La Corte di Giustizia sull’ambito del giudicato di accertamento sottostante l’inibitoria: quando ricorre “la medesima violazione” accertata illecita, che può ritenersi contenuta nell’inibitoria e che dunque la viola?

La Corte con sentenza 03.10.2019, C-18/18, Eva Glawischnig‑Piesczek c. Facebook Ireland Limited, interviene con un’attesa sentenza sull’ampiezza del giudicato coperto dall’accertamento di illiceità, sottostante all’inibitoria di comportamenti futuri.

Userò indifferentemente i termini inibitoria e ingiunzione come pure inibire/ingiungere. Injunction in common law corrisponde grosso modo alla nostra inibitoria: solo che ha un contenuto molto più ampio (Mattei U., Tutela inibitoria e tutela risarcitoria, Giuffrè, 1987, 157/8)  e in particolare può avere anche contenuto positivo (si parla infatti oltre che di prohibitory injunction , pure di mandatory injunction: voce Injunction, in A Dictionary of Law Enforcement (2 ed.) a cura di Graham Gooch and Michael Williams, Oxf. Univ. Press, 2015). Da noi invece l’inibitoria è un ordine di cessazione (inibire=vietare), anche se teoricamente si potrebbe vietare una condotta omissiva, nel caso fosse dovuta una condotta positiva (in tema di responsabilità contrattuale, dunque; da vedere in quella aquiliana): difficilmente però, in tal caso ne seguirebbe la conseguenza logica di dover tenere una condotta positiva precisamente individuata (l’intercambiabilità tra ottica positiva e negativa è però affermata da Frignani A., voce Inibitoria (azione), Enc. dir., 1971, § 7 Contenuto: <<La contraddizione è soltanto apparente, in quanto ciò che si vuole impedire per il futuro (o inibire) è l’illecito in se stesso; e non c’è dubbio che l’illecito visto sotto il profilo della condotta, possa essere sia commissivo sia omissivo secondo il tipo di obbligo violato. Di conseguenza, di fronte ad un illecito commissivo si avrà una condanna ad un non facere, mentre, invece, in presenza di un illecito omissivo si avrà una condanna ad un facere. Bisogna tuttavia rilevare che si tratta di due aspetti dello stesso fenomeno, talvolta inscindibilmente legati l’uno all’altro, talvolta addirittura intercambiabili. Infatti, da un punto di vista teorico, anche l’inibitoria positiva potrebbe sempre essere rovesciata in una inibitoria negativa. Il che è quanto dire che il giudice invece di ordinare un determinato comportamento atto a far cessare l’illecito, potrebbe ordinare la cessazione dell’illecito tout court. In altri termini, sempre in linea puramente teorica, si potrebbe affermare che tutte le inibitorie positive potrebbero risolversi in altrettante inibitorie negative>>. In breve, da noi l’inibitoria in linea di massima ha contenuto solo negativo cioè ordina un’astensione (solamente un contenuto negativo per Basilico, La tutela civile preventiva, Giuffrè, 2013, 205-216, secondo cui quando ha un contenuto positivo si tratta di tutela contro l’inadempimento contrattuale). La traduzione italiana della sentenza usa il termine ingiunzione.

A dire il vero non è chiarissimo se riguardi pure la rimozione di materiale già caricato o solo l’inibizione o blocco di caricamenti futuri . Le cose potrebbero combinarsi, dal momento che qualche caricamento potrebbe sfuggire ai filtri: quindi  potrebbe succedere di dovere rimuovere ciò che oggi non c’è sul server del provider ma che in futuro ci sarà.

I fatti storici contemplano un post diffamatorio su Facebook inerente una politica austriaca: consisteva in un link ad altro sito (del quale il post offre un’anteprima) e un commento diffamante.

La questione giuridica sorta riguarda il se eventuali futuri comportamenti identici da altra fonte, oppure anche solo equivalenti, rientrino tra quelli oggetto dell’inibitoria. Anzi più precisamente la questione è affrontata dal punto di vista del contenuto dell’inibitoria e cioè nell’ottica del giudice che deve emetterla. Ma il problema si pone anche se il giudice nulla dice in proposito (non è scontato che il dictum giudiziale in tale caso vada interpretato in modo formalistico e rigoroso).

