Lo “scudo per la privacy” USA-UE è cassato dalla Corte di Giustizia

I media hanno dato (giustamente) ampio spazio alla decisione della Corte di Giustizia (CG) 16.07.2020, C-311/18, Schrems II, con cui è stata annullata la decisione <scudo per la privacy>  (SPP) 12.07.2016 2016/1250.

Era capitato che Maximillian Schrems aveva contestato presso il Garante Irlandese il trasferimento dei suoi dati in server statunitensi, da parte di Facebook, p. 52.

Dopo una prima vittoria in sede europea con sentenza CG 6.10.2015, C-362/14, Schrems era ricorso ancora contro la successiva decisione della Commissione, appunto la sopra citata SPP.

Nella nuova denuncia <il sig. Schrems ha fatto valere, in particolare, che il diritto statunitense impone a Facebook Inc. di mettere a disposizione delle autorità statunitensi, quali la National Security Agency (NSA) e le Federal Bureau of Investigation (FBI), i dati personali che le sono trasferiti. Egli ha sostenuto che, poiché tali dati sono utilizzati nell’ambito di diversi programmi di sorveglianza in modo incompatibile con gli articoli 7, 8, e 47 della Carta, la decisione CPT non può giustificare il trasferimento dei suddetti dati verso gli Stati Uniti. Il sig. Schrems ha pertanto chiesto al Commissario di vietare o di sospendere il trasferimento dei suoi dati personali verso Facebook Inc.>, p. 55.

Ricordo solo tre punti.

1° punto (quest. preg. 2°, 3°, 6°)

la CG continua nella sua intepretazione del rapporto tra ordinamento europeo e nazionali:

<100  Secondo costante giurisprudenza, inoltre, la validità delle disposizioni del diritto dell’Unione e, in mancanza di un espresso richiamo al diritto nazionale degli Stati membri, la loro interpretazione non possono essere valutate alla luce di tale diritto nazionale, neppure di rango costituzionale, in particolare dei diritti fondamentali quali formulati nella loro Costituzione nazionale (v., in tal senso, sentenze del 17 dicembre 1970, Internationale Handelsgesellschaft, 11/70, EU:C:1970:114, punto 3; del 13 dicembre 1979, Hauer, 44/79, EU:C:1979:290, punto 14, nonché del 18 ottobre 2016, Nikiforidis, C‑135/15, EU:C:2016:774, punto 28 e giurisprudenza ivi citata.>

Per concludere sul quesito posto che <l’articolo 46, paragrafo 1, e l’articolo 46, paragrafo 2, lettera c), del RGPD devono essere interpretati nel senso che le garanzie adeguate, i diritti azionabili e i mezzi di ricorso effettivi richiesti da tali disposizioni devono garantire che i diritti delle persone i cui dati personali sono trasferiti verso un paese terzo sul fondamento di clausole tipo di protezione dei dati godano di un livello di protezione sostanzialmente equivalente a quello garantito all’interno dell’Unione da tale regolamento, letto alla luce della Carta. A tal fine, la valutazione del livello di protezione garantito nel contesto di un trasferimento siffatto deve, in particolare, prendere in considerazione tanto le clausole contrattuali convenute tra il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento stabiliti nell’Unione e il destinatario del trasferimento stabilito nel paese terzo interessato quanto, per quel che riguarda un eventuale accesso delle autorità pubbliche di tale paese terzo ai dati personali così trasferiti, gli elementi rilevanti del sistema giuridico di quest’ultimo, in particolare quelli enunciati all’articolo 45, paragrafo 2, di detto regolamento>, p. 105.

Che si debba porre attenzione alle norme del paese trasferitario, pare una ovvietà

2° punto (quest. preg. 8°):

e’ vero che la decisione di adeguatezza e conformità della Commissione è sì vincolante per gli Stati fino a che non venga annullata.

Tuttvia ciò non può impedire ai Garanti di eseguire un loro sindacato: <non può impedire alle persone i cui dati personali sono stati o potrebbero essere trasferiti verso un paese terzo di investire, in applicazione dell’articolo 77, paragrafo 1, del RGDP, l’autorità nazionale di controllo competente di un reclamo relativo alla protezione dei loro diritti e delle loro libertà con riguardo al trattamento di tali dati. Analogamente, una decisione di tal genere non può né annullare né ridurre i poteri espressamente riconosciuti alle autorità nazionali di controllo dall’articolo 8, paragrafo 3, della Carta nonché dall’articolo 51, paragrafo 1, e dall’articolo 57, paragrafo 1, lettera a), di detto regolamento>, p. 119.

Ne segue che,  <anche in presenza di una decisione di adeguatezza della Commissione, l’autorità nazionale di controllo competente, investita da una persona di un reclamo relativo alla protezione dei suoi diritti e delle sue libertà rispetto ad un trattamento di dati personali che la riguardano, deve poter esaminare, in piena indipendenza, se il trasferimento di tali dati rispetti i requisiti posti dal RGPD e, se del caso, proporre un ricorso dinanzi ai giudici nazionali affinché questi ultimi procedano, se condividono i dubbi di tale autorità quanto alla validità della decisione di adeguatezza, ad un rinvio pregiudiziale diretto all’esame della suddetta validità>, p. 120..

3° punto (quest. preg. 4° , 5°, 9° ), §§ 150 ss.

E’ il succo della sentenza.

Il giudice a quo dubita della compatibilità della SPP con alcuni articoli dell Carta dei diritti fondametali UE: cioè con gli articoli 7 (vita privata e familiare),  8 (personal data protection) e 47 (diritto a un ricorso effettivo e  imparziale).

I poteri inquisitori delle agenzia di sicurezza USA erano stati considerati dalla Commissione nella SPP (§§ 164-167). Tuttavia la CG deve riesaminarli autonomamente, § 178 ss

La CG ritiene che la conformità al livello minimo europeo manchi, sia in riferimento all’art. 702 del FISA-Foreign Intelligence Surveillance Act (su cui v. § 109), da un lato, sia in riferimento all’executive order 12333 e al PPD-28 (Presidential Policy directive 28, su cui v. § 45 e qui § 68 della sua precedente decisione), dall’altro: v. le conclusioni al § 180 e, rispettivamente, al § 184.

In conclusione, <l’articolo 1 della decisione «scudo per la privacy» è incompatibile con l’articolo 45, paragrafo 1, del RGPD, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 47 della Carta, e che esso è per tale motivo invalido>, § 199.

Ne segue che, <poiché l’articolo 1 della decisione «scudo per la privacy» è inscindibile dagli articoli da 2 a 6, nonché dagli allegati della medesima, la sua invalidità ha l’effetto di inficiare la validità di tale decisione nel suo complesso.    Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, si deve concludere che la decisione «scudo per la privacy» è invalida>, §§ 200-201.

