Contraffazione di opera musicale: la Corte d’Appello USA del nono circuito sul caso Skidmore v. Led Zeppelin

Da molto tempo pende la lite tra Skidmore e i Led Zeppelin.

Secondo l’allegazione del primo,  rappresentante del Trust Randy Craig Wolfe (creato alla sua morte dalla madre di Randy Wolf, già chitarrista di quel grandissimo gruppo che sono stati gli Spirit: v. voce in Wikipedia), i Led Zeppelin con la canzone Stairway to Heaven avrebbero copiato la canzone Taurus, scritta dal citato Randy Wolfe. Precisamente Skidmore non allega la copia dell’intera composizione Taurus, ma afferma solo <<that the opening notes of Stairway to Heaven are substantially similar to the eight-measure passage at the beginning of the Taurus deposit copy>>  (p.10, ove anche precisazioni musicali).:

Decide la lite la United States Court of Appeals del 9° circuito con sentenza (ormai divenuta molto nota) del 9 marzo 2020, processo (docket number) 16-56057.

La prima parte della sentenza riguarda l’individuazione della legge applicabile. Dopo ampia analisi storica, 15 ss, si afferma che questa è il Copyright Act del 1909 e non quello del 1976 e ciò nonostante il primo non proteggesse il sound recording. L’opera sub-judice era stata registrata nel 1967. Per i lavori non pubblicati il copyright è limitato alla deposit copy, che nel caso specifico consisteva di una sola pagina (p.7 e 18; fatti descritti a p. 8/9 ove anche il cenno ai contatti reciproci avuti dalle due band, al fine di provare l’access, su cui v. sotto). A p. 19 ss è esaminata la deposit copy.

La seconda parte della sentenza tratta dei requisiti secondo il diritto statunitense per aversi contraffazione. Sono due (p. 22):

1° l’attore deve aver un valido diritto sull’opera (Taurus, qui);

2° i Led Zeppelin devono aver copiato aspetti protetti dell’opera

Il requisito 2° a sua volta consiste di due componenti autonome:

A) coping

B) unlawful appropriation

Circa A) Poichè la independent creation è un’eccezione totale (complete defense, cioè eccezione che può far rigettare per intero la domanda) , l’attore , se non sa dare prova diretta, può provare il coping in via indiretto/presuntiva, dimostrando i) l’accesso e ii) significative somiglianze : profili che costituiscono il profilo nevralgico della decisione, p. 11-15.

Circa B) , le opere devono avere substantial similarities, p. 23 . Affinchè ciò avvenga, devono essere soddisfatti sia il test estrinseco che il test instrinseco : il primo compara le somiglianze ogggettive di specifici elementi espressivi, il secondo invece valuta <<from the standpoint of the ordinary reasonable observer”, with no expert assistance>>, p.23

Il requisito A (copying e, direi, nella forma del’access) è esaminato a p. 24 ss. Skidmore voleva provare il copying facendo suonare l’opera mentre testimoniava Page: affermava che osservarlo mentre ascolta, avrebbe reso possibile per la giuria capire le sue reazioni e quindi il suo atteggiamento circa la questione dell’accesso. La Corte ritiene non pertinente la prova richiesta, p. 24 (la richiesta era stravagante assai, sia in generale sia in presenza di un consumato uomo di mondo come Page). Il problema dell’accesso però è stato superato radicalmente, poichè Jimmy Page ammise di avere avuto una copia contenente Taurus anche se … negò di conoscere la canzone, p. 25  (cosa per vero sorprendente e in ogni caso interessante giuridicamente: se veramente non l’avesse mai sentita, è dubbio si sarebbe realizzato l’access all’opera, a meno di applicare una presuzione di conoscenza del tipo di quella prevuista per le dichiarazioni  recettizie dal nostro art. 1335 c.c.)

Nella parte 4 sono esaminate le istruzioni a suo tempo date alla giuria, che Skidmore contesta.

La più interessante è la prima, circa l’onere probatorio, p. 26 ss

I casi di copyright infringements spesso si riducono alla cruciale questione delle substantial similarities. In passato era opinione diffusa che questo profilo fosse legato a quello dell’accesso, per cui <<“a lower standard of proof of substantial similarity when a high degree of access is shown.” … . That is, “the stronger the evidence of access, the less compelling the similarities between the two works need be in order to give rise to an inference of copying.”>>, p.26

Regola invero poco comprensibile: ed infatti la Corte dichiara espressamente di abrogarla con un overruling , p. 26

Del resto il concetto di accesso non ha più molto senso nel mondo digitale, dice la Corte, visto che < increasingly diluted in our digitali interconnected World>> , p.  31

In ogni caso, nei limiti in cui il concetto di access ha ancora significato , <<the inverse ratio rule unfairly advantages those whose work is most accessible by lowering the standard of proof for similarity. Thus the rule benefits those with highly popular works, like The Office, which are also highly accessible. But nothing in copyright law suggests that a work deserves stronger legal protection simply because it is more popular or owned by better-funded rights holders>>. Infine, la inverse ratio rule <<improperly dictates how the jury should reach its decision. The burden of proof in a civil case is preponderance of the evidence. Yet this judge-made rule could fittingly be called the “inverse burden rule>>, p. 32 (v. anche il prosieguo importante nella seconda parte di p. 32).

Circa la seconda istruzione alla giuria (sull’originalità), la Corte ricorda la giurisprudenza sulla soglia minima di originalità richiesta: in particolare ricorda la notissima sentenza Feist ed altre successive: <<Even in the face of this low threshold, copyright does require at least a modicum of creativity and does not protect every aspect of a work; ideas, concepts, and common elements are excluded….Authors borrow from predecessors’ works to create new ones, so giving exclusive rights to the first author who incorporated an idea, concept, or common element would frustrate the purpose of the copyright law and curtail the creation of new works.>>, p. 33 (e p.38: <<originality requires at least “minimal” or “slight” creativity—a “modicum” of “creative spark”—in addition to independent creation>>).

Poi entra nel merito di teoria musicale, introducendo concetti come chords, arpeggio  o broken chord etc.. Infatti l’istruzione contestata diceva: <<that copyright “does not protect ideas, themes or common musical elements, such as descending chromatic scales, arpeggios or short sequences of three notes.>>, p. 35

La terza istruzione riguarda l’omissione di avere dato specifica istruzione alla giuria circa la <selection and arrangement theory>, p. 39 ss e spt. 43 ss: cioè un’istruzione circa la teoria per cui è proteggibile anche un’originale combinazione di elementi di per sè non originali. L’istanza è però respinta per motivi processuali cioè per non averla presentata in modo esplicito e autonomo (dunque con negligenza professionale dei difensori, direi).

E’ vero che Skidmore aveva evidenziato e invocato cinque elementi combinati, ma non li aveva invocati come originalità della combinazione: <<Skidmore and his expert underscored that the presence of these five musical components makes Taurus unique and memorable: Taurus is original, and the presence of these same elements in Stairway to Heaven makes it infringing. This framing is not a selection and arrangement argument. Skidmore never argued how these musical components related to each other to create the overall design, pattern, or synthesis. Skidmore simply presented a garden variety substantial similarity argument.>>, p. 44.        In altre parole Skidmore e i suoi esperti <<never argued to the jury that the claimed musical elements cohere to form a holistic musical design. Both Skidmore’s counsel and his expert confirmed the separateness of the five elements by calling them “five categories of similarities.” These disparate categories of unprotectable elements are just “random similarities scattered throughout [the relevant portions of] the works.”>>, p. 45.

Tale istanza dunque va rigettata <<because a copyright plaintiff “d[oes] not make an argument based on the overall selection and sequencing of. . similarities,” if the theory is based on “random similarities scattered throughout the works.”>>, 45/6. Infatti <<presenting a “combination of unprotectable elements” without explaining how these elements are particularly selected and arranged amounts to nothing more than trying to copyright commonplace elements.>>, p. 46. Solo una <<“new combination,” that is the “novel arrangement,” … and not “any combination of unprotectable elements . . . qualifies for copyright protection,”>>, p. 46

La mancanza di elementi originali e proteggibili in Taurus era la tesi centrale della difesa Led Zeppelin (dissenting opinion Ikuta, p. 60)

In sintesi, l’insegnamento sta qui: <<a selection and arrangement copyright is infringed only where the works share, in substantial amounts, the “particular,” i.e., the “same,” combination of unprotectable elements. …..A plaintiff thus cannot establish substantial similarity by reconstituting the copyrighted work as a combination of unprotectable elements and then claiming that those same elements also appear in the defendant’s work, in a different aesthetic context. Because many works of art can be recast  as compilations of individually unprotected constituent parts, Skidmore’s theory of combination copyright would deem substantially similar two vastly dissimilar musical compositions, novels, and paintings for sharing some of the same notes, words, or colors. We have already rejected such a test as being at variance with maintaining a vigorous public domain>>, pp. 46/7