In sostanza il giudice a quo chiede  se il diritto europeo e in particolare l’articolo 15 paragrafo 1 direttiva 31/2000 (divieto di porre obblighi di sorveglianza o di ricerca generalizzati) osti ad un’inibitoria (anzi letteralmente: ad un obbligo di rimuovere, ma come detto poi il giudice lo interpreta anche come riferito ad un ordine di bloccare l’accesso futuro) di caricamenti di informazioni future “identiche” a quelle accertati illeciti e prescindere dall’uploader (cioè da chi metta on line le informazioni stesse). Cioè identiche nel contenuto ma non nel soggetto che le metta on line.

Chiede poi se osti ad inibitoria riferite a contenuti non identici a quelli accertati illeciti ma solo “equivalenti” ad essi. Qui però la Corte stranamente non menziona più il profilo soggettivo e cioè la questione della rilevanza dell’identità o diversità dell’uploader (cioè se faccia una qualche differenza, ai fini dell’inibitoria di informazioni equivalenti, che siano caricate dall’uploader originario oppure da un soggetto terzo)

Nell’ambito di tale questione si chiede poi  se gli effetti di tale ingiunzione possono essere estesi a livello mondiale

la terza questione pregiudiziale non è ben chiara e sembra riferita al dovere di trattamento di informazioni illecite non identiche bensì equivalenti , appena il gestore ne sia venuto a conoscenza: e cioè a prescindere, sembrerebbe, dal soggetto che glielo notifica. Di questa domanda , data la sua scarsa comprensibilità, non mi occupo (l’intero set delle questioni pregiudiziali non è però scritto o tradotto in modo molto chiaro).

Circa la prima domanda pregiudiziale la Corte afferma che il giudice può legittimamente esigere il blocco dell’accesso alle informazioni identiche a quelle già accertati illecite, a prescindere da chi sia l’uploader (<< qualunque sia l’autore della richiesta di memorizzazione>> par. 37).

E’ abbastanza semplice  arrivare a questa conclusione, dal momento che è certo che non ricorre il concetto di sorveglianza/ricerca generale ex art. 15 dir., unico aspetto rilevante presso la Corte .

Più complesso è il secondo quesito, relativo alla possibilità di inibire anche permanenza o caricamenti  di materiali o informazioni dal contenuto equivalente anziché identico a quello già accertato illecito

(si dovrebbe distinguere, dato che si può ordinare di : i) evitare caricametni futuri; ii) far permanere caricamenti passati già effettuati; iii) far permanere caricamenti futuri che venissero effettettuati nonostante i filtri perchè in violazione o comunque in superamento degli stessi)

Il giudice europeo ritiene che l’ingiunzione, per essere effettiva e cioè per far effettivamente cessa l’illecito/impedirne il reiterarsi, deve  potersi estendere alle informazioni equivalenti: cioè a quelle che recano sostanzialmente il medesimo messaggio, anche se formulato in modo leggermente diverso. Precisamente dice <<deve potersi estendere alle informazioni il cui contenuto, pur veicolando sostanzialmente lo stesso messaggio, sia formulato in modo leggermente diverso, a causa delle parole utilizzate o della loro combinazione, rispetto all’informazione il cui contenuto sia stato dichiarato illecito. Diversamente infatti, e come sottolineato dal giudice del rinvio, gli effetti inerenti a un’ingiunzione del genere potrebbero facilmente essere elusi tramite la memorizzazione di messaggi appena diversi da quelli dichiarati illeciti in precedenza, il che potrebbe condurre l’interessato a dover moltiplicare le procedure al fine di ottenere la cessazione dei comportamenti illeciti di cui è vittima>> (par.  41).

La Corte però ricorda che la tutela del soggetto le Ieso non è assoluta e deve conciliarsi con le esigenze di non imporre obblighi eccessivi al provider: è questa la ragione dell’articolo 15 comma 1 dir. 31 (§ 44). In applicazione di questo criterio, allora, afferma che le informazioni “equivalenti” sono quelle che <<contengono elementi specifici debitamente individuati dall’autore dell’ingiunzione>> (cioè dal giudice),  <<quali il nome della persona interessata dalla violazione precedentemente accertata, le circostanze in cui è stata accertata tale violazione nonché un contenuto equivalente a quello dichiarato illecito>> (§ 45). Si precisa pure che <<differenze nella formulazione di tale contenuto equivalente rispetto al contenuto dichiarato illecito non devono, ad ogni modo, essere tali da costringere il prestatore di servizi di hosting interessato ad effettuare una valutazione autonoma di tale contenuto>> (§ 45).

