informato un’impressione generale significativamente diversa>>, § 9.

Gli ultimi due periodi riguardano uno dei punti teoricamente più interessanti, che viene solitamente poco approfondito: se i requisiti di validità siano uguali (seppur visti dal lato opposto, quasi specularmente) a quelli richiesti per aversi contraffazione, come avviene per i marchi nel rapporto tra requisiti di novità (artg. 12 c.p.i.) e requisiti per aversi contraffazione (<<diritti conferiti dalla registrazione>>, art. 20 cpi). Il giudice risponde positivamente, come emerge dal passo che vale la pena di ripetere: <<I due profili sono strettamente collegati, in quanto il riconoscimento del carattere individuale del Disegn VAMA rispetto allo stato dell’arte nota e dell’affollamento del settore, condiziona necessariamente l’estensione dell’ambito di tutela>>.

SUL <<CARATTERE  INDIVIDUALE>> – Dice il Collegio che <<il CTU ha utilizzato le differenze rilevanti appena indicate  [per il giudizio di novità] anche nella valutazione della sussistenza del requisito del carattere individuale del Design VAMA, al fine di stabilire se esso suscita in un utilizzatore informato una impressione generale significativamente differente dalle anteriorità analizzate, tenuto conto del margine di libertà dell’autore in considerazione dell’affollamento del settore. Nell’ambito di tale giudizio assumono rilievo la figura dell’utilizzatore informato ed il profilo dell’affollamento del settore che riduce il margine di libertà dell’autore.>>, § 12.

La legge (art 6/2 reg. CE e art. 33 c. 2 c.p.i.) per vero parla solo di margine di libertà dell’autore, non di affollamento del settore: per cui possono immaginarsi anche altri aspetti limitanti la libertà creativa (elenco in Fabbio, Disegni e modelli, Cedam, 2012,  49 ss).

Nel caso specifico la figura dell’utilizzatore informato viene individata <<“nel  professionista  che si occupa della scelta e dell’acquisto dei dispositivi di segnalazione luminosa per veicoli, ad esempio nell’ambito delle pubbliche amministrazioni”.>>, § 12. Si tratta dell’altro punto interessante della decisione: l’utilizzatore informato è l’ipotetico addetto (=responsabile?) dell’Ufficio Acquisti dell’impresa acquirente (impostazione dunque relativa al caso in cui si tratti di prodotto destinato ad imprese; da precisare come vada adattato al caso di microimprese prive di specifico Ufficio Acquisti).

Accertata la validità del titolo giuridico, il giudice passa al giudizio di contraffazione, <<rispetto al quale vanno utilizzati i concetti di utilizzatore informato, di affollamento del settore e di margine di libertà dell’autore già enucleati a proposto della valutazione della validità>>, (§ 13 ss.) (art. 10 reg. CE e art. 41 c.3-4 c.p.i.). Si è sopra accennato al rapporto di specularità tra requisiti di validità e quelli di contraffazione.

Anche qui vale la precisazione per cui la legge letteralmente menziona solo il margine di libertà creativa.

Il giudice fa un’altra precisazione interessante per gli operatori:   <<a tale proposito, va ribadito che l’arte nota acquisita al presente giudizio e considerata dal CTU, anche con riferimento al predetto settore “ristretto” innanzi detto, comporta, rispetto alla validità del design, che in tale settore possa ottenere tutela anche per varianti di entità limitata rispetto alla tecnica nota, mentre, riguardo alla contraffazione, che la protezione così ottenuta sia confinata alle suddette varianti >>, § 13. Si legga poi subito dopo il modus procedendi del CTU: <<individuati correttamente in tal modo i parametri del giudizio di contraffazione, il CTU ha confrontato tutte le caratteristiche salienti del Design VAIMA con quelle dei prodotti INTAV, predisponendo per ciascuno di essi un’apposita e dettagliata Tabella di comparazione.>> e poi <<la differente ricostruzione dello stato dell’arte nei due giudizi rende quindi corretta la valutazione compiuta dal CTU in punto di “affollamento” del settore “ristretto” e il suo discostamento dalle decisioni EUIPO (p. 20).

