Ancora sulla lite Vivendi-Mediaset: un’applicazione dell’art. 83 septies TUF

La lite tra Vivendi (in seguito : V.) e Mediaset (in seguito: M.) si arricchisce di un cautelare interessante, perchè applica l’art. 83 septies TUF: si tratta dell’ordinanza 31.08.2019 giudice Simonetti Amina, RG 33508, 2019-1, Trib. Milano sezione feriale civile.

Come ivi si legge , il giudizio di merito consiste nell’impugnazione da parte di Vivendi ex art. 2378 della delibera assembleare Mediaset 18 aprile 2019 con cui le è stato negato il diritto di voto (ma concesso quello di partecipazione).

In sede cautelare V. chiede che il giudice ordini a M. e a chi presiderà l’assemblea dei soci 4 settembre 2019 di ammetterla ad intervenirvi (per una certa percentuale di capitale e diritti di voto) e di consentirle l’esercizio dei pertinenti diritti amministrativi.

Avendo M. dichiarato che l’avrebbe esclusa pure all’assemblea del  4 settembre, V. ha proposto la domanda cautelare.

L’art. 83 septies TUF così recita:

<<Art. 83-septies (Eccezioni opponibili) 1. All’esercizio dei diritti inerenti agli strumenti finanziari da parte del soggetto in favore del quale e’ avvenuta la registrazione l’emittente puo’ opporre soltanto le eccezioni personali al soggetto stesso e quelle comuni a tutti gli altri titolari degli stessi diritti>>.

M. l’ha invocato affermando che V. <<ha acquistato (gli acquisti si sono concentrati negli ultimi 15 giorni del mese di dicembre 2016) e detiene la partecipazione in Mediaset in violazione:
a) delle obbligazioni assunte da Vivendi a favore di Mediaset con il contratto stipulato l’8 aprile 2016 avente ad oggetto la cessione di Mediaset Premium spa,
b) delle disposizioni di cui all’art 43 comma 11 Tusmar, come accertato da Agcom con delibera 178/17/Cons.(doc. 17 citazione).>> (p. 2).

Circa b) , il Tribunale ha ammesso V. al voto e ai diritti conseguenti per la parte di diritti che rispetta i limiti alla concentrazione ex art. 43 c. 11 Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici d. lgs. 177/2005 (la cui violazione è sanzionata da nullità negoziale: c. 4, ivi). La parte residua (eccedente il 10% in M.) era stata trasferita da V. ad una fiduciaria (Simon Fiduciaria spa)

Circa a), il caso offre un’interessante applicazione del concetto di “eccezioni personali” ex art. 83 septies cit. Nel caso specifico l’eccezione consisterebbe nella violazione di un patto di cristallizzazione della situazione societaria (c.d. standstill): cioè un patto di non modifica di essa assunto da V. verso M. nell’ambito delle trattative per l’acquisto di Mediaset Premium spa.

Questo è il punto che qui intendo ricordare. In altre parole, l’eccezione sollevata da M.  consiste nella violazione da parte di V. di un patto di non acquisto di azioni di M., stipulato con quest’ultima.

La dottrina ha osservato che il concetto di “eccezioni personali” è molto ampio, al pari della norma “madre” (art.  1993 c. 1 c.c.) e vi rientrano tutte quelle fondate su rapporti personali (Marano, art. 83 septies, Le soc. per az.-le fonti del dir. it., dir. da Abbadessa e Portale, Giuffrè, 2016, t. 2, § 2, p. 3750; e pure in Id., La circolazione delle azioni dematerializzate e la disciplina dei mercati, Giuffrè, 2013, nuova ed., 226).

Il punto è interessante. Altra dottrina afferma che, data l’ampiezza del dettato normativo, deve intedersi richiamato il diritto comune : cioè vi rientrano tutti quei rapporti che secondo il diritto comune possono reagire negativametne sul rapporto cartolare (F. Martorano, Titoli di credito, Tratt. dir. civ. comm. Cicu Messineo Mengoni, Giuffrè, 2002, p. 304: ma è forse tautologico, perchè resta da capure cosa possa incidere sul rapporto cartolare).

Secondo altri non ci si può richiamare solo alle eccezioni attinenti al fatto costitutivo dell’obbligazione, ma anche a quelle derivanti da un rapporto del tutto estraneo, purchè il possessore ne sia parte (F. De Vescovi, Tre dubbi sulla <<tutela cartolare>> nei tempi della dematerializzazione, BBTC, 2003, 715 ss, a p. 728).

Le ultime due opinioni paiono avere conseguenze diverse . La prima restringe l’ambito delle eccezioni sollevabili, la seconda l’amplia, permettendo anche la compensazione con qualsiasi controcredito.

Il Tribunale ha però ritenuto non sufficientemente fondata l’eccezione sollevata da M. sotto due profili:

1) le cause di merito promosse da M. (in cui verosimilmente si dibatteva il medesimo tema) erano state da poco rinviate a precisazione conclusione con esclusione di attività istruttoria: il che -direi- indica al giudice la scarsa plausibilità della tesi di M.;

2) anche ammettendo, prosegue il Tribunale, <<l’esistenza nel contratto 8.4.2016 di un implicito patto tra le parti di standstill funzionale al conseguimento degli obiettivi delle parti del Contratto di dar vita ad una partnership industriale paritetica[nota1 : “Patto contestato da Vivendi ed invero non espressamente contenuto nel contratto 8.4.2016, previsto solo in un patto parasociale tra Vivendi e Fininvest che si si sarebbe dovuto sottoscrivere dopo il closing, cui mai si è pervenuti”]>>,  anche ammesso ciò, il fatto però che  M. in quei giudizi abbia modificato la domanda da adempimento a risoluzione del contratto, col conseguente effetto retroattivo, impedisce di ritenere illegittimo [l’acquisto e dunque] il possesso attuale di azioni M. da parte di V.  Precisamente così dice il Tribunle: <<l’attuale pretesa di Mediaset verso Vivendi che questa dismetta tale partecipazione potrebbe non avere più ragione giuridica nella situazione presente, caratterizzata dal fatto che nei giudizi di merito riuniti RG 47205/2016 e 47575/2016 l’attrice Mediaset ha (alla udienza del 4.12.2018) modificato l’originaria domanda di adempimento del contratto 8 aprile 2016 in domanda di risoluzione, dichiarando di non avere più interesse al mantenimento dello Share Exchange Agreement. La risoluzione contrattuale, se pronunciata come richiesto da Mediaset, avrebbe come effetto quello di far venire meno con efficacia retroattiva ogni vincolo contrattuale, tra cui il patto di standstill (se sussistente). Con la conseguenza che il possesso attuale di azioni da parte di Vivendi risulterebbe legittimo, anche se eventualmente ab origine acquistato in violazione del contratto 8.4.2016.>>

Il Tribunale invece nulla dice sulla questione a monte e cioè sulla  possibilità teorica che, tra le eccezioni personali ex art. 83 septies TUF, rientri pure la violazione di un divieto di acquisto di azioni stipulato con l’emittente stessa. Nulla dicendo su tale possibilità ed entrando nel merito, implicitamente l’afferma.