Ora, che debba esserci equivalenza anzi identità circa il nome della persona interessata (l’aggredito) e  equivalenza circa le circostanze relative alla violazione (nel caso: opinioni sulla politica di accoglimetno dei migranti) è condibvisibile e potrebbe essere non difficile da accertare in concreto. Potrebbe invece essere difficile accertare  l’equivalenza circa il resto del contenuto e cioè il giudizio negativo e diffamante sulla persona.

La Corte lodevolmente cerca di ridurre il margine di opinabilità e tutelare quindi la libertà imprenditoriale del provider, in mancanza di uno specifico Safe Harbor per la fase esecutiva delle inibitorie (non menziona la libertà di espressione e di inoformazine dell’uploader: probabilmente dato che in thesi si tratta di caricamente di materiali illeciti). Precisa che << la sorveglianza e la ricerca che richiede sono limitate alle informazioni contenenti gli elementi specificati nell’ingiunzione>> e che la ricerca dell’equivalenza non può <<il prestatore di servizi di hosting ad effettuare una valutazione autonoma, e quest’ultimo può quindi ricorrere a tecniche e mezzi di ricerca automatizzati>>: cioè par di capire deve essere palese, ictu oculi rilevabile (non dal soggetto medio di un certo paese ma dal livello medio di professionalità di un operatore del medesimo settore professionale) e deve essere verificabile invia automatica.

Inoltre il dovere è limitato , si badi, alle informaizoni <<contenenti gli elementi specificati nell’ingiunzione>>.

Il passaggio è importante: ad es in relazione alla norma italiana (assente nella direttiva) del 17 comma 3, D. LGS. 70/2003, che afferma la responsabilità civile per chi, richiesto dall’autorità, non abbia prontamente impedito l’accesso oppure, avendo comunque avuto conoscenza dell’illiceità, non ha informato l’autorità stessa. In particolare il riferimento è al primo caso: la violazione di una inibitoria inftti può avvenire anche quando il provider sbagli nella valutazione e ritenga non rientrare nel concetto di equivalenza ciò che invece ex post si accerta rientrarvi. In tal caso infatti  si avrebbe una mancanza di blocco dell’accesso, pur se richiesto dall’autorità: quindi integrandosi la fattispecie posta dal 17 comma 3 punto

In tal modo dice la CG l’ingiunzione non contrasta col divieto di sorvegnlianza rierca generale (§ 47).

La Corte però e sorprendentemente non dedica alcuna riga -salvo errore ad una prima lettura- a specificare se il dictum sull’inbitoria di conteuti equivalenti valga solo verso il medeismo soggetto già ritenuto autore dell’illecito o anche verso terzi. Dico sorprendentemente perchè la distinzione era stata fatta in modo netto dal’AG. Nè lo si capisce dal concetto di equivalenza: questo contiene anche il profilo soggettivo e, se si, lo ritiene discriminante o no? Il che è probabilmente una conseguenza dell’aver sin dall’inizio impostato le questioni pregiudiziali senza dare attenzione a questo punto, come si è segnlato sopra.

L’impressione traibile dal ragionamento svolto, però, è che la Corte ritenga compatibile col diritto UE  l’inibitoria riferita a condotte equivalenti a prescindere da chi possa caricare i materiali illeciti :  cioè non solo se caricati dall’autore del caricamento già accertato illecito, ma da chiunque

Circa la possibilità di inibitorie a livello mondiale il giudice dice che la Direttiva 31 non osta alla stessa. Saggiamente però fa presente -anche se in maniera non chiarissima (più chiaro è il relativo passaggio dell’AG) che  va tenuta in considerazione la coerenza della normativa dell’UE con le norme internazionali: in particolare aggiungerei -sulla scia di quanto detto dall’avvocato generale- il rapporto con la sovranità che gli altri stati esercitano sui loro territori e popolazioni. Pretendere infatti di bloccare caricamenti, che possono avvenire da qualunque parte del mondo, potrebbe essere ritenuto incompatibile con le sovranità nazionali sugli altri territori e con le rispettive legislazioni,le quali possono essere diverse (§ 100). E’ il problema delle cross-borders injuntions e cioè della possibilità di effetti extraterritoriali di un provvedimento giudiziale (analogamente, direi, al caso di esecizio della sovranità tramite non  l’organo giudiziario ma tramite quello legislativo e cioè tramite  una norma di legge che pretendesse di applicarsi anche all’estero): non nuovo nel dibattito giuridico.