Ne consegue il riconoscimento di un più ristretto margine di libertà dell’autore che rende apprezzabili, nell’aspetto complessivo, anche differenze meno evidenti tra i prodotti e il disegno tutelato e fa si che nel settore in considerazione, da un canto, si possa ottenere tutela anche per varianti alla tecnica nota di limitata entità, e, dall’altro canto, che la protezione così ottenuta sia in genere confinata a tali limitate varianti>> , (§ 14.2 in fine).

SULL’UTILIZZATORE INFORMATO –  Al § 14.3 il giudice ricorda una non rigorosa decisione EPO del 2013, che però il CTU non condivide, sicchè -come già sopra accennato- così conclude: <<Nel presente giudizio, invece, il CTU ha correttamente ritenuto, anche secondo le posizioni sostanzialmente concordi assunte dalle parti, che l’utilizzatore informato dovesse essere identificato nell’acquirente finale dei prodotti esaminati dotato di un certo grado di attenzione e, dunque, “nel professionista che si occupa della scelta e dell’acquisto dei dispositivi di segnalazione luminosa per veicoli, ad esempio nell’ambito delle pubbliche amministrazioni”. (…) Pertanto, il riconoscimento in questa sede di un apprezzabile livello di conoscenza e di un considerevole livello di attenzione, avvicina l’utilizzatore informato all’uomo del mestiere e lo allontana dal consumatore medio, rafforzando la considerazione che i disegni che presentano differenze significative nelle caratteristiche in cui la libertà dell’autore non è soggetta a restrizioni suscitano un’impressione generale differente nel medesimo utilizzatore informato  >>, § 14.4.

Se però il consumatore medio è chi lo usa in via professionale, come avviene per i prodotti destinati ad uso imprenditoriale, le due figure dovrebbero coincidere.

SULLA CONCORRENZA SLEALE – Venuti meno i presupposti per ravvisare contraffazione, viene meno anche la possibilità di ravvisare concorrenza sleale: <<una volta accertata in questa sede l’insussistenza della contraffazione del Design VAMA da parte di tutti prodotti INTAV in contestazione, vengono meno anche i presupposti per considerare concorrenzialmente illecita, sotto i vari profili denunciati da parte attrice (imitazione servile, appropriazione di pregi, concorrenza parassitaria, comportamenti contrari alla correttezza professionale e sfruttamento del lavoro altrui), l’attività di produzione e commercializzazione da parte di INTAV dei tre modelli del Prodotto C “denominati Freeway”. Invece, per i Prototipi A e B sui quali si era svolto il procedimento cautelare ante causam dinanzi al Tribunale di Torino, parte attrice non ha fornito alcuna prova della loro effettiva o potenziale produzione e/o commercializzazione>> § 15.

Siffatta perentorietà nell’escludere la concorrenza sleale  è così motivata subito dopo: <<difatti, una volta stabilito (e ammesso dalla stessa società attrice) che, nel settore “ristretto” dei dispositivi di segnalazione luminosa apposti sui veicoli, la figura del consumatore finale da prendere in considerazione coincide con quella dell’utilizzatore informato, il quale (come sostiene parte attrice) “non può che essere individuato nell’acquirente finale dotato di un certo grado di attenzione” da individuare nel responsabile degli acquisti delle case automobilistiche o della pubblica amministrazione, al quale va riconosciuto un elevato grado di attenzione e una spiccata sensibilità nell’individuazione delle differenze tra i vari prodotti del medesimo settore, deve escludersi che le differenze tra i medesimi prodotti e il Design VAMA innanzi evidenziate possano creare confusione nel consumatore medio di tale tipologia di prodotti.

Con particolare riferimento all’imitazione servile, essa deve riguardare le forme esteriori di un prodotto altrui e deve consistere nella riproduzione pedissequa di quei dettagli individualizzanti del modello imitato agli occhi del consumatore medio.

Non avendo parte attrice fornito la prova, mediante l’allegazione di elementi diversi da quelli sui quali si è fondata l’asserita e indimostrata contraffazione, che la mancanza di significative differenze renda confondibili per il consumatore medio i prodotti delle rispettive parti concorrenti sul mercato, con conseguente pericolo di sviamento della clientela, la condotta concretamente tenuta dalla società convenuta non può essere considerata concorrenzialmente illecita sotto il profilo dell’imitazione servile o dell’appropriazione dei pregi dei prodotti riconducibili al Design VAMA ad opera dei Prodotti Freeway di INTAV.

