Novità per le prossime assemblee sociali (DL 18/2020 c.d. cura Italia, art. 106)

Il nuovo DL “emergenziale” per sorreggere il nostro paese in un momento difficilissimo (DL 18 del 17.03.2020, in GU n. 70 di pari data), prevede anche qualche norme di interesse civilistico e commercialistico.

Tra queste ultime c’è l’art. 106 (Norme in materia di svolgimento delle assemblee di società) di cui riporto il testo (non esamino l’ottavo ed ultimo, relativo al finanziamento):

<<1. In deroga a quanto previsto dagli articoli 2364, secondo comma, e 2478-bis, del codice civile o alle diverse disposizioni statutarie, l’assemblea ordinaria è convocata entro centottanta giorni dalla chiusura dell’esercizio.>>

c. 1: secondo i due articoli citati, “L’assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta l’anno, entro il termine stabilito dallo statuto e comunque non superiore a centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale.” (cit testuale dal primo).  Il DL dunque allunga il termine da 120 a 180 gg.

Sembra però dire qualcosa in più e cioè abrogare la vincolatività dell’eventuale termine statutario. A prima vista parrebbe dire infatti d’imperio che l’ass. ordinaria può essere sempre e comunque convocata entro 180 gg.: cioè non parrebbe esservi spazio per un diverso (minor) termine statutario. Conseguenza tuttavia incongrua: non si vede perchè quest’ultimo in epoca di pandemia debba perdere efficacia giuridica.

La fruizione del termine allungato naturalmente non è obbligatoria. Una scelta in tale senso in ogni caso comporterà una delibera del CdA.

<<2. Con l’avviso di convocazione delle assemblee ordinarie o straordinarie le società per azioni, le società in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, e le società cooperative e le mutue assicuratrici possono prevedere, anche in deroga alle diverse disposizioni statutarie, l’espressione del voto in via elettronica o per corrispondenza e l’intervento all’assemblea mediante mezzi di telecomunicazione; le predette società possono altresì prevedere che l’assemblea si svolga, anche esclusivamente, mediante mezzi di telecomunicazione che garantiscano l’identificazione dei partecipanti, la loro partecipazione e l’esercizio del diritto di voto, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 2370, quarto comma, 2479-bis, quarto comma, e 2538, sesto comma, codice civile senza in ogni caso la necessità che si trovino nel medesimo luogo, ove previsti, il presidente, il segretario o il notaio.>>

c. 2 : è possibile intervenire in assemblea per via telematica e votare elettronicamente o per corrispondenza (nulla si dice sul consiglio di amministrazione e collegio sindacale, ai quali non sarà applicabile: conf. Irrera,  Le assemblee (e gli altri organi collegiali) delle societa’ ai tempi del coronavirus (con una postilla in tema di associazioni e fondazioni), in ilcaso.it, 22.02.2020, § 8), anche in presenza di contraria regola statutaria: basta che il CdA lo indichi nell’avviso.

E’ anche possibile effettuare un’assemblea totalmente telematica (sempre in deroga ad eventuali regole di statuto), pure su scelta del CdA, direi: purchè siano identificabili e vengano identificati i partecipanti.

Nemmeno è richiesta la riunione fisica dei componenti dell’ufficio di presidenza.

<<3. Le società a responsabilità limitata possono, inoltre, consentire, anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2479, quarto comma, del codice civile e alle diverse disposizioni statutarie, che l’espressione del voto avvenga mediante consultazione scritta o per consenso espresso per iscritto.>>

c. 3 : è generalizzata la ricorribilità al metodo della consultazione scritta o del consenso espresso scritto, anche nei casi dell’art. 2479/4 e anche in presenza di statuto contrario. La disposizione lascia aperti diversi interrogativi e non modesti.

Ad es. , a chi compete la scelta in tale senso? Agli amministratori, direi: in generale, quando il potere è attribuito <<alla società>>, in mancanza di altra regola, spetta a chi la governa e cioè -nel sistema tradizionale- al CdA (non può spettare ai soci decidere come essere convocati per una successiva delibera: come prenderebbero la “predecisione”?). Però nella srl questo profilo è complesso, poichè l’art. 2479 c.1 attribuisce il potere di mettere in moto l’iter decisionale anche  ad un terzo dei soci.

Inoltre: rimane il potere di chiedere la forma piena di delbierazione in capo uno o più ammnistratori o ad un terzo dei soci, ex art. 2479 c.4 ? Direi di no.

Da ultimo: quale è l’area di derogabilità all’art. 2479 c. 4 (che esclude in certi casi la collegialità attenuata del c.3), delineata dalla disposizione in commento? Qualunque tipo di delibera? Ad es. anche modifiche statutarie, che richiedono la presenza di un notaio (art. 2480 cc)? Letteralmente si, dato che non ci sono limiti: ma ciò nonostante su quest’ultimo punto la risposta positiva pare azzardata e dunque da respingere.

<<4. Le società con azioni quotate possono designare per  le assemblee ordinarie o straordinarie il rappresentante previsto dall’articolo 135-undecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, anche ove lo statuto disponga diversamente. Le medesime società possono altresì prevedere nell’avviso di convocazione che l’intervento in assemblea si svolga esclusivamente tramite il rappresentante designato ai sensi dell’articolo 135-undecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58; al predetto rappresentante designato possono essere conferite anche deleghe o subdeleghe ai sensi dell’articolo 135-novies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, in deroga all’art. 135-undecies, comma 4, del medesimo decreto. >>

c. 4: il rappresentato ex art. 135 undecies TUF per le quotate è designabile anche in presenza di contraria regola statutaria; addirittura l’assemblea può svolgersi anche solamente tramite questa figura (per evitare assembramenti, natrualmetne).

Curioso è il riferimento alla deroga al c. 4 del 135 undecies, il quale pone: i) un obbligo di comucazione di conflitti di interesse; ii) un obbligo di riservatezza; iii) l’impossibilità di derogare alla disciplina posta dal 135 undecies medesimo. Quale è allora il significato del c.4 del DL 18 qui esaminato? forse che che il rappresentante è sciolto dagli obblighi sub i-ii? non credo. Allora la deroga sarà alla regola sub iii) : cioè sarà possibile dare deleghe e subdeleghe anche in deroga ai commi 1-3 del medesimo 135 undecies: infatti la loro inderogabilità, posta dal c. 4 ult. periodo, è a sua volta derogata  dalla norma qui esaminata.

Questo comma -sulle quotate- va coordinato col c. 2 -disciplina generale-. L’eventuale rappresentante unico può partecipare in remoto e cioè a distanza? Direi senz’altro di si, anche se è già stata data un’interpretazione contraria (riferisce Olivieri sul Sole 24 ore del 20 marzo 2020).

Irrera, cit., p. 14, si interroga sulla invocabilità di queste disposizioni da parte di società che abbiano già convocato l’assemblea: la sua risposta è positiva.

Lo stesso a. rileva che disposizione analoga è stata inserita per <<le associazioni private anche non riconosciute e le fondazioni >>: solo che si trova in altro articolo del DL 18, precisamente nell’art. 73 c. 4. Cosa assai strana, dato che l’art. 73 disciplina le riunioni degli organi collegiali di enti pubblici e verosimilmente costituente una svista dettata dalla grave urgenza.

<<5. Il comma 4 si applica anche alle società ammesse alla negoziazione su un sistema multilaterale di negoziazione e alle società con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante.>>

Estende la disciplina del c. precedente anche oltre l’area delle quotate.

<<6. Le banche popolari, e le banche di credito cooperativo, le società cooperative e le mutue assicuratrici, anche in deroga all’articolo 150-bis, comma 2-bis, del decreto legislativo 1° settembre 1993 n. 385, all’art. 135-duodecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 e all’articolo 2539, primo comma, del codice civile e alle disposizioni statutarie che prevedono limiti al numero di deleghe conferibili ad uno stesso soggetto, possono designare per le assemblee ordinarie o straordinarie il rappresentante previsto dall’articolo 135-undecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. Le medesime società possono altresì prevedere nell’avviso di convocazione che l’intervento in assemblea si svolga esclusivamente tramite il predetto rappresentante designato. Non si applica l’articolo 135-undecies, comma 5, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. Il termine per il conferimento della delega di cui all’art. 135-undecies, comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, è fissato al secondo giorno precedente la data di prima convocazione dell’assemblea.>>

c. 6: la disciplina generale delle quotate del c. 4 viene sostanzialmente estesa alle banche ivi indicate (ambiguo il riferimento alle <<società cooperative>>: solo se banche o in generale?)

<<7. Le disposizioni del presente articolo si applicano alle assemblee convocate entro il 31 luglio 2020 ovvero entro la data, se successiva, fino alla quale è in vigore lo stato di emergenza sul territorio nazionale relativo al rischio sanitario connesso all’insorgenza della epidemia da COVID-19>>

c. 7: La disposizione disciplina ratione temporis l’ambito applicativo della novella: solo per le assemblee convocate entro il 31 luglio p.v. o entro la successiva (non anteriore: ipotesi allo stato comunque improbabile)  data di cessazione dell’emergenza . Ciò a prescindere dalla data di invio o ricevimento dell’avviso di convocazine (o altro mezzo pubblicitario) (tanto più a prescidnere dalla data di delibra del CdA): conta solo un elemento e cioè che la data fissata per l’assemblea sia anteriore a quella qui indicata.

Si dovrebbe individuare la fonte normativa che ha dichiarato lo stato di emergenza: pare la delibera del Consiglio dei ministri 31.01.2020, che lo dichiara per sei mesi (così si legge nelle premesse del DPCM 1 marzo 2020, Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, GU Serie Generale n.52 del 01-03-2020).

Effettivamente la delibera CdM 31.01.2020, Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili ((GU Serie Generale n.26 del 01-02-2020),  così dice: << 1) In considerazione di quanto esposto in premessa, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 7, comma 1, lettera c), e dell’articolo 24, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, e’ dichiarato, per 6 mesi dalla data del presente provvedimento, lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili.  2) Per l’attuazione degli interventi di cui dell’articolo 25, comma 2, lettere a) e b) del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, da effettuare nella vigenza dello stato di emergenza, si provvede con ordinanze, emanate dal Capo del Dipartimento della protezione civile in deroga a ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, nei limiti delle risorse di cui al comma 3.  3) Per l’attuazione dei primi interventi, nelle more della valutazione dell’effettivo impatto dell’evento in rassegna, si provvede nel limite di euro 5.000.000,00 a valere sul Fondo per le emergenze nazionali di cui all’articolo 44, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1>>.