A conclusione, la Corte così sintetizza così la propria posizione: <<This copyright case was carefully considered by the district court and the jury. Because the 1909 Copyright Act did not offer protection for sound recordings, Skidmore’s one-page deposit copy defined the scope of the copyright at issue. In line with this holding, the district court did not err in limiting the substantial similarity analysis to the deposit copy or the scope of the testimony on access to Taurus. As it turns out, Skidmore’s complaint on access is moot because the jury found that Led Zeppelin had access to the song. We affirm the district court’s challenged jury instructions. We take the opportunity to reject the inverse ratio rule, under which we have permitted a lower standard of proof of substantial similarity where there is a high degree of access. This formulation is at odds with the copyright statute and we overrule our cases to the contrary. Thus the district court did not err in declining to give an inverse ratio instruction. Nor did the district court err in its formulation of the originality instructions, or in excluding a selection and arrangement instruction. Viewing the jury instructions as a whole, there was no error with respect to the instructions. Finally, we affirm the district court with respect to the remaining trial issues and its denial of attorneys’ fees and costs to Warner/Chappell>> , p. 53 (in italiano, traduzione Google: <<Questo caso sul copyright è stato attentamente valutato dal tribunale distrettuale e dalla giuria. Poiché il Copyright Act del 1909 non offriva protezione per le registrazioni audio, la copia di deposito di una pagina di Skidmore ha definito l’ambito del copyright in questione. In linea con questa azienda, il tribunale distrettuale non ha commesso errori nel limitare la sostanziale analisi di somiglianza con la copia del deposito o la portata della testimonianza sull’accesso al Toro. A quanto pare, la denuncia di Skidmore sull’accesso è discutibile perché la giuria ha scoperto che i Led Zeppelin avevano accesso alla canzone. Affermiamo le contestate istruzioni della giuria del tribunale distrettuale. Cogliamo l’occasione per respingere la regola del rapporto inverso, in base alla quale abbiamo consentito uno standard inferiore di prova di sostanziale somiglianza in presenza di un elevato grado di accesso. Questa formulazione è in contrasto con lo statuto del copyright e noi annulliamo i nostri casi al contrario. Pertanto, il tribunale distrettuale non ha commesso errori nel rifiutare di impartire un’istruzione di rapporto inverso. Né il tribunale distrettuale ha commesso un errore nella sua formulazione delle istruzioni di originalità o nell’escludere un’istruzione di selezione e disposizione. Osservando le istruzioni della giuria nel loro insieme, non si sono verificati errori rispetto alle istruzioni. Infine, affermiamo il tribunale distrettuale per quanto riguarda le rimanenti questioni processuali e la sua negazione delle spese legali e dei costi per Warner / Chappell>>)

Come anticipato, cè una opinione (parzialmente) dissenziente del giudice Ikuta: il dissenso verte soprattutto sulla mancata istruzione data dalla Corte distrettuale circa l’originalità della combinazione di elementi di per sè non originali, scelta confermata dalla maggioranza e contestata da Ikuta, p. 63 ss (per altri profili di dissenso v. 69 ss.)

ora v. la nota anonima alla sentenza in Harvard law review https://harvardlawreview.org/2021/02/skidmore-v-led-zeppelin/

Marchi di forma: forme tecniche e valore sostanziale in un intervento della Corte di Giustizia

La Corte di Giustizia con sentenza 23 aprile 2020, causa C 237/19, relativa all’oggetto prodotto dalla impresa Gomboc, affronta la questione della tutela di un marchio di forma sia sotto il profilo della forma necessaria per ottenere un risultato tecnico sia sotto il profilo della forma che attribuisce un valore sostanziale.

Si tratta di questioni pregiudiziali non particolarmente difficili, a ben vedere, anche se magari in prima battuta possono generare qualche dubbio (come spesso succede nella non facile materia dei marchi tridimensionali).

La forma sub iudice è costituita da un oggetto che ha la peculiare caratteristica di avere un unico punto di equilibrio e di essere strutturato per tornare sempre in tale punto equilibrio. Precisamente: <<Un gömböc è un solido convesso di densità uniforme che, se poggiato su una superficie piana, ha un solo punto di equilibrio stabile e un solo punto di equilibrio instabile. Ha la proprietà di tornare da solo nella posizione stabile quando viene appoggiato in ogni altra posizione. Un oggetto con questa proprietà è detto anche “mono-monostabile”>> (voce Gomboc in Wikipedia Italia).

Maggiori dettagli scientifici nella voce inglese di Wikipedia.

Si veda dalla foto tratta da Wikipedia (dovrebe essere la stessa sub iudice):

La normativa pertinente è la direttiva 2008/95 e in particolare l’articolo 3 paragrafo 1 lettera E.ii) (forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico) e lettera E.iii) (forma che dà un valore sostanziale al prodotto).

Con la prima questione pregiudiziale la Corte deve decidere sulla forma tecnica e in particolare se <<ci si deve limitare all’esame della rappresentazione grafica di detto segno o se occorre anche tener conto di altri elementi di informazione, come la percezione del pubblico di riferimento>>, § 23 ss.

Qui la risposta non è difficile, se si va alla ratio della norma, la quale è ricordatga dalla CG:  <<l’obiettivo dell’impedimento alla registrazione previsto dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera e), ii), della direttiva 2008/95 consiste nel fatto di evitare che il diritto dei marchi sfoci nel conferimento a un’impresa di un monopolio su soluzioni tecniche o caratteristiche utilitarie di un prodotto, che possono essere ricercate dall’utilizzatore nei prodotti dei concorrenti. Tale impedimento alla registrazione intende in tal modo evitare che la tutela conferita dal diritto dei marchi si estenda oltre i segni che permettono di distinguere un prodotto o servizio da quelli offerti dai concorrenti, impedendo a questi ultimi di offrire liberamente prodotti che incorporano dette soluzioni tecniche o dette caratteristiche utilitarie in concorrenza con il titolare del marchio>>, § 25.

Inoltre <<la presenza di uno o più elementi arbitrari minori in un segno tridimensionale i cui elementi essenziali sono tutti dettati dalla soluzione tecnica che tale segno esprime non intacca la conclusione che detto segno è costituito esclusivamente dalla forma del prodotto necessaria ad ottenere un risultato tecnico>>, § 26 (precisazione importante a fini operativi, dato che spesso ci saranno elementi arbitrati).

Infatti <<le imprese non possano avvalersi del diritto dei marchi per perpetuare, senza limiti nel tempo, diritti esclusivi vertenti su soluzioni tecniche>>, § 27.

Inoltre  <<l’impedimento alla registrazione previsto dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera e), ii), della direttiva 2008/95, può trovare applicazione quando la rappresentazione grafica della forma del prodotto consente di percepire solo una parte di tale forma, a condizione che tale parte visibile di detta forma sia necessaria ai fini del conseguimento di un risultato tecnico di questo prodotto, non essendo, di per sé, sufficiente per ottenere un siffatto risultato>>, § 32.

Il che signifca -parrebbe-  che  se la parte visibile della forma è necessaria a produrre il risultato tecnico, il divieto opera anche se non è l’unica, dal momento che ce ne sono altre non visibili. Questa interpretazione parrebbe confermata dall’ultima parte del paragrafo 32 <<In tal senso, come indicato dalla Commissione nelle sue osservazioni scritte, detto impedimento alla registrazione è applicabile a un segno costituito dalla forma del prodotto interessato che non evidenzia tutte le caratteristiche essenziali richieste per ottenere il risultato tecnico ricercato, purché almeno una delle caratteristiche essenziali richieste per conseguire tale risultato tecnico sia visibile sulla rappresentazione grafica della forma di detto prodotto>>.

Concludenso, stanti questi presupposti teorici, è chiaro che il giudizio va dato in base ad elementi di informazione obiettivi e affidabili (§ 34),  non alle percezioni del pubblico. Queste ultime infatti <<ricadono in una valutazione che comporta necessariamente elementi soggettivi, che sono potenzialmente fonte di incertezze quanto alla portata e all’esattezza delle conoscenze di questo pubblico, circostanza che rischia di pregiudicare l’obiettivo perseguito dall’impedimento alla registrazione previsto dall’articolo 3, paragrafo 1, lettera e), ii), della direttiva 2008/95, che consiste nell’evitare che il diritto dei marchi conferisca a un’impresa un monopolio su soluzioni tecniche o caratteristiche funzionali di un prodotto.> § 35

Con la seconda questione pregiudiziale il giudice chiede se sia possibile far operare il divieto del valore sostanziale ex lettera iii)  quando è solo in ragione della percezione del pubblico che può essere attribuito al prodotto detto valore sostanziale, § 38. La domanda non è molto comprensibile

La risposta è positiva, perché il valore sostanziale non può che essere quello attribuito dal pubblico di riferimento cioè dei consumatori

Nel caso specifico poi il valore sostanziale sembra sia costituito non tanto dal fattore estetico, quanto del fatto che l’oggetto concretizza precedenti scoperte matematiche, § 45. Questo aspetto (che il valore sostanziale non derivi da un fattore estetico) è però irrilevante: la Direttiva chiede solamente che la forma attribuisca un valore sostanziale, qjuindi per qualunque ragione.

Pertanto anche qui la risposta è abbastanza semplice: quello che conta è solo che la forma sia motivo di acquisto per i consumatori (§§  41 e 47), a prescindere dalla ragione di ciò. Il punto è importante dato che in passato c’erano state interpretazioni diverse della disposizione: ma questa è ora diventata quella prevalente.

La terza questione pregiudiziale si divide in due parti . La prima riguarda il rapporto con la tutela da disegni e modelli: il giudice a quo chiede se il divieto di registrare forme dotate di valore sostanziale operi quando il prodotto è già tutelato come disegno un modello

La risposta, anche qui non è particolarmente difficile, è positiva, purché siano rispettate le norme dei rispettivi istituti: i quali quindi in sostanza operano autonomamente e cioè in via indipendente, §§ 51-54

Meno chiara è la seconda parte della terza questione: parrebbe riguardare il rapporto tra divieto di forme attributive di valore sostanziale e oggetti dotati di valore (o di destinazione) artistico-ornamentale. La risposta è senz’altro che si applica anche a questi oggetti : in particolare che il divieto non opera automaticamente solo perché questi oggetti siano merceologicamente classificati come <<decorativi di cristallo e ìceramica > e compresi i compresi nelle classi 14:21 dell’accordo di Nizza.