Neppure può essere considerato comportamento contrario alla correttezza professionale e/o sfruttamento del lavoro altrui la mera circostanza che la INTAV nel 2016 ha assunto, con qualifica di ingegnere elettronico, il sig. Rafael Sadrà Valluvi che, in precedenza, lavorava alle dipendenze di VAMA e che ben conosceva i design e i prodotti di tale azienda>> (§ 15)

Brevettazione di invenzioni create dall’intelligenza artificiale: chi va indicato come inventore?

Rose Hughes nel sempre interessante blog IPkat.com in un post 22.12.2019 dà notizia del rifiuto da parte dell’EPO (European Patent Office) della brevettazione di due trovati creati dall’ intelligenza artificiale.

Si tratta di due invenzioni “parallele” basate sulla tecnologia frattale, la sintesi della cui descrizione è la seguente:

<<Un contenitore (10) da utilizzare, ad esempio, per bevande, ha una parete (12) con una superficie esterna (14) e una parete interna (16) di spessore sostanzialmente uniforme. La parete (12) ha un profilo frattale che fornisce una serie di elementi frattali (18-28) sulle superfici interna ed esterna (14-16), formando fosse (40) e rigonfiamenti (42) nel profilo della parete e in cui una fossa (40) vista da una delle superfici esterne o interne (12, 14) forma un rigonfiamento (42) sull’altra delle superfici esterne o interne (12, 14). Il profilo consente di accoppiare più contenitori insieme mediante un impegno di pozzi e rigonfiamenti su quelli corrispondenti dei contenitori. Il profilo migliora anche l’aderenza, nonché il trasferimento di calore all’interno e all’esterno del contenitore>> (domanda EP20180275163);

<<La presente invenzione descrive dispositivi e metodi per attirare una maggiore attenzione. I dispositivi includono: un segnale di ingresso di un treno di impulsi lacunari avente caratteristiche di una frequenza di impulsi di circa quattro Hertz e una dimensione frattale del treno di impulsi di circa la metà; e almeno una sorgente di luce controllabile configurata per funzionare in modo pulsante dal segnale di ingresso; in cui una fiamma neurale emessa da almeno una sorgente di luce controllabile a seguito del treno di impulsi lacunari è adattata per servire come segnale di segnalazione identificabile in modo univoco su fonti di attenzione potenzialmente concorrenti attivando selettivamente filtri di rilevamento di anomalie umane o artificiali, attirando così maggiore attenzione.>> (domanda EP20180275174)  (traduzioni automatiche prese dal database dell’EPO)

In breve si tratta -par di capire- di creazione di contenitore per bevande e -rispettivamente- di produzione di segnali luminosi per emergenze.

La particolarità è che il creatore dell’algoritmo, dovendo designare l’autore dell’invenzione secondo l’art. 81 dell’EPC (European Patent Convention 05.10.1973) e l’art. 19 c. 1 del suo regolamento di esecuzione,  non ha indicato sè stesso bensì: i) inizialmente ha lasciato in bianco il campo del nome dell’inventore, ii) poi ha designato come inventore una macchina (“machine”) chiamata DABUS e ha precisato la propria qualifica di richiedente  e attuale titolare dei diritti quale employer/datore di lavoro. Successivamente ha corretto tale designazione indicando di essere titolare dei diritti in qualità di “successor in title”.

Successivamente l’ufficio nel documento allegato alla lettera 13 settembre 2019 di convocazione per l’udienza del 21 novembre 2019 [Summons to attend oral proceedings pursuant tu Rule 115(1) EPC – Annex to Summons (EPO form 2901AK). Points to be discussed (R.116(1) EPC)] ha negato la legittimità di queste indicazioni: l’ha fatto sostenendo che un inventore deve essere una persona fisica e non può essere una macchina, poiché queste non hanno personalità giuridica e non possono essere titolari di diritti  (§ 11). Ha anche anticipato che, se non rimedierà alle designazioni insufficienti, la domanda verrà respinta (§ 17)

Gli avvocati del richiedente hanno replicato con dettagliate controdeduzioni: v. le Submission in preparation for oral  proceedings scheduled for 25 november 2019 dello studio Williams Powell di Londra del 25.10.2019, che fra l’altro sollevano un profilo interessante circa i diritti morali (p.5-6).