Nè ci sono esigenze transitorie che impongano di <mantenere gli effetti di tale decisione al fine di evitare la creazione di una lacuna giuridica>. Infatti, <tenuto conto dell’articolo 49 del RGPD, l’annullamento di una decisione di adeguatezza come la decisione «scudo per la privacy» non è idoneo a creare una lacuna giuridica siffatta. Tale articolo stabilisce, infatti, in modo preciso, a quali condizioni possono aver luogo trasferimenti di dati personali verso paesi terzi in assenza di una decisione di adeguatezza ai sensi dell’articolo 45, paragrafo 3, di detto regolamento o di garanzie appropriate ai sensi dell’articolo 46 del medesimo regolamento>, § 202.

Pertanto i trasferimenti di dati negli Stati Uniti, operati da Facebook, Google, Instagram, Microsodft o da chiunque altro (anche tramite i servizi cloud), non rispettano il GDPR.

Con problemi non irrisori per chi in Italia offre servizi informatici che appunto presuppongano tali trasferimenti.

Commento ora in medialaws.eu da parte di A. Cristofano,  La Sentenza Schrems II e il judicial activism della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Verso un GDPR a vocazione universale?, 15.02.2021.

Il silenziamento di Tik Tok da parte dell’amministrazione US è sospeso in via cautelare

La UNITED STATES DISTRICT COURT FOR THE DISTRICT OF COLUMBIA, 27.09.2020, Civil Action No. 1:20-cv-02658(CJN), Tiktok e altri c. Trump e altri,  in via cautelare ha concesso l’inibitoria del provedimento “soppressivo” di Tiktok emesso nell’estate 2020 dal presidente Trump (notizia sempre presa dal blog di Eric Goldman).

Il Presidente con executive order  (EO) 6 agosto 2020 n. 13942, sulla base di precedente EO 13873 dell’anno prima, e dei poteri conferiti dall’International Emergency Economic Powers Act (“IEEPA”),50 US Code §§ 1701-1708, bannò Tiktok (di proprietà cinese) sulla base di questi rischi alla sicurezza nazionale:

<<The President  determined  that TikTok “automatically captures vast swaths  of  information  from  its  users,  including  internet  and  other  network  activity  information such aslocation data and browsing and search histories.” …  The President concluded that TikTok’s foreign ownership and data collection pose a risk thatthe Chinese CommunistParty (“CCP”) can “access …Americans’ personal and proprietary information—potentially allowing China  to  track  the  locations  of  Federal  employees  and contractors,   build   dossiers   of personal   information   for   blackmail,   and   conduct   corporate espionage.” … He  also  concluded  that there  is  a risk of  the CCP using TikTok  to “censor[]content  that  the[CCP] deems politically sensitive,” id., and “for  disinformation  campaigns  that benefit  the  [CCP],  such  as  when  TikTok videos  spread  debunked  conspiracy  theories  about  the origins of the 2019 Novel Coronavirus.>>.

Seguì l’atto amministrativo del Segretario della difesa., determinativo degli atti specificamente vietati.  Si tratta di cinque atti ricordati nella decisione, il primo dei quali sarebbe dovuto etrare in vigore il giorno stesso della decisione alle ore 11.59 p.m. (p. 2).

Tik Tok impugnò, chiedendo di sospendere la misura in via cautelare. Allo scopo doveva dimostrare che  << (1) it has a likelihood of succeeding on the merits, (2) it faces irreparable harm if an injunction does not issue,(3) the balance of equities favors relief, and (4) an injunction is in the public interest>>.

Vediamo cosa dice il giudice sul punto 1.

Detto IEEPA contiene sì i poteri per dichiarare emergenze nazionali e proibire rapporti con l’estero, ma sottoposti a due limiti:

<<the “authority granted to the President…does not include the authority to regulate or prohibit, directly or indirectly” either 

(a)  the importation or exportation of “information or informational materialsor

(b)  “personal communication[s], which do [] not involve a transfer of anything of value.” 50 U.S.C. §1702(b)(1), (3)>>

Il giudice californiano ritiene che Tiktok concerna informational materials, pp. 9-13.,

Egli ritiene pure che vengano così inibite le personal communications. Secondo l”azienza <the prohibitions “will destroy this online community, first by requiring the removal of TikTok from … U.S. app stores, and, when the remaining Prohibitions come into effect on November 12, 2020, shutting down TikTok entirely.” >, p. 13.

Ha buon gioco il governo nel dire che vi circolano notizie commerciali : è vero, solo che ve ne sono anche un enormità di natura solo privata  con no economic value at all, p. 13.

Si noti che quanto al fumus boni iuris è quello appena esposto il ragionamento  che sorregge la decisione:  non viene invece applicata la freedom of speech protetta dal Primo Emendamento

Quanto al requisito sub 2 (irreparable harm), secondo il giudice l’azienda l’ha provato., In particolare  <Plaintiffs have demonstrated that, absent injunctive relief, they will suffer irreparable harm.  It is undisputed that as of the date of the TikTok Order, TikTok was one  of the fastest growing apps in the United States, adding 424,000 new users each day. …  Barring TikTok from U.S. app stores would, of course, have the immediate and direct effect of halting the influx of new users, likely driving those users to alternative platforms and eroding TikTok’s competitive position.  Id.   In  fact,  TikTok  has  proffered  unrebutted  evidence  that uncertainty in TikTok’s future availability has already driven, and will continue to drive, content creators and fans to other platforms.  … The nature of social media is also such that users are unlikely to return to platforms that they have abandoned.  See id.Thus, if the first prohibition were to take effect tonight but was later held to be unlawful, TikTok would not be able to recover the harm to its user base. … Plaintiffs have also proffered evidence that they have been harmed, and will continue to be harmed, by the erosion of TikTok’s attractiveness as a commercial partner. ….. TikTok’s business relies on commercial partners and advertisers  that  work  with it because  of  its  robust  user  base  and  popularity  as  a  video-and information-sharing platform.  .. .Finally, TikTok has shown that, in the absence of injunctive relief, it will be unable to recruit and retain employees to build—or even maintain—its business.  … The Secretary’s prohibitions, including the prohibitionsscheduled to take  effect tonight, will inflict irreparable economic and reputationalharm on Plaintiffs.  This factor therefore weighs in favor of granting preliminary relief.>

Così il giudice ha concesso l’injunction

Twitter è esente da responsabilità diffamatoria, fruendo del safe harbour ex § 230 CDA statunitense

Altra decisione che esenta Twitter da responsabilità diffamatoria sulla base del § 230 Communication Decency Act CDA.

Si tratta di US DISTRICT COURT EASTERN DISTRICT OF NEW YORK del 17 settempbre 2020, MAYER CHAIM BRIKMAN (RABBI) ed altri c. Twitter e altro, caso 1:19-cv-05143-RPK-CLP.  Ne dà notizia l’aggiornato blog di Eric Goldman.

Un rabbino aveva citato Twitter (e un utente che aveva retwittato)  per danni e injunction, affermando che Twitter aveva ospitato e non rimosso un finto account della sinagoga, contenente post offensivi. Dunque era responsabile del danno diffamatorio.