La precisazione parrebbe abbastanza ovvia

Marchi di colore nel diritto statunitense

La United States Court of Appeals per il circuito federale si pronuncia su un caso di marchio di colore: si tratta della sentenza 8 aprile 2020, in re: Forney OIndustries , Inc., caso n° 2019-1073: testo della sentenza qui e database della Corte qui .

Il segno era costituito da una fascia superiore nera e da una inferiore gialla, che scandeva degradando verso il rosso. Era applicato sul packaging di prodotti per la saldatura.

La descrizione fatta da Forney in sede di domanda è stata dapprima la seguente: <<“[t]he mark consists of a solid black stripe at the top. Below the solid black stripe is the color yellow which fades into the color red. These colors are located on the packaging and or labels.”>>, p. 2; successivamente questa : <<“The mark consists of the colors red into yellow with a black banner located near the top as applied to pack-aging for the goods. The dotted lines merely depict place-ment of the mark on the packing backer card.”>>, p. 3

In sede amministrativa era andata male a Forney, sia in prima che in seconda  istanza, p. 3.

La Corte di Appello federale ritiene che l’Appeal Board dell’United States Patent and Trademark Office (USPTO) abbia sbagliato sotto due profili nel negare la registrazione: <<we find that the Board erred in two ways: (1) by con-cluding that a color-based trade dress mark can never be inherently distinctive without differentiating between product design and product packaging marks; and (2) by concluding (presumably in the alternative) that product packaging marks that employ color cannot be inherently distinctive in the absence of an association with a well-defined peripheral shape or border>>, p. 6 (colore rosso aggiunto).

Circa (1)

La Corte ritiene che il marchio possa essere distintivo quando usato sul packaging: quello che conta, secondo la giurisprudenza della corte suprema, è verficare se il pubblico ricolleghi o meno un messaggio di indicazione d’origine, pagina 6

Nelle pagine seguenti La Corte dice che non ci sono precedenti specifici, ma ciononostante ne indica alcuni che possono essere utili

Tornando al caso specifico, ritiene che il marchio di Forney <<comprises the color red fading into yellow in a gradient, with a horizontal black bar at the end of the gradient. It is possible that such a mark can be perceived by consumers to suggest the source of the goods in that type of packaging. Accordingly, rather than blanketly holding that “[c]olors>>, p. 9.

Pertanto l’ufficio avrebbe dovueto accertare <<whether Forney’s mark satisfies this court’s cri-teria for inherent distinctiveness>>, p. 9.

Le disposizioni rilevanti sono il § 1051, § 1052 e § 1127 del 15 US Code (section 1, 2 e 43 del Lanham Act), p. 3.

Si tratta di aspetto pacifico nel diritto europeo, art. 4 reg. 2017/1001 e art. 3 dir. 2015/2436 (è più preciso il nostro art. 7 c.p.i.).

Circa (2)

Poi la corte passa al secondo profilo (necessità di localizzazione del segno sul prodotto) e ritiene che questa statuizione non sia compatibile con il precedente insegnamento.

Infatti, il cosiddetto trade dress (istituto paragonabile al nostro marchio di forma),<<“involves the total image of a product and may include fea-tures such as size, shape, color or color combinations, texture, graphics, or even particular sales techniques.”>>, p. 5. E’ registrabile <<if it serves the same source-identifying function as a trademark. Marks are entitled to protection if they are inherently distinctive, i.e., “their intrinsic nature serves to identify a particular source of a product.”>>, p. 5/6.

Ebbene, per il trade dress le questioni da valutare per concedere tutela sono le seguenti : <<(1) whether the trade dress is a “common” basic shape or design; (2) whether it is unique or unusual in the particular field; (3) whether it is a mere refinement of a commonly-adopted and well-known form of ornamentation for a par-ticular class of goods viewed by the public as a dress or or-namentation for the goods; or, inapplicable here, (4) whether it is capable of creating a commercial impression distinct from the accompanying words. Id. (collecting cases)>> (riferendosi alla sentenza Seabrook Foods del 1977).

Il giudice/l’ufficio deve valutare se il trade dress venga percepito come indicatore di origine, pagina 10 11

Pertanto , anche nella seconda questione, ciò che il Board deve valutare è semplicemente <<whether, as used on its product packaging, the combination of colors and the design those colors create are sufficiently indicative of the source of the goods contained in that packaging. And the Board must assess that question based on the overall impression created by both the colors employed and the pattern created by those colors>>Pagina 11.

Il Board ha allora sbagliato  nell’affermare <<that a multi-color product packaging mark can never be inher-ently distinctive. To the extent the Board’s decision sug-gests that a multi-color mark must be associated with a specific peripheral shape in order to be inherently distinctive, that too, was error>>  pagina 11

Di conseguenza viene annullata la sua decisione amministrativa e gli viene rimandata  affinché accerti in relazione agli usi proposti se <<Forney’s proposed mark is inherently distinctive under the Seabrook factors, considering the impression cre-ated by an overall view of the elements claimed>>, p.11

In sintesi , entrambe le questioni ( se il marchio di colore sia intrinsecamente non distintivo; se -presumibilmente, in caso di risposta negativa alla prcedente-  debba essere localizzato su una porzione specifica del packaging)  trovano risposta negativa: nel senso che l’unico criterio è quello di accertare se vengano percepiti come distintivi cioè come portatori di un indicazione d’origine dal pubblico (dai consumatori, diremmo noi) secondo i quattro fattori della sentenza Seabrook cit..

Ingannevolezza e malafede in un marchio denominativo/figurativo davanti all’EUIPO

La Commissione di Ricorso allargata dell’EUIPO il 2 marzo 2020 (procedimento R1499/2016-G, marchio n° 012043436) ha deciso su un’istanza di nullità relativa al marchio <<La Irlandesa 1943> qui riprodotto

I motivi di nullità sono due : ingannevoleezza del segno e malafede al momento del deposito. Ciò secondo l’articolo 59 Paragrafo 1 , lett .a-b, del reg. 1001 del 2017 (naturalmente per l’ingannevolazza il riferimento è poi all’art. 7 lett. g) del medesimo reg.)

L’ingannevolezza

Per la commissione tale nullità presuppone <<l’accertamento di un inganno effettivo o di un rischio sufficientemente grave di inganno del consumatore>> § 25

La commissione poi richiama la Direttiva sulle pratiche commerciali sleali e la definizione Ivi presente di ingannevolezza, paragrafo 26. Non è però spiegato il motivo del richiamo, probabilmente per recepire questa nozione nel diritto dei marchi. Sarebbe stato meglio però un passaggio argomentativo specifico.

la Commissione poi precisa che, una volta accertato un inganno effettivo o un rischio sufficientemente grave di inganno del consumatore, <<diventa irrilevante che il marchio richiesto possa essere percepito in un modo che non sia ingannevole. In effetti, in seguito, il marchio può indurre in ogni caso in errore il pubblico e non è pertanto in grado di assolvere il proprio ruolo, ossia quello di garantire la provenienza dei prodotti e dei servizi cui esso fa riferimento. (..) Come confermato dal Tribunale, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera g), RMUE, può applicarsi anche quando è possibile un uso non ingannevole del marchio in questione>> § 27-28

Nel caso specifico si trattava di latticini di provenienza dell’Irlanda e venduti in Spagna. Il rapporto di distribuzione commerciale era proseguito per molti anni ma era poi cessato. Nonostante ciò, l’ex distributore spagnolo aveva chiesto la registrazione del marchio europeo in questione.

Il marchio è descritto ai paragrafi 29-33 (v. anche la foto riprodotta sopra) e la commissione conclude al paragrafo 33 che c’è un richiamo diretto tra il marchio e l’origine geografica (difficilmente contestabile).

 La Corte conclude che il marchio è ingannevole e che lo era già al momento del deposito, paragrafo 34.

La prova sta nel fatto che le merci non provengono dall’Irlanda, come si desume dal fatto che nel catalogo complessivo dell’imprenditore spagnolo non c’è alcun prodotto di origine irlandese, paragrafo 36/39

La commissione aggiunge che il titolare del marchio contestato poteva utilizzare i prodotti in modo ingannevole (probabilmente si riferisce la dichiarazione integrative), ma che però non ha compiuto alcuno sforzo in tal senso (paragrafo 42).

A nulla del resto vale invocare precedenti dell’ufficio, paragrafo 46. Da un lato infatti bisogna che siano pertinenti e, dall’altro, <<l’applicazione dei principi della parità di trattamento e di buona amministrazione deve, però, essere conciliata con il rispetto del principio di legalità. Pertanto, la persona che chiede la registrazione di un segno come marchio non può invocare a suo vantaggio un’eventuale disparità commessa a suo favore o a beneficio altrui al fine di ottenere una decisione identica>>, § 46. In breve, eventuali errori passati non possono essere invocati per ottenerne la ripetizione.

Il marchio è quindi ingannevole e va dichiarato Nullo, paragrafo 48

Per curiosità si possono vedere le difese del titolare ai paragrafo 5 e 9.

La malafede

L’art. 59 § 1 recita così: <<Su domanda presentata all’Ufficio o su domanda riconvenzionale in un’azione per contraffazione, il marchio UE è dichiarato nullo allorché: a) …….; b) al momento del deposito della domanda di marchio il richiedente ha agito in malafede>>

La commissione ricorda che la legge non definisce il concetto e dunque va ricostruito dal decidente. Malafede va allora ravvisata <<laddove emerga da indizi pertinenti e concordanti che il titolare di un marchio dell’Unione europea ha presentato la domanda di registrazione di tale marchio, non con l’obiettivo di partecipare in maniera leale al gioco della concorrenza, ma con l’intenzione di pregiudicare, in modo non conforme alle consuetudini di lealtà, gli interessi di terzi, o con l’intenzione di ottenere, senza neppur mirare ad un terzo in particolare, un diritto esclusivo per scopi diversi da quelli rientranti nelle funzioni di un marchio, in particolare la funzione essenziale di indicare l’origine»>>Paragrafo 51

Si noti che, sebbene la malafede consista nel precedere il titolare del diritto alla registrazione e quindi costituisca illecito nei confronti di un soggetto determinato,  si tratta però di nullità assoluta, paragrafo 50 (v. anche in fine).