( il c. 8 dell’art. 106 così dispone:  <<8. Per le società a controllo pubblico di cui all’articolo 2, comma 1, lettera m), del decreto legislativo 19 agosto 2016, n.175, l’applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo ha luogo nell’ambito delle risorse finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e non comporta nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.>>)

Forse era il caso di allentare la tempistica anche per altre situazioni societarie: ad es. per quelle regolate dagli artt. 2446 e 2447 sui provvedimenti da prendere in caso di riduzione del capitale per perdite. L’urgenza estrema per un provvedimento così imponente giustifica l’omissione: magari lo si farà in sede di conversione (se il Parlamento riuscirà a riunirsi, avendo anch’esso il rischio di incremento dei contagi, tranne che opti per le stesse modalità procedimentali telematiche qui permesse: ma non potrà omettere di riunirsi in qualche modo, come pure osserva C. Blengino nel suo interessante intervento odierno in ilpost.it, in fine).

Il DL è entrato in vigore il giorno della pubblicazione in GU e dunque il 17 marzo 2020 (art. 127).

La Corte di Giustizia Europea sul giudizio confusorio in tema di marchi (Labell vs. Black Label)

La Corte di Giustizia (poi solo CG) 4 marzo 2020, C-328/18 P, EUIPO c. Equivalenza Manufactory SL di Barcellona, impartisce alcuni insegnamenti su come va condotto il giudizio di assenza/presenza di novità in relazione ad un marchio precedente.
La norma rilevante ratione temporis è quella di cui all’articolo 8 paragrafo 1 lettera B del regolamento 207/2009 : <<In seguito all’opposizione del titolare di un marchio anteriore, il marchio richiesto è escluso dalla registrazione se: …; b) a causa dell’identità o della somiglianza di detto marchio col marchio anteriore e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi per i quali i due marchi sono stati richiesti, sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato; il rischio di confusione comprende il rischio di associazione con il marchio anteriore.>>
Si vedano i due marchi in conflitto (§§ 5 e 9):

segno anteriore (dell’opponente)

e

segno posteriore (opposto in fase amministrativa)

In pratica l’unico elemento comune è quello denominativo (Label/Labell).

I prodotti di riferimento erano identici (profumi). Il marchio anteriore era oggetto di registrazione internazionale, mentre quello posteriore era un marchio depositato all’EUIPO come marchio dell’UE (§§ 5 e 9).

L’opponente (titolare del marchio anteriore) ottiene ragione in entrambe le fasi amministrative, ma soccombe nella successiva impugnazione davanti al Tribunale UE, paragrafi 12- 16.
Il motivo di ricorso alla CG è unico ma concerne quattro profili (non chiara la distizione tra motivo unico in quattro profili e quattro motivi).
Circa il primo, la CG ribadisce che il vizio di motivazione contraddittoria/insufficiente è una questione di diritto in fase impugnatoria, paragrafo 25; ed allora accoglie il motivo per motivazione contraddittoria, paragrafo 30
Nulla dico sul secondo profilo, poco significativo.
Sul terzo e sul quarto, invece, si concentrano gli insegnamenti più importanti.
La censura dell’EUIPO consiste nell’addebitare <<al Tribunale di aver violato l’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009 in ragione di un errore metodologico, in quanto ha esaminato le condizioni di commercializzazione dei prodotti in causa e le abitudini di acquisto del pubblico di riferimento nella fase della valutazione della somiglianza dei segni confliggenti.>>, paragrafo 42.
Inoltre l’ufficio muove un’altra censura: <<il Tribunale ha commesso un errore di metodo in quanto ha neutralizzato la somiglianza fonetica media dei segni in conflitto nella fase di valutazione della somiglianza di tali segni e ha abbandonato prematuramente qualsiasi valutazione globale del rischio di confusione.>>, par. 47.
Cioè:   –   le condizioni di commercializzazione non possono incidere nel giudizio di somiglianza tra segni;   –    la compensazione tra la distanza concettuale e la vicinanza visivo-fonetica non può avvenire solo nella fase di giudizio di somiglianza tra segni ed essere ad abbandonata nella fase del giudizio complessivo di confondibilità, come invece successo nel caso specifico, ove è stata prematuramente abbandonata, paragrafo 47 ss.

Ebbene, la CG inizia ribadendo:
– che per costante propria giurisprudenza <<l’esistenza di un rischio di confusione per il pubblico deve essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie […], tra i quali figurano in particolare il grado di somiglianza tra i segni in conflitto e tra i prodotti o i servizi designati in causa, nonché l’intensità della notorietà e il grado del carattere distintivo, intrinseco o acquisito mediante l’uso, del marchio anteriore […]>>Paragrafo 57;
– che <<la valutazione globale del rischio di confusione deve fondarsi, per quanto riguarda la somiglianza visiva, fonetica o concettuale dei segni in conflitto, sull’impressione complessiva da essi prodotta. La percezione dei segni da parte del consumatore medio dei prodotti o dei servizi di cui trattasi svolge un ruolo determinante nella valutazione globale di tale rischio. A questo proposito, il consumatore medio percepisce di norma un marchio come un tutt’uno e non effettua un esame dei suoi singoli elementi >>,  paragrafo 58;
– che <<questa valutazione globale del rischio di confusione implica una certa interdipendenza tra i fattori che entrano in considerazione e, in particolare, la somiglianza dei segni confliggenti e quella dei prodotti o dei servizi in oggetto. Così, un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi in causa può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i segni in conflitto e viceversa>> , paragrafo 59.
Ribadite queste tre regole, comunemente accettate, arriva la parte più interessante.

Per la CG , <<in assenza di qualsiasi somiglianza tra il marchio anteriore e il segno di cui è richiesta la registrazione, la notorietà o la rinomanza del marchio anteriore, l’identità o la somiglianza dei prodotti o servizi considerati non sono sufficienti per constatare un rischio di confusione […]. Di conseguenza, tale disposizione è manifestamente inapplicabile quando il Tribunale esclude qualsiasi somiglianza tra i segni in conflitto. È soltanto nell’ipotesi in cui tali segni presentino una certa somiglianza, ancorché tenue, che spetta al suddetto giudice procedere a una valutazione globale al fine di stabilire se, nonostante il tenue grado di somiglianza esistente tra di essi, la presenza di altri fattori pertinenti, quali la notorietà o la rinomanza del marchio anteriore, possa dar adito a un rischio di confusione per il pubblico di riferimento (v., in tal senso, sentenza del 24 marzo 2011, Ferrero/UAMI, C‑552/09 P, EU:C:2011:177, punti 65 e 66, nonché la giurisprudenza citata).>>, § 60.

Cioè, stando alla disposizione citata, il giudizio complessivo di …….
E’ in base a questa giurisprudenza che  per il tribunale i segni non erano simili secondo un’impressione generale, mancando una delle due condizioni previste dall’articolo 8 comma 1 lettera B del regolamento 207: con conseguente errore dell’ufficio nell’affermare il rischio di confusione., paragrafo 61.
Il tribunale era giunto a questa conclusione con un ragionamento in due fasi: dopo aver detto che i segni presentavano un grado medio di somiglianza fonetica pur essendo visivamente e concettualmente dissimili (paragrafo 63), aveva però <aggiunto chje <<tenuto conto delle condizioni di commercializzazione dei prodotti di cui trattasi, l’aspetto visivo dei segni in conflitto, riguardo al quale tali segni erano diversi, era più importante per valutare l’impressione complessiva da essi prodotta rispetto agli aspetti fonetico e concettuale di tali segni. Inoltre, al punto 54 di tale sentenza il Tribunale ha rilevato che i segni in conflitto erano concettualmente diversi in virtù della presenza, nel segno per il quale si chiede la registrazione, degli elementi «black» e «by equivalenza»>>., § 65.

In breve l’aspetto visivo prevaleva su quello concettual-fonetico, tenuto conto delle condizioni di commercializzazione: e il profilo visvivo portava ad una differenziazione tra i segni (incrementata da una differenziazione anche concettuale paragrafo 65 seconda parte chiuso la parentesi). per questo Il tribunale ha rinunciato ad effettuare la valutazione complessiva del rischio di confusione richieta dalla norma (<<ll marchio richiesto è escluso dalla registrazione se: …b) a causa dell’identità o della somiglianza … sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato>>) dal momento che i marchi non erano similia prevalenza dell’elemento visivo -preonerante alal luce delle circoszante in c ui è commercialzizato- e concettuale paragrafo 66-.

La censura su questo modo di ragionare è duplice.

La Corte ricorda che <<al fine di valutare il grado di somiglianza esistente tra i segni confliggenti, occorra determinare il loro grado di somiglianza visiva, fonetica e concettuale e, eventualmente, vagliare la rilevanza che occorre attribuire a questi diversi elementi, tenendo conto della categoria di prodotti o di servizi di cui trattasi o delle condizioni in cui essi sono messi in commercio (sentenze del 22 giugno 1999, Lloyd Schuhfabrik Meyer, C‑342/97, EU:C:1999:323, punto 27, e del 12 giugno 2007, UAMI/Shaker, C‑334/05 P, EU:C:2007:333, punto 36).>>, Paragrafo 68.

Però ci sono state applicazioni giurisprudenziali divergenti nei vari stati. Pertanto La Corte ribadisce o insegna: <<sebbene le condizioni di commercializzazione costituiscano un fattore rilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009, la loro considerazione rientra nella fase della valutazione globale del rischio di confusione e non in quella della valutazione della somiglianza dei segni in conflitto.>>, paragrafo 70.