La struttura del ragionamemento sul punto è analoga a quella della recente sentenza nel caso Google c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), del 24.09.2019, C-507/17 sul c.d. delisting nazionale, europeo o mondiale (l’analogia è negata da Andrej Savin  nel suo  EU Internet Law & Policy Blog , The CJEU Facebook Judgment on Filtering with Global Effect: Clarifying Some Misunderstandings 4 ottobre 2019). In entrambi i casi la Corte dice che il delisting mondiale non è contrario a specifiche norme di diritto UE, ma non è nemmeno imposto. dalle stesse (anche qui assai più utili sono le  Conclusioni dell’AG  10.01.2019, che guarda caso è il medesimo)

Passiamo alle conclusioni dell’avvocato generale (poi: AG) 04.06.2019, un po’ più articolate.

Dopo aver chiarito che il provider è soggetto ad ingiunzioni anche se non è responsabile delle informazioni e che la disciplina delle ingiunzioni spetta e diritti nazionali (§§  32-33), affronta il divieto di obbligo generale in materia di sorveglianza.

Ricorda che questo va inteso come sorveglianza sulla totalità o quasi totalità dei dati di tutti gli utenti del suo servizio ti richiama con ciò le sentenze L’Oreal e Scarlett x-tended (§ 35 ).

Qui introduce un’osservazione sulla cui esattezza bisognerebbe ragionare. Dice che se uno Stato potesse imporre una sorveglianza generale, il provider perderebbe il suo carattere tecnico, automatico e passivo e cioè non sarebbe più neutro (§ 36). il punto è discutibile, dal momento che, se la sorveglianza avviene tramite sistemi di filtraggio automatico, la passività del’ISP rimane. Mi  pare tuttavia una questione poco importante, dal momento che il divieto di sorveglianza/ricerca generale è posto dalla legge.

Inoltre l’AG dice che, anche non concordando con ciò, un provider che esercitasse sorveglianza generale potrebbe  essere ritenuto responsabile di qualsiasi informazione illecita, senza rispettare quindi le lettere a e b nel paragrafo 1 articolo 14 punto (§ 37). L’affermazione appare poco lineare e poco pertinente. Da un lato egli sarebbe responsabile non tanto delle informazioni ilecite, quanto del divieto della violazione di questo divieto di sorveglianza, cosa diversa. Dall’altro e soprattutto, ha poco senso ipotizzare uno scenario fattuale di sorveglianza/ricerca generale  che cozzerebbe con lo safe harbour dell’art. 14: lo avrebbe se mancasse un divieto di dovere di sorveglianza/ricerca generale, il quale invece c’è ed è espresso.

Il punto importante è la conclusione di questo passaggio (§ 40), secondo cui dal 14 paragrafo 3 dell’articolo 15 un obbligo imposto da uno Stato nazionale al provider tramite in ingiunzione non può avere la conseguenza di renderlo non più neutro rispetto alla totalità o quasi totalità delle informazioni memorizzate.

L’affermazione non mi pare esattissima perché confonde il fatto col giudizio, che vanno invece tenuti ben distinti. Il fatto è che il dovere di vigilanza riguarda tutte o quasi le informazioni e di tutti gli utenti: il che è condivisibile. Costituisce invece un giudizio il “rendere il provider  non più neutro”. Prima viene il fatto da valutare e poi viene la valutazione del fatto .

Al paragrafo 41 ricorda che si può senz’altro inibire una violazione futura e che ciò non contrasta con  il divieto di sorveglianza generale (§ 41).

Su questo non ci sono dubbi: il dato normativo non è equivoco.

Ricorda poi ai paragrafi 43 e 44 la sentenza L’Oréal che ha legittimato le inibitorie di “nuove violazioni della stessa natura da parte dello stesso commerciante nei confronti degli stessi marchi” (C. G. 12.07.2011,  C‑324/09, L’Oreal ed altri c. eBay, § 141.