A conforto di questa supposizione si veda un precedente intervento del Tribunale di Milano nel procedimento cautelare per la sospensiva ex art. 2378 c. 2 c.c. relativametne alla impugnazione della delibera assembleare 27 giugno 2018 (Trib. Milano 23.11.2018, Simon fiduciaria spa c. Mediaset spr, giudice: d.ssa Amina Simonetti, RG 2018/50173). Qui non era in causa Vivendi ma solo la sua fiduciaria. Anche qui  << le parti in causa hanno discusso circa la riconducibilità alla nozione di eccezioni personali di cui all’art 83 septies tuf delle eccezioni sollevate da Mediaset a Simon Fiduciaria relative alla violazione dell’art 43 Tusmar e al dedotto inadempimento al contratto 8 aprile 2016 : * sia con riferimento al fatto che tali eccezioni, non traendo fondamento in questioni connesse al rapporto causale sottostante lo strumento finanziario azione (cioè extrastatutarie ed extra societarie) non sarebbero riconducibili alla nozione di eccezioni personali, * sia con riferimento alla diversa identità soggettiva tra la fiduciaria e la fiduciante Vivendi cui si riferiscono i fatti giuridici inerenti le eccezioni>>.

Infatti circa il primo profilo, qui di interesse, il Tribunale risponde così: <<può dirsi, per quanto rileva nel caso di specie, che la nozione di eccezioni personali cui si riferisce l’art 83 septies tuf può essere tratta da quella del diritto comune (art 1993 c.c.), data l’identità di funzione tra le discipline (favorire una circolazione celere e sicura); il riferimento nell’art 83 septies tuf alle eccezioni personali consente di comprendere nella categoria tutte quelle inerenti a colui che è legittimato in quanto titolare del conto (art 83 quinquies Tuf) e che traggano fondamento sia nel contratto c.d. causale (statutario) sottostante lo strumento finanziario, sia in rapporti extra e diretti tra emittente e titolare del conto ( non statutari per quanto riguarda le azioni quali strumenti finanziari). Nota 4: Infatti non può dubitarsi che sia sempre oggetto possibile come eccezione personale ex art 1993 comma 1 c.c. la compensazione fondata su un qualsiasi controcredito e non si dubita che l’art 1993 c.c. si applichi ad alcune eccezioni fondate sui rapporti personali extrastatutari tra azionista e società, anche; la compensazione non può esservi se non in caso di autonoma fonte delle reciproche e contrapposte obbligazioni pecuniarie>> (seguono interessanti osservazioni, su cui non si può qui fermare , in base alle quali il Tribunale afferma che: 1)  la società può opporre al fiduciario la natura elusiva del negozio di trasferimento fiduciario volto a eludere norme di legge o statutarie -si tratterà di abuso del dirito o di negozio in frode alla legge-;  2) la decisione di intestare fiduciariamente ad altri una parte delle azioni, in esecuzione della delibera Agcom per rispettare i tetti partecipativi (quindi con corretezza sotto il profilo amministrativo), non preclude una diversa valutazione di tale operazione sul piano civilistico).

Questa (implicita, nel caso più recente) soluzione pare corretta. La dottrina fa ad es. rientrare nel concetto di “eccezioni personali” ex art 1993 c.c. quelle basate su rapporti extrastatutari, come l’eccezione di compensazione [ma allora secondo il regime comune: art.  1241 ss cc] oppure un pactum de non petendo circa la riscossione dei  dividendi (Angelici C., art. 2354, in Le azioni-artt. 2346-2356, in Il cod. civ. Commentario dir. da Schlesinger, Giuffrè, 1992, 282-283). Quest’ultimo è equiparabile, per tornare al caso nostro, al patto di divieto di acquisto di azioni dell’emittente (stipulato con quest’ultima): non vedo ragione per differenziare i diritti amministrativi da quelli patrimoniali.

Restano da capire quali possano essere altri casi di applicabilità della norma, data la peculiarità della fattispecie. Può essere abbastanza semplice, quando si tratti di pretesa alla riscossione dei dividendi; può esserlo meno, quando la pretesa, paralizzata dalla norma, abbia natura non patrimoniale ma relativa alla partecipazione alla vita organizzativa interna dell’emittente. Ad es.:

– la violazione del medesimo divieto (di acquisto azioni dell’emittente) ma stipulato con terzi, anzichè con l’emittente (ad es. con alcuni soci), costituisce “eccezione personale”? Direi di no, stante la regola di relatività del vincolo contrattuale.

– la violazione di altri obblighi (di qualunque tipo ma non concernenti operazioni su azioni dell’emittente: la fantasia può sbizzarirsi) ma pur sempre con l’emittente, può costituire eccezione personale? Ad es. invocando la normativa comune inadimplenti non est adimplendum ex art. 1460 cc? Parrebbe di si, stante l’ampiezza dell’ambito applicativo riconosciuto dalla dottrina all’art. 83 septies TUF .

Competenza giurisdizionale per violazioni di marchio UE, consistenti in offerta in vendita su internet

Interviene la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul tema in oggetto, decidendo una questione pregudiziale  sollevata dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) e relativa all’art. 97 (rubricato <<Competenza internazionale>>) § 5 del reg. 207/2009.

Secondo l’art. 97 § 1 sono competenti i Tribunali del domicilio del convenuto.

Secondo l’art. 97 § 5,  l’azione può essere promossa  anche <<dinanzi ai tribunali dello Stato membro in cui l’atto di contraffazione è stato commesso>>.

Nel caso specifico il presunto contraffattore era domiciliato in Spagna ed offriva in vendita prodotti contraffatti su internet. I titolari hanno fatto valere la violazione nel Regno Unito e solo per quanto riguarda il territorio britannico (§ 19 e § 55).

La questione riguarda l’interpretazione del concetto di “luogo di commissione della contraffazione“. Precisamente consiste nel capire se con ciò si intenda solo il luogo, in cui il convenuto abbia organizzato la messa on line, oppure anche il luogo (anzi i luoghi), in cui si trovano consumatori e professionisti cui pubblicità ed offerte di vendita sono rivolte, pur se diverso dal primo.