Infatti <<la valutazione della somiglianza dei segni in conflitto, che costituisce solo una delle fasi d’esame del rischio di confusione ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009, comporta il confronto dei segni in conflitto onde determinare se tali segni presentino un grado di somiglianza su uno tra i piani visivo, fonetico e concettuale. Per quanto tale confronto debba fondarsi sull’impressione complessiva che detti segni lasciano nella memoria del pubblico di riferimento, esso deve cionondimeno essere operato alla luce delle qualità intrinseche dei segni in conflitto (v., per analogia, sentenza del 2 settembre 2010, Calvin Klein Trademark Trust/UAMI, C‑254/09 P, EU:C:2010:488, punto46).>>, paragrafo 71.
A sostegno di questa affermazione la CG ricorda che <<tenere conto delle condizioni di commercializzazione dei prodotti o servizi coperti da due segni confliggenti ai fini del confronto di tali segni potrebbe sfociare nell’assurdo risultato che i medesimi segni potrebbero essere qualificati come simili o diversi in funzione dei prodotti e servizi che riguardano e delle condizioni in cui questi ultimi sono commercializzati.>>, paragrafo 72.
Ne segue quindi che Il tribunale ha sbagliato laddove ha preso <<in considerazione, ai punti da 48 a 53 e 55 della sentenza impugnata, le condizioni di commercializzazione dei prodotti in causa nella fase di valutazione della somiglianza dei segni in conflitto nel loro insieme e facendo prevalere, in ragione di tali condizioni, le differenze visive tra tali segni rispetto alla loro somiglianza fonetica.>>, paragrafo 73
In secondo luogo il tribunale ha sbagliato nell’effettuare la compensazione tra l’elemento concettuale da una parte e quello fonetico-visivo dall’altra.
Secondo la giurisprudenza addotta dalla Corte infatti <<la valutazione globale del rischio di confusione implica che le differenze concettuali tra i segni confliggenti possano neutralizzare determinate somiglianze fonetiche e visive tra tali due segni, purché almeno uno di questi segni, per il pubblico di riferimento, rivesta un significato chiaro e determinato, tale che questo pubblico possa coglierlo direttamente (sentenze del 18 dicembre 2008, Les Éditions Albert René/UAMI, C‑16/06 P, EU:C:2008:739, punto punto 98; v. altresì, in tal senso, sentenze del 12 gennaio 2006, Ruiz-Picasso e a./UAMI, C‑361/04 P, EU:C:2006:25, punto 20, e del 23 marzo 2006, Mülhens/UAMI, C‑206/04 P, EU:C:2006:194, punto 35)>>, § 74.
Secondo i propri precedenti infatti <<la valutazione delle condizioni per tale neutralizzazione si integra nella valutazione della somiglianza dei segni in conflitto dopo la valutazione dei gradi di somiglianza sui piani visivo, fonetico e concettuale. Va tuttavia precisato che questa considerazione è intrinsecamente connessa all’ipotesi, eccezionale, in cui almeno uno dei segni in conflitto possieda, dal punto di vista del pubblico di riferimento, un significato chiaro e definito che possa essere direttamente colto da quel pubblico. Ne consegue che è solo se ricorrono tali condizioni che, conformemente alla giurisprudenza citata al punto precedente della presente sentenza, il Tribunale può risparmiarsi la valutazione globale del rischio di confusione per il fatto che, a causa delle marcate differenze concettuali tra i segni in conflitto e del significato chiaro, definito e direttamente intellegibile per il pubblico di riferimento di almeno uno di tali segni, questi ultimi producono un’impressione complessiva diversa, nonostante l’esistenza, tra di essi, di taluni elementi di somiglianza sui piani visivo o fonetico.>> § 75.
Di conseguenza , quando entrambi i segni confliggenti mancano di questo significato chiaro, <<definito e direttamente intellegibile per il pubblico di riferimento, il Tribunale non può procedere a una neutralizzazione omettendo un’analisi globale del rischio di confusione. In tal caso, invece, detto giudice è tenuto a effettuare un’analisi globale di tale rischio, tenendo conto di tutti gli elementi di somiglianza e di differenza individuati allo stesso titolo di tutti gli altri elementi rilevanti, come il grado di attenzione del pubblico di riferimento (v., in tal senso, sentenza del 12 gennaio 2006, Ruiz-Picasso e a./UAMI, C‑361/04 P, EU:C:2006:25, punti 21 e 23) o il grado di carattere distintivo del marchio anteriore.>>, paragrafo 76
In conclusione il tribunale ha sbagliato, <<quando ha inteso neutralizzare la somiglianza dei segni in conflitto sul piano fonetico alla luce della loro dissomiglianza concettuale e ha rinunciato all’analisi globale del rischio di confusione, pur non avendo affatto constatato, e neppure verificato, che nel caso di specie almeno uno dei segni in questione avesse un significato chiaro e definito per il pubblico di riferimento tale che quest’ultimo potesse coglierlo direttamente.>> para 77
Pertanto alla luce di questo vizio e di quello di motivazione contraddittoria, la sentenza del Tribunale va annullata, § 79.
Nell’ultima parte della sentenza La Corte procede al giudizio di merito: è infatti ammesso dal suo Statuto (articolo 61 comma 1) quando lo stato degli atti lo permetta
Qui la CG applica al caso specifico gli insegnamenti contenuti nella prima parte della sentenza, per cui su questa parte non mi trattengo: anche se non è priva di intresse, come sempre quando i principi astratti vengono applicati al caso concreto.

Mi limito a ricordare che l’esito dello ius dicere sostitutivo operato dalla CG è stato quello di confermare il giudizio di confondibilità dell’EUIPO, quindi rigettando l’impugnazione proposta di Equivalenza Manufactory, del §§ 101-103.

Valenza probatoria degli SMS: conferma della Cassazione

La Cassazione conferma la sua linea circa la valenza probatoria degli SMS.

L’ordinanza 19.155 del 17.07.2019, KMY c. GE, così dice in motivazione:

<<Questa Corte ha di recente statuito (Cass. 5141/20119) che “lo “short message service” (“SMS”) contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ed è riconducibile nell’ambito dell’art. 2712 c.c., con la conseguenza che forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne contesti la conformità ai fatti o alle cose medesime. Tuttavia, l’eventuale disconoscimento di tale conformità non ha gli stessi effetti di quello della scrittura privata previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 2, poichè, mentre, nel secondo caso, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo della stessa, la scrittura non può essere utilizzata, nel primo non può escludersi che il giudice possa accertare la rispondenza all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni” (nella specie, veniva in questione il disconoscimento della conformità ad alcuni “SMS” della trascrizione del loro contenuto). Sempre questa Corte (Cass.11606/2018), in tema di efficacia probatoria dei documenti informatici, ha precisato che “il messaggio di posta elettronica (cd. e-mail) costituisce un documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime”.

Ora, sempre in tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c., il disconoscimento idoneo a fare perdere ad esse la qualità di prova, pur non soggetto ai limiti e alle modalità di cui all’art. 214 c.p.c., deve tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta, anche se non ha gli stessi effetti del disconoscimento previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 2, perchè mentre questo, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, preclude l’utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (cfr. Cass. 3122/2015, nella quale questa Corte ha confermato la sentenza impugnata, laddove aveva ritenuto utilizzabile un DVD contenente un filmato, considerato che la parte aveva contestato del tutto genericamente la conformità all’originale della riproduzione informatica prodotta e che il giudice di merito aveva ritenuto l’assenza di elementi che consentissero di ritenere il documento non rispondente al vero; conf. 17526/2016; in termini, Cass.1250/2018)>>

Breve nota di M. Cometto, La valenza probatoria degli SMS, Giur. it., 2020, 1, 90 ss

Le informazioni non finanziarie, obbligatorie per le grandi imprese, non modificano la ricostruzione dell’interesse sociale

La Direttiva UE 2014/95 del 22.10.2014 aveva introdotto l’obbligo per le imprese di maggiori dimensioni (“enti di interesse pubblico” e con almeno 500 dipendenti) di fornire annualmente alcune informazioni di carattere non finanziario, essenzialmente relative agli aspetti c.d  ESG (Environmental, Social, Governance).

Tale dir. modifica la Dir. 2013/34/UE del 26 giugno 2013 , relativa ai bilanci d’esercizio, ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese.

la Direttiva è stata recepita con il decreto legislativo 254 del 2016.

In particolare secondo l’art. 3 del d. lgs. 254, <<1. La dichiarazione individuale di carattere non finanziario, nella misura necessaria ad assicurare la comprensione dell’attivita’ di impresa, del suo andamento, dei suoi risultati e dell’impatto dalla stessa prodotta, copre i temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva, che sono rilevanti tenuto conto delle attivita’ e delle caratteristiche dell’impresa, descrivendo almeno: a) il modello aziendale di gestione ed organizzazione delle attivita’ dell’impresa, ivi inclusi i modelli di organizzazione e di gestione eventualmente adottati ai sensi  dll’articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, anche con riferimento alla gestione dei suddetti temi;b) le politiche praticate dall’impresa, comprese quelle di dovuta diligenza, i risultati conseguiti tramite di esse ed i relativi indicatori fondamentali di prestazione di carattere non finanziario;c) i principali rischi « ivi incluse le modalità di gestione degli stessi, generati o subiti, connessi ai suddetti temi e che derivano dalle attivita’ dell’impresa, dai suoi prodotti, servizi o rapporti commerciali, incluse, ove rilevanti, le catene di fornitura e subappalto(1); 2. In merito agli ambiti di cui al comma 1, la dichiarazione di carattere non finanziario contiene almeno informazioni riguardanti: a) l’utilizzo di risorse energetiche, distinguendo fra quelle prodotte da fonti rinnovabili e non rinnovabili, e l’impiego di risorse idriche;b) le emissioni di gas ad effetto serra e le emissioni inquinanti in atmosfera;c) l’ impatto, ove possibile sulla base di ipotesi o scenari realistici anche a medio termine, sull’ambiente nonche’ sulla salute e la sicurezza, associato ai fattori di rischio di cui al comma 1, lettera c), o ad altri rilevanti fattori di rischio ambientale e sanitario;d) aspetti sociali e attinenti alla gestione del personale, incluse le azioni poste in essere per garantire la parita’ di genere, le misure volte ad attuare le convenzioni di organizzazioni internazionali e sovranazionali in materia, e le modalita’ con cui e’ realizzato il dialogo con le parti sociali;e) rispetto dei diritti umani, le misure adottate per prevenirne le violazioni, nonche’ le azioni poste in essere per impedire atteggiamenti ed azioni comunque discriminatori;f) lotta contro la corruzione sia attiva sia passiva, con indicazione degli strumenti a tal fine adottati.>>

 Alcuni hanno sostenuto che questo modificasse il concetto di <<interesse sociale>> , al centro del diritto societario: lo scopo delle attività in comune non sarebbe più solamente quello di soddisfare i soci soddisfazione (che può prendere pieghe diverse come ad esempio shareholder value e/o livello dei profitti). Si è ipotizzato infatti che potessero rientrare tra gli interessi da perseguire da parte degli amministratori (in quanto pattuiti dai soci) anche interesse riconducibili a soggetti diversi.

Così però non è.

La Direttiva e la normativa di recepimento si limitano a porre dei limiti esterni all’autonomia privato-imprenditoriale dei soci (non rileva qui appurare se coincide ha sempre con questa iniziativa del management che potrebbe anche divergere). Non emergono soggetti diversi titolari di posizioni giuridiche, che gli amministratori debbano rispettare se non addirittura promuovere

Anzi,  come un recente studio evidenzia (Maugeri M., Informazione non finanziaria e interesse sociale, Rivista delle società, 2019, 5-6, 992 ss), la normativa vuole proprio tutelare l’interesse dell’investitore “tipologicamente istituzionale”.  Dato infatti che gli interessi socio-ambientali sono percepiti come sempre più decisivi per l’andamento dell’attività, la disclosure di informazioni in tal senso è finalizzata a rendere più informata e quindi efficace la scelta di investimento degli investitori (ivi, § 5, spt. 1024-1025).

Le relative scelte, che spetteranno agli amministratori, saranno governate dalla nota business judgment rule e cioè saranno censurabili solo se irragionevoli (in un’ottiva ex ante, naturalmente, per no nessere viziate dal senno di poi, hindsight bias) o se manchevoli di base informativa adeguata.

Incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti (attuzione dir. 2017/828)

l’art. 7 della l. 117/2019 aveva posto i seguenti principoi e criteri direttivi specificiper l’attuazione della dir. 2017/828, che modifica la direttiva 2007/36/CE per quanto riguarda l’incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti :

<<a) apportare al codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, le integrazioni alla disciplina del sistema di Governo societario per i profili attinenti alla remunerazione, ai requisiti e ai criteri di idoneita’ degli esponenti aziendali, dei soggetti che svolgono funzioni fondamentali e dei partecipanti al capitale, al fine di assicurarne la conformita’ alle disposizioni della direttiva 2009/138/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, in materia di accesso ed esercizio delle attivita’ di assicurazione e di riassicurazione, alle disposizioni direttamente applicabili dell’Unione europea, nonche’ alle raccomandazioni, alle linee guida e alle altre disposizioni emanate dalle autorita’ di vigilanza europee in materia;

b) prevedere sanzioni amministrative efficaci, proporzionate e dissuasive ai sensi delle disposizioni di cui all’articolo 1, numero 5), della direttiva (UE) 2017/828, nel rispetto dei criteri e delle procedure previsti dalle disposizioni nazionali vigenti che disciplinano l’esercizio del potere sanzionatorio da parte delle autorita’ nazionali competenti a irrogarle. Le sanzioni amministrative pecuniarie non devono essere inferiori nel minimo a 2.500 euro e non devono essere superiori nel massimo a 10 milioni di euro.>>

Ora è data notizia dello schema di decreto legislativo di recepimento nel sito della Camera, atto del Governo 155 (ove il testo e la Relazione Illustrativa con tabella di concordanza)

La Commissione UE sull’Intelligenza Artificiale (AI)

Sono stati da poco resi noti due documenti della Commisione sull’AI.

1) il Libro bianco On Artificial Intelligence – A European approach to excellence and trust del 19 febbraio 2020 COM(2020) 65 final .

Qui sono ricordati altri documenti interessanti:

– la Comunicazione della Commissione <<L’intelligenza artificiale per l’Europa>> del 25.04.2019, COM(2018) 237 final;

– i documenti prodotti dall’ High-Level Expert Group on Artificial Intelligence, e soprattutto: i) le Ethics Guidelines for Trustworthy Artificial Intelligence (AI) dell’8 aprile 2019  (qui v. anche il documento sulla definizione di Intelligenza Artificiale 08.04.2019) , nonchè ii) le Policy and investment recommendations for trustworthy Artificial Intelligence del 26 giugno 2019 .

2) il Technical Report dell’ European Commission Joint Research Centre (JRC) sui cruciali problemi della Robustness and Explainability of Artificial Intelligence,  2020, autori: HAMON Ronan-JNKLEWITZ Henrik-SANCHEZ MARTIN Jose Ignacio.

Il Tribunale di Milano sulle invenzioni dei dipendenti (art. 64 cpi) e tutela dei segreti commerciali (art. 98 cpi)

Il Tribunale di Mliano è intervenuto sulle invenzioni dei dipendenti con una sentenza portante qualche interessante riflessione.  Si tratta di Trib. MI 282/2019 del 14.01.2019, Rg 49376/2041, da poco pubblicata su giurisprudenzadelleimprese.it.

L’ex dipendente aveva depositato domanda brevettuale , per cui l’azienda aveva agito in giudizio per far valre la natura di invenzione di servizio, con applicazione della disciplina relativa (art. 64 c.1 cpi). Il convenuto aveva invocato, tra le altre, la natura di invenzione occasionale ex art. 64 c. 3 cpi.

Al § 3 il giudice riepiloga la distinzione tra le tre tipoliguie di invenzione, enucleabili dall’art. 64 cpi.

Poi ravvisa nel caso specifico una invenzione d’azienda, visto che:

<<– non si tratta di un’invenzione di servizio, non prevedendo il contratto di assunzione né direttamente né indirettamente quale oggetto dell’incarico alcuna attività inventiva né essendo prevista una specifica remunerazione a tale fine a titolo di compenso (cfr. doc. 3 di parte attrice). In proposito giova rammentare che, secondo gli indirizzi di legittimità, è onere del datore di lavoro provare la specifica retribuzione per l’attività inventiva svolta (cfr. Cass. 1285/2006), non essendo sufficiente allo scopo neppure la prova di avere corrisposto una somma superiore ai minimi, onere qui non assolto;

– non si tratta di un’invenzione occasionale, estranea all’attività cui il Fischetto era adibito, non sussistendo qui una mera coincidenza temporale tra il deposito del trovato ed il rapporto di lavoro che legava le parti. Il trovato rientrava nello specifico campo di ricerca e sperimentazione a cui era dedita l’attrice>> (p. 10).

Osssrva poi che <<Non colgono nel segno le eccezioni svolte dal convenuto:
-in merito alla mancata menzione nel contratto di lavoro di compiti di ricerca. Come accennato, sono le reali attività e mansioni espletate dal dipendente che vengono in rilievo al fine dell’applicazione delle diverse ipotesi di cui all’art. 64 c.p.i.;>> (p. 12)

Ricorda <<Per completezza: non risulta in questa sede formulata domanda di equo compenso che spetterebbe all’ex lavoratore: tale pretesa non può dunque essere esaminata>>, p. 13. E’ ben strano che il difensore non abbia avanzato questa pretesa, magari in via subordinata.

Circa la protezione dei segreti ex art. 98 cpi, ha ravvisato l”esistenza dei requisiti di legge e quindi ha accolto la domanda.

Sono di interesse soprattutto le osservazioni sulle misure di protezione: <<parte attrice ha allegato e provato la protezione attraverso password e credenziali personali (cfr. le testimonianza resa in proposito da Tiziano Baroni: “anche Fischetto aveva un computer portatile con password personale non conosciuta dall’azienda. Le informazione salvate sul pc personale sono accessibili solo al singolo utente, quelle salvate sul server sono accessibili ad alcuni gruppi di persone autorizzate, poi c’è un ulteriore porzione di server accessibile al singolo utente. Tutte le informazioni strategiche sono salvate sul server per evitare che nell’ipotesi un cui un pc si rompa le stesse vadano perse. Tali informazioni sono accessibili con autorizzazione o con password”).Tali misure adottate da Bettini erano ragionevolmente adeguate a mantenere segrete le informazioni di cui discute. Inoltre, il contratto di assunzione sottoscritto con Ivan Fischetto prevedeva all’art. 10 l’obbligo di segretezza,imponendo al lavoratore di non rivelare alcuna informazione acquisita in costanza del rapporto di lavoro (cfr. doc. 3 di parte attrice);>>

Vediamo infine la statuizione sulla domanda  brevettuale.

L’attrice aveva domandato: <<..; 2) accertare e dichiarare che il diritto al brevetto e al relativo deposito e registrazione della domanda di brevetto italiano n. MI2013A1265 (“Brevetto”), meglio descritto in narrativa, spetta alla Bettini Spa (in sede di conclusioni attrice) ai sensi dell’art. 118 secondo comma CPI; 3) trasferire a nome dell’attrice il Brevetto, nel caso in cui nelle more del giudizio il Brevetto venga concesso ai sensi dell’art. 118 terzo comma lett. a CPI;…; 7) inibire l’uso del processo e prodotto oggetto dell’invenzione tutelata dal Brevetto;>> (p. 2).

Il Giudice così ha provveduto: <<1. accerta e dichiarare che il diritto alla brevettazione e al relativo deposito e registrazione della domanda di brevetto italiano n. MI2013A1265 depositato in data 29.7.2013 presso U.I.B.M. spetta alla Bettini s.p.a. ai sensi dell’art. 118 secondo comma CPI; 2. dispone il trasferimento a favore dell’attrice del brevetto indicato al punto n. 1, incaricando UIBM dei relativi adempimenti; 3. inibisce al convenuto l’uso del procedimento oggetto di invenzione di cui al punto sub. 1;>>

Tutela d’autore (e da disegno e modello) quando l’opera è stata creata in ossequio solo a esigenze funzionali?

Il problema della tutelabilità con una privativa di intellectual property di una forma o comunque di un trovato realizzato in stretto ossequio ad esigenze funzionali, solitamente esaminato in tema di Marchi e disegni, trova ora esame In Diritto d’autore.

L’Avvocato Generale Sanchez Bordona (poi: AG) nelle sue Conclusioni 6.2.2020, C-833/18, SI-Brompton Bicycle Ltd. c. Chedec/Get2Get, prepara la causa in vista del successivo intervento della Corte di Giustizia (poi: CG)

Nel caso specifico si trattava di una bicicletta pieghevole che aveva ottenuto un brevetto sul meccanismo di piegatura, successivamente era diventato di pubblico dominio (§ 22).

Il creatore  fa valere il Diritto d’autore nei confronti di un produttore coreano di una bicicletta molto simile.

La bicicletta su cui vanta diritto l’attore in contraffazione è la seguente:

Quella del convenuto è invece la seguente:

Naturalmente il coreano subito obietta che la privativa azionata è nulla in quanto l’opera (bicicletta) è stata creata in ossequio ad esigenze funzionali

È curioso che nè nel diritto europeo armonizzato né in quello nazionale esista una norma, che escluda la tutela quando la creazione è frutto solo di esigenze tecnico-funzionali: il che invece avviene per i marchi (art. 9 C.P.I.) e per i disegni e modelli (articolo 36 c.p.i.)

La questione si presenta sostanzialmente nuova per il Diritto d’autore: qui la norma, che potrebbe semmai essere utilizzata, è quella relativa alla creatività (art. 6 l. aut.) e/o quella per cui sono proteggibili le singole forme espressive ma non le idee astratte (art. 2 Trattato OMPI: <<Oggetto della protezione del diritto d’autore – La protezione del diritto d’autore copre le espressioni e non le idee, i procedimenti, i metodi di funzionamento o i concetti matematici in quanto tali>> in www.admin.ch).
La normativa europea sul punto tace, come detto, anche se sono arrivate delle buone messe a punto di recente. ad es. v .sentenza CG 12.09.2019, Cofemel – Sociedade de Vestuário SA, contro G‑Star Raw CV, C-683/17 (§§ 29-30-31), la quale al paragrafo 31 cita il precedente CG 01.03.2012, Football Dataco ed altri c. Yahoo ed altri, C-604/10, § 39  in tema di banca dati.