Quindi un provider può essere costretto a rimuovere informazioni illecite non ancora diffuse, senza che la diffusione venga portata nuovamente a sua conoscenza tramite comunicazione ad hoc e in maniera separata rispetto alla domanda iniziale (AG § 44). il che sembra voler dire che non serve una nuova contestazione ed eventualmente un nuovo processo.

Deve trattarsi però di violazioni della stessa natura, dello stesso destinatario e nei confronti degli stessi diritti: § 45. Qui c’è forse una ripetizione poiché violazioni della stessa natura e nei confronti degli stessi diritti dicono forse la stessa cosa: una violazione del medesimo diritto costituirà spesso una violazione della stessa natura e così forse pure per il reciproco. Tuttavia dato il tasso di genericità dei concetti di “stessa natura” e “stessi diritti”, è inopportuno soffermarvisi, anche se nella pratica il profilo sarà assai importante.

In ogni caso l’AG ricorda e richiama le sue conclusioni nella causa McFadden C-484/14, § 132, in cui si dice che l’obbligo inibitorio “in casi specifici” (cons. 47 dir. 31) deve essere delimitato per l’oggetto e per la durata. Questi requisiti generali sono adattabili al caso specifico, prosegue l’AG, relativo ad un post su Facebook. dato che un host provider -quale FB- è in condizioni migliori per adottare misure di ricerca ed eliminazione informazioni illecite rispetto al fornitore di accesso (§  48).

Affronta poi (§ 49) il requisito della limitazione temporale, richiamando le sentenze L’Oréal, § 140, e Netlog, § 45 (dove però si legge <<implica una sorveglianza, nell’interesse di tali titolari, sulla totalità o sulla maggior parte delle informazioni memorizzate presso il prestatore di servizi di hosting coinvolto>>, mentre in L’Oreal l’ingiunzione era riferita solo ai marchi in causa). Dice che un obbligo di sorveglianza permanente è difficilmente conciliabile con il concetto di obbligo “applicabile a casi specifici” ai sensi del cons. 47 dir. 31.

L’affermazione non persuadegranchè , dal momento che l’inibitoria concernente un solo cliente, se non addirittura una singola opera o opere determinate, anche se illimitato nel tempo, non  può rientrare nel concetto di “sorveglianza/ricerca  generale”.

Potrebbe semmai confliggere con la necessità che le misure siano proporzionate e soggette a termini ragionevoli (art. 3 § 2 e § 1 della dir. 48/2004).

La sintesi è al § 50: <<Di conseguenza, il carattere mirato di un obbligo in materia di sorveglianza dovrebbe essere previsto prendendo in considerazione la durata di tale sorveglianza, nonché le precisazioni relative alla natura delle violazioni considerate, al loro autore e al loro oggetto. Tutti siffatti elementi sono interdipendenti e connessi gli uni agli altri. Essi devono essere pertanto valutati in maniera globale al fine di rispondere alla questione se un’ingiunzione rispetti o meno il divieto previsto all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31>> Rimarco il cenno al limite temporale della misura, poco trattato nei discorsi giuridici in tema: le inibitorie dovranno contenerlo  e sarà interessante vedere in concreto come verrà quantificato.

Ai §§  51-53 ripropone una sintesi del percorso svolto fino a quel momento.

Successivamente va al cuore del quesito sottoposto alla corte. Affronta il primo, il più semplice, cioè quello delle informazioni identiche dallo stesso utente o anche da altri utenti. Tenendo conto che si tratta di un’ordinanza cautelare [il che però appare irrilevante]  e che esistono strumenti informatici tali per cui l’attività del provider non consiste in un filtro attivo e non automatico, l’AG ammette la compatibilità col divieto di sorveglianza generale dell’inibitoria per violazioni identiche a carico e provenienti da qualunque utente (§§ 57 61). Sul punto  èstato quindi seguito dalla CG.