La Corte ha risposto nel secondo senso e ciò, oltre che per altre ragioni, anche tramite una corretta interpretazione della norma sull’ambito oggettivo di protezione conferito dalla privativa.

Secondo l’art. 9 § 2 lett. b) e d) [§ 3 lett. b) ed e) nell’ultima versione consolidata], infatti, costituisce contraffazione anche l’offerta in vendita e l’uso del segno nella pubblicità. Quindi il luogo di commissione della contraffazione in tali casi è laddove la pubblicità o l’offerta vendono percepite dai [“rese accessibili ai”] destinatari (§ 54).

In sintesi , ne segue che <<il titolare di un marchio dell’Unione (…) può introdurre un’azione per contraffazione (…) dinanzi a un tribunale dei marchi dell’Unione europea dello Stato membro sul cui territorio si trovano consumatori o professionisti cui si rivolgono tali pubblicità o dette offerte di vendita, nonostante il fatto che il suddetto terzo abbia adottato le decisioni e le misure finalizzate a tale pubblicazione elettronica in un altro Stato membro>> (§ 65)

Si tratta della sentenza 05.09.2019, causa C-172/18AMS Neve Ltd-Barnett Waddingham Trustees-Mark Crabtree contro Heritage Audio SL-Pedro Rodríguez Arribas.

La cointestazione di conto bancario non significa necessariamente cedere (o cointestare) il relativo credito verso la Banca

La Cassazione chiarisce che cointestare un conto corrente bancario (e anche il dossier titoli appoggiato ad esso: da vedere se sia possibile disgiugnerli) signifca solo estendere la legittimazione ad operare sul conto.

Non significa invece -tranne pattuizione diversa, da provare- trasferire la titolarità del credito.

Il trasferimento del contenuto di un conto corrente (o della intestazione del deposito titoli )  è una forma di cessione del credito verso la banca e come tale presuppone un contratto [uno specifico titolo giuridico: quindi da provare] tra cedente e cessionario.

Si può ricordare per completezza che il titolare può non solo trasferire la proprietà sul contenuto, ma anche semplicemente fare entrare altri nella titolarità, estendendo quindi il profilo soggettivo del diritto. In altre parole può modificare la titolarità del diritto passando dalla proprietà solitaria alla comunione  (il che costituisce parziale trasferimento).

Così Cass. 21963 del 03.09.2019, rel. Gianniti, Piccirilli ed altri c. Sartorelli ed altri, § 2, in fine.

Autore della musica di opera cinematografica, cessione dei diritti e termination right nel diritto statunitense (una recente decisione della Court of Appeals del 2° Circuito)

Il compositore Ennio Morricone (in causa si presenta il suo avente causa, Ennio Morricone Music Inc.)  si impegnò a creare sei colonne sonore per sei film verso una società del gruppo Edizioni Musicali Bixio (in causa: Bixio Music Group Ltd.) a fronte di un pagamento anticipato (3.000.000 di lire) e di future royalties, oltre ad altri compensi secondari. In aggiunta egli cedette all’editore Bixio i diritti d’autore su dette sue creazioni .

I film sono della fine anni 70 e inizio 80.

Successivamente (2012) Morricone notificò a Bixio l’intenzione di avvalersi del diritto di termination (recesso oppure risoluzione: qui non approfondisco) del rapporto  (si badi: era stata stipulata una cessione, non una licenza) secondo il § 203 della legge copyright statunitense (Tit. 17 Copyrights  dello US Code, chap. 2).

Questa norma lo permette dopo trentacinque anni, tranne che si tratti di  work made for hire.  Work made for hire (di seguito: w.m.f.h.) all’incirca significa “opera realizzata in esecuzione di contratto di lavoro dipendente o autonomo”: il concetto è definito dal § 101 del  cit. Tit. 17 Copyrights  dello US Code.

Le parti concordano in causa che il rapporto è governato dalla legge italiana e il giudice prende per buona questa posizione.

La difesa Bixio eccepisce che la nostra legge qualifica il rapporto sub iudice in modo tale da poterlo riternere sostanzialmente corrispondente al concetto statunitense di w.m.f.h. e dunque che Morricone non poteva esercitare il suo diritto di termination.

Il giudice però rileva diverse differenze tra i due istituti, che elenca in modo minuzioso. La prima ad es. consiste nel fatto che il  diritto statunitense rende titolare ab initio il datore/committente, mentre da noi l’autore delle  musiche è coautore (art. 44 l.aut.): ed il § 203 presuppone un trasferimento/cessione (assignment) da parte dell’autore per invocarne la relativa termination. Quindi -direi così, ma non lo dice il giudice- questa , se non può operare nel caso di w.m.f.h., ove non c’è alcun trasferimento, può invece operare secondo il diritto italiano, che prevede invece un acquisto derivativo in caso di trasferimetno dal compositore (Morricone) a soggetto terzo (Bixio).

Quello che è strano è il motivo per cui si applica un istituto autorale statunitense pur in presenza di legge applicabile italiana.

Secondo la teoria del diritto internazionale privato, l’ordinamento richiamato potrebbe non applicarsi, a favore invece di una norma della lex fori, se si tratta di norma c.d. unilateriale oppure di norma di diritto internazionale privato materiale oppure di  norma di applicazione necessaria o infine di norma di ordine pubblico.

Nessuna di queste ipotesi è richiamata però dal giudice.

In conclusione il giudice , ribaltando il primo verdetto, dà ragione a Morricone riconoscendogli il diritto di termination.

La decisione è del 21 agosto 2019 ed è stata emessa dalla United States Court of Appeals for the Second Circuit, KEARSE, JACOBS, HALL, Circuit Judges, caso No. 17‐3595‐cv, August Term 2018, parti: ENNIO MORRICONE MUSIC INC., Plaintiff‐Appellant, v. BIXIO MUSIC GROUP LTD., Defendant‐Appellee.

E’ leggibile nel database Decisions del Second Circuit.

La distruzione dell’opera dell’ingegno da parte dell’attuale proprietario costituisce violazione del diritto morale dell’autore?

La Suprema Corte tedesca affronta la questione in tre sentenze e dà risposta articolata. Il riferimento normativo è l’art. 14 della legge d’autore tedesca (qui la traduzione inglese: Distortion of the work), corrispondente al nostro art. 20 l. aut. In due delle tre sentenze si trattava di ristrutturazione di immobile con conseguente distruzione della stanza multimediale e multidimensionale “HHole (for Mannheim) 2006” and the light installation “PHaradise”, create nel 2006 per il Kunsthalle Mannheim, una art gallery in Mannheim (Germany).