Cofemel diceva cosi’: <<29  La nozione di «opera» considerata dall’insieme di dette disposizioni costituisce, come risulta da costante giurisprudenza della Corte, una nozione autonoma del diritto dell’Unione che deve essere interpretata e applicata in modo uniforme, e che presuppone il ricorrere di due elementi cumulativi. Da una parte, tale nozione implica che esista un oggetto originale, nel senso che detto oggetto rappresenta una creazione intellettuale propria del suo autore. D’altra parte, la qualifica di opera è riservata agli elementi che sono espressione di tale creazione (v., in tal senso, sentenza del 16 luglio 2009, Infopaq International, C‑5/08, EU:C:2009:465, punti 37 e 39, e del 13 novembre 2018, Levola Hengelo, C‑310/17, EU:C:2018:899, punti 33 e da 35 a 37, nonché giurisprudenza ivi citata).  30 Quanto al primo di questi elementi, risulta da costante giurisprudenza della Corte che, perché un oggetto possa essere considerato originale, è necessario e sufficiente che rifletta la personalità del suo autore, manifestando le scelte libere e creative di quest’ultimo (v., in tal senso, sentenza del 1o dicembre 2011, Painer, C‑145/10, EU:C:2011:798, punti 88, 89 e 94, nonché del 7 agosto 2018, Renckhoff, C‑161/17, EU:C:2018:634, punto 14). 31 Per contro, quando la realizzazione di un oggetto è stata determinata da considerazioni di carattere tecnico, da regole o altri vincoli che non lasciano margine per la libertà creativa, non può ritenersi che tale oggetto presenti l’originalità necessaria per poter costituire un’opera (v., in tal senso, sentenza del 1o marzo 2012, Football Dataco e a., C‑604/10, EU:C:2012:115, punto 39, e giurisprudenza ivi citata)>>.

Rilevante è pure la sentenza CG 13.11.2018, Levola c. Smilde Foods, C-310/17, ove si legge: <<35   A questo proposito, affinché un oggetto possa essere qualificato come «opera», ai sensi della direttiva 2001/29, occorre che siano soddisfatte due condizioni cumulative.   36 Da una parte, l’oggetto di cui trattasi dev’essere originale, nel senso che costituisce una creazione intellettuale propria del suo autore (sentenza del 4 ottobre 2011, Football Association Premier League e a., C‑403/08 e C‑429/08, EU:C:2011:631, punto 97 e giurisprudenza ivi citata).   37 Dall’altra parte, la qualificazione come «opera» ai sensi della direttiva 2001/29 è riservata agli elementi che sono espressione di una siffatta creazione intellettuale (v., in tal senso, sentenze del 16 luglio 2009, Infopaq International, C‑5/08, EU:C:2009:465, punto 39, nonché del 4 ottobre 2011, Football Association Premier League e a., C‑403/08 e C‑429/08, EU:C:2011:631, punto 159).>> .

Tornando a SI-Brompton Bicycle Ltd. c. Chedec/Get2Get , l’AG si richiama alle approfondite conclusioni del collega AG Szpunar nella causa Cofemel, dove è analizzata la nozione di <<Opera>> e quindi passa ad analizzare il concetto di originalità (§ 59 ss).

Conclude dicendo che <<65 Da tali pronunce si può dedurre che, come criterio generale, non sarà possibile proteggere mediante diritto d’autore le opere (oggetti) di arti applicate la cui forma dipenda dalla loro funzione. Se l’aspetto di una di tali opere è dettato unicamente dalla sua funzione tecnica, in quanto fattore determinante, non potrà godere della tutela a titolo del diritto d’autore (40).   66. L’applicazione di questo criterio al diritto d’autore si pone sulla stessa linea vigente per i disegni e modelli e per i marchi: – per quel che riguarda i disegni e modelli (disciplinati dalla direttiva 98/71 o dal regolamento n. 6/2002) (41), né l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002, né l’articolo 7 della direttiva 98/71 conferiscono diritti sulle «caratteristiche dell’aspetto di un prodotto determinate unicamente dalla sua funzione tecnica» (42);  – quanto ai marchi dell’Unione europea, l’articolo 7, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 40/94 (43) introduce il divieto di registrazione come marchio dei segni costituiti dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico. 67 Riassumendo, i disegni la cui configurazione è determinata da ragioni tecniche che non lasciano spazio all’esercizio della libertà creativa non possono beneficiare della tutela del diritto d’autore. Al contrario, la mera circostanza che un disegno presenti alcuni elementi funzionali non lo priva di detta tutela a titolo del diritto d’autore>>

Ed allora non ci sono problemi applicativi,  quando <<le menzionate ragioni tecniche annullano, praticamente, il margine di creatività. Le difficoltà sorgono, tuttavia, quando i disegni coniugano caratteristiche funzionali e artistiche. A priori, siffatti disegni misti non dovrebbero essere esclusi dalla tutela del diritto d’autore, il che succederà invece quando gli elementi funzionali prevalgano su quelli artistici fino al punto che questi ultimi diventino irrilevanti>> (§ 68)

Si avvale in via analogica della nota sentenza CG 14.09.2010, LEGO c. UAMI, C-48/09, relativa al marchio di forma peri famosi mattoncini da gioco: << 73  [La Corte] Ha inoltre sostenuto che, «circoscrivendo l’impedimento alla registrazione stabilito dall’art. 7, n. 1, lett. e), sub ii), del regolamento n. 40/94 ai segni costituiti “esclusivamente” dalla forma del prodotto “necessaria” per ottenere un risultato tecnico, il legislatore ha tenuto debitamente in considerazione la circostanza che tutte le forme di prodotto, in una certa misura, sono funzionali e che pertanto sarebbe inopportuno escludere la registrazione come marchio di una forma di prodotto per il solo motivo che essa presenta caratteristiche funzionali. Impiegando i termini “esclusivamente” e “necessaria”, tale disposizione garantisce che la registrazione sia esclusa solamente per le forme di prodotto che si limitano ad incorporare una soluzione tecnica e la cui registrazione come marchio comprometterebbe quindi effettivamente l’utilizzo di tale soluzione tecnica da parte di altre imprese» (49).  74. Ciò premesso, la Corte ha fornito alcune importanti precisazioni sulla «presenza di uno o più elementi arbitrari minori in un segno tridimensionale i cui elementi essenziali sono tutti dettati dalla soluzione tecnica che tale segno esprime»: – da un lato, questo elemento «non intacca la conclusione che detto segno è costituito esclusivamente dalla forma del prodotto necessaria ad ottenere un risultato tecnico» (50); – dall’altro, «(…) la registrazione di siffatto segno come marchio non [può] essere rifiutata in base a tale disposizione se la forma di prodotto in causa incorpora un elemento non funzionale principale, quale un elemento ornamentale o di fantasia che ricopre un ruolo importante in detta forma» (51). 75. Quanto alla nozione di forma necessaria per ottenere il risultato tecnico desiderato, la Corte ha confermato la tesi del Tribunale, vale a dire «che tale condizione non implica che la forma in causa debba essere l’unica che consente di conseguire detto risultato» (52). Ha aggiunto che «l’esistenza di altre forme che consentono di ottenere il medesimo risultato tecnico non costituisce (…) una circostanza idonea ad escludere l’impedimento alla registrazione» >>.

L’AG -ecco il punto centrale della Conclusioni- ritiene appropriato applicare in via analogica le argomentazioni della Corte utilizzate in quella sede e quindi conclude così: << è possibile rispondere al giudice del rinvio. Quest’ultimo sembra affermare che l’aspetto della bicicletta controversa era necessario per ottenere il risultato tecnico (54), il che costituisce una valutazione di fatto che spetta esclusivamente ad esso. Se, con tale affermazione, intende dire che sussiste il nesso di esclusività tra l’aspetto e la funzionalità, al quale ho fatto riferimento in precedenza, la risposta alla sua prima questione dovrebbe essere che non può concedersi la tutela a titolo del diritto d’autore.>> (§ 76)

Sulla seconda questione pregiudiziale (<<il giudice del rinvio intende sapere, in particolare, quale incidenza possano avere, al fine di valutare il rapporto tra la concezione della forma dell’oggetto e il raggiungimento del risultato tecnico perseguito, quattro fattori specifici da esso stesso elencati>>, § 77),  l’AG passa ad esaminare l’incidenza dei quattro fattori esaminati dal g. del rinvio: i) l’esistenza di un brevetto anteriore, ii) l’esistenza di possibili altre forme che permettono di conseguire lo stesso risultato tecnico, iii) la volontà della serito contraffattore, iv) l’efficacia della forma (profilo non molto chiaro).

Vediamo brevemente il secondo fattore e cioè l’esistenza di possibili altre forme che permettono di giungere al medesimo risultato tecnico

Qui l’AG  si rifà al caso Doceram, C-395/16, cit. subito sotto, nel quale era stato stabilito che l’esistenza di altre soluzioni alternative è irrilevante.

L?AG però aggiunge che <<84 La lettura di tale sentenza fa quindi emergere l’irrilevanza delle soluzioni alternative al fine di chiarire il nesso di esclusività tra le caratteristiche dell’aspetto e la funzione tecnica del prodotto. Non autorizza, tuttavia, ad escludere che tali soluzioni alternative possano avere alcuna incidenza, in quanto elemento idoneo per riconoscere un margine alla creazione intellettuale che conduce al medesimo risultato tecnico.   85. Nei modelli in cui l’intersezione dell’arte con il disegno è particolarmente evidente, vi saranno maggiori possibilità di libertà creativa (60) per configurare l’aspetto del prodotto. Come proposto dalla Commissione in udienza, l’integrazione degli aspetti formali con quelli funzionali, nelle opere di arti applicate, dovrà essere analizzata in dettaglio per stabilire se l’aspetto di tali opere non sia interamente determinato dalle esigenze tecniche. In alcuni casi sarà possibile separare, quanto meno idealmente, gli elementi che obbediscono a considerazioni funzionali da quelli che obbediscono soltanto a libere scelte (originali) del loro ideatore, suscettibili di tutela a titolo del diritto d’autore>>

L’AG capisce che queste sue riflessioni <<possano essere considerate piuttosto teoriche e forse non risultano di grande aiuto per il giudice del rinvio, confrontato con il difficile compito di stabilire quali elementi creativi possano essere tutelati in una bicicletta la cui funzionalità richiede la presenza di ruote, catena, telaio e manubrio, a prescindere dalla forma >> (§86). Però, quasi sconsolatamente, aggiunge che <<in una prospettiva legata all’interpretazione della norma, più che alla sua applicazione a una determinata fattispecie, ciò che conta è ricordare che, secondo la Corte, la risposta a questa parte della seconda questione pregiudiziale si deduce dalla sentenza DOCERAM.>> (§ 87),.

Conclude che <<la soluzione esposta in relazione ai disegni e modelli può essere trasposta, mutatis mutandis, per determinare il grado di originalità delle «opere» con applicazione industriale che i loro autori intendono proteggere a titolo del diritto d’autore.>> (§ 88). In pratica non dà un grande ausilio alla CG per applicare l’insegnamento di Doceram.

Passiamo ora brevemente alla predetta sentenza Doceram, Corte di Giustizia 08.03.2018, C-395/16,  Doceram GmbH c. CeramTec GmbH.