Poi affronta l’inibitoria su contenuti equivalenti. Ancora una volta, è questo il passaggio più importante e delicato

Ricorda che dalla domanda di pronuncia pregiudiziale il concetto di informazione equivalente <<riguarda le informazioni che divergono a malapena dall’informazione iniziale o le situazioni in cui il messaggio resta, in sostanza, immutato. Intendo tali indicazioni nel senso che una riproduzione dell’informazione qualificata come illecita, la quale contenga un errore di battitura, nonché quella che presenti una sintassi o una punteggiatura diverse, costituisce un’«informazione equivalente»>> (§ 67)

Poi ricorda che le violazioni in materia di proprietà intellettuale sotto questo profilo sono diverse delle violazioni dell’onore (diffamazioni). Infatti è più frequente nelle violazioni del primo tipo che ci sia la ripetizione della condotta accertata illecita,  mentre questo è insolito per le diffamazioni. In questa ultime dunque il riferimento ad atti della stessa natura non può svolgere lo stesso ruolo che svolge in materia di violazione della proprietà intellettuale : §§ 69-70. Altro punto non secondario: trovare il nucleo del fatto lesivo in una violazione di autore sarebbe più semplice che in una di diffamzione.

Sembra puoi dire che il riferimento a informazioni “equivalenti” incide sulla ampiezza dell’obbligo di sorveglianza e dunque che -se opportunamente modulato- rispetta il divieto di sorveglianza generale. Un giudice quindi in via inibitoria può statuire sulla rimozione di informazioni equivalenti ma <<deve (…) rispettare il principio della certezza del diritto e garantire che gli effetti di tale ingiunzione siano chiari, precisi e prevedibili.Nel farlo, tale giudice deve ponderare i diritti fondamentali coinvolti e tenere conto del principio di proporzionalità.>> (§ 72) .  Il suggerimento è astrattamente giusto ma generico e non aiuta ad applicarlo in concreto.

Pertanto, alla luce di  questa considerazione, al provider può essere  ordinato di individuare informazioni equivalenti a quella illecita, se provenienti dallo stesso utente: §  73

L’avvocato generale nega invece la possibilità di inibire caricamenti o permanenza di informazioni illecite equivalenti a carico di utenti diversi (qui non seguito dalla CG la quale -salvo errore- non fa la distinzione tra stesso utente/diverso utente). Questo perché <<73. (…) richiederebbe la sorveglianza della totalità delle informazioni diffuse attraverso una piattaforma di rete sociale. Orbene, a differenza delle informazioni identiche a quella qualificata come illecita, le informazioni equivalenti a quest’ultima non possono essere individuate senza che un host provider ricorra a soluzioni sofisticate. Di conseguenza, non soltanto il ruolo di un prestatore che esercita una sorveglianza generale non sarebbe più neutro, nel senso che non sarebbe soltanto tecnico, automatico e passivo, ma tale prestatore, esercitando una forma di censura, diverrebbe un contributore attivo di tale piattaforma. 74.      Inoltre, un obbligo di individuare informazioni equivalenti a quella qualificata come illecita provenienti da qualsiasi utente non assicurerebbe un giusto equilibrio fra la protezione della vita privata e dei diritti della personalità, quella della libertà d’impresa, nonché quella della libertà di espressione e di informazione. Da un lato, la ricerca e l’individuazione di siffatte informazioni richiederebbero soluzioni costose, le quali dovrebbero essere elaborate e introdotte da un host provider. Dall’altro, l’attuazione di siffatte soluzioni darebbe luogo ad una censura, con la conseguenza che la libertà di espressione e di informazione potrebbe essere sistematicamente limitata>>.

L’affermazione lascia un pò perplessi. Inibire contenuti equivalenti a quelli specificamente accertati illeciti non significa imporre un dovere di sorveglianza/ricerca generale, come era invece ad es. nel caso Sabam Netlog. E’ vero che nel caso qui sub iudice riguarda tutti gli utenti, ma solo circa i contenuti equivalenti a quelli accertati illeciti: quindi inibisce in modo molto specifico.

Secondo l’AG la ricerca delle informazioni equivalenti impone soluzioni sofisticate e quindi richiedenti investimenti finanziari.  Dal che seguirebbe che il suo ruolo non solo non sarebbe più neutro ma, esercitando una forma di censura, diventerebbe un contributore attivo della piattaforma.