Precisamente: <<they claim that through “actions and/or inactions,” Twitter has “knowingly and with malice . . . allowed and helped non-defendant owners of Twitter handle @KnesesG, to abuse, harras [sic], bully, intimidate, [and] defame” plaintiffs. Id. ¶¶ 10-12. Plaintiffs aver that by allowing @KnesesG to use its platform in this way, Twitter has committed “Libel Per Se” under the laws of the State of New York. Ibid. As relevant here, they seek an award of damages and injunctive relief that would prohibit Twitter from “publishing any statements constituting defamation/libel . . . in relation to plaintiffs.”>>.

L’istanza è respinta in base al safe harbour presente nel § 230 CDA.

Vediamo il passaggio specifico.

Il giudice premette (ricorda) che i requisiti della fattispecie propria dell’esimente sono i soliti tre:  i) che sia un internet provider; ii) che si tratti di informazioni provenienti da terzo; iii) che la domanda lo consideri “as the publisher or speaker of that information” e cioè come editore-

Pacificamente presenti i primi due, andiamo a vedere il terzo punto, qui il più importante e cioè quello della prospettazione attorea come editore.

<<Finally, plaintiffs’ claims would hold Twitter liable as the publisher or speaker of the information provided by @KnesesG. [NB: il finto account della sinagoga contenente post offensivi].  Plaintiffs allege that Twitter has “allowed and helped” @KnesesG to defame plaintiffs by hosting its tweets on its platform … or by refusing to remove those tweets when plaintiffs reported them …  Either theory would amount to holding Twitter liable as the “publisher or speaker” of “information provided by another information content provider.” See 47 U.S.C. § 230(c)(1). Making information public and distributing it to interested parties are quintessential acts of publishing. See Facebook, 934 F.3d at 65-68.

Plaintiffs’ theory of liability would “eviscerate Section 230(c)(1)” because it would hold Twitter liable “simply [for] organizing and displaying content exclusively provided by third parties.” … Similarly, holding Twitter liable for failing to remove the tweets plaintiffs find objectionable would also hold Twitter liable based on its role as a publisher of those tweets because “[d]eciding whether or not to remove content . . . falls squarely within [the] exercise of a publisher’s traditional role and is therefore subject to the CDA’s broad immunity.” Murawski v. Pataki, 514 F. Supp. 2d 577, 591 (S.D.N.Y. 2007); see Ricci, 781 F.3d at 28 (finding allegations that defendant “refused to remove” allegedly defamatory content could not withstand immunity under the CDA).

Plaintiff’s suggestion that Twitter aided and abetted defamation “[m]erely [by] arranging and displaying others’ content” on its platform fails to overcome Twitter’s immunity under the CDA because such activity “is not enough to hold [Twitter] responsible as the ‘developer’ or ‘creator’ of that content.” … Instead, to impose liability on Twitter as a developer or creator of third-party content—rather than as a publisher of it—Twitter must have “directly and materially contributed to what made the content itself unlawful.” Id. at 68 (citation and internal quotation marks omitted); see, e.g., id. at 69-71 (finding that Facebook could not be held liable for posts published by Hamas because it neither edited nor suggested edits to those posts); Kimzey v. Yelp! Inc., 836 F.3d 1263, 1269-70 (9th Cir. 2016) (finding that Yelp was not liable for defamation because it did “absolutely nothing to enhance the defamatory sting of the message beyond the words offered by the user”) (citation and internal quotation marks omitted); Nemet Chevrolet, Ltd. v. Consumeraffairs.com, Inc., 591 F.3d 250, 257 (4th Cir. 2009) (rejecting plaintiffs’ claims because they “[did] not show, or even intimate” that the defendant “contributed to the allegedly fraudulent nature of the comments at issue”) (citation and internal quotation marks omitted); see also Klayman v. Zuckerberg, 753 F.3d 1354, 1358 (D.C. Cir. 2014) (“[A] website does not create or develop content when it merely provides a neutral means by which third parties can post information of their own independent choosing online.”).

Plaintiffs have not alleged that Twitter contributed to the defamatory content of the tweets at issue and thus have pleaded no basis upon which it can be held liable as the creator or developer of those tweets. See Goddard v. Google, Inc., No. 08-cv-2738 (JF), 2008 WL 5245490, at *7 (N.D. Cal. Dec. 17, 2008) (rejecting plaintiff’s aiding and abetting claims as “simply inconsistent with § 230” because plaintiff had made “no allegations . . . that Google ‘developed’ the offending ads in any respect”); cf. LeadClick, 838 F.3d at 176 (finding defendant was not entitled to immunity under the CDA because it “participated in the development of the deceptive content posted on fake news pages”).

Accordingly, plaintiffs’ defamation claims against Twitter also satisfy the final requirement for CDA preemption: the claims seek to hold Twitter, an interactive computer service, liable as the publisher of information provided by another information content provider, @KnesesG>>.

Interessante è che l’allegazione censurava non solo l’omessa rimozione ma pure il semplice hosting del post: forse mescolando fatti relativi alla perdita delll’esimente (responsabilità in negativo) con quelli relativi alla responsabilità in positivo.

Chiusura di un social (WeChat) e Primo Emendamento (freedom of speech)

E’ noto che il Presidente Trump con executive order n. 13943 del 6 agosto 2020 ha ordinato la chisura del social WeChat, in quanto di provenienza cinese (appartiene a Tencent) e dunque pericoloso per la sicurezza nazionale (viene citato anche quello n. 13873 del 15 maggio 2019).

La comunità chinese-speaking statunitense nell’agosto 2020 lha impugnato perchè incostituzionale ed ora un giudice californiano (S. Francisco) l’accoglie in via cautelare: si tratta del provvedimento UNITED STATES DISTRICT COURT NORTHERN DISTRICT OF CALIFORNIA, 19 settembre 2020, U.S. WECHAT USERS ALLIANCE et al. v. DONALD J. TRUMP et al., caso No. 20-cv-05910-LB.

L’atto esecutivo , determinativo delle prohibited transactions,  è del 18 settembre 2020.

Vdiam cosa dice sul punto della vilazine del First Amendment

<< 1 – Likelihood of Success on the Merits:  First Amendment

The plaintiffs contend that the prohibited transactions will result in shutting down WeChat, a public square for the Chinese-American and Chinese-speaking community in the U.S. that is effectively their only means of communication with their community. This, they say, is a prior restraint on their speech that does not survive strict scrutiny. Also, even if the effect of the prohibited transactions is a content-neutral time-place-or-manner restriction, it does not survive intermediate scrutiny because the effective ban on WeChat use is not narrowly tailored to address the government’s significant interest in national security. The government does not meaningfully contest through evidence that the effect of the prohibited transactions will be to shut down WeChat (perhaps because the Secretary conceded the point) and instead contends that its content-neutral restrictions are based on national-security concerns and survive intermediate scrutiny. On this record, the plaintiffs have shown serious questions going to the merits of their First Amendment claim that the Secretary’s prohibited transactions effectively eliminate the plaintiffs’ key platform for communication, slow or eliminate discourse, and are the equivalent of censorship of speech or a prior restraint on it.  Cf. City of Ladue v. Gilleo, 512 U.S. 43, 54–59 (1994) (a city’s barring all signs — except for signs identifying the residence, “for sale” signs, and signs warning of safety hazards — violated the city residents’ right to free speech).