Inoltre <<l’intenzione del richiedente al momento pertinente è un elemento soggettivo che deve essere determinato con riferimento alle circostanze oggettive del caso di specie>>Paragrafo 51 e 55

Il giudizio richiesto sulla malafede prevede che si debbano valutare <<tutti i fattori pertinenti propri del caso di specie esistenti al momento del deposito della domanda di registrazione di un RMUE, in particolare: i) il fatto che il richiedente sapeva o avrebbe dovuto sapere che un terzo utilizzava, in almeno uno Stato membro, un segno identico o simile per un prodotto o servizio identico o simile e confondibile con il segno di cui è stata chiesta la registrazione; ii) l’intenzione del richiedente di impedire a detto terzo di continuare a utilizzare un siffatto segno e iii) il grado di tutela giuridica di cui godevano il segno del terzo ed il segno di cui veniva chiesta la registrazione>>, § 52 .

Inoltre si può anche tenere conto <<dell’origine del segno contestato e del suo utilizzo a partire dalla sua creazione, della logica commerciale nella quale si inserisce il deposito della domanda di registrazione del segno come marchio dell’UE nonché della cronologia degli avvenimenti che hanno caratterizzato la sopravvenienza di detto deposito>>, paragrafo 54

L’intenzione del richiedente può dedursi anche dalla situazione oggettiva di conflitto di interessi in cui la richiedente il marchio si è trovata adoperare paragrafo 56. Nel caso specifico può infatti essere dedotta dal concreto operato del titolare del marchio prima del deposito dalle relazioni contrattuali precontrattuali o postcontrattuali in vigore con la controparte oppure da altri doveri di lealtà scaturenti dall’aver ricoperto cariche particolari all’interno dei rapporti commerciali , paragrafo 56

In sintesi la malafede <<è connessa … ad una motivazione soggettiva della persona che presenta una domanda di registrazione di marchio, vale a dire a un’intenzione fraudolenta o ad altro motivo ingannevole. Essa implica un comportamento che si discosta dai principi riconosciuti come caratterizzanti un comportamento etico o dalle leali consuetudini in materia industriale o commerciale>>Paragrafo 57

Il richiedente sapeva bene che il Marchio era ingannevole, avendo subito già decisioni sfavorevoli all’inizio degli anni 2000 per marchi sostanzialmente uguali a quello sub judice, paragrafo 63. Inoltre gioca anche il fatto che c’è stato un rapporto di distribuzione commerciale per oltre 30 anni, paragrafo 65.

Pertanto <<in considerazione della summenzionata cronologia degli eventi, è chiaro che il primo marchio (spagnolo) «LA IRLANDESA» della titolare del MUE ha avuto origine dal rapporto contrattuale tra le parti. Non si tratta di un marchio che nasce indipendentemente da questa relazione commerciale, ma è direttamente associato all’origine irlandese dei prodotti che la titolare del MUE era stata autorizzata a vendere in Spagna dalla seconda richiedente la nullità. Si può pertanto concludere, come sostenuto dalle richiedenti la nullità, che il marchio contestato è stato inizialmente creato e depositato dalla titolare del MUE nell’ambito della relazione commerciale tra le parti e che il suo scopo iniziale era pertanto quello di distinguere gli alimenti venduti dalla titolare del MUE aventi origine irlandese>>, paragrafo 67

Le prove hanno evidenziato che non c’è più legame con l’origine irlandese § 68: per cui era irragionevole commercialmente depositare il marchio sub-judice paragrafo 69

Visto poi che la richiedente non ha giustificato sotto il profilo economico commerciale quel tipo di marchio, emerge dagli atti <<che la titolare del MUE abbia intenzionalmente chiesto la registrazione del marchio contestato per generare un’associazione con l’Irlanda e continuare a beneficiare dall’attività svolta durante la loro relazione commerciale, con l’intenzione e allo scopo di ottenere un indebito vantaggio dall’immagine di cui godono i prodotti irlandesi>>Paragrafo 70.

E dunque, ricordando che l’intenzione di Malafede va desunto anche da Fattori oggettivi, nella fattispecie i fattori oggettivi <<derivano dall’utilizzo, in modo ingannevole, del marchio contestato e dalle decisioni pronunciate in precedenza dalla corte spagnola e dall’EUIPO, nonché dalla pregressa relazione commerciale, ora conclusa, con la seconda richiedente la nullità. In considerazione di queste circostanze particolari, è possibile concludere che la titolare del MUE, nel depositare il MUE contestato, intendeva continuare a ingannare il pubblico circa l’origine geografica dei prodotti e trarre vantaggio dalla buona immagine dei prodotti irlandesi, così come faceva quando la relazione con la seconda richiedente la nullità era ancora in corso>> § 72.

Una siffatta condotta falsa misura rilevante il comportamento economico dei consumatori paragrafo 73.

In conclusione dunque <<è possibile accertare l’intenzione fraudolenta della titolare del MUE al momento del deposito del marchio contestato, ossia che esso è stato depositato deliberatamente allo scopo di generare un’associazione con l’Irlanda e, quindi, è stato depositato in malafede >> § 74

Il punto più interessante di questa decisione riguarda il rapporto tra malafede ingannevolezza. Il motivo della malafede, pur essendo sostanzialmente direzionato verso un concorrente determinato, è causa come detto di nullità assoluta e quindi dovrebbe trovare la sua ragione nella tutela dell’interesse generale (soprattutto dei consumatori).

Tuttavia di per sé la malafede (l’intenzione prava) non può essere semplicemente il voler frodare il pubblico, dal momento che questa fattispecie è meglio è governata da dal motivo di nullità della ingannevolezza. L’intenzione prava/malafede sembra proprio quella direzionata verso uno o più soggetti determinati, poer cui dovrebbeessere sanzionata da nullità relativa: ma il dato testuale è inequivoco.

La commissione accenna implicitametne a questo aspetto nel passaggio appena riportato: <<l’intenzione di pregiudicare (…) gli interessi di terzi, o con l’intenzione di ottenere, senza neppur mirare ad un terzo in particolare, un diritto esclusivo>> (§ 51). Se ne desume che la mala fede copre ogni caso di intenzione “fraudolenta”, sia che pregiudichi in via diretta un concorrente determinato (anzi, forse non necessariamente un concorrente: a ben vedere è un’appropriazione di pregi), sia che non ne pregiuridichi alcuno in via diretta.  Certo che nel secondo caso pare avere la medesima area concettuale dell’ingannevolezza.

L’elemento soggettivo per il “recupero” dei profitti in caso di violazione di marchi: si pronuncia la Corte Suprema USA

Si è pronunciata la Corte Suprema statunitense nel caso Romag Fasteners v. Fossil Group con sentenza 23 aprile 2020.

Romag e Fossil avevano stipulato un accordo, in base al quale Fossil avrebbe utilizzato nei suoi prodotti in cuoio le cerniere di Romag. Questa però scopri che le aziende, fornitrici la compoensitica a Fossil, usavano cinture contraffatte.

Pertanto Romag citò in giudizio Fossil ed altri suoi venditori per violazione di marchio, secondo il § 1125.a del 15 US Code.

La Corte a quo aveva respinto la domanda di riconoscimento di profitti, perché la giuria, pur accettando che Fossil avesse agito duramente (callously), aveva però negato che avesse agito dolosamente (willfully).

La S.C. respinge il ragionamento, dato che <a plaintiff in a trademark infringement suit is not required to show that a defendant willfully infringed the plaintiff’s trademark as a precondition to a profits award>, p. 1.

L’opinione è  scritta da giudice Gorsuch. La norma centrale è il § 1117(a) del cit. 15 US Code :

<When a violation of any right of the registrant of a mark registered in the Patent and Trademark Office, a violation under section 1125(a) or (d) of this title, or a willful violation under section 1125(c) of this title, shall have been established in any civil action arising under this chapter, the plaintiff shall be entitled, subject to the provisions of sections 1111 and 1114 of this title, and subject to the principles of equity, to recover (1) defendant’s profits, (2) any damages sustained by the plaintiff, and (3) the costs of the action>.

Ne segue, visto che l’attore aveva agito in base al § 1125.a, che nel caso specifico non è richiesta la willfulf violation, la quale invece è richiesta solo per l’azione in corte secondo la lettera c) del § 1125.

La Corte prosegue dicendo che in molti altri punti il Lanham Act richiede specificamente l’elemento soggettivo: per cui la mancanza della menzione di esso nella disposizione invocata e significativo, pagg. 3/4.

Ancora, il soggetto leso invoca i principi di equity, menzionati nella norma sopra citata.

Secondo la Corte, però, è implausibile che ciò possa modificare la scelta normativa del Congresso, che altrove -come detto- richiede espressamente l’elemento soggettivo, p. 4.

Inoltre dice la Corte è dubbio che i principi di equity possono riferirsi all’elemento soggettivo negli illeciti di marchio: ciò perchè di solito essi <contain transsubstantive guidance on broad and fundamental questions about matters like parties, modes of proof, defenses, and remedies….Given all this, it seems a little unlikely Congress meant “principles of equity” to direct us to a narrow rule about a profits remedy within trademark law>, p. 5.