Secondo il BGH, teoricamente l’attività distruttrice rientra nel concetto di distortion/Entstellung.

Solo che ciò va bilanciato con il diritto del proprietario di esercitare il dominio sul corpus mechanicum. Pertanto l’esito di questo conflitto di interessi dipenderà dalle circostanze, quali ad es.: -se è l’unica copia, -se è stata data previa possibilità all’autore di farne delle copie, -tipo di uso che il proprietario vuol farne.

Il BGH precisa che per lo più prevarranno i diritti del proprietario su quelli dell’autore.

Va ricordato che il diritto morale non è stato armonizzato a livello UE

Si potrebbe ragionare se si può distinguere tra tutela reale e tutela risarcitoria a favore dell’autore, sempre che l’illiceità sia accertata: infatti se è invece accertata la liceità dell’atto distruttivo, non spetta nemmeno la seconda tutela (a meno di ravvisare un caso di c.d. indennizzo da atto lecito). Soluzione però problematica in assenza di norma ad hoc.

V. il resoconto 19.08.2019 di su Kluwer Copyright Blog. dove si precisa che si tratta di sentenze del 21 febbraio 2019 numerate  I ZR 98/17, I ZR 99/17 and I ZR 15/18.

Aceto Balsamico di Modena: questioni in tema di tutela del segno distintivo

Il Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena è interessato da due recenti vertenze giudiziarie, in sede nazionale ed europea.

1) Nella prima è stato deciso che non può pretendere di registrare il marchio collettivo denominativo riferendosi alle tipologie merceologiche rivendicate con le diciture «Aceto balsamico di Modena» e «Condimenti all’Aceto balsamico di Modena>>  per contraddistinguere i prodotti della classe 30.

La classe 30 dell’Accordo di Nizza, nella versione temporalmente pertinente,  prevedeva: «Caffè, tè, cacao e succedanei del caffè riso tapioca e sago; farine e preparati fatti di cereali pane, pasticceria e confetteria gelati; zucchero, miele, sciroppo di melassa lievito, polvere per fare lievitare; sale senape; aceto, salse [condimenti]; spezie; ghiaccio».

Il Consorzio (parrebbe) pretendeva di indicare come classe merceologica direttamente e solamente il proprio prodotto: «Aceto balsamico di Modena» e «Condimenti all’Aceto balsamico di Modena>> , quasi costituisse un genere merceologico autonomo.

La Cassazione ha però confermato che questo contrasta con la classificazione di Nizza, la ottemperanza alla quale è però prevista dall’art. 156 c.p.i. (e comunque -vien da aggiungere-  contrasta con esigenze di armonizzazione tra Stati aderenti.

Così si legge in motivazione (sub § 2): <<Il riferimento  specifico al prodotto rivendicato («Aceto balsamico di Modena» e «Condimenti all’Aceto balsamico di Modena»), all’interno della classe 30 della Classificazione internazionale di Nizza (che, anche nell’elenco alfabetico dei prodotti inclusi, non comprende tali diciture), avrebbe comportato una sorta di rimodulazione dell’elenco dei prodotti o servizi oggetto della Classificazione Internazionale di Nizza, non per genere dei prodotti ma per caratteristiche specifiche ulteriori (non incluse nella classificazione stessa) non consentita. (…) La ricorrente assume che il prodotto aceto balsamico di Modena non possa rientrare nel genere «aceto», presente nella classe 30, costituendo una sorta di genere autonomo di prodotto ben definito, sulla base di elementi differenziali, peraltro non chiaramente indicati in ricorso; la ricorrente non spiega perché la dicitura «aceto», presente nella classe 30 (che accorpa i prodotti merceologici in base a caratteristiche generali comuni), non potrebbe ricomprendere anche l’aceto balsamico di Modena. Ed invero non si trattava di negare tutela ad un genere autonomo, non previsto nella Classificazione di Nizza, ma di ricondurre il prodotto ad un genere già classificato, nella Classe 30>>.

Si tratta di Cass. 12.848 del 14.05.2019, Rel. Iofrida.

2) Quanto alla sede europea  , il Consorzio ha fatto valere invece la IGP <<Aceto Balsamico di Modena (IGP)>> presso la Corti tedesche contro l’uso di etichetta contenente le scritte «Balsamico» e «Deutscher Balsamico» e pure la scritta «Theo der Essigbrauer, Holzfassreifung, Deutscher Balsamico traditionell, naturtrüb aus badischen Weinen» [Theo l’acetificatore, invecchiamento in botti di legno, Aceto balsamico tedesco tradizionale, naturalmente torbido, ottenuto da vini del Baden] oppure «1. Deutsches Essig-Brauhaus, Premium, 1868, Balsamico, Rezeptur No. 3» [1° acetificio tedesco, Premium, 1868, Balsamico, Ricetta n. 3] su aceti prodotti dalla Balema GmBH..

La Corte Suprema tedesca BGH (Bundesgerichtshof) ha sollevato la seguente questione pregiudiziale interpretativa del reg. 583/2009 recante iscrizione nel registro delle denominazioni d’origine protette e delle indicazioni geografiche protette della denomnazione Aceto Balsamico di Modena (IGP) (e delle pertinenti norme del reg. 1151/2012 , spt. artt. 13 e 41)  : «se la tutela di cui beneficia la denominazione “Aceto Balsamico di Modena” nel suo insieme si estenda anche all’utilizzazione dei singoli termini non geografici che compongono tale denominazione (“Aceto”, “Balsamico”, “Aceto Balsamico”)» (v. § 22 Conclusioni A.G.).

Sono da poco state presentate la conclusioni dell’Avvocato Generale Hogan, sfavorevoli al Consorzio, avendo dato risposta risposta negativa alla domanda posta dal BGH.

Secondo l’ A.G.  (v. § 14) la denominazione è protetta solo nella sua interezza, mentre non è  protetta nella sue singole parole non geografiche “Aceto”, “Balsamico” e “Aceto Balsamico”. Pertanto la Balema GmBH può continuare a scrivere sull’etichetta «Balsamico» e «Deutscher Balsamico» (AG in causa C-432/18 nelle sue conclusioni 29.07.2019)

la tutela da design può riguardare le scatole contenenti polvere per makeup?

La HIGH COURT OF JUSTICE BUSINESS AND PROPERTY COURTS OF ENGLAND & WALES INTERLLECTUAL PROPERTY LIST (Ch D) ha risposto positivamente alla domanda in oggetto: la tutela da design può concernere anche le scatole (la loro goffratura) contenenti la polvere per makeup.