Successivamente è stata diffusa il 20 dicembre 2019 la minuta della discussione orale davanti alla Receiving Section tenutasi il 25 novembre (Minutes of the oral proceedings before the Receiving Station); ivi sono riepilogate le tesi difensive del richiedente, basate sostanzialmente sul fatto che la normativa non impedisce la brevettazione di invenzioni create da sistemi di intelligenza artificiale (ad es. § 10 e 13).

Il delegato dell’EPO Chairperson Magdalena Kolasa, dopo una camera di consiglio di 16 minuti, dichiarato che le due domande di brevetto sono respinte poiché non rispettano i requisiti dell’articolo 81 e della regola 19 dell EPC.

Si attendono ora le motivazioni-. Il richiedente ha già dichiarato che presenterà appello.

Secondo un recente studio, il diritto di privativa sui prodotti realizzati da un sistema di intelligenza artificiale andrebbe attribuito al soggetto che lo utilizzi (Spedicato, Creatività artificiale, mercato e proprietà intellettuale, Riv. dir. ind., 2019, 284-287).

[ Nota: i documenti citati sono presenti nel database dell’EPO: nella pagina sopra ricordata a proposito del riassunto della descrizione, vedasi  la voce Global Dossier e il link ivi sotteso che porta all’elenco di tutti i documenti]

Sul punto si era espresso come l’EPO già Noam Shemtov, A study on inventorship in inventions involving AI activity, febbraio 2019 (studio commissionato dall’EPO stesso, che evidentemente poi si è attenuto alle relative conclusioni), sub 2.c.i, pag. 33: <<As discussed in length above, it is clear that at present all of the relevant jurisdictions limit the definition of inventor to natural persons. Although the EPC does not contain a definition of the term  “inventor”, it is submitted that it is unambiguously implicit that AI systems cannot be identified as inventors, as discussed above. To recap, identification of AI systems as inventors is not reconcilable with the overall legal framework of the EPC, and in particular the rights enumerated under Article 60 EPC. As mentioned, inventorship is the starting point of an entitlement/ownership enquiry, with the inventor being a first owner unless the invention was made in the course of employment. However, since AI systems do not have a separate legal personality, and are not
expected to have one in the foreseeable future, such systems are incapable of owning property. In the same vein, AI systems cannot be part of employment relationships in the legal sense of the term; they cannot be considered as employees unless and until they have legal personality. To conclude, considering AI systems as inventors and applying the provisions of Article 60 to such “inventors” as would be the case under the EPC is unworkable. In addition, it has been established that the moral right to be mentioned as an inventor, which serves a number of key interests in the case of human inventors, would serve no desirable purpose whatsoever if applied to AI systems. Thus, not only does the present legal position not allow for AI systems to be considered as inventors, it is submitted that at present there are no convincing reasons to consider a change in this respect.    In light of the above, should a patent application be filed designating an AI system as an inventor, it would be likely to be found deficient under Art>> (v. la pagina dell’EPO sull’A.I., in cui è presente questo studio, assieme ad altri due documenti in forma di slides).

L’Ufficio europeo ha inserito un paragrafo specifico nelle sue Guidelines for Examination, Patentability-List of esclusions, relativo a Artificial intelligence and machine learning (G.II.3.3.1).

E’ probabile dunque che i richiedenti brevetto, per invenzione prodotta dall’A.I., indicheranno il nome  di un <<proxy human inventor>> (così per D. Gervais, Is intellectual property law ready for artificial intelligence?, GRUR International, 2020, 1-2, p.2)

Diritto morale d’autore e obbligo di menzione del nome dell’autore

Il tribunale di Milano (sent.  11037/2018 del 31.10.2018, RG 41630/2016, rel. Dal Moro, Carrubba Pintaldi c. Giorgio Armani spa) affronta la questione del se l’impresa committente (e cessionaria di ogni diritto) debba menzionare il nome dell’autore nel pubblicizzare i gioielli da lui creati. La risposta è negativa. Una cosa infatti è il dovere di menzionare e quindi -nel caso in cui non esista- il tacere sul nome del creatore (condotta omissiva); altra cosa invece è usurpare la paternità affermando di essere l’autore (condotta commissiva).