The government — while recognizing that foreclosing “‘an entire medium of public expression’” is constitutionally problematic — makes the pragmatic argument that other substitute social-media apps permit communication.  But the plaintiffs establish through declarations that there are no viable substitute platforms or apps for the Chinese-speaking and Chinese-American community.

The  government counters that shutting down WeChat does not foreclose communications for the plaintiffs, pointing to several declarations showing the plaintiffs’ efforts to switch to new platforms or apps. But the plaintiffs’ evidence reflects that WeChat is effectively the only means of communication for many in the community, not only because China bans other apps, but also because Chinese speakers with limited English proficiency have no options other than WeChat.  

The plaintiffs also have shown serious questions going to the merits of the First Amendment claim even if — as the government contends — the Secretary’s identification of prohibited transactions (1) is a content-neutral regulation, (2) does not reflect the government’s preference or aversion to the speech, and (3) is subject to intermediate scrutiny. A content-neutral, time-place-or-manner restriction survives intermediate scrutiny if it (1) is narrowly tailored, (2) serves a significant governmental interest unrelated to the content of the speech, and (3) leaves open adequate channels for communication. (…). To be narrowly tailored, the restriction must not “burden substantially more speech than is necessary to further the government’s legitimate interests.” Ward, 491 U.S. at 799. Unlike a content-based restriction of speech, it “need not be the least restrictive or least intrusive means of serving the governments interests. But the government still may not regulate expression in such a manner that a substantial portion of the burden on speech does not advance its goals.” McCullen v. Coakley, 573 U.S 464, 486 (2014) (cleaned up).

Certainly the government’s overarching national-security interest is significant. But on this record — while the government has established that China’s activities raise significant national-security concerns — it has put in scant little evidence that its effective ban of WeChat for all U.S. users addresses those concerns. And, as the plaintiffs point out, there are obvious alternatives to a complete ban, such as barring WeChat from government devices, as Australia has done, or taking other steps to address data security.

The government cited two cases to support its contention that “preventing or limiting” WeChat use advances the WeChat Executive Order’s essential purpose to reduce WeChat’s collection of data from U.S. users.64See Trans Union Corp. v. FTC, 267 F.3d 1138, 1142–43 (D.C. Cir. 2001) ) (upholding FCC’s ban on credit agency’s sale of consumers’ personal financial data because it was the only means of preventing the harm of disseminating personal data); United States v. Elcom Ltd., 203 F. Supp. 2d 1111, 1132 (N.D. Cal. 2002) (upholding criminal charge under the Digital Millennium Copyright Act for selling a tool that allowed a user to remove copying restrictions from Adobe files and thereby engage in copyright infringement by duplicating eBooks; targeting tool sellers and banning tool sales was reasonably necessary to avoid copyright infringement and protect digital privacy). The speech interests at stake in these cases — a credit agency’s sale of consumer data and targeting unlawful copying — are not equivalent to the denial of speech that attends the complete ban of WeChat for the Chinese-American and Chinese-speaking U.S. users. On this limited record, the prohibited transactions burden substantially more speech than is necessary to serve the government’s significant interest in national security, especially given the lack of substitute channels for communication. Ward, 491 U.S. at 791>>.

Vedremo cosa succederà con l’ancor più importante social Tik Tok.

Sulla buona fede nell’iniziare una lite per violazione di copyright (misrepresentation ex § 512 (f) DMCA)

Una corte di appello USA si pronuncia sull’abuso di denuncia (notice and take down, NTD) di violazione copyright, secondo la disciplina del safe harbour introdotto nel 1998 dal § 512 Digital Millenium Copyright Act (DMCA).

La lettera f) infatti ne regola la misrepresentation: <<Any person who knowingly materially misrepresents under this section – (1) that material or activity is infringing, or  (2) that material or activity was removed or disabled by mistake or misidentification,              shall be liable for any damages, including costs and attorneys’ fees, incurred by the alleged infringer, by any copyright owner or copyright owner’s authorized licensee, or by a service provider, who is injured by such misrepresentation, as the result of the service provider relying upon such misrepresentation in removing or disabling access to the material or activity claimed to be infringing, or in replacing the removed material or ceasing to disable access to it>>.

Ebbene nella decisione 4 settembre 2020 la Corte di Appello dell’11° circuito, case 19-11070, SHIRLEY JOHNSON v. NEW DESTINY CHRISTIAN CENTER CHURCH e altri,  ha deciso una domanda di danni per misrepresetnation,  ma  l’ha respinta.
Tale Shirley Johnson aveva criticato un associazione tramite video su youtube e per tutta risposta si era vista citare per violazione di copyright. A sua volta dunque citò l’associazione per abuso di NTD e di processo.
La decisione qui ricordata non è la prima intervenuta tra le parti (si v. la parte in fatto nella decisione). V. il post dell’estate 2018 di Masnik Court Awards $12,500 For ‘Emotional Harm’ From Bogus Copyright Lawsuit in techdirt.com , che riferisce della prima fase , favorevole a S. Johnson.
Secondo la giurisprudenza ivi ricordata <<the takedown notice requirements contained in § 512(c)(3)(A)(v) require copyright holders, before issuing the takedown notice, to consider whether the potentially infringing material is a fair use. See Lenz v. Universal Music Corp, 815 F.3d 1145, 1151–1154 (9th Cir. 2016). And failure to consider fair use before issuing a takedown notice constitutes a misrepresentation of copyright infringement under § 512(f)>>, p. 11.
Prima di procedere, dunque, il preteso soggetto leso deve verificare se ricorra l’eccezione di fair use: e cita il (probabilmente più celebre) caso recente di fair use Lenz v. Universal Music Corp, 815 F.3d 1145, 1151–1154 (9th Cir. 2016).
La buona fede è provata dalle indagini svolte e dai pareri legali chiesti prima di procedere.
L’importante disposizione sul fair use  è nel § 107 del cap. 17 US Code:

<<Notwithstanding the provisions of sections 106 and 106A, the fair use of a copyrighted work, including such use by reproduction in copies or phonorecords or by any other means specified by that section, for purposes such as criticism, comment, news reporting, teaching (including multiple copies for classroom use), scholarship, or research, is not an infringement of copyright. In determining whether the use made of a work in any particular case is a fair use the factors to be considered shall include—

(1) the purpose and character of the use, including whether such use is of a commercial nature or is for nonprofit educational purposes;

(2) the nature of the copyrighted work;

(3) the amount and substantiality of the portion used in relation to the copyrighted work as a whole; and

(4) the effect of the use upon the potential market for or value of the copyrighted work.

The fact that a work is unpublished shall not itself bar a finding of fair use if such finding is made upon consideration of all the above factors>>

Se il Digital Services Act allo studio in UE procederà introducendo la procedura di NTD, sarà opportuno regoli pure questi profilo.

Viene rigettata anche l’istanza di danni per abuso di processo, i cui elementi costitutivi secondo la legge della Florida sono : <<(1)  that  the  defendant  made  an  illegal,  improper,  or  perverted  use  of  process;  (2)  that  the  defendant  had  ulterior  motives  or  purposes  in  exercising such illegal, improper, or perverted use of process; and (3) that,  as  a  result  of  such  action  on  the  part  of  the  defendant,  the  plaintiff suffered damage>>, p. 14.