Precisamente può riguadare: i) sia il particolare disegno impresso alla polvere pressata, nonostante che con l’uso questa si esaurisca e il disegno scompaia; ii) sia il disegno impresso sulla scatola-contenitore .

Così riferisce

Responsabilità dei sindaci (di s.r.l.): messa a punto della Cassazione (n. 18770 del 12.07.2019 e n. 20.651 del 31.07.2019)

In una sentenza di Cassazione di metà 2019  (n. 18.770 del 12.07.2019, sez. I,  rel. Nazzicone) ci sono alcune utili precisazioni sulla disciplina della responsabilità dei sindaci, governata dall’art. 2407 c.c.  Leggiamo ad esempio:

<<Da un lato, solo un più penetrante controllo, attuato mediante attività informative e valutative — in primis, la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c. – può dare concreto contenuto all’obbligo di tutela degli essenziali interessi affidati al collegio sindacale, cui non è consentito di rimanere acriticamente legato e dipendente dalle scelte dell’amministratore, quando queste collidano con i doveri imposti dalla legge, al contrario avendo il primo il dovere di individuarle e di segnalarle ad amministratori e soci, non potendo assistere nell’inerzia alle altrui condotte dannose: senza neppure potersi limitare alla richiesta di chiarimenti all’organo gestorio, ma dovendosi spingere a pretendere dal medesimo le cd. azioni correttive necessarie. Dall’altro lato, il sindaco dovrà fare ricorso agli altri strumenti previsti dall’ordinamento, come i reiterati inviti a desistere dall’attività dannosa, la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c. (ove omessa dagli amministratori, o per la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate, dunque anche ex artt. 2446 e 2447 c.c.), il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite (ai sensi di tali disposizioni), i solleciti alla revoca delle deliberazioni assembleari o sindacali illegittime, l’impugnazione delle deliberazioni viziate, il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. o all’autorità giudiziaria penale, ed altre simili iniziative.

Dovendosi ribadire che, come questa Corte ha già osservato, anche la semplice minaccia di ricorrere ad un’autorità esterna può costituire deterrente, sotto il profilo psicologico, al proseguimento di attività antidoverose da parte dei delegati (Cass. 29 dicembre 2017, n. 31204; Cass. 11 novembre 2010, n. 22911).

Senza trascurare, altresì, che la condotta impediente omessa va valutata nel contesto complessivo delle concrete circostanze, in quanto l’inerzia del singolo nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo degli altri acquista efficacia causale, dato che, all’opposto, una condotta attiva giova a “rompere il silenzio” sollecitando, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge ed ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri (così, in sede penale, Cass. pen. 7 marzo 2014, n. 32352, Tanzi)>> (sub 3.4 Nesso causale, pp.12-13).

Ed inoltre: <<l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale onere, l’inerzia del sindaco integra di per sè la responsabilità, restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami, indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale>> (sub 3.6 Riparto dell’onere probatorio, p. 16).

Nel caso specifico era stata accertata una <<situazione di altissima illiceità, quale rumoroso “campanello di allarme” e macroscopico “segnale” circa la condizione di illegalità diffusa del gruppo>> , costituita da un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza: la quale nel 2006 aveva dettagliatamente segnalato una  gravissima situazione di illiceità fiscale, della cui ricezione da parte della società i sindaci erano a conoscenza (p. 16-17).

Principi di diritto indicati dalla Corte:

<<Ricorre il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l’illecito perpetrato dagli amministratori ai fini della responsabilità dei primi – secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale – se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione lo avrebbe ragionevolmente evitato, tenuto conto di tutta la possibile gamma di iniziative che il sindaco può assumere, esercitando i poteri-doveri della carica (quali la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c., la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 c.c. e ss., la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446 e 2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c., ed ogni altra attività possibile ed utile)>>.

<<Ove i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta illecita gestoria contraria alla corretta gestione dell’impresa, non è sufficiente ad esonerarli da responsabilità la dedotta circostanza di essere stati tenuti all’oscuro dagli amministratori o di avere essi assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, allorchè, assunto l’incarico, fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e di porvi rimedio, onde l’attivazione conformemente ai doveri della carica avrebbe potuto permettere di scoprire tali fatti e di reagire ad essi, prevenendo danni ulteriori>>.

SULLE DIMISSIONI: <<Le dimissioni presentate non esonerano il sindaco da responsabilità, in quanto non integrano adeguata vigilanza sullo svolgimento dell’attività sociale, per la pregnanza degli obblighi assunti proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato altrui e perchè la diligenza impone, piuttosto, un comportamento alternativo, allora le dimissioni diventando anzi esemplari della condotta colposa tenuta dal sindaco, rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità>>”.

Sull’ultima affermazione della Suprema Corte si può in linea di massima concordare. E’ stato però segnalato in senso parzialmente critico che la stessa non può essere ritenuta valida sempre e comunque: cioè non si può sempre comunque dichiarare insufficienti le dimissioni per esonerare il sindaco (De Luca, Collegio sindacale: non bastano le dimissioni per evitare la responsabilità? , nota a Cass. 18770 del  12.07.2019 e a Cass. 20.651 del 31.07.2019, Il foro it., 2019, 11, 3547/8). Per questo a. bisogna distinguere tra il sindaco lungamente connivente, che si dimette, e il sindaco, che invece si dimette dopo aver intimato la rimozione di irregolarità.

Il punto però è proprio questo: un’intimazione di rimozione delle irregolarità con successive dimissioni costituisce esatto adempimento dei doveri sindacali? la risposta in linea di massima è positiva, perlomeno se la diffida individua in modo preciso le irregolarità e i comportamenti da adottare a rimedio, secondo l’opinione dei sindaci. A conferma di quest’ultimo punto si veda  l’art. 14 c. 2 cod. crisi (v. sotto), secondo cui <<in caso di omessa o inadeguata risposta, ovvero di mancata adozione nei successivi sessanta giorni delle misure ritenute necessarie per superare lo stato di crisi, i soggetti di cui al comma 1 informano senza indugio l’OCRI>>: se ne ricava che le “misure ritenute necessarie” sono quelle che sindaci e revisori ritengono tali, essendo costoro obbligati ad informare l’OCRI se non sono poi adottate (conf. Cian M., Crisi dell’impresa e doveri degli amministrtori: i principi riformati e il loro possibile impatto, Nuove leggi civili commentate, 2019/5, 1173).  In altre parole, non è necessaria la denuncia di gravi irregolarità ex art. 2409 (di certo non lo è quando le irregolarità non sono “gravi”).