Sui fatti di causa: <<10 La DOCERAM è una società che produce componenti in ceramica di tipo ingegneristico. Essa fornisce, in particolare, perni di centraggio per saldatura al settore automobilistico, al settore delle macchine tessili e all’industria meccanica. Essa è titolare di diversi disegni o modelli comunitari registrati per perni di centraggio per saldatura di tre diverse geometrie, ciascuna declinata in sei tipi.   11 Anche la CeramTec produce e commercializza perni di centraggio nelle stesse varianti di quelle protette dai disegni o modelli della DOCERAM. 12 Lamentando una violazione dei disegni o modelli comunitari la DOCERAM adiva il Landgericht Düsseldorf (Tribunale del Land, Düsseldorf, Germania) con un’azione inibitoria nei confronti della CeramTec, la quale proponeva una domanda riconvenzionale volta a far dichiarare la nullità dei disegni o modelli contestati, con la motivazione che le caratteristiche dei prodotti in questione erano determinate unicamente dalla loro funzione tecnica.>>

Le questioni sollevate erano (§ 16) :

<<«1)      Se si debba ritenere sussistente una caratteristica determinata unicamente dalla funzione tecnica, non attributiva di protezione, ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento [n. 6/2002], anche nel caso in cui l’effetto estetico non presenti alcun rilievo per il disegno del prodotto, bensì la funzionalità (tecnica) costituisca l’unico fattore determinante per il disegno stesso.

2)      In caso di risposta affermativa della Corte alla prima questione: sotto quale profilo occorra valutare se le singole caratteristiche dell’aspetto di un prodotto siano state determinate unicamente sulla base di considerazioni di funzionalità. Se il criterio determinante sia quello dell’“osservatore obiettivo” e, in caso di risposta affermativa, come debba essere definita tale nozione»>>.

Il caso è importante perché è il primo ad esaminare l’articolo 8 c. 1 del regolamento 6 / sui disegni e modelli , secondo cui <<Articolo 8 Disegni o modelli di aspetto dettato dalla sua funzione tecnica e disegno o modello d’interconnessione –  1. Un disegno o modello comunitario non conferisce diritti sulle caratteristiche dell’aspetto di un prodotto determinate unicamente dalla sua funzione tecnica.>>

Circa l’espressione  «caratteristiche dell’aspetto di un prodotto che sono determinate unicamente dalla sua funzione tecnica», la CG osserva che <<né l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002 né altre disposizioni di tale regolamento e neppure la direttiva 98/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 ottobre 1998 sulla protezione giuridica dei disegni e dei modelli (GU 1998, L 289, pag. 28), che, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 36 delle sue conclusioni, è all’origine di tale articolo 8, paragrafo 1, precisano cosa si debba intendere con questa espressione. Inoltre, tale regolamento e tale direttiva non operano alcun rinvio ai diritti nazionali per quanto riguarda il significato da attribuire a detti termini.>>, § 19.

Come sempre in questi casi, mancando rinvio a legge Nazionale, il concetto va determinati in via autonoma livello europeo (§ 20)

La conclusione – un pò frettolosa-  è che << 22  Per quanto riguarda, anzitutto, il tenore letterale dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002, è giocoforza constatare che, in assenza di definizione di tale espressione, quest’ultimo non stabilisce alcun criterio per valutare se le caratteristiche dell’aspetto di un prodotto siano determinate unicamente dalla funzione tecnica di quest’ultimo. Non risulta quindi né da tale articolo né da nessun’altra disposizione di tale regolamento che l’esistenza di disegni o modelli alternativi in grado di eseguire la medesima funzione tecnica di quella del prodotto in esame costituisca l’unico criterio per determinare l’applicazione del suddetto articolo.  23 Per quanto riguarda, poi, il contesto dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002, si deve rilevare che tale disposizione rientra nella sezione 1 del titolo II di tale regolamento, intitolata «Requisiti per la protezione», e concerne il caso in cui la protezione non sia conferita da un disegno o modello comunitario alle caratteristiche dell’aspetto di un prodotto laddove esse siano determinate unicamente dalla funzione tecnica di quest’ultimo. Secondo il considerando 10 di tale regolamento, l’esclusione della protezione in questo caso non comporta la necessità che disegni o modelli possiedano un valore estetico. Non è dunque necessario, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 27 delle sue conclusioni, che l’aspetto del prodotto interessato sia di tipo estetico per poter godere della protezione in forza del medesimo regolamento.>>

Del resto è decisivo l’aspetto, nella tutela dei disegni e modelli (§ 25).

Ne segue che <<una simile affermazione tende a confermare un’interpretazione dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002 secondo la quale tale disposizione esclude la protezione conferita da detto regolamento nel caso in cui l’esigenza di realizzare una funzione tecnica del prodotto in questione sia l’unico fattore che abbia dettato la scelta fatta dal creatore di una caratteristica dell’aspetto di tale prodotto, mentre le considerazioni di altra natura, in particolare quelle connesse all’aspetto visivo di detto prodotto, non abbiano svolto alcun ruolo al momento della scelta di tale caratteristica.>>, § 26.

La Corte richiama quindi i §§ 40-41 della Conclusioni dell’AG , cit. sotto,  e dice che <<se la sola esistenza di disegni o modelli alternativi che consentano di realizzare la stessa funzione tecnica del prodotto in questione fosse sufficiente per escludere l’applicazione dell’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002, non si potrebbe evitare che un operatore economico faccia registrare, a titolo di disegno o modello comunitario, più concepibili forme di un prodotto che incorporano caratteristiche del suo aspetto determinate unicamente dalla sua funzione tecnica. Ciò permetterebbe a un operatore economico di godere, per un prodotto del genere, di una protezione in pratica esclusiva ed equivalente a quella offerta dal brevetto, senza essere sottoposto alle condizioni applicabili al rilascio di quest’ultimo, e sarebbe tale da impedire ai concorrenti di offrire un prodotto che incorpori alcune caratteristiche funzionali o limiterebbe le soluzioni tecniche possibili e priverebbe pertanto detto articolo 8, paragrafo 1, del suo effetto utile.>>, § 30.

Ne segue che <<si deve dichiarare che l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002 esclude la protezione, ai sensi della normativa in materia di disegni e modelli comunitari, delle caratteristiche dell’aspetto di un prodotto laddove considerazioni di natura diversa dall’esigenza che detto prodotto assolva alla propria funzione tecnica, in particolare quelle connesse all’aspetto visivo, non abbiano svolto alcun ruolo nella scelta delle suddette caratteristiche, quand’anche esistano altri disegni o modelli che consentono di assicurare la medesima funzione. Si deve dichiarare che l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002 esclude la protezione, ai sensi della normativa in materia di disegni e modelli comunitari, delle caratteristiche dell’aspetto di un prodotto laddove considerazioni di natura diversa dall’esigenza che detto prodotto assolva alla propria funzione tecnica, in particolare quelle connesse all’aspetto visivo, non abbiano svolto alcun ruolo nella scelta delle suddette caratteristiche, quand’anche esistano altri disegni o modelli che consentono di assicurare la medesima funzione.>>, § 31.

In ultima analisi allora <<occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002 deve essere interpretato nel senso che, al fine di accertare se caratteristiche dell’aspetto di un prodotto siano determinate unicamente dalla funzione tecnica di quest’ultimo, occorre dimostrare che tale funzione è il solo fattore che ha determinato dette caratteristiche, non essendo determinante, al riguardo, l’esistenza di disegni o modelli alternativi>>, § 32.

La seconda questione riguarda il se il parametro soggettivo sia quello dell'<<osservatore obiettivo>>, § 33.

La -anche qui- veloce risposta della Corte è quella, secondo cui << 36  in considerazione della finalità perseguita dal regolamento n. 6/2002, in particolare, come si evince dal punto 28 della presente sentenza, di creare un disegno o modello comunitario direttamente applicabile e protetto in tutti gli Stati membri, spetta al giudice nazionale, al fine di valutare se le caratteristiche dell’aspetto di un prodotto rientrino nell’articolo 8, paragrafo 1, di tale regolamento, tenere conto di tutte le circostante oggettive rilevanti di ciascun caso di specie.  37 Come ha rilevato l’avvocato generale, in sostanza, ai paragrafi 66 e 67 delle sue conclusioni, una simile valutazione deve, segnatamente, essere effettuata con riguardo al disegno o modello di cui trattasi, alle circostanze oggettive indicative dei motivi che hanno dettato la scelta delle caratteristiche dell’aspetto del prodotto in questione, ai dati relativi alla sua utilizzazione o ancora all’esistenza di disegni o modelli alternativi che consentono di realizzare la stessa funzione tecnica, purché corroborati da elementi probatori affidabili>>.

Di conseguenza bisogna <<rispondere alla seconda questione dichiarando che l’articolo 8, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002 deve essere interpretato nel senso che, al fine di valutare se le caratteristiche dell’aspetto di un prodotto siano determinate unicamente dalla funzione tecnica di quest’ultimo, ai sensi di tale disposizione, spetta al giudice nazionale tenere conto di tutte le circostanze oggettive rilevanti di ogni caso di specie. A tal proposito, non occorre basarsi sulla percezione di un «osservatore obiettivo»>>, § 38.

Su questa lite però sono molto più interessanti le Conclusioni dell’AG HENRIK SAUGMANDSGAARD ØE 19.10.2017, C-395/16, che affrontano con ben diversa profondità il tema.  Tema assai importante nella pratica poichè, da un lato, la domanda di protezione delle forme è frequente e, dall’altro, spesso (soprattutto con riferimento ai marchi di forma, art. 9 c.p.i.) l’avverbio <<esclusivamente/unicamente>> viene letto come se fosse <<prevalentemente>>: quindi con un certo allontanamento dalla disposizione testuale.

Sulla distintività di un marchio di forma bidimensionale: interviene il Tribunale UE

Il  Tribunale UE con la sentenza 3 dicembre 2019 T-658/18,Hästens Sängar AB, c. EUIPO, impartisce alcuni insegnamenti in materia di marchi di forma, anche se bidimensionali. E’ noto che nella disciplina dei marchi di forma ci rientrano anche quelli bidimensionali, come precisa il Tribunale stesso.

Il marchio chiesto in registrazione era quello qui sotto riprodotto e per le classi indicate al § 3 : arredi tessuti vestiti e simili (classi 20 24 25 35)

L’esaminatore e anche la Commissione di Appello (Board of Appeal, BoA) rigettano la domanda per mancanza di distintività ex articolo 7 comma 1 lettera B del regolamento 1001 del 2017 secondo cui <<Sono esclusi dalla registrazione:  …; b) i marchi privi di carattere distintivo;>>

A parte altre due censure sulla motivazione , che qui non verranno considerate, il T. si sofferma su quella relativa alla violazione della regola sulla distintività

La Corte inizia ricordando alcuni principi noti e cioè che:

– è sufficiente un grado minimo di distintività, paragrafo 16;

-la distintività non ha nulla a che fare con la creatività, paragrafo 17

– marchi tridimensionali sono sottoposti alla stessa disciplina degli altri Marchi paragrafo 19.

Su quest’ultimo punto però il T. precisa che la percezione del consumatore medio non è necessariamente la stessa quando il marchio tridimensionale e consiste nell’ apparenza del prodotto stesso , § 20.