E’ però strano che nel concetto di <principles of equity> non possa rientrare la disciplina dell’elemento soggettivo negli illeciti, che non è certo di secondaria importanza: dalle menzioni fatte, forse, per la Corte l’equity comprende prevalentemente regole processuali..

Secondo la Corte, poi, è tutt’altro che chiaro che la tradizione del diritto dei marchi richieda la dolosità, prima di concedere il rimedio dei profitti; ammette però che in dottrina il dolo da taluno è richiesto e che altre sentenze non sono chiare sul punto, pp. 5/6.

Alla fine dunque il massimo che si può dire con certezza è che <Mens rea figured as an important consideration in awarding profits in pre-Lanham Act cases. This reflects the ordinary, transsubstantive principle that a defendant’s mental state is relevant to assigning an appropriate remedy>,  pp. 6/7.

Alla luce di ciò, conclude la Corte, l’elemento soggettivo è sì importante per decidere se il rimedio dei profitti  sia appropriato: ma questo è molto diverso dal dire che  è una precondizione necessaria per il rimedio medesimo. Precisamente: <we do not doubt that a trademark defendant’smental state is a highly important consideration in determining whether an award of profits is appropriate. But acknowledging that much is a far cry from insisting on the inflexible precondition to recovery Fossil advances>, p.7.

Sembra dire, in altre parole, che non è un  requisito necessario, ma che va comunque tenuto in conto. Il che sembrerebbe confermato dalla brevissima opinione concorrente del giudice Alito: <The decision below held that willfulness is such a prerequisite. App. to Pet. for Cert. 32a. That is incorrect. The relevant authorities, particularly pre-Lanham Act caselaw, show that willfulness is a highly important consideration in awarding profits under §1117(a), but not an absolute precondition. I would so hold and concur on that ground>.

Affermazione , comunque, che a me risulta poco chiara (l’elemento soggettivo serve per decidere o l’an o il quantum del rimedio) e forse riposante sulla natura di judge-made law del diritto statunitense.

Nella sentenza si dice che anche il giudice Sotomayor abbia dato una concurring opinion e nelle conclusioni lo è. Però inserisce qualche considerazione dissonante dal ragionamento di J. Gorsuch, ad esempio: <The majority suggests that courts of equity were just as likely to award profits for such “willful” infringement as they were for “innocent” infringement. Ante, at 5–6. But that does not reflect the weight of authority, which indicates that profits were hardly, if ever, awarded for innocent infringement>.

Da noi il rimedio del recupero dei profitti (anzi meglio del trasferimento dei profitti, dal momento che non è affatto detto che si tratti di un recupero dell’indebito) è previsto dal Codice di proprietà industriale all’articolo 125 u. c. .

Questa disposizione però non menziona l’elemento soggettivo: c’è allora da chiedersi se dolo/colpa siano o meno necessari. La risposta è negativa, se si riconosce al rimedio de quo natura restitutoria o di arricchimento senza causa; positiva, se invece gli si riconosce natura punitiva.

Non è chiaro nemmeno il rapporto con il rimedio risarcitorio. Una soluzione potrebbe essere la cumulabilità con il risarcimento del danno subìto, ma solo per il supero, non in toto.  Se ad es. il danno subito è 150 e i profitti sono 80, nessun trasferimenti di profitti ma solo risarcimento del danno. Se invece quest’ultimo è di 150 e i profitti 210, allora sarà riconosciuti sia il danno di 150 sia profitti per 60 (la differenza). Oppure i due rimedi potrebbero essere cumulabili solo in sede processuale tramite domande alternative , chiedendo l’accoglimento di quella che porti ad un importo più elevato.

Da ultimo, la disposizione nazionale non spiega come si calcolino i profitti e cioè quali costi siano deducibili dai ricavi: aspetto tremendamente importante nella pratica.

Sull’argomento v. il mio saggio Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietà industriale.

la delibera di nomina dell’amministratore costituisce proposta contrattuale e va dunque accettata dal nominato a pena di inefficacia

Una recente decisione del Tribunale di Milano fa chiarezza su una questione che dovrebbe essere di facile soluzione, ma che invece -soprattutto in dottrina- tale non è.

Si tratta del rapporto tra società e amministratori.

Nel singolare caso sub iudice, un soggeto figurava come amministratore pur senza aver mai accettato la carica e solo perchè la società , sulla base di delibera di nomina, aveva proceduto a darvi pubblicità anche se non era mai stata accettata dal nominato. Visto che istanze stragiudiziali di correzione erano risultate inutili, al soggetto nominato non restava che agire in giudizio con domanda di accertamento negativo e altre consequenziali

Diversi autori equivocano negando la natura pienamente contrattuale del rapporto ed affermando invece altre ricostruzioni, ad es. quella del rapporto organico o della fonte statuaria dei doveri. Ma si tratta appunto di equivoci: nel primo caso, confondendo il lato esterno (società-terzi) col lato interno (società-amministratore); nel secondo caso, confodnendo la fonte del rapporto con la determinazione del suo contenuto (certamente riferentesi -de relato- all’attuazione del programma sociale).

La fonte invece non può che essre un atto negoziale privato patrimoniale e dunque un contratto.

Vediamo cosa dice il Tribunale nella sentenza 5 marzo 2020, RG 15545/2017, rel. Mambriani, Turolla c. Lamiarata srl, il cui testo può leggersi in giurisprudenzadelleimprese.it :

<Invero, la delibera di nomina dell’amministratore è un atto negoziale proprio dei soci, che presuppone [termine equivoco, facendo pensare ad un’inesistente anteriorità cronologica: meglio, ad es., “porta all'”] l’instaurazione di un rapporto contrattuale con il futuro amministratore (..) e che ha come mero oggetto la sua nomina. La presenza dell’amministratore o la sua accettazione della nomina non sono quindi elementi necessari a integrare la validità di una delibera di questo tipo, in quanto tale atto si perfeziona semplicemente con il voto favorevole dei soci che superi il quorum previsto da legge o statuto. La delibera ha quindi – con riferimento al piano qui rilevante della instaurazione del rapporto di amministrazione con  l’amministratore nominato – l’assetto di una proposta contrattuale, con la conseguenza che l’accettazione della nomina da parte dell’amministratore non è un requisito di validità della stessa, bensì un posterius, un elemento successivo che integra la fattispecie di nomina dell’amministratore e che, quando manca, non comporta l’invalidità della deliberazione di nomina, essendo essa già di per sé perfetta a seguito della sua adozione da parte dell’assemblea>

Pertanto prosegue il Tribunale <l’accettazione è quindi un atto negoziale distinto dalla nomina ma necessario per perfezionare l’efficacia della stessa. Come sopra accennato, il rapporto che si instaura tra amministratore e società è di natura contrattuale, talché è solo con la manifestazione dell’ accettazione che la volontà del soggetto nominato si incontra con la volontà manifestata dall’assemblea dei soci con l’atto di nomina dando luogo alla conclusione del contratto (cfr. art. 1326, comma 1, c.c.)>

Come si legge, per il Tribunale la mancata accettazione della nomina (oggetto di delibera) non inficia la validità della delibera, ma la rende inefficace: <Pertanto, sulla base di quanto sopra rilevato, deve essere dichiarata l’ inefficacia della delibera di nomina del Turolla quale consigliere e presidente con consiglio di amministrazione assunta da Lamiarata in data 28 luglio 2014>.

Per vero il passaggio non è esattissimo: la delibera è in sè efficace (sotto questo profilo), dato che il negozio unilaterale ivi contenuto (la proposta di nomina) può produrre e produce i suoi effetti. Semplicemente la proposta non è stata accettata dall’oblato. Per cui è inesatto dire che la delibera è inefficace: piuttosto la proposta di nomina non è stata accettata e dunque il nominato non è mai stato amminisratore.

In altre parole, il contratto tra società e potenziale amministratore non è stato concluso, sicchè il rapporto di amministrazione non  è mai sorto.

Esiste il copyright sui tatuaggi? Un’interessante sentenza della Corte Distrettuale di New York

I fatti sono i seguenti. La ditta Solid Oak Sketches LLC (di seguito: l’attore) agisce in giudizio contro 2k Games Incorporated e contro Take-two Interactive Software Incorporated, del medesimo gruppo, (di seguito: i convenuti), affermando che costoro nei loro videogiochi riproducono illecitamente i tatuaggi impressi sul corpo dei giocatori, tatuaggi su cui l’attore vanterebbe un copyright-

La vertenza è stata decisa dalla Southern District Court di New York il 26 marzo 2020, giudice Laura Taylor Wayne.

I convenuti sviluppano e vendono videogiochi e annualmente rilasciano un videogioco, che raffigura le squadre della NBA, tra cui anche i singoli giocatori con i  loro tatuaggi, pagina 3

Secondo l’attore, i convenuti hanno violato i suoi diritti, diffondendo opere per i quali era l’attore a detenere il copyright : in particolare sui cinque tatuaggi dipinti sui giocatori (dell’NBA) Eric Bledsoe, LeBron James, and Kenyon Martin, p.3.

L’attore ha licenza esclusiva su ciascuno di questi tatuaggi. Tuttavia è accertato che non è autorizzato ad applicarli alla pelle delle persone nè gode di publicity Right o diritti di marchio sull’aspetto/immagine (likeness; di seguito: immagine) dei giocatori, pagina 3.

I giocatori , poi, avevano dato licenza sull’immagine ad NBA, con facoltà di cederlo a terzi : e NBA così ha fatto, cedendoli proprio a Take Two.

i giocatori avevano ceduto pure a Take-two direttamente il diritto di usare il loro immagine pagine 3/4 (era il medesimo diritto, quindi acquistato da Take-Two due volte?).