Più complesso è il tema -poco frequentato- dell’eventuale dovere di impugnativa delle delibere del CdA ex art. 2388 c.4 (se non di quelle dei soci).

Il codice della crisi (d. lgs. 14/2019) interviene sull’argomento obbligando i sindaci sia a segnalare agli amministratori l’esistenza di “fondati indizi della crisi” sia -in caso di mancata loro reazione- ad informare l’OCRI. Sul primo punto non ci sono grosse novità , in quanto il dovere di segnalare le irregolarità agli amministratori era già desumibile dal sistema ed anzi sorgeva ben prima che assurgessero a “fondati indizi della crisi”. Il secondo punto invece è nuovo . Qui però la responsabilità è disciplinata in negativo e cioè come esonero da responsabilità dei sindaci se si attengono alle prescrizioni di legge. Nulla si dice in positivo e cioè se vi siano responsabilità nel caso in cui non si sia provveduto in tal modo.

Soccorrerà allora la norma generale dell’articolo 2407 con il giudizio controfattuale chiesto dal c. 2, e <<la prova del nesso eziologico, da dimostrarsi secondo il criterio della prognosi postuma (“più probabile che non”)(vedi la recente Cass. 3704/2018), può essere fornita mediante presunzioni semplici, laddove possa ragionevolmente presumersi che la tempestiva segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate o la denuncia al P.M. sarebbe risultata idonea ad impedire le conseguenze dannose (del protrarsi) della condotta gestoria.>> (Cass. 31.07.2019 n. 20.651, p. 15-16).

In questo senso potrebbe allora trarre in inganno l’affermazione, secondo cui “si deve partire da un dato, costituito dalla mancata previsione nel decreto legislativo che ha introdotto il codice della crisi, e a monte nella legge delega, di sanzioni in caso di inadempienze da parte degli organi di controllo e dei revisori dell’obbligo su questi gravante di avvisare immediatamente l’organo amministrativo circa l’esistenza di fondati indizi della crisi e su quello, insorgente nel caso di omessa o inadeguata risposta, ovvero di mancata adozione nei successivi sessanta giorni delle misure ritenute necessarie per superare lo stato di crisi, di informare tempestivamente l’organismo di composizione della crisi>> (Brizzi, Procedure di allerta e doveri degli organi di gestione e controllo: tra nuovo diritto della crisi e diritto societario, in Orizz. del dir. comm., 2019/2, 361). Le sanzioni ci sono e son quelle di diritto comune (lasciando da parte l’approprietezza o meno dell’uso del termine “sanzione” in tali casi); ciò che manca, semmai, è una nuova e diversa “sanzione” (rectius: rimedio) per la violazione dei nuovi doveri introdottti o esplicitati dal codice della crisi.

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Meno utili le osservazioni della cit. Cass. 31.07.2019 n. 20.651, sez. I, rel. Fedderico, secondo cui <<in tema di responsabilità degli organi sociali, la configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, comma 2, c.c. non richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunciando i fatti al Pubblico Ministero per consentirgli di provvedere ai sensi dell’art. 2409 c.c.(Cass. 22911/2010; 16314/2017)>> (p. 16)

Il Tribunale di Verona afferma la responsabilità civile della Banca nella questione delle vendite di diamanti

Sulla vendita  dei diamanti tramite banca  (sui cui ci sono nuovi sviluppi, scrive la Reuters), interviene il Tribunale civile di Verona RG 5251/2018 del 20.05.2019 , accogliendo la domanda dei clienti/investitori.

Questi ultimi avevano citato sia la Intermarket Diamond Business s.p.a. (IDB)  sia la Banca per ottenere ristoro del danno subito dal cattivo investimento loro proposto.

Qui interessa solamente il ruolo della Banca, la quale dall’istruttoria risulta aver promosso l’investimento in diamanti, che si sarebbe poi concretizzato in un contratto tra investitori e IDB.

Segnalo due passaggi della sentenza veronese.

Nel primo, il giudice scrive (p. 15): <<La fonte della responsabilità della banca va invece individuata, come proposto in via alternativa dal ricorrente, nel rapporto che, come si è visto, è indubbiamente intercorso tra la e l’istituto di credito in relazione all’acquisto dei diamanti e nell’ambito del quale la prima, per le ragioni dette al termine del precedente paragrafo, ha posto affidamento in un dovere di diligenza gravante in capo al secondo, in virtù delle sue specifiche competenze professionali.

Di tale competenza la ….. che era abituale investitore attraverso la banca, non avrebbe potuto ragionevolmente dubitare, dato che l’opportunità dell’acquisto dei diamanti le era stata presentata dal proprio referente investimenti contestualmente e in collegamento all’offerta di prodotti finanziari (quote di fondi comuni di investimento) e la valutazione di forme alternative di impiego del risparmio rientra nel servizio di consulenza finanziaria offerto dal personale dell’istituto di credito ai propri clienti.

E’ appena il caso di evidenziare che il comportamento tenuto in concreto dalla banca ha tradito quell’affidamento e molto probabilmente, per una sorta di eterogenesi dei fini, ha anche pregiudicato quel risultato di fidelizzazione della clientela che la resistente si prefiggeva di realizzare collaborando con IDB.

Il rapporto intercorso tra le parti ha anche generato a carico di Banco Bpm un obbligo di informazione e di protezione nei confronti del cliente a salvaguardia dell’affidamento in lui generato e il suo fondamento normativo può essere individuato, come suggerito dalla difesa attorea, nel disposto dell’art. 1173 c.c. (sul punto si veda Cass., sez. un., 26 giugno 2007 n. 14712 in tema di fondamento della responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall’art. 43 legge assegni l’incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo) e a tale conclusione non ostano le pronunce di merito prodotte dalla resistente, che non hanno esaminato tale questione poiché non era agitata in quei giudizi (la pronuncia del Tribunale di Milano dell’8 gennaio 2019 anzi ha evidenziato come la responsabilità della banca avrebbe potuto essere prospettata proprio sotto il profilo della violazione dell’obbligo di protezione).>>

In breve la Banca avrebbe violato un obbligo di informazione/protezione del cliente/investitore e dunque l’affidamento da questi riposto sulla professionalità e competenza della Banca stessa. Emerge dalla sentenza che l’investimento in diamanti era stato proposto dalla Banca al cliente/investitore in alternativa ad altri possibili e in sostituzione di un precedente investimento scaduto.

Sembra dunque che si sia trattato, secondo il giudice, di violazione di un obbligo e quindi di responsabilità contrattuale.