Interessi corrispettivi e interessi moratori: la disciplina dei primi per l’usura viene estesa ai secondi

Le sezioni unite della Cassazione estendono la disciplina sanzionatoria, posta dall’art. 1815 c. 2 cc per gl interessi usurati, a quelli moratori: così Cass. 19.597 del 18.09.2020, rel. Nazzicone, con ampia analisi e qualche suggerimento per soluzione dei problemi applicativi.

La ratio di eccessiva gravosità, che può inficiare il patto sugli interessi corrispettivi, vale pure per il patto relativo agli interessi da ritardo nell’adempimento: <Certamente esiste, infatti, l’esigenza primaria di non lasciare il debitore alla mercè del finanziatore: il quale, se è subordinato al rispetto del limite della soglia usuraria quando pattuisce i costi complessivi del credito, non può dirsi immune dal controllo quando, scaduta la rata o decorso il termine pattuito per la restituzione della somma, il denaro non venga restituito e siano applicati gli interessi di mora, alla cui misura l’ordinamento (cfr. art. 41 Cost.) e la disciplina ad hoc dettata dal legislatore ordinario non restano indifferenti>, § 6, p. 16.

A nulla vale il fatto che questi ultimi, in quanto rientranti nel concetto di clausola penale, siano riducibili dal giudice ex art. 1384 cc (p. 18): <Questa, invero, non sarebbe equivalente ove operata ex art. 1384 c.c.: il quale potrebbe sempre consentire una riduzione casistica e difforme sul piano nazionale, oltre che, verosimilmente, condurre al mero abbattimento dell’interesse pattuito al tasso soglia, pur integrato con quello rilevato quanto agli interessi moratori, e non al minor tasso degli interessi corrispettivi, come oltre, invece, si indicherà; mentre, poi, il diritto positivo non impedisce una interpretazione che riconduca anche gli interessi moratori nell’alveo della tutela antiusura, con maggiore protezione del debitore, che sembra anzi consigliare.>, § 6, pag. 16.

Ecco i principi di diritto ex art. 384/1 cpc:

“La disciplina antiusura si applica agli interessi moratori, intendendo essa sanzionare la pattuizione di interessi eccessivi convenuti al momento della stipula del contratto quale corrispettivo per la concessione del denaro, ma anche la promessa di qualsiasi somma usuraria sia dovuta in relazione al contratto concluso”.

“La mancata indicazione dell’interesse di mora nell’ambito del T.e.g.m. non preclude l’applicazione dei decreti ministeriali, i quali contengano comunque la rilevazione del tasso medio praticato dagli operatori professionali, statisticamente rilevato in modo del pari oggettivo ed unitario, essendo questo idoneo a palesare che una clausola sugli interessi moratori sia usuraria, perchè “fuori mercato”, donde la formula: “T.e.g.m., più la maggiorazione media degli interessi moratori, il tutto moltiplicato per il coefficiente in aumento, più i punti percentuali aggiuntivi, previsti quale ulteriore tolleranza dal predetto decreto””.

“Ove i decreti ministeriali non rechino neppure l’indicazione della maggiorazione media dei moratori, resta il termine di confronto del T.e.g.m. così come rilevato, con la maggiorazione ivi prevista”.

“Si applica l’art. 1815 c.c., comma 2, onde non sono dovuti gli interessi moratori pattuiti, ma vige l’art. 1224 c.c., comma 1, con la conseguente debenza degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente convenuti” (passaggi logici svolti a p. 24) .

“Anche in corso di rapporto sussiste l’interesse ad agire del finanziato per la declaratoria di usurarietà degli interessi pattuiti, tenuto conto del tasso-soglia del momento dell’accordo; una volta verificatosi l’inadempimento ed il presupposto per l’applicazione degli interessi di mora, la valutazione di usurarietà attiene all’interesse in concreto applicato dopo l’inadempimento”.

“Nei contratti conclusi con un consumatore, concorre la tutela prevista dall’art. 33, comma 2, lett. f) e art. 36, comma 1 codice del consumo, di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, già artt. 1469-bis e 1469-quinquies c.c.”.

“L’onere probatorio nelle controversie sulla debenza e sulla misura degli interessi moratori, ai sensi dell’art. 2697 c.c., si atteggia nel senso che, da un lato, il debitore, il quale intenda provare l’entità usuraria degli stessi, ha l’onere di dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale, il tasso moratorio in concreto applicato, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del T.e.g.m. nel periodo considerato, con gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento; dall’altro lato, è onere della controparte allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto”.

L’intelligenza artificiale non può essere intestataria di brevetto inventivo: lo dice pure l’Alta Corte inglese (ancora sul caso DABUS/dr. Stephen Thaler)

Altro caso giudiziale sul se l’intelligenza artificiale (AI) possa essere intestataria di brevetto ivnentivo quando si tratti di invenzione appunto creata da AI.

Si è pronunciata la  HIGH COURT OF JUSTICE BUSINESS AND PROPERTY COURTS OF ENGLAND AND WALES PATENTS COURT (ChD) il 21.09.2020, nel caso DABUS realizzato dallo scienziato Stephen Thaler.

La presentazione della invenzione è questa:  <“A machine called “DABUS” conceived of the present invention –  The invention disclosed and claimed in this British patent application was generated by a specific machine called “DABUS”, which is a type of “Creativity Machine”. A Creativity Machine is a particular type of connectionist artificial intelligence. Such systems contain a first artificial neural network, made up of a series of smaller neural networks, that has been trained with general information from various knowledge domains. This first network generates novel ideas in response to self-perturbations of connection weights between neurons and component neural nets therein. A second “critic” artificial neural network monitors the first neural network for new ideas and identifies those ideas that are sufficiently novel compared to the machine’s pre-existing knowledge base. The critic net also generates an effective response that in turn injects/retracts perturbations to selectively form and ripen ideas having the most novelty, utility, or value.

In the case of the present invention, the machine only received training in general knowledge in the field and proceeded to independently conceive of the invention and to identify it as novel and salient. If the teaching had been given to a person, that person would meet inventorship criteria as inventor.

In some instances of machine invention, a natural person might qualify as an inventor by virtue of having exhibited inventive skill in developing a program to solve a particular problem, or by skillfully selecting data to provide to a machine, or by identifying the output of a machine as inventive. However, in the present case, DABUS was not created to solve any particular problem, was not trained on any special data relevant to the present invention, and the machine rather than a person identified the novelty and salience of the present invention.

A detailed description of how DABUS and a Creativity Machine functions is available in, among others, the following US patent publications: 5,659,666; 7,454,388 B2; and 2015/0379394 A1>.

Dunque , secondo la prospettazione del ricorrente,  l’artificial intelligence machine chiamata DABUS sarebbe l’inventore , mentre il dr. Thaler avrebbe solo acquired the right to grant of the patents in question by “ownership of the creativity machine DABUS.

Il giudice Marcus Smith conferma la decisione dell’ufficio brevettuale inglese: solo una persona può essere inventore presso l’ufficio brevetti.