Infatt il consumatore medio non ha l’abitudine <<of making assumptions about the origin of products on the basis of their shape or the shape of their packaging in the absence of any graphic or word element, and it could therefore prove more difficult to establish distinctiveness in relation to such a three-dimensional mark than in relation to a word or figurative mark>>, § 21

Inoltre quanto più vicino la forma chiesta in registrazione ricorda la forma più usuale dei prodotti, tanto maggiore è il rischio che il marchio sia privo di ogni distintività, § 22. Infatti in tali casi <<only a mark which departs significantly from the norm or customs of the sector and thereby fulfils its essential function of indicating origin is not devoid of any distinctive character for the purposes of Article 7(1)(b) of Regulation 2017/1001>>, § 22.

Poi ricorda che la disciplina dei marchi bidimensionali si applica anche ai tridimensionali, § 23. Il che vale pure per il caso di un marchio figurativo che consiste in una parte della forma del prodotto che designa, poiché <<the relevant public will immediately and without further thought perceive it as a representation of a particularly interesting or attractive detail of the product in question, rather than as an indication of its commercial origin (judgment of 21 April 2015, Representation of a grey chequerboard pattern, T‑360/12, not published, EU:T:2015:214, paragraph 25)>> § 24 (la sentenza citata viene citata in moltri altri passi della sentenza).

Applicando queste regole al caso sub iudice, il T. trova che correttamente il BoA <<found that the mark applied for consisted of a representation of a fabric pattern, in other words the representation of the possible outward appearance of the goods covered by the application for registration, which are fabrics, are made from fabrics or have fabric surfaces>> § 33

Bisogna poi accertare se la domanda di marchio richiesto differisca significativamente dagli usi del settore, § 40.

E sul punto il BoA aveva deciso che <<the chequered pattern is a basic and commonplace style for fabric, since it is composed of a regular succession of squares of the same size which are differentiated by alternating different colours, in this case grey-blue and white. It deduced from this that the pattern did not contain any notable variation in relation to the conventional representation of a chequered design found everywhere in the field of textiles>>, § 41.

Il T. non ha motivo di censurare questa statuoizione, § 42

In fatti  in primo luogo <<43. …  the colours used in the pattern will be perceived by the relevant public as being used for aesthetic purposes or to display the goods and services in question and will not be sufficient, on their own, to distinguish the goods and services of the applicant from those of other undertakings (judgment of 19 September 2012, Fraas v OHIM (Tartan pattern in dark grey, light grey, black, beige, dark red and light red), T‑50/11, not published, EU:T:2012:442, paragraph 66)>>.

In secondo luogo <<44. … graphically, the representation of squares at issue does not contain any notable variation in relation to the conventional representation of such patterns and that, as a result, the relevant public will in fact only perceive a commonplace and everyday pattern (judgment of 19 September 2012, Tartan pattern in dark grey, light grey, black, beige, dark red and light red, T‑50/11, not published, EU:T:2012:442, paragraph 68)>>.

Di conseguenza, tenendo dei beni e servizi richiesti e il modo in cjui son percepiti dal pubblico rielvante, <<the mark applied for will not be understood and remembered as an indicator of the commercial origin of those goods and services>>., § 45

Il concetto di ordine pubblico nel diritto dei marchi europeo: si pronuncia l’avvocato generale

Sono state depositate la scorsa estate le Conclusioni dell’avvocato generale Bobek  nella causa C 240/18 P, Constantin Film Produktion GmBH contro EUIPO.

La Constantin Film Produktion  (di seguito: la ricorrente) domandava la registrazione del marchio dell’Unione Europea <<Fack Ju Göhte>> per i servizi di cui alle <<classi 3, 9, 14, 16, 18, 21, 25, 28, 30, 32, 33, 38 e 41 ai sensi dell’Accordo di Nizza relativo alla classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi ai fini della registrazione dei marchi, del 15 giugno 1957, come riveduto e modificato>>, § 7.

La domanda veniva respinta perché il marchio è contrario al buon costume e in particolare all’articolo 7 paragrafo 1 lettera F del regolamento 207/2009, secondo cui <<1.  Sono esclusi dalla registrazione:

(…)  f) i marchi contrari all’ordine pubblico o al buon costume;>>

(La  ricorrente aveva impugnato la decisione anche per il articolo 7 paragrafo 1 lettera B del medesimo regolamento, relativo alla carenza di distintività).

L’avvocato generale (di seguito: l’AG)  affronte in dettaglio i concetti di <<ordine pubblico>> e <<buon costume>> e l’eventuale sovrapposizione tra loro, spesso affermata.

Affronta dapprima il problema della libertà di espressione nel diritto dei marchi e dice che è meno tutelato di quanto avvenga in diritto d’autore:

<<  56.   In sintesi, pur non essendo un obiettivo primario del diritto dei marchi, la libertà di espressione vi resta evidentemente presente. In tale prospettiva, l’affermazione del Tribunale di cui al punto 29 della motivazione, è forse intesa a veicolare un concetto lievemente diverso: non che la libertà di espressione non svolga alcun ruolo nel diritto dei marchi, bensì che, al contrario di quanto avviene nel campo delle arti, della cultura e della letteratura, il peso che deve essere attribuito alla libertà di espressione nel settore del diritto dei marchi possa essere in qualche misura diverso, magari un po’ più leggero, nel bilanciamento complessivo di diritti ed interessi in gioco.    57. Se intesa in base al primo significato (letterale), l’affermazione di cui al punto 29 della sentenza impugnata è manifestamente erronea. Se interpretata in modo corrispondente al secondo significato appena esposto, siffatta affermazione è, a mio avviso, difendibile: sebbene la libertà di espressione, nonché altri diritti fondamentali potenzialmente in gioco, debbano essere presi in considerazione nell’operazione di bilanciamento complessivo, la tutela della libertà di espressione non è l’obiettivo primario della protezione dei marchi>>

Poi tratta il tema del rapporto tra ordine pubblico e buon costume, §§ 58 ss.

Ricorda al § 62 la funzione della del diritto di marchio, senza particolari innovazioni: << Generalmente si dice che la protezione di un marchio conferisce al relativo titolare un diritto esclusivo sul collegamento che il pubblico di riferimento effettua tra il titolare stesso e i prodotti o i servizi collegati (30). Ciò consente ai commercianti di imprimere nella mente del consumatore i loro prodotti o servizi, associando qualità, innovazione o altre caratteristiche all’immagine di uno specifico marchio. In tal senso, la Corte ha dichiarato che il diritto esclusivo conferito dalla protezione dei marchi ha il fine di garantire che il marchio possa adempiere la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto o del servizio nonché altre funzioni come quelle di indicare la qualità di tale prodotto e servizio o quelle di comunicazione, investimento e pubblicità >>.

Al § 69 e seg. affronta il tema della sovrapponibilità tra i due concetti : la sovrapponibilità può anche esserci, ma una differenza concettuale esiste . Vanno lettui i paragrafi 75-76 come premessa per poi passare agli §§ 78-80, dov’è esplicitata tale differenza.

E dunque la premessa è che <<  75.  Gli esempi sopra citati dimostrano che, nonostante la sovrapposizione tra le due categorie (che è una logica conseguenza della sovrapposizione tra norme giuridiche e norme etiche a cui esse si riferiscono), tra le due vi è anche un certo grado di differenziazione. Direi che vi è in effetti una differenza concettuale in relazione a come, da chi e riguardo a che cosa è definito il contenuto di ciascuna di tali categorie.   76. L’ordine pubblico è una concezione normativa di valori e obiettivi che la pertinente autorità pubblica stabilisce dover essere perseguiti ora ed in futuro, ossia in prospettiva. L’ordine pubblico esprime pertanto le intenzioni dell’ente normativo pubblico quanto alle norme che devono essere rispettate nel contesto sociale. Il suo contenuto dovrebbe poter essere accertato per mezzo di fonti ufficiali di diritto e/o documenti politici. Comunque sia espresso, in modo molto simile a tracciare una rotta, l’ordine pubblico deve anzitutto essere stabilito da una pubblica autorità e soltanto dopo può essere realizzato.  77. Il buon costume si riferisce, a mio avviso, a valori e convinzioni a cui una determinata società aderisce in un dato momento, stabiliti e attuati dal consenso sociale predominante nell’ambito di tale società in un dato momento. A differenza della natura discendente dell’ordine pubblico, il buon costume si sviluppa dal basso verso l’alto. Si evolve altresì nel corso del tempo: ma nell’accertarlo, lo sguardo è principalmente fisso sul passato e sul presente. Naturalmente, in termini di ciò che si vuole raggiungere, anche il buon costume è normativo e rivolto al futuro, nel senso che tale insieme di regole ha anche l’ambizione di indurre e di mantenere un determinato comportamento>>

In via applicativa ne segue che <<78.   La differenza fondamentale tra le due nozioni consiste nel modo in cui esse sono stabilite e dunque verificate. La Corte EFTA ha fatto riferimento ad una differenziazione analoga nell’ambito della direttiva 2008/95/CE , quando ha dichiarato che «il rifiuto basato su motivi di “ordine pubblico” deve fondarsi su una valutazione di criteri oggettivi mentre l’opposizione ad un marchio basata sul “buon costume” attiene ad una valutazione di valori soggettivi» .  79. Dal momento che l’ordine pubblico è strutturato in modo discendente, il suo contenuto può essere verificato «oggettivamente», in quanto detto ordine pubblico deve essere stato stabilito da qualche parte. L’ordine pubblico può dunque essere studiato «a tavolino» negli uffici delle autorità pubbliche, facendo riferimento a leggi, politiche e dichiarazioni ufficiali. Può essere necessario trovare la fonte esatta di una data affermazione politica, di modo che la relativa comunicazione (o piuttosto il rifiuto di prevedere qualcosa facendo riferimento all’ordine pubblico) soddisfi i criteri della prevedibilità, dell’assenza di arbitrarietà e della buona amministrazione. Tuttavia, una volta soddisfatti tali requisiti, occorrono volontà e ambizioni amministrative unilaterali.   80. Non si può, invece, dire lo stesso a proposito del buon costume. Quest’ultimo non può essere individuato al di fuori delle norme e del contesto sociali. La sua identificazione richiede almeno una qualche valutazione empirica di ciò che la società di riferimento (il pubblico in parola) considera, in un determinato momento, un’accettabile regola di condotta. In altri termini, per osservare se uno specifico segno è contrario al buon costume, è necessario avvalersi di mezzi di prova relativi al caso specifico per accertare in che modo il pubblico di riferimento reagirebbe, presumibilmente, se tale segno fosse apposto sui corrispondenti prodotti o servizi>>.

Non sfugge che le affermazioni dell’AG toccano temi di grande impegno teorico.

Quanto ai possibili esiti applicativi, <<in alcuni casi, le due categorie si sovrapporranno. Un buon grado di ordine pubblico dovrebbe idealmente riflettere e consolidare la moralità pubblica. In altri casi, ciò che inizialmente è stato soltanto ordine pubblico si trasformerà in modo graduale anche in buon costume>> ,§ 81.