La sentenza è ben fatta, perché dettaglia le circostanze fattuali sub iudice: ad esempio a pagina 6 ss. descrive il videogioco e come vengono visualizzati in esso i tatuaggi.

A pagina 8/9 viene specificato che l’attore non è entrato nel mercato delle licenze dei tatuaggi nè ha mai creato un videogioco che li rappresenti nè ha dato licenze in tal senso: probabilmente per dire che non era in concorrenza con le convenute, a fini del fair use e in particolare del 4° fattore  (v. sotto).

La domanda attorea viene rigettata sostanzialmente per tre motivi: 1) uso de minimis; 2) licenze implicita, 3) fair use.

1) De minimis , p. 11

La Corte ricorda i requisiti per poter accogliere la difesa de minimis, menzionando precedente giurisprudenza:

<<“To establish that the infringement of a copyright is de minimis, and therefore not actionable, the alleged infringer must demonstrate that the copying of the protected material is so trivial ‘as to fall below the quantitative threshold of substantial similarity, which is always a required element of actionable copying.’” Sandoval v. New Line Cinema Corp., 147 F.3d 215, 217 (2d Cir. 1998) (quoting Ringgold, 126 F.3d at 74).

The quantitative component of a de minimis analysis concerns (i) “the amount of the copyrighted work that is copied,” (ii) “the observability of the copied work – the length of time the copied work is observable in the allegedly infringing work,” and (iii) factors such as “focus, lighting, camera angles, and prominence.” Ringgold, 126 F.3d at 75 (citing 4 Melville B. Nimmer & David Nimmer, Nimmer on Copyright §§ 13.03[A][2] (1997)). “[O]bservability of the copyrighted work in the allegedly infringing work” is fundamental to a determination of whether the “quantitative threshold” of substantial similarity has been crossed. Sandoval, 147 F.3d at 217>>

Viene precisato che la somiglianza sostfanziale (Substantial similarity) va determinata <<through application of the “ordinary observer test,” which considers “whether an average lay observer would recognize the alleged copy as having been appropriated from the copyrighted work.” Rogers v. Koons, 960 F.2d 301, 307 (2d Cir. 1992) (internal quotation marks omitted). In other words, the Court considers “whether the ordinary observer, unless he set out to detect the disparities, would be disposed to overlook them, and regard their aesthetic appeal as the same.” Id. at 307-08 (internal quotation marks omitted). Summary judgment may be granted on a de minimis use claim when “no reasonable trier of fact could find the works substantially similar” >>, p. 11-12.

A pagina 13 vengono poi indicati i fatti che portano a ravvisare il non superamento della soglia de minimis:

  • The Tattoos only appear on the players upon whom they are inked, which is just three out of over 400 available players. The undisputed factual record shows that average game play is unlikely to include the players with the Tattoos;
  • even when such players are included, the display of the Tattoos is small and indistinct, appearing as rapidly moving visual features of rapidly moving figures in groups of player figures;
  • furthermore, the Tattoos are not featured on any of the game’s marketing materials.
  • when the Tattoos do appear during gameplay (because one of the Players has been selected), the Tattoos cannot be identified or observed.
  • the Tattoos are significantly reduced in size: they are a mere 4.4% to 10.96% of the size that they appear in real life. The video clips proffered by Defendants show that the Tattoos “are not displayed [in NBA 2K] with sufficient detail for the average lay observer to identify even the subject matter of the [Tattoos], much less the style used in creating them.”

Per cui la conclusione è: <<while Plaintiff previously asserted that NBA 2K “employs the broad range of the video game’s features to focus, angle the camera on, or make the subject tattoos more prominent” (March Ord. at 7-8), Plaintiff has not proffered any evidence to support that proposition. The undisputed evidence of record shows that Defendants’ use of the Tattoos in NBA 2K falls below the quantitative threshold of substantial similarity.>> , p. 14.

2) Licenza implicita, p.  14 seguenti

I convenuti affermano di aver avuto una licenza implicita di raffigurare i tatuaggi come parte della licenza sull’immagine.

Anche questa difesa viene accolta: <<Here, the undisputed factual record clearly supports the reasonable inference that the tattooists necessarily granted the Players nonexclusive licenses to use the Tattoos as part of their likenesses, and did so prior to any grant of rights in the Tattoos to Plaintiff. According to the declarations of Messrs. Thomas, Cornett, and Morris,

(i) the Players each requested the creation of the Tattoos,

(ii) the tattooists created the Tattoos and delivered them to the Players by inking the designs onto their skin, and

(iii) the tattooists intended the Players to copy and distribute the Tattoos as elements of their likenesses, each knowing that the Players were likely to appear “in public, on television, in commercials, or in other forms of media.” (Declaration of Justin Wright (“Wright Decl.”), Docket Entry No. 133, ¶ 10.)

Thus, the Players, who were neither requested nor agreed to limit the display or depiction of the images tattooed onto their bodies, had implied licenses to use the Tattoos as elements of their likenesses. Defendants’ right to use the Tattoos in depicting the Players derives from these implied licenses, which predate the licenses that Plaintiff obtained from the tattooists.>>, p. 15

Si notino le tre circostanze sub i-ii-iii.

La Corte su questa eccezione conclude dunque: <<Therefore, Defendants had permission to include the Tattoos on the Players’ bodies in NBA 2K because the Players had an implied license to use the Tattoos as part of their likeness, and the Players either directly or indirectly granted Defendants a license to use their likenesses.>>, p. 16

3) Fair use counterclaim (corrisponde al nostro domanda/eccezione riconvenzionale)

La disposizione sul fair use è contenuta nel paragrafo 107 il capitolo 17 del US code che così recita:

<<Notwithstanding the provisions of sections 106 and 106A, the fair use of a copyrighted work, including such use by reproduction in copies or phonorecords or by any other means specified by that section, for purposes such as criticism, comment, news reporting, teaching (including multiple copies for classroom use), scholarship, or research, is not an infringement of copyright. In determining whether the use made of a work in any particular case is a fair use the factors to be considered shall include—

(1) the purpose and character of the use, including whether such use is of a commercial nature or is for nonprofit educational purposes;

(2) the nature of the copyrighted work;

(3) the amount and substantiality of the portion used in relation to the copyrighted work as a whole; and

(4) the effect of the use upon the potential market for or value of the copyrighted work>>.

Si notano i quattro requisiti che il giudice deve considerare, per decidere se ricorra o meno il fair use e che pure la Corte ha esaminato, uno per uno.

Circa 1),  pp- 17-19, la Corte ravvisa la natura transformative cioè elaborativa del uso dei tatuaggi. Si osservi il dettaglio fattuale con cui il giudice arriva a questa conclusione : dicendo d’esempio che i tatuaggi appaiono in una dimensione dal 4,4% al 10,96% della loro dimensione reale, pagina 18.

Circa 2) , la Corte osserva che tale fattore va così inteso: <<This factor “calls for recognition that some works are closer to the core of intended copyright protection than others, with the consequence that fair use is more difficult to establish when the former works are copied.” Blanch, 467 F.3d at 256 (internal quotation marks omitted). Courts consider two factors in evaluating whether the copyrighted work is of the nature that is conducive to fair use: “(1) whether the work is expressive or creative . . . or more factual, with a greater leeway being allowed to a claim of fair use where the work is factual or informational, and (2) whether the work is published or unpublished, with the scope for fair use involving unpublished works being considerably narrower.>>, p. 19.

E sulla base di ciò ravvisa il fair use, dato che :

– l’attore riconosce che i tatuaggi erano già stati in precedenza resi pubblici,

– i tatuaggi sono più factual che expressive perché ciascuno di essi riproduce oggetti comuni e che non avevano creato gli autori del tatuaggio, pagina 19 20. Cioè in pratica l’originalità è modesta.

– gli stessi autorui del tatuaggio avevano riconoscouto di aver copiato motivi comuni e diffuisi., p. 20

Circa 3), il giudice rileva che i tatuaggi erano stati sì copiati per intero, ma solo per creare l’elaborazione e cioè realizzare un’esperienza di gioco realistica: cosa non evitabile, se si voleva permettere questa possibilità elaborativa, pagina 21

Circa 4), la Corte esamina l’incidenza sul business dell’attore, p. 21-22-. Qui il giudice dice, da un lato, che l’uso elaborativo non incide sul business dell’opera originaria (non lo priva di significant revenue); dall’altro, che è improbabile che si sviluppi un mercato del  licensing per i tatuaggi nei videogiochi o in altri media.

Per questo accoglie pure la domanda riconvenzionale di fair use.

La proteggibiltià dei tatuaggi tramite diritto d’autore non è questione nuova.

Dalla sentenza si ricava che, sebbene la risposta sia astrattamente positiva, i tre fattori addotti (soglia de minimis, licenza implicita, fair use) faranno si che concretamente la protezione d’autore verrà concessa con molta difficoltà.

Diritto alla riservatezza (anzi, all’identità personale) e archivio storico on line di notizie giornalistiche: Cass. 7599/2020

Con la sentenza 27 marzo 2020 n. 7559 la Cassazione, sez. I, relatore Campese, interviene sulla seguente fattispecie.

Il figlio di un noto imprenditore del settore tipografico (la SC ha ordinato l’anonimizzazione ex art. 52: v. dispositivo) aveva chiesto la rimozione e in subordine l’anonimizzazione di due articoli comparsi a suo tempo sull’edizione cartacea di un quotidiano e ora presenti nell’archivio storico nel sito internet del giornale. In ulteriore subordine aveva chiesto che venisse ordinato l’aggiornamento delle notizie, § 2.