Le disposizioni di riferimento  sono gli artt. 7 e 13 del Patents Act.

Precisamente dice il giudice al § 40 :

<<It is quite clear from the statutory scheme contained in the Patents Act 1977 that – whatever the meaning of the term “inventor” – a patent can only be granted to a person. I reach this conclusion explicitly without considering the meaning of the term inventor. In my judgment, a patent can only be granted to a person falling within Classes (a), (b) or (c) for the following reasons:

(1) First, and most fundamentally, only a person can hold property and an invention, an application for the grant of a patent and the patent itself are all property rights. Were the 1977 Act to contemplate a thing owning another thing, then I would expect extremely clear language to be used in the Act to compel such a conclusion.

(2) In fact, the language of the Patents Act 1977 makes clear that the holder of a patent must be a person:

(a) Since a patent is only granted on application, it follows from section 7(1) (“[a]ny person may make an application for a patent”) that the grant of a patent can only be to a person, because only a person may make an application for a patent.[23]

(b) Classes (b) and (c) explicitly refer to and define themselves by reference to the “person” that is the transferee of the inventor’s rights.[24]

(c) Class (a) does not – section 7(2)(a) refers only to “the inventor or joint inventors”. However, it seems to me that either an inventor must be a person or at section 7(2)(a) must be read as stating “primarily to the person(s) who are the inventor or joint inventors”, given the points made in paragraphs 40(1) and 40(2)(a) above.>>

Vedi anche miei precedenti post su copyright/brevetti e intelligenza artificiale.

Diritto dell’artista a compenso per gli usi del fonogramma: quale legame territoriale con la UE?

la Corte di Giustizia (CG) con sentenza 8 settembre 2020, causa  C‑265/19, Recorded Artists Actors Performers Ltd contro Phonographic Performance (Ireland) Ltd, Minister for Jobs, Enterprise and Innovation, Ireland, Attorney,  affronta la questione, posta dal gudice  a quo irlandese, del se una legge nazionale possa escludere dal compenso per gli artisti/interpreti/esecutori (AIE), riservandolo in toto al produttore, gli AIE appartenenti a stati esterni allo spazio eponomico euroep SEE (a meno che abbiano dentro il SEE domicilio, residenza o che abbiano qui contribuito alla realizzazione del fonogramma).

La disposizione di riferimento è l’art. 8/2 della dir. 2006/115 concernente il diritto di noleggio, il diritto di prestito e taluni diritti connessi al diritto di autore in materia di proprietà intellettuale: <Gli Stati membri prevedono un diritto per garantire che una remunerazione equa e unica sia versata dall’utente allorché un fonogramma pubblicato a scopi commerciali, o una riproduzione del medesimo, è utilizzato per una radiodiffusione via etere o per una qualsiasi comunicazione al pubblico, e che detta remunerazione sia suddivisa tra gli artisti interpreti o esecutori e i produttori del fonogramma in questione. In caso di mancato accordo tra artisti interpreti o esecutori e produttori di fonogrammi, gli Stati membri possono stabilire i criteri per ripartire tra i medesimi questa remunerazione> (oltre a disposizioni del Trattato WIPO sulle interpretazioni ed esecuzioni e sui fonogrammi, adottato a Ginevra il 20 dicembre 1996, detto <WPPT>).

La lite pendeva tra le colleting societies degli AIE e quella dei produttori fonografici irlandesi, §§ 32 ss

La CG risponde negativamente: l’unico criterio ammesso di applicablità, relativo al luogo, è quello per cui il diritto sorge, quando l’uso o la riproduzione del fonogramma avvengono nella UE, p. 58,.

Il che si verifica <quando la comunicazione del fonogramma, quale fattore causale del diritto connesso summenzionato, si rivolge a un pubblico situato in uno o più Stati membri. Infatti, in mancanza di precisazioni in tale direttiva quanto al suo ambito di applicazione territoriale, quest’ultimo corrisponde a quello dei trattati, previsto dall’articolo 52 TUE (…). Fatto salvo l’articolo 355 TFUE, tale ambito di applicazione è costituito dai territori degli Stati membri>, p. 59

La Dir. invece non permette di discriminare tra AIE cittadini UE e AIE cittadini non UE ma di altri Stati membri WPPT (§ 62, § 68, § 71, § 75 , ma anche la terza questione, § 91).

La disposizione nazionale corrispondente è contenuta nell’art. 73 l. aut. che non contiene la distinzione presente nella legislazione irlandese.

Nuova questione interessante sulla comunicazione al pubblico in diritto d’autore: le conclusioni dell’avvocato generale

Il bravo avvocato generale Szpunar (di seguito: AG) ha depositato il 10.09.2020 le conclusioni nella causa C39 2/19, VG BildKunst contro Stiftung Preußischer Kulturbesitz.

Una collecting society chiedeva , per l’inserimento di opere del proprio catalogo in un database artistico gestito da una Fondazione, che questa si impegnasse ad adottare misure tecnologiche contro il framing da parte di terzi delle immagini in miniatura delle opere così rese accessibili, p. 25.

Il titolare del database non lo ritenne accettabile e chiese in via di accertamento giudiziale che la collecting fosse obbligata a dare licenza anche senza tale clausola.

La questione di rinvio proposta dalla Cassazione tedesca è la seguente: <Se l’incorporazione, mediante framing, di un’opera disponibile su un sito Internet liberamente accessibile con il consenso del titolare del diritto sul sito Internet di un terzo costituisca una comunicazione al pubblico dell’opera, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, qualora ciò avvenga aggirando le misure di protezione contro il framing che il titolare del diritto ha adottato o ha fatto adottare>, p. 29.

I temi toccati dall’AG sono tra i più importanti del diritto d’autore contemporaneo, anche perchè intercettanti profili teorici.

L’AG ricorda tutta la giurisprudenza sul controverso tema della comunicazione al pubblico in internet , comprese le questioni relative alla liceità del linking.

Dà anche qualche notazione tecnica sui concetti di deep Linking, embedding, inline Linking, framing etc., pp. 8 ss

Ricorda ai paragrafi 35 seguenti la giurisprudenza sui link cioè sui collegamenti ipertestuali : se l’opera è stata messa on-line lecitamente, il link non costituisce violazione del diritto. Costituisce sì atto di comunicazione e comunicazione ad un pubblico, ma ad un pubblico “non nuovo”, dal momento che l’iniziale pubblicazione su internet è da intendersi rivolta non solo al pubblico, che frequenta quel sito, ma a tutti gli internauti, paragrafi 35-39

Analisi confermata anche per il framing dalla ordinanza Bestwater nel 2014.

L’AG conferma a sua volta che il collegamento ipertestuale costituisce comunicazione al pubblico, in quanto dà accesso diretto all’opera, paragrafo 49/51.

L’affermazione, pur consolidata in giurisprudenza UE, è però discutibile, perché il link semplicemente indica la localizzazione della pagina web di destinazione: si limita ad indicare l’indirizzo (come succede se il link non è attivo e bisogna ridigitare la stringa nel campo URL del browser). Il fatto che sia attivo non cambia qualificazione giuridica dell’attività di chi pone il link.