Non bisogna però insistere <<nel trasformare la distinzione tra ordine pubblico e buon costume in una dissertazione accademica. Tuttavia, nell’ambito della presente causa, tale distinzione fa la differenza. Essa è importante proprio per sapere che cosa avrebbe dovuto essere preso in considerazione da parte dell’EUIPO e, indirettamente, del Tribunale, quando il primo ha respinto la domanda di registrazione della ricorrente invocando lo specifico impedimento del buon costume e il secondo ha accolto tale approccio>, § 82.

In sisntesi <<se intende far valere l’impedimento (assoluto) alla registrazione costituito dal buon costume, l’EUIPO deve dire, facendo riferimento alla percezione prevalente tra il pubblico in questione, per quale motivo ritiene che un dato segno offenderebbe il buon costume. Di certo non si propone che l’EUIPO debba effettuare uno studio empirico approfondito per stabilire in che cosa consista il buon costume in relazione ad un determinato segno. Infatti, condivido senza difficoltà la proposta che l’EUIPO ha formulato all’udienza, secondo cui il massimo che si può fornire è una «stima informata». Tuttavia, tale stima deve essere radicata in un contesto sociale specifico e non può ignorare la prova evidente che conferma o potenzialmente solleva dubbi su cosa l’EUIPO considera conforme o non conforme al buon costume in una data società in un dato momento>>, § 83.

Questo in generale.

Nel caso sub iudice secondo l’AG non ricorrono i parametri richiesti per ravvisare violazione del buon costume. Egli ricorda che secondo l’Ufficio il pubblico di riferimento è un pubblico generico e di lingua tedesca (§ 86) : per cui ha errato il Tribunale nell tener conto solo ed esclusivamente del segno, isolandolo dai più ampi elementi della percezione del contesto sociali, se provati, § 88.

In causa <<le parti hanno ampiamente discusso del fatto che il film «Fack Ju Göhte» fosse stato autorizzato ad essere proiettato con detto titolo e che non vi fosse, a quanto pare, alcuna restrizione all’accesso da parte di un pubblico giovane. Gli argomenti della ricorrente al riguardo suggerivano in sostanza che, se le rispettive autorità di controllo negli Stati germanofoni dell’Unione europea non avevano avuto alcun problema con il titolo del film, perché allora l’EUIPO dovrebbe sollevarne nel processo di registrazione di un marchio eponimo? L’EUIPO ha sostenuto, invece, che la normativa sull’uscita e la proiezione dei film in uno Stato membro è semplicemente una questione del tutto diversa dalla normativa europea in materia di marchi.>> § 89.

L’avvocato non è d’accordo con quest’ultima posizione dell’Ufficio.

E’ vero che astrattamente sono sistemi normativi diversi: <<ad un livello strutturale ed istituzionale, concordo con l’EUIPO: classificazione e regolamentazione dei film in uno Stato membro rappresentano veramente un sistema normativo diverso dal diritto dei marchi. Pertanto, ciò che un’autorità nazionale di controllo dei film ha deciso in relazione alle condizioni per l’uscita e la proiezione di un film non è certamente di per sé determinante ai fini della valutazione che deve essere effettuata ai sensi della normativa sui marchi e, a livello più specifico, a norma dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009.>>aragrafo 90.

Tuttavia. non ritiene <<che la valutazione possa fermarsi a quel punto. Anche se si tratta di sistemi normativi realmente diversi, vi è una sostanziale sovrapposizione tra tali sistemi paralleli: i due contesti di valutazione hanno come punto di partenza lo stesso pubblico e la valutazione della moralità e della trivialità nell’ambito dello stesso pubblico nello stesso momento o in un momento molto simile. A tale livello, come riconosciuto dallo stesso EUIPO (57), per inciso, il giudizio morale sulla trivialità di un’espressione è realmente importante. >>, § 91.

Ne segue che le precedenti valutazioni effettuate da vari organi nazionali << 92. (…) diventano effettivamente rilevanti. Se esistono e sono portate all’attenzione dell’EUIPO, le valutazioni di siffatti organi nazionali, che senza dubbio si trovano in una posizione migliore, rispetto ad un ufficio marchi dell’Unione europea, per valutare che cosa sia (im)morale e triviale in un dato momento in un dato Stato membro, dovrebbero essere tenute nella giusta considerazione.   93.    Naturalmente, ciò non impedisce all’EUIPO di concludere che il marchio richiesto è contrario al buon costume, soprattutto se tali principi devono essere accertati su scala europea. Tali conclusioni e prove empiriche, in particolare quando riguardano esattamente lo stesso spazio linguistico e geografico scelto dall’EUIPO per la propria valutazione, rendono tuttavia più stringenti i parametri della motivazione che l’EUIPO deve fornire se vuole distaccarsi da quanto gli organi nazionali hanno accertato essere i parametri accettabili di moralità nell’ambito dello stesso spazio, con riguardo, a quanto risulta, allo stesso pubblico e allo stesso momento>>.

Questo parametro non è stato rispettato nel caso de quo. << 94.  Nel caso di specie, tale parametro non è stato rispettato. Nelle varie fasi del procedimento dinanzi all’EUIPO così come dinanzi al Tribunale, la ricorrente ha posto l’accento, senza che tali dichiarazioni venissero contraddette, sul fatto che il film era stato un grande successo nei paesi di lingua tedesca, a quanto risulta senza dare adito ad una vera e propria disputa circa il titolo dello stesso; che il titolo del film aveva ricevuto le autorizzazioni del caso ed era stato ammesso alla proiezione per un pubblico giovane; e che la percezione positiva del film può essere altresì comprovata dal suo inserimento nel programma didattico del Goethe-Institut.     95.    Si ribadisce che nessuna di tali dichiarazioni è di per sé concludente. Del pari, la sorte del film non è decisiva per la registrazione di un marchio. Tuttavia, a fronte di prove così stringenti riguardo alla percezione sociale della moralità e della potenziale trivialità dello stesso identico titolo, l’EUIPO avrebbe dovuto dedurre argomenti molto più convincenti per poter affermare che, sebbene diversi organi del pubblico di lingua tedesca non valutassero l’espressione in grado di suscitare scetticismo in tale pubblico, non si può comunque registrare un marchio eponimo perché è un’offesa al buon costume arrecata allo stesso identico pubblico>>.

In generale <<una siffatta percezione secondo me riflette correttamente anche il ruolo svolto dal buon costume nell’ambito del diritto dei marchi dell’Unione europea. Dal momento che individuare e accertare il buon costume (nonché l’ordine pubblico) non è di certo la funzione principale dell’EUIPO(58), è difficile immaginare che l’EUIPO abbia l’incarico di iniziare improvvisamente a coniare una solida idea di buon costume, sganciata da quella che sembra essere prevalente nello Stato membro o negli Stati membri in questione (o piuttosto molto più severa di quest’ultima)>>, § 96.

L’AG  -per il caso che la Corte non concordi con quanto sopra-  affronta pure la questione della disparità di trattamento applicato dall’Ufficio rispetto ai precedenti giurisprudenziali, unitamente a quella della buona amministrazione.

Esaminati questi due concetti (§§ 108-111) , ricorda in particolare la decisione sul marchio <<Die Wanderhure>>, pure titolo di film, emessa il 28.05.2015 dalla commissione di ricorso dell’EUIPO nel caso R 2889/2014-4, che andò in senso opposto a quella impugnata nel caso in esame.

LAG precisa che <<l’imperativo della coerenza dell’approccio e dei criteri da applicare ha una conseguenza di carattere procedurale: è, naturalmente, sempre possibile discostarsi dal precedente approccio decisionale, ma motivando e spiegando in maniera coerente tale scostamento>>, §§ 111.

Alla luce di ciò, egli ritiene, <<che, date le innegabili somiglianze prima facie tra il contesto in cui è stata presentata la domanda di registrazione del segno di cui trattasi, da un lato, e la fattispecie relativa alla causa Die Wanderhure, dall’altro, nonché il fatto che la ricorrente abbia più volte fatto riferimento a tale decisione nelle sue osservazioni, sembra ragionevole aspettarsi che l’EUIPO fornisca (e il Tribunale richieda) una spiegazione plausibile in relazione alle differenti soluzioni raggiunte in tali due fattispecie.>>, § 117.

Perseguire l’obiettivo della coerenza nella prassi decisionale è un obiettivo a lungo termine, dice l’AG. <<Se si considera la molteplicità dei possibili scenari concreti a cui l’EUIPO si può trovare di fronte, il compito non è di certo semplice. Tali difficoltà non possono però essere invocate quale motivo per abbassare o addirittura rinunciare ai parametri quando si devono spiegare le ragioni di una decisione>>, § 124.

Tuttavia <<siffatto obbligo non significa che non si possa giungere ad una diversa soluzione in un caso specifico, se la differenza tra i casi è adeguatamente spiegata, o modificare completamente l’approccio interpretativo, se lo scostamento è comunicato e spiegato. L’analogia con il processo decisionale giudiziario a tale riguardo è alquanto evidente, sebbene naturalmente i parametri stabiliti in materia di motivazione non siano altrettanto stringenti. Agli organi giurisdizionali, analogamente, non è fatto divieto di cambiare la propria giurisprudenza nel tempo ma essi sono tenuti a spiegare un potenziale cambiamento di una data linea giurisprudenziale>>, § 125.

In entrambi i casi, il comune denominatore è l’eguaglianza di fronte alla legge, ma anche, dal punto di vista del destinatario di una decisione, la sua prevedibilità. Infatti <<anche l’operatore più prudente non può pianificare l’intera sua strategia commerciale se, in un determinato caso, si tiene conto di taluni elementi e l’approccio alla valutazione è, nell’insieme, piuttosto liberale e permissivo, mentre in circostanze concrete simili, relative all’applicazione delle stesse norme giuridiche ad un caso diverso, gli stessi elementi o elementi simili sono dichiarati privi di rilevanza e l’approccio complessivo è molto più rigoroso>>, § 126.

In sintesi, secondo l’AG il Tribunale è incorso in un errore di diritto <<per non aver sanzionato il fatto che l’EUIPO non abbia adeguatamente spiegato lo scostamento dalla propria passata prassi decisionale o non abbia motivato in modo congruo il fatto che sulla domanda di registrazione del segno controverso si dovesse decidere in modo diverso rispetto alla soluzione raggiunta in un caso simile, sottoposto all’attenzione dell’EUIPO da parte della ricorrente.>>, § 128.

Attendiamo ora di conoscere la posizione della Corte di Giustizia.

Su questo tema avevo segnalato il precedente del Tribunale Ue 12.12.2019, T-683/18, nel post <<Contrarietà all’ordine pubblico nel diritto europeo dei marchi>>, relativo al marchio denominativo-figurativo <<Cannabis Store Amsterdam>>, stranamente  non menzionato.