Bisogna però trovare la fonte di tale obbligo. Il giudice lo trova nell’art. 1173 cc..  L’affermazione lascia un pò perplessi, dato che la norma non pone obblighi ma si limita ad elencare le possibili fonti, quindi rinviando ad altre norme. Infatti così recita: <<art. 1173 (Fonti delle obbligazioni). Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformita’ dell’ordinamento giuridico>>.

Il giudice avrebbe quindi dovuto individuare uno specifico <<atto o fatto idoneo a produrre in conformita’ dell’ordinamento giuridico>> il dovere di informazione/protezione sub iudice.

Il che poteva avvenire, volendo restare come detto nella responsabilità contrattuale, tramite la teoria del dovere di protezione sorgente da un’obbligazione senza prestazione (meglio: rapporto obbligatorio senza obbligo primario di prestazione), fondato sull’affidamento, ogni volta che questo sia serio e cioè fondato sulla professionalità della controparte: principio generale, di cui la responsabilità precontrattuale sarebbe solo una manifestazione, e che non può essere limitato a questa. Questa è la tesi di C. Castronovo (seguito da A. Nicolussi, voce Obblighi di protezione, Enc. del dir., Annali, VIII, 664.) , esposta in più scritti, tra cui: C. Castronovo, Ritorno all’obbligazione senza prestazione, Eur. dir. priv., 2009, 679 ss, § 1 e § 4, pp. 680-681 e 694-699 ed ora C. Castronovo, Responsabilità civile, Giuffrè, 2018, 540-554. Castronovo trae dall’art. 1337 c.c. sulla c.d responsabilità precontrattuale un principio generale di tutela dell’affidamento, quando riposto in soggetti titolari di uno status professionale.

Oppure, non concordando su ciò (lo status professionale infatti non è alla base dell’art. 1337, come sarebbe invece necessario per ravvisare somiglianza a fini analogici: Lambo L. sia in Obblighi di protezione, CEDAM, 2007, 385 ss, spt. 390, che in La responsabilità del medico dipendente e il gioco dell’oca (obblighi di protezione c. alterum non laedere, Il Foro it., 2017, V, 242, § 5), si poteva prudentemente cercare l’estensione analogica di altre norme, come propone Zaccaria A. (ad es. in Contatto sociale e affidamento, attori protagonisti di una moderna commedia degli equivoci, in Principi, regole, interpretazione. contratti e obbligazioni, famiglie e successioni. Scritti in onore di Giovanni Furgiuele, a cura di G. Conte e S. Landini, Universitas Studiorum S.r.l. – Casa Editrice, 2017, 611 ss). Anche questo a. propone l’estensione dell’art. 1337 cc ma solo ai contatti negoziali e ai contatti simili a quelli negoziali (prestazioni per puro spirito di cortesia) (p. 615): per cui sul punto si avvicina molto alla tesi di Castronovo, la differenza dal quale allora sta nel fatto che secondo quest’ultimo dall’art. 1337 può trarsi un principio generale per cui l’affidamento va tutelato tramite l’obbligazione in tutti i casi “che mettono la sfera giuridica di ciascuna parte alla mercè di dell’altra” (Ritorno all’obbligazione senza prestazione, cit., 696-697).

Però il nostro caso riguarda bensì contatti in vista di una possibile stipula contrattuale, ma nei quali il soggetto, su cui è riposta la fides (banca), non è quello con cui il suo cliente eventualmente stipulerà (stipulerò infatti eventualmente l’IDB). Quindi si tratterebbe di estendere sotto il profilo soggettivo la regola del 1337 cc. Mi pare tuttavia che si possa procedere in tale senso: il venditore IDB non può pensare di sottrarvisi, delegando le trattative alla banca. Il cliente potrà infatti agire in risarcimento verso colui, che ha di fatto avuto di fronte durante le trattative stesse, se è stato costui a fornirgli informazioni inesatte e/o scorrette.

Non accettando ciò, si potrebbe restare nell’area del dovere violato, invocando la seconda parte della teoria di Zaccaria. Egli , infatti, per i contatti diversi sia da quelli negoziali che da quelli simili ai negoziali, propone la tutela dell’affidamento tramite l’obbligazione protettiva, solo quando si possa procedere con l’analogia da regole positivamente poste (Id., Contatto sociale e affidamento, cit., 617/8). E nel nostro caso la regola potrebbe essere ravvisata, se non l’art. 1337 cc., almeno nel dovere di  informazione a carico del mediatore (art. 1759 cc). Quest’ultimo è da tempo oggetto di applicazione estensiva, dato che lo si estende non solo alle circostanze (già) note al mediatore, ma anche a quelle che avrebbe potuto conoscere attivandosi diligentemente alla loro ricerca e comunque sempre dopo averle verificate (Giacobbe E., Il contratto di mediazione, Tratt. di dir. priv. dir. da Bessone, Giappichelli, 2015, 145-147).

Il che coprirebbe pure la tesi della Banca, secondo cui essa si sarebbe limitata a segnalare ad IDB l’interesse dei propri clienti all’investimento in diamanti, svolgendo quindi sostanzialmente una attività mediatoria.

Il secondo passaggio da segnalare concerne la possibile invocazione alternativa di altra responsabilità della banca. Il Tribunale infatti aggiunge:

<<Degli obblighi gravati su Banco Bpm può peraltro ravvisarsi, sulla base dei fatti di causa, anche una base contrattuale, con conseguente applicabilità dell’art. 1218 c.c., atteso che l’attività di vendita di beni preziosi, alla quale Banco Bpm ha sicuramente contribuito, può ricondursi al novero delle attività connesse a quella bancaria che l’art.8, comma 3, del D.M. Tesoro 6 luglio 1994 definisce come “attività accessoria che comunque consente di sviluppare l’attivita’ esercitata” aggiungendo che: “A titolo indicativo, costituiscono attivita’ connesse la prestazione di servizi di: a) informazione commerciale; b) locazione di cassette di sicurezza”.

Sulla base di tali indicazioni, da non considerarsi esaustive, possono ricondursi alle attività connesse anche la intermediazione nella conclusione di polizze rc auto o di compravendita di biglietti per eventi culturali o a musei e attrazioni varie, alle quali gli istituti di credito sono dediti da tempo.