Facilmente l’intento delle istituzioni giudiziarie europee è quello di attrarre tale casistica entro l’orbita del diritto armonizzato UE: dal quale invece probabilmente fuoriuscirebbe se si trattasse (come parrebbe semmai più esatto)  di concorso nell’illecito altrui. Ma il tema è complesso (tocca nientemmeno che i rapporti tra ordinamento europeo e ordinamenti nazionali: si v. ad es. la potenzialmente distruttiva -dell’Unione-  sentenza 05 maggio 2020 della Corte Costituzionale tedeca sul Public Sector Purchase Programme (PSPP) della BCE di cui hanno parlato i media di tutta Europa e non solo) : si potrebbe infatti replicare (dando ragione alla Corte UE e all’AG) che in tale modo l’armonizzazione europea del copyright rischierebbe una forte compromissione.

L’AG conferma pure l’elemento soggettivo nella comunicazione al pubblico, ma riconosce che contrasta con la tradizione dei diritti su beni immateriali , p. 52-54: questi infatti normalmente hanno protezione, a prescindere dallo stato soggettivo (dolo, colpa)  di coloro che vi interferiscono.

L’AG contesta pure il concetto del pubblico nuovo e in particolare quello per cui il pubblico, avuto di mira da da chi pubblica, è costituito da tutti i possibili internauti, pp. 55 / 57.

Propone infatti un’interpretazione evolutiva , p. 59 con un § significativo, perché indica qual è l’ambito armonizzato di competenza dell’Unione Europea: <La Corte, pur operando nell’ambito dell’apparato terminologico classico del diritto d’autore, definendo gli atti soggetti al diritto esclusivo dell’autore e distinguendoli da quelli non soggetti ad esso, non fa un’opera di teoria del diritto d’autore. Chiamata a interpretare il diritto dell’Unione, nella fattispecie la direttiva 2001/29, certamente in modo astratto, quindi applicabile erga omnes, ma, comunque, sulla base di una controversia concreta sottopostale da un giudice nazionale, la Corte deve fornire una risposta che consenta a tale giudice di accertare la responsabilità di una parte per violazione del diritto d’autore. Essa deve quindi accertare le condizioni di tale responsabilità, il che va ben oltre la semplice definizione dei contorni dell’atto rientrante nel monopolio dell’autore. Un approccio più restrittivo rischierebbe di compromettere l’effetto utile dell’armonizzazione realizzata dalla direttiva 2001/29, lasciando gli elementi decisivi di tale responsabilità alla valutazione necessariamente eterogenea dei giudici nazionali>.

Data la sua importanza per i passaggi che seguono, avrebbe dovuto essere sviluppato in modo più chiaro.

Su questa base giustifica la teoria dell’inclusione nella comunuicazione al pubblico del peer to peer (sentenza Stichting Brein contro Ziggo BV e XS4All Internet BV, c.d. The Pirate bay) e della vendita di lettori multimediali con link preinstallati (sentenza Stichting Brein contro Jack Frederik Wullems),  § 60, e dell’elemento soggettivo, paragrafo 62

Il punto di maggior evidenza della nuova teoria proposta dall’AG è che, in adesione alla sentenza Renkhoff, <<si deve pertanto ritenere, come ha fatto la Corte nella sentenza Renckhoff , che il pubblico che è stato preso in considerazione dal titolare dei diritti d’autore al momento della messa a disposizione di un’opera su un sito Internet sia costituito dal pubblico che consulta detto sito. Siffatta definizione del pubblico preso in considerazione dal titolare dei diritti d’autore ben riflette, a mio avviso, la realtà di Internet. Infatti, sebbene un sito Internet liberamente accessibile possa essere, in teoria, visitato da qualsiasi utente di Internet, in concreto, il numero di utenti potenziali che possono accedervi è certamente più o meno elevato, ma è approssimativamente determinato. Il titolare dei diritti d’autore, autorizzando la messa a disposizione della sua opera, prende in considerazione l’ampiezza di tale cerchia di utenti potenziali. Ciò è importante, in particolare, quando tale messa a disposizione viene effettuata in base a una licenza, in quanto il numero potenziale di presunti visitatori può costituire un fattore rilevante nella determinazione del prezzo della licenza.>, paragrafo 73.

L’AG potrebbe avere qualche ragione: realisticamente colui, che carica opere protette in un determinato sito, ne liberalizza l’accesso a tutti gli internauti del mondo?

In sintesi <la giurisprudenza della Corte relativa ai collegamenti ipertestuali, o più in generale alla comunicazione di opere al pubblico su Internet, deve, a mio avviso, essere intesa nel senso che, nell’autorizzare la messa a disposizione del pubblico della sua opera su una pagina Internet, in modo liberamente accessibile, il titolare dei diritti d’autore prende in considerazione tutto il pubblico che può accedere a tale pagina Internet, anche mediante collegamenti ipertestuali. Pertanto, tali link, pur costituendo atti di comunicazione, in quanto danno accesso diretto all’opera, sono in linea di principio coperti dall’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore rilasciata al momento della messa a disposizione iniziale e non richiedono un’ulteriore autorizzazione> p. 75

Queste le premesse generali.

Va poi al nocciolo della questione e cioè a quella del se sia lecito o no linkare tramite framing al sito di riferimento, paragrafi 76 seguenti

Qui fa una distinzione molto importante a livello pratico, tra collegamenti cliccabili e collegamenti automatici.

Per i collegamenti cliccabili -p. 81 ss.-  sostiene che non ci sia un ampliamento di pubblico, ma sia sempre quello del sito originario, cioè di quello puntato dai link,  paragrafi 87/88 e 91: per cui non serve ulteriore consenso.

Diversa la risposta per i collegamenti automatici , p. 93 ss. Qui non può dirsi che il pubblico, che acceda al sito originario tramite questo collegamento automatico, sia stato preso in considerazione da chi ha pubblicato sul sito originario, paragrafo 95-98.. Ne segue che serve specifico e nuovo consenso del titolare.

Ai paragrafi 99/105 con tre argomenti replica a chi rigettasse l’invocabiità del precedente Renckhoff per l’esistenza di una differenza tra i due casi : differenza consistente nel fatto che in Renckhoff si trattava di riproduzione, sulla quale il titolare del diritto nulla poteva (perdeva il controllo) , mentre invece nel caso del framing -essendo una riproduzione, che dipende da quella originaria, il titolare del diritto mantiene il controllo.

Ai paragrafi 114 seguenti titolati <<L’equilibrio tre diversi interessi in gioco>>, replica ad altra possibile obezione, secondo cui la distinzione tra collegamenti cliccabili e collegamenti automatici non ha giustificazione sufficiente.