Questi articoli riguardavano le vicende giudiziarie del padre, riportandone il rinvio a giudizio e la condanna: secondo l’attore, non riportavano l’evoluzione della vicenda, dato che il padre era poi stato prosciolto (in realtà sentenza di non luogo a procedere, precisa la SC sub § 5.10.3, in fine)

L’attore agiva in sede amministrativa presso l’Autorità Garante per la privacy ex art. 145 ss del testo allora vigente, ma senza successo.

Convenuti in causa erano e sono RCS Mediagroup spa (l’editore) e il Garante per la privacy.

Nel successivo processo presso il Tribunale di Milano veniva dato  atto che uno dei due articoli non risultava più indicizzato dai motori di ricerca ed era accessibile solo ai titolari di specifico diritto di accesso su quella banca dati. Il tribunale, alla luce di ciò e del fatto che l’altro articolo era stato aggiornato, respinse  tutte le domande del originario attore.

Il quale però non si ritenne soddisfatto e, secondo la precedente versione dell’articolo 145 c. 13 d. lgs. 196 del 2003, ricorse in Cassazione

Quest’ultima con la sentenza qui esaminata ripercorre analiticamente la giurisprudenza in materia, ricordando che non si tratta tanto di diritto alla riservatezza quanto di tutela dell’identità personale (ad es § 5.4.1).

la SC trova un precedente molto vicino al caso sub iudice nella vertenza decisa da  Cass. 5525 del 2012, paragrafo 5.8.2.

In quel caso si decise se esisteva un diritto soggettivo del singolo a che le informazioni, che lo riguardano, presenti on-line, fossero sempre e comunque costantemente aggiornate. La Corte in quel caso riconobbe che quel diritto esisteva.

Rimaneva tuttavia non chiaro come avrebbe dovuto essere messo in pratica questo dovere per gli archivi on-line, data la grande mole di notizie che devono gestire. In particolare, secondo la Cassazione qui in esame, quella decisione del 2012 non postulava <<un obbligo di aggiornamento operante solo (-come sembrerebbe più logico, e coerente con i principi emersi in ordine alla (ir)responsabilità del provider sino all’attivazione di una procedura di notice and take-down) a seguito della formale relativa richiesta dell’interessato; i giudici mirarono, piuttosto, ad affermare l’operatività di un tale obbligo a prescindere da qualsiasi iniziativa di chicchessia>>, § 5.9.1 [parentesi rosse aggiunte per chiarezza].

L’affermazione è importante: la SC sta dicendo che per l’aggiornamento delle informazioni inserite in un archivio pubblico (a maggior ragione se accessibile con restrizioni) tocca all’ineressato chiederlo: altrimenti il titolare del trattamento (l’editore) non ha obbligo di provvedervi. Suggerendo quindi una procedura analoga al c.d. notice and take down del Copyright Act USA ( § 512 del 17 US Code Limitations on liability relating to material online, lett. c), introdotto dal c.d. Digital Millenium Copyright Act).

La Suprema Corte, tornando alla vertenza sub iudice, ritiene la sentenza del tribunale non censurabile. Sintetizza così i passaggi più importanti:

<<procedendo al bilanciamento tra i diritti del singolo e quelli della collettività, e ritenendo (cfr. amplius, pag. 12-15 della decisione impugnata) che: i) una soluzione di ragionevole compromesso può essere, allo stato, quella adottata con i provvedimenti che impongono la deindicizzazione degli articoli sui motori di ricerca generali, la cui conseguenza immediata è che l’articolo e la notizia controversa sono resi disponibili solo dall’attivazione dello specifico motore di ricerca all’interno di un quotidiano. Tale semplice limitazione consente all’interessato di vedere estromesso dal dato che lo riguarda azioni di ricerca mosse da ragioni casuali o, peggio, futili; ii) tanto trova applicazione nell’ipotesi in cui il dato personale di cui si discute mantenga un apprezzabile interesse pubblico alla sua conoscenza, da valutarsi e da ritenersi sussistente in funzione non solo della perdurante attualità del dato di cronaca, ma anche in presenza del solo assolvimento del valore documentaristico conservativo proprio dell’archivio, sia pure integrato dagli aggiornamenti prescritti dalle Autorità intervenute in tema; iii) nel bilanciamento degli interessi contrapposti diritto al controllo del dato, diritto all’oblio del titolare dei dati personali e diritto dei cittadini ad essere informati – prevale, ex art. 21 Cost., il diritto della collettività ad essere informata con il conseguente diritto dei mezzi di comunicazione di informare in tutti i casi in cui il dato sia trattato correttamente e permanga nel tempo l’interesse alla sua conoscenza secondo i profili indicati; iv) non parrebbe corretto individuare il sorgere del diritto all’oblio quale conseguenza automatica del trapasso del soggetto interessato; v) analogamente, il venir meno dell’interesse collettivo alla conoscenza di determinati dati personali non coincide, in via automatica, con il passaggio a miglior vita del titolare. Allo stesso modo, il mero trascorrere del tempo non comporta, ex se, il venir meno dell’interesse alla conoscenza del dato di cronaca, criterio che, se opzionato, comporterebbe la non pertinenza di scopo di ogni archivio di stampa, cartaceo o informatico che sia>>, paragrafo 5.10.1.

Si tratta dei passaggi più importanti della sentenza del 2012, fatti propri da quella qui esaminata.  Segnalo l’importanza di quello in rosso, sulla prevalenza del diritto all’informazione.

In altre parole sussiste ex art. 21 Cost., un generale <<diritto alla conoscenza di tutto quanto in origine lecitamente veicolato al pubblico, con conseguente liceità del fine del trattamento dei dati personali contenuti in archivio; tale diritto incontra un limite, in applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11 nelle fattispecie in cui la permanenza del dato nell’archivio informatico, per la sua potenziale accessibilità, non paragonabile a quella di una emeroteca, comporti un tale vulnus alla riservatezza dell’interessato (con conseguente immediata ripercussione sulla propria reputazione) da minarne in misura apprezzabile l’esplicazione dei diritti fondamentali della persona in ambito relazionale.>>, § 5.10.1, in fine.

Ecco, quindi, prosegue la SC riportando passi del precedente del 2012, che <<”nel bilanciamento dei contrapposti interessi sussiste e permane l’interesse della collettività, ed in particolare del mondo economico, di “fare memoria” di vicende rilevanti per un soggetto che si presenta come primario centro di imputazione di interessi economici rilevanti per la collettività”, dovendosi, inoltre, “ricordare che, tra tutti i dati personali, quelli interessanti l’attività economica esercitata offrono la maggior resilienza all’azione di compressione esercitabile a tutela della riservatezza dei soggetti cui i dati pertengono. Non può, quindi, seriamente contestarsi il potenziale interesse pubblico a conoscere la storia di un primario attore nell’ambito economico nazionale, ivi incluse le lotte scatenatesi per il controllo azionario del gruppo societario in questione” (cfr. pag. 14 della menzionata sentenza)>>, § 5.10.3.

Qui va segnalato l’accento posto sulla minor comprimibilità dell’informazione relativa alle attività economiche: affermazione non da poco.

In definitiva, quindi, l’avere la società editrice <<provveduto alla deindicizzazione ed allo spontaneo aggiornamento dell’articolo “(OMISSIS)” dell'(OMISSIS) – unico su cui ancora esisteva controversia – è stato ritenuto dal giudice a quo come soluzione idonea a bilanciare i contrapposti interessi in gioco, conservandosi il dato pubblicato, ma rendendolo accessibile non più tramite gli usuali motori di ricerca, bensì, esclusivamente, dall’archivio storico de (OMISSIS), ed al contempo garantendo la totale sovrapponibilità, altrimenti irrimediabilmente compromessa, fra l’archivio cartaceo e quello informatico del medesimo quotidiano, nonchè il diritto della collettività a poter ricostruire le vicende che avevano riguardato il controllo dell’impresa P..>>, § 5.10.4.  Motivazione che viene condivisa dalla SC, § 5.11.

La SC infine ricorda al § 5.11.1 che la fattispecie trova oggi qualche regola nel GDPR:  – art. 9.2.j e art. 17.3.d sulla disciplina del trattamento necessario per <<fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici>>;  – art. 89 sul medesimo tipo di trattamento, soprautttutto ricordando l’obbligo di c.d. minimizzazione (cioè ex art. 5.1.c del reg.); – titolo VII del Regolamento, dedicato <<appositamente al trattamento a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici con la finalità di garantire la conservazione di quei dati che siano decisivi per la “memoria” della società>>: qui probabilmente la SC voleva riferirsi al titolo VII della parte II del cod. privacy d. lgs. 196 del 2003, art. 97 ss.

Secondo la SC dunque la necessità di trovare un punto di equilibrio tra gli interessi contrapposti (quelli del titolare del sito contenente l’archivio e quelli del titolare del dato, non più accessibile dai motori di ricerca generali) <<è stata ritenuta adeguatamente soddisfatta dalla deindicizzazione, unita allo spontaneo aggiornamento dei dati da parte del titolare del sito, considerata dal tribunale milanese come misura di protezione del singolo ponderata ed efficace, mentre l’intervento di rimozione sull’archivio storico informatico si sarebbe rilevata eccessiva e penalizzante così da danneggiare il punto di equilibrio degli interessi predetti. Può, dunque, concludersi nel senso che, il giudice di merito, nel considerare la permanenza dell’interesse alla conservazione del dato in ragione della rilevanza storico-sociale delle notizie di stampa, non ha violato le norme di legge (D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 2,4,7,11,23,101 e 102; art. 6 della Direttiva Comunitaria n. 95/46; art. 2 Cost.) anche in ragione delle cautele concretamente adottate e volte alla deindicizzazione della notizia dai siti generalisti, dovendosi solo aggiungere che il generico rinvio al link (OMISSIS), inserito nello spazio deindicizzato, non è tale da porsi in violazione delle norme di legge in materia, nè costituisce un argomento su cui censurare la decisione impugnata. Il bilanciamento degli interessi contrapposti, anche sotto questo ultimo aspetto, nel dare prevalenza alla storicità della notizia, ha consentito di inquadrare l’attività di mero richiamo dal sito deindicizzato, per il tramite di un link, nell’ambito di una attività lecita giuridicamente>>, § 5.11.3

Interviene la Cassazione a sezioni unite sulla forma del patto di intestazione fiduciaria (n. 6459 del 6 marzo 2020)

la Cassazione a sezioni unite del 6 marzo 2020 n. 6459, relatore Giusti, interviene sul tema in oggetto.