Il dato normativo non è chiarissimo, limitandosi a dire <<l’autore conserva il diritto di rivendicare la paternità dell’opera>> (art 20 c. 1 legge d’autore; del resto è irrilevante l’ammettere le  domande di accertamento del diritto, diverse dalla pretesa di essere sempre menzionati). Tuttavia applicando il tralatizio canone ermeneutico ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, si può forse concludere che l’obbligo di menzione sussista solo nei casi espressamente previsti. Si pensi ad esempio nella legge di autore a: -art. 40 c. 1, -art. 48, -art. 54 c. 2, -art. 98 c. 2, -art. 138 e, per le libere utilizzazioni, art. 65 c. 1, -art. 67, -art. 70 c. 3, -art. 71 bis c. 2 septies.

L’altro punto interessante è il giudizio sui fatti di causa, relativo al se l’apposizione del marchio Armani sui gioielli -senza menzione della stilista creatrice- abbia costituito usurpazione e cioè attribuzione a sé della paternità oppure semplicemente apposizione di marchio per la commercializzazione: condotta, quest’ultima, che nulla lascia intendere sulla paternità. La risposta del Tribunale è stata nel secondo senso.

Ecco i passi  più rilevanti della sentenza.

<<La tesi attorea fonda la sua difesa sull’erroneo presupposto per cui l’omessa menzione del nome di un autore costituisca invariabilmente una manifestazione concreta di violazione del diritto autorale; al contrario, l’essenza del diritto morale d’autore consiste nel diverso diritto a non vedere disconosciuto il proprio ruolo di autore; tale diritto negativo non necessariamente si traduce nell’obbligatoria indicazione del nome dell’autore (aspetto la cui regolamentazione è nella disponibilità delle parti); quindi, l’omessa menzione del nome dell’autore di un’opera nella sua diffusione non implica di per sé che sia messa in discussione la paternità della stessa. Peraltro nel caso di specie non sussiste un diritto alla menzione del disegnatore di gioielli né per contratto né in considerazione degli usi invalsi nel settore della gioielleria e bigiotteria; in tal senso il Tribunale condivide la giurisprudenza sul punto 3. Peraltro una comune volontà delle parti nel senso della non menzione della disegnatrice o quantomeno una tacita acquiescenza della signora, può desumersi dal fatto che per circa 12 anni dalla pubblicazione del primo catalogo nessuna contestazione è mai stata mossa da parte attrice nei confronti di Armani in punto di modalità di pubblicizzazione/presentazione dei gioielli. Sicchè il prolungato periodo di inerzia di parte attrice corrobora la tesi della infondatezza della domanda>>

Ed inoltre: <<Non è stata offerta da parte della attrice prova idonea di un avvenuto disconoscimento della propria opera creativa. Infatti, premesso che – come già visto – l’omessa menzione dell’autore di per sé sola non costituisce una prova di disconoscimento, tutte le altre prove addotte riguardano immagini che si limitano a evidenziare come i gioielli in questione siano associati al marchio Armani e non alla persona dello stilista quale loro creatore. Il fatto che il nome Armani contraddistingua i gioielli sui cataloghi non significa che lo stilista ne rivendichi la creazione a sé, disconoscendo il ruolo della disegnatrice, al contrario costituisce prassi diffusa e ovvia nonché strategia commerciale più fruttuosa che il brand – ciò che agli occhi del pubblico dei consumatori rende immediatamente riconoscibile il prodotto – sia posto in evidenza da solo. Né valgono in senso opposto gli articoli giornalistici che riportano la notizia del lancio della nuova linea di gioielli “Armani” tanto più che il documento più significativo risale al 2011 e si riferisce ad una collezione pertanto di molto successiva a quelle create nel corso della collaborazione con l’attrice. In ogni caso, come correttamente osserva la convenuta, sono reperibili in atti anche documenti ove il ruolo della signora Carrubba è riconosciuto e reso noto al pubblico e da cui si può altresì evincere come parte attrice dovesse essere consapevole del vantaggio di immagine conseguito grazie alla collaborazione con Armani>>

Singolarmente elevata la liquidazione delle spese di lite: euro 21.387,00+15% per spese forfettarie.