In tale prospettiva viene allora in rilievo il consolidato indirizzo della Suprema Corte secondo cui nello svolgimento del rapporto contrattuale la buona fede implica non soltanto il rispetto della legge e delle pattuizioni contrattuali, ma altresì obblighi di protezione dell’altro contraente: in particolare sono dovute quelle cautele e attività ulteriori che, senza sacrificio eccessivo per una parte, consentono all’altra di conservare o conseguire le utilità nascenti dal contratto (c.d. buona fede integrativa, richiamata da Cass. 26 ottobre 2017, n. 25512; Cass. 7 novembre 2011, n. 23033 che parla in proposito di dovere di solidarietà contrattuale). E’ noto poi come la violazione degli obblighi informativi nella fase precontrattuale si traduca in una responsabilità contrattuale se il contratto si conclude>>.

Si può osservare che il DM 6 luglio 1994 parrebbe essere stato sostituito dal DM Economia e Finanze 17 febbraio 2009 n. 29 (v. art. 24); ma questo non è così importante, dato che la norma corrispondente -in entrambi casi, l’art. 8 c.3- non presenta variazioni.

Si può inoltre osservare quanto segue.

Una cosa  è capire se una certa attività costituisce o meno concessione di finanziamenti al pubblico e quindi se ricade o meno nella riserva soggettiva posta dall’art. 106 /1 TU credito, 385/1993. L’art. 8 esordisce infatti con <<1. Gli intermediari finanziari possono esercitare attività strumentali o connesse a quelle finanziarie svolte.>>. Altra cosa è se nel caso specifico vi sia stata o meno lo svolgimento di queste attività, con conseguenti eventuali obblighi protettivi generali dall’esecuzione secondo buona fede. Altra cosa ancora, infine, è capire la rilevanza dell’invocazione di tale norma: fermi i fatti storici, se la Banca non fosse stata autorizzata a tale attività , sarebbe venuta meno la possibilità di ravvisare nella fattispecie la violazione del dovere de quo?

Di quale dovere, poi? Il giudice scrive dei doveri di protezione dovuti da un contraente all’altro “nello svolgimento del rapporto contrattuale”. Qui però il contratto finale sarebbe stato stipulato con IDB, non con la Banca. Si torna quindi al ruolo della Banca da individuare al di fuori del rapporto contrattuale fonte di obblighi primari di prestazione: per cui resta da chiarire quale sia la diversa fonte di dovere contrattuale, prospettata in alternativa dal giudice.

In conclusione, circa questo secondo profilo, non è chiarissima nè la pertinenza della norma bancaria invocata dal Giudice nè la fonte del dovere di buona fede gravante sulla Banca, dato che il rapporto contrattuale si sarebbe instaurato solo con IDB

Climate Corporate Governance: principi guida dal World Economic Forum

Il World Economic Forum il 17.01.2019 ha emanato dei guiding principles sulla corporate governance relativamente alle questioni climatiche: How to Set Up Effective Climate Governance on Corporate Boards: Guiding principles and questions.

Sono otto principi estrapolati da interviste a managers di diverse società.

Sono un pò generici, ma interessanti. V. ad es.:

– l’esplicitazione del principio di sostenibilità , che ora riguarda pure l’ambiente (Pr. 1, 4 e 6);

– la necessità di competenze e professionalità specifiche nel board  (Pr.2);

– la necessità che il profilo del clima informi gli investimenti strategici e sia inserito nella gestione di rischi e opportutnità (Pr. 5)

– la disclosure in tema deve essere diretta a tutti gli stakeholders e soprattutto ad investitori e regolatori (Pr. 7; v. pure Pr. 8); non si menzionano però specificamente le comunità locali ove sono collocate le unità operative aziendali. Sul punto v. ora da noi il d. lgs. 254/2016, ad es. art. 3, in attuazione della Dir. 2014/95/UE sulla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte delle grandi imprese (gli obblighi curiosamente gravano solo sugli amministratori -art. 3 c. 7- e dunque non sull’ente).

Circa  gli obblighi sorti da quest’ultima normativa, si è osservato che -tramite il riferimento alla correttezza della gestione imprenditoriale  imposta alle società dall’art. 2497 cc- potrebbe ravvisarsi un affidamento negli stakeholders a più stretto contatto con l’impresa tutelabile tramite azione contrattuale nella forma dell’obbligo di protezione in capo all’impresa stessa (L. Papi, Crisi del sistema “volontaristico” e nuova frontiere europee della responsabilità sociale di impresa, Riv. dir. comm., 2019, 109 ss, § 5, 144 ss e spt. 159-163) .

Gli intervistati hanno portato dei motivi per cui sino ad oggi è stato difficile tener conto dei rischi climatici. Tra questi spicca il profilo temporale: mentre i manager sono schiacciati dalla necessità di portare risultati nel breve periodo, il cambiamento climatico presetna rischi nel lungo periodo (p. 10).

Molto interessante è l’Appendix 1 Legal perspectives e ivi il cenno ai Trends in climate litigation.  Su quest’ultimo aspetto esiste un approfondito documento delle Nazioni Unite: UN Enviroment The Status of Climate Change Litigation : A Global Review, maggio 2017.

Questi guiding principles si basano anche su un precedente ampio lavoro del giugno 2017 inerente i Climate-Related Risks and Potential Financial Impacts promosso da una Task Force del Financial Stability Bord (Recommendations of the Task Force on Climate related Financial Disclosures June 2017- Final Report).

E’ stato scritto di recente che dai codici di condotta in tema di corporate governance si desume un cambiamento verso la gestione del rischio. In particolare <<il rischio cessa di essere una nebulosa indistinta. Il rischio può e deve essere declinato nei suoi molteplici aspetti. Il rischio in qualche misura è riportato- sembra paradossalmente-  alla prevedibilità. Il rischio va gestito, e non solo attraverso l’assicurazione (in fondo ultima) ratio. La rilevanza e gestione del rischio, di ciò che pareva esterno alla condotta, diventano componente essenziale della corretta amministrazione. Ed ancora -in  definitiva si tratta di profilo assai vicino a quello del rischio- i codici di comportamento danno un forte contributo ad una concezione dei sistemi di controllo come componente dell’azione gestoria (concezione, intendiamoci, presente a livello di sistema, che le best practices potenziano)>> (P. Marchetti,  Codici di condotta, Corporate governance e diritto commerciale, in Riv. di dir, comm., 2019, 1, 33 /34).

E’ giusta l’ultima osservazione del prof. Marchetti. La gestione dei rischi (tutti: anche ambientali) fa già parte dei doveri degli amministratori: rientrano infatti nella diligenza dovuta ex art. 2392 cc (e in quella ex artt. 2394-2395 nel caso di violazione verso creditori, soci e terzi, eventualmente). L’esplicitazione di alcuni di essi nelle best practices favorisce (meglio: rende probabilmente incontestabile) il loro inserimento nella diligenza dovuta, secondo la ricostruzione diffusa del del concetto di clausola generale.