Ed in effetti è proprio questa un’altra obiezione: ai fini dell’individuazione del pubblico nuovo nel caso di collegamento instaurato da terzi, è assai difficile sostenere che il relativo pubblico sia stato preso in considerazione se il link è clicccabile e che invece non lo sia stato se è automatico.

infine (paragrafi 121 seguenti) esamina l’ultima questione qui ricordata  relativa alle misure di protezione. Si chiede cioè se eludere il congegno tecnico, che impedidce il framing, costituisca violazione delle misure di protezione. La risposta è negativa, visto che si tratta solo di una diversa modalità di arrivo al sito originario e non di un allargamento o restrizione del pubblico che vi ha accesso (avrebbe infatti avuto accesso in ogni caso) (spt. §§ 128-129)

Bansky perde il marchio (decisione sul deposito in malafede)

Molti giornali anche non specialistici hanno riportato la notizia per cui l’Ufficio Europeo dei marchi ha dichiarato nullo il marchio di Bansky riproducente il suo celebre disegno <Flower thrower>:

Flower thrower (dal database EUIPO)

Si tratta della decisione 14.09.2020 sul marchio n° 012575155 , depositato il 07/02/2014.

La decisione può essere letta nel database dell’ufficio. Purtroppo non è divisa in §§ brevi per cui il resoconto può essere meno agevole del solito (mi riferirò dunque solo al numero di pagina)

Era stato chiesto per molte classi merceologiche.

La domanda di annullamento era fondata sia sull’art. 59.1.b (deposito in malafede) sia sull’art. 59.1.a riferito all’art. 7.1.b-c del reg. 2017/1001 c.d EUTMR. Viene accolta solo sul primo punto (malafade al momento del deposito), assorbita sul secondo.

In generale sulla buona fede l’Ufficio dice che ricorre <<where it is apparent from relevant and consistent indicia that the proprietor of an EU trade mark filed its application for registration without any intention of using the contested EUTM, or withoutthe aim of engaging fairly in competition, but with the intention of undermining the interests of third parties, in a manner inconsistent with honest practices, or with the intention of obtaining, without even targeting a specific third party, an exclusive right for purposes otherthan those falling within the functions of a trade mark, in particular the essential function of indicating origin>>, p. 9.

L’onere della prova <of the existence of bad faith lieswith the invalidity applicant; good faith is presumed until the opposite is proven>, p. 8.

Bansky (nome d’arte, l’artista è ancora anonimo) non commercializzava alcun bene al momento del deposito: anzi dichiarava che la cosa non lo interessava.

Iniziò ad operare commercialmente solo dopo aver ricevuto notifica della domanda di annullamento, aprendo un negozio (una mera vetrina, senza possibilità di acquisto) per indurre ad acquisti on line.

Ma anche questa attività, il punto è interessante a livello teorico, la pose in essere, dichiarando che non vi era interessato e che lo faceva solo per non decadere dal diritto di marchio : <From the evidence submitted Banksy had not manufactured, sold or provided any goods or services under the contested sign or sought to create a commercial market for his goods until after the filing of the present application for a declaration of invalidity. Only then, in October of 2019, he opened an online store (and had a physical shop but which was not opened to the public) but by his own words,reported in a number of different publications in the UK, he was not trying to carve out a portion of the commercial market by selling his goods, he was merely trying to fulfil the trade mark class categories to show use for these goods to circumvent the non-use of the sign requirement under EU law. Both Banksy and Mr. M.S, who is a Director of the proprietor, made statements that the goods were created and being sold solely for this cause>>, p. 11

Va notato che il registrante non era Bansky (allo scopo di restare anonimo) ma un suo rappresentante (the proprietor)

Il succo della decisione è qui: <<The EUTM was filed on 07/02/2014. The evidence shows that the proprietor did not sell any goods or provide any services under the sign until after the initiation of the present proceedings. In fact the evidence shows that Banksy repeatedly made statements that he was not making or selling any of these goods and that the third parties were doing this without his permission. The evidence also shows that from the time of filing of the EUTM until after the filing of the present application this position did not change. It was only during the course of the present proceedings (after the grace period had ended and after the present invalidity proceedings had been initiated) that Banksy started to sell goods but specifically stated that they were only being sold to overcome non-use for trade mark proceedings and not to commercialise the goods. Banksy by his own admission is clearly against intellectual property laws, but this does not mean that he is not afforded the same protection under these laws as everybody else. However, there are restrictions to the right to register a trade mark and that would be in the case where the mark is filed in bad faith>>

L’ufficio dice che la mala fede può ricorrere <if it transpires that the EUTM proprietor never had any intention to use the contested EUTM, for example, a trade mark application made without any intention to use the trade mark in relation to the goods and services covered by the registration constitutes bad faith if the applicant for registration of that mark had the intention either of undermining, in a manner inconsistent with honest practices, the interests of third parties, or of obtaining, without even targeting a specific third party, an exclusive right for purposes other than those falling within the functions of a trade mark>, p. 12.

Il dilemma di Bansky è chiaro, dice l’ufficio: <To protect the right under copyright law would require him to lose his anonymity which would undermine his persona. Moreover, there are a number of legal issues which might even result in it being very difficult for him to actually claim copyright over the work although this can be left open for the present purposes. It is clear that when the proprietor filed the EUTM he did not have any intention of using the sign to commercialise goods or provide services. The use, which was only made after the initiation of the present proceedings, was identified as use to circumvent the requirements of trade mark law and thus there was no intention to genuinely use the sign as a trade mark. Banksy was trying to use the sign only to show that he had an intention of using the sign, but his own words and those of his legal representative, unfortunately undermined this effort. Thus it must be concluded that there was no intention to genuinely use the sign as a trade mark and the only eventual use made of the sign was made with the intention of obtaining an exclusive right to the sign for purposes other than those falling within the functions of a trade mark>, p. 12

Bisognerebbe però distinguere bene il caso della mancanza di uso da quello di uso presente ma finalizzato solo alla conservazione del diritto e nulla più: sul secondo si può discutere , costituendo il vero interesse teorico di questa vicenda. Va ricordato infatti che il registrante ha cinque anni a disposizione per iniziare l’uso, prima di decadere per non uso.

E’ noto che oggi in Italia non è necessario che il depositante sia già un imprenditore (art. 19 c.1 cpi) o che abbia da subito progetti di cessione a terzi che lo usino imprenditorialmente. C’è dottrina divergente sul punto (in Italia).

Potrebbe infatti parlarsi di uso <simulato>, che non vale l’uso <effettivo> chiesto dalla norma per evitare la decadenza.

Altro profilo interessante è quello dell’applicazione della malafede al caso in esame e cioè di chi lo chiede senza intenzione di usarlo ma al tempo stesso senza intenzione di ledere uno specifo concorrente. Il concetto di malafede infatti è di solito usato con riferimento a casi di intento lesivo verso soggetti determinati: il che non pare ricorresse nel caso Bansky o comunque bisognerebbe ragionarci.

Potrebbe in sintesi considerarsi una altra soluzione: attendere il quinquennio, ravvisandosi un uso solo simulato, invece che applicare subito la nullità per deposito in malafede (oppure -nel diritto italiano- dichiarare la nullità per violazione dell’art. 19 c.1: solo che nell’elenco di cause di nullità di cui all’art. 25 cpi, probabilmente tassativo, non è prevista, essendo prevista solo quella riferita al c.2 dell’art. 19  -malafade appunto- , per cui questa via pare preclusa)