In particolare affronta due questioni: – la forma nel patto obbligatorio di ritrasferimento; – la valenza giuridica della dichiarazione di riconoscimento dell’obbligo di (ri-)trasferire al fiduciante rilasciata dal fiduciario

Nella parte motiva (a partire da <<Ragioni della decisione>>), i paragrafi 31-33 danno un resoconto delle principali questioni in tema di negozio fiduciario. Si tratta però di obiter dicta, visto che non rilevano per la soluzione delle questioni sottoposte alla Ccorte (ne dà atto anche il relatore, § 4).

Al paragrafo 5 ricorda gli orientamenti principali circa il problema della forma da dare al pactum fiduciae e in particolare dell’obbligo di successivo trasferimento.

Un  primo indirizzo giurisprudenziale (dominante) lo assimila al contratto preliminare e quindi applica articolo 1351 cc : stessa forma  del successivo negozio di trasferimento e dunque la forma scritta, paragrafo 5.1

Un altro indirizzo afferma invece la non necessità  di forma scritta, bastando anche l’impegno orale al pactum fiduciae, paragrafo 5.2

Ci sono infine altre due posizioni espresse da due Cassazioni del 2005 e del 2012, di ciascuna delle quali è riportato un passaggio: qui le tralascio, non essendovi ragionamenot su di esse,  paragrafo 5.3

Al paragrafo 6 il collegio affronta l’indirizzo dominante e ricorda che questo muove dalla equiparazione del pactum fiduciae al contratto preliminare, ma dice che va rimeditato, paragrafo 6.1. E’ infatti preferibile l’assimilazione del pactum fiduciae al mandato senza rappresentanza (ad acquistare) invece che al preliminare, dal momento che si tratta sempre di figure di interposizione reale di persona

Sempre al paragrafo 6.1 è ricordata la differenza tra preliminare e contratto fiduciario.  Si legge così: <<Nel preliminare, infatti, l’effetto obbligatorio è strumentale all’effetto reale, e lo precede; nel contratto fiduciario l’effetto reale viene prima, e su di esso s’innesta l’effetto obbligatorio, la cui funzione non è propiziare un effetto reale già prodotto, ma conformarlo in coerenza con l’interesse delle parti. Ne consegue che, mentre l’obbligo di trasferire inerente al preliminare di vendita immobiliare è destinato a realizzare la consueta funzione commutativa, la prestazione traslativa stabilita nell’accordo fiduciario serve, invece, essenzialmente per neutralizzare il consolidamento abusivo di una situazione patrimoniale vantaggiosa per il fiduciario a danno del fiduciante>>.

Che la commutatività sia diversa (sempre che ci sia nel mandato) è vero. Ma che nel contratto fiduciario l’effetto obbligatorio segua quello reale è errato: l’effetto reale segue sempre il patto fiduciario. Prima di far procedere il fiduciario con l’acquisto, o meglio prima di dotarlo delle ricorse economiche necessarie, il fiduciante avrà concordato le condizioni del’operazione tramite un pactum fiduciae.

La Corte prosegue sempre al § 6.1: <<Inoltre, l’obbligo nascente dal contratto preliminare si riferisce alla prestazione del consenso relativo alla conclusione di un contratto causale tipico (quale la vendita), con la conseguenza che il successivo atto traslativo è qualificato da una causa propria ed è perciò improntato ad una funzione negoziale tipica; diversamente, nell’atto di trasferimento del fiduciario – analogamente a quanto avviene nel mandato senza rappresentanza (art. 1706 c.c., comma 2) – si ha un’ipotesi di pagamento traslativo, perchè l’atto di trasferimento si identifica in un negozio traslativo di esecuzione, il quale trova il proprio fondamento causale nell’accordo fiduciario e nella obbligazione di dare che da esso origina.>>. Il che escluderebbe <<la possibilità di equiparare le due figure ai fini di un eguale trattamento del regime formale.>>

Anche qui la Corte è un pò  frettolosa.

Che il contratto definitivo abbia causa propria non è da tutti ammesso. In particolare è contestato dal maggior studioso del preliminare (Gazzoni), per il quale trattasi di pagamento traslativo. Va però detto che questa tesi alla fine risulta non del tutto persuasiva: per cui la soluzione dipenderà, direi, dal regolamento del caso specifico, non esistendone una sola sempre valida (v. il mio saggio https://www.academia.edu/10267514/Esecuzione_del_preliminare_di_vendita_con_atto_unilaterale_e_tutela_del_promissario_acquirente_contro_i_vizi_del_bene_acquistato).

Del resto le ragioni  a favore del controllo del bene prima dell’acquisto possono sussistere anche per il mandato (non quella del reperimento delle risorse, tipica dei preliminari ad esecuzione anticipata, essendo già state date al fiduciario al momento della stipula del pactum per il successivo acquisto dal terzo; anche se, a ben pensare, una dilazione non è totalmente impensabile, per cui potrebbe tornare l’equiparazione al preliminare).

Di conseguenza può ricorrere anche qui l’esigenza di un rinnovo dell’espressione della volontà, alla luce dell’esito di tale controllo: il che indurrebbe in tal caso ad attribuirle natura negoziale.

Una volta preso l’abbrivio della riconducibilità al mandato senza rappresentanza, la Corte applica la relativa disciplina della forma: la quale, stante il principio di libertà delle forme, potrà essere anche la forma orale, paragrafo 6.3

Qui è interessante esaminare le ragioni addotte dalla giurisprudenza per questa conclusione (come riportate in sentenza, § 6.3). Le quali sostanzialmente consistono: i) nel fatto che le esigenze di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto, proprie della forma scritta per i trasferimenti immobiliari, non ricorrono nel mandato senza rappresentanza, dal quale sorgono effetti solo obbligatori; ii) nel fatto che la articolo 1351 +è norma eccezionale.

Sub i) , il ragionamento non è persuasivo, dal momento che nel mandato l’effetto è sì obbligatorio ma azionabile poi tramite l’esecuzione in forma specifica ex articolo 2932 e dunque suscettibile di portare all’effetto traslativo.  Per cui le esigenze ivi indicate paiono rimanere.

Sub ii) , si apre un discorso molto ampio dato che l’eccezionalità dell’art. 2351 è sì affermata da molti ma anche seriamente contrastata da altri.

Comunque in sede interpretativa va tenuto conto di quanto appena detto e cioè che l’obbligo può diventare anche trasferimento e alla luce di ciò ampliare l’area semantica del concetto di “contratto preliminare”.

In altre parole si potrebbe pensare ad un’interpretazione estensiva nel senso di riferire la regola posta dal  1351 a tutti i negozi preparatori, che poi possono portare all’effetto traslativo tramite un obbligo giuridicamente sanzionato

La Corte non si confronta con simili riflessioni e al paragrafo 6.4 applica questa disciplina al negozio fiduciario: precisa infatti che per la validità del pactum fiduciae concernente i trasferimenti immobiliari non è necessaria ad substantiam la forma scritta.

A conferma di ciò, aggiunge, starebbe la prassi contrattuale: nel senso -se ben capisco- che le ragioni (di opportunità, di lealtà e di fiducia), che stanno alla base della scelta della fiducia cum amico, sarebbero incompatibili con l’onere della documentazione scritta. Il che può anche essere vero a livello fattuale, ma allora il discorso andrebbe probabilmente esteso a molte altre negoziazioni; la sua rilevanza in sede ermeneutica è però dubbia, anche per l’incertezza che genera (e senza appigli  normativi, quale ad es. una clausola generale). Valorizza invece il passaggio Lipari N., Oltre la fiducia, Per una teoria della prassi, nota alla sentenza, Il foro it., 2020/6, 1951 ss, favorevole al recepimento delle istanze della prassi , propositore di un’ottica degli <atti di ricoscimento> invece che solo degli <atti di posizione>.

Al paragrafo 7 la Corte affronta il secondo problema e cioè quale sia la rilevanza della dichiarazione del fiduciario in cui si riconosce debitore dell’obbligo di trasferire l’immobile al fiduciante. La Corte parla di <<posteriore dichiarazione scritta>> e sembra di capire che la intenda come <<posteriore all’acquisto che il fiduciario ha fatto dal terzo>>.

Le sezioni unite ritengono che si tratti di una dichiarazione solo ricognitiva, priva di  valore costitutivo. Infatti una volta ammessa la validità del patto fiduciario immobiliare verbale, l’obbligo di trasferire è già sorto, per cui la documentazione scritta di questi impegno, rilasciata successivamente, non può che essere ricognitiva.

Su questo punto il pensiero della Corte non è contestabile, alla luce della soluzione data alla prima questione.

La Corte precisa al § 7.3 che si tratta di promessa di pagamento ai sensi dell’articolo 1988 cc e che -cosa di non poco conto-  che la dichiarazione è valida anche se non titolata: cioè non è richiesto il riferimento al titolo dell’obbligazione (non è necessaria la c.d. l’expressio causae).

La Corte infine ricorda che, anche se fosse titolata, non diventerebbe una confessione, rimanendo invece una promessa di pagamento.