Affermazione però poco condivisibile, poiché lo stesso avviene anche quando il controllo sulle informazioni equivalente riguarda un solo utente (quello autore del illecito o altro non conta). L’aumentare il numero delle persone sorvegliate, se il meccanismo è automatico, non rende il ruolo del provider attivo anziché passivo. Il filtraggio è automatico o per tutti o per nessuno: non può esserlo solo per uno o pochi e non per la genralità. Diverso sarebbe se avvenisse in via umana e manuale: allora sì farebbe la differenza il numero dei soggetti da sorvegliare. Così pure la necessità di adottare soluzioni tecnicamente sofisticate non ha nulla a che fare con la generalità della sorveglianza. questa concerne l’ambito oggetivo del controllo, non l’entità dei mezzi finanziari per realizzarlo. I mezzi finanziari per conseguire gli strumenti tecnici hanno a che fare con il livello di diligenza che è cosa diversa dal dato oggettivo della delimitazione dell’ambito da sottoporre a controllo.

Poi passa ad esaminare la possibilità di estendere l’inibitoria anche a livello mondiale. l’AG affronta quindi la questione della extraterritorialità del provvedimento di rimozione. La soluzione è negativa nel senso che -par di capire- è meglio che il giudice si autolimiti alla sfera dello Stato a cui appartiene, anche se astrattamente e formalmente la normative UE non vi osterebbe.

Ciò sulla base soprattutto dei seguenti argomenti, se ben capisco (ma il punto è complesso, richiedendosi un approfondimento internazionalprocessualistico): i) sarebbe di difficilissima attuazione pratica, se si segue l’insegnamento di C.G. 17.10.2017, C-194/16, Bolagsupplysningen OÜ-Ilsjan c. Svensk Handel AB, secondo cui la domanda di rimozione va posta al giudice competente a decidere sul risarcimento totale del danno (anzichè frazionato per Stato), il  quale giudicherebbe in base a una o più leggi applicabil (§§ 96): ed un giudice con competenza “totale” sarebbe difficile da trovare.

ii) Inoltre toccherebbe al soggetto leso dimostrare che l’informazione illecita secondo la legge applicabile delle norme di conflitto dello Stato europeo è tale pure secondo tutte le leggi potenzialmente applicabili (§97)? Onere improbo!

iii) Infine un ulteriore ostacolo consiste nel fatto che la tutela dei diritti fondamentali, antagonisti di quello azionato in giudizio può essere diversa nei vari Stati (§ 98-99): col rischio che in questi si rischierebbe di proibire l’accesso ad informazioni e quindi conculcare il diritto di informazione che è invece ammesso in base a quel medesimo Stato (§ 98/99).

In conclusione <<il giudice di uno Stato membro può, in teoria, statuire sulla rimozione di informazioni diffuse a mezzo Internet a livello mondiale. Tuttavia, a causa delle differenze esistenti fra le leggi nazionali, da un lato, e la tutela della vita privata e dei diritti della personalità da esse prevista, dall’altro [per inciso: distinzione superflua, dato che la tutela è prevista nelle leggi degli Stati] , e al fine di rispettare i diritti fondamentali ampiamente diffusi, un siffatto giudice deve adottare piuttosto un atteggiamento di autolimitazione. Di conseguenza, nel rispetto della cortesia internazionale, menzionata dal governo portoghese, tale giudice dovrebbe limitare, per quanto possibile, gli effetti extraterritoriali delle sue ingiunzioni in materia di pregiudizio alla vita privata e ai diritti della personalità (52). L’attuazione di un obbligo di rimozione non dovrebbe eccedere quanto necessario ad assicurare la protezione della persona lesa. Pertanto, invece di cancellare il contenuto, detto giudice potrebbe, se del caso, ordinare la disabilitazione dell’accesso a tali informazioni con l’ausilio del blocco geografico>> (§ 100).

Sull’ultima affermazione, mi  chiedo -ai fini della tutela del diritto all’informazione degli utenti- che differenza ci sia tra il dovere di rimuovere e il dovere di bloccare gli accessi: in entrambi infatti gli utenti interessati non possono accedere a quelle informazioni,.

Sulla bancarotta fraudolenta documentale

Circa il reato in oggetto la Corte di Cassazione offre una messa a punto dell’elemento oggettivo.

Si legge questo al punto 2.1 di Cass. pen., V, n. 32867 del 15.05.2019 (ud.)-22.07.2019 (dep.):

<<In particolare, nel delitto di bancarotta fraudolenta documentale, l’interesse tutelato non è circoscritto ad una mera informazione sulle vicende patrimoniali e contabili della impresa, ma concerne una loro conoscenza documentata e giuridicamente utile, sicchè il delitto sussiste, non solo quando la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari del fallito si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili sono state tenute, ma anche quando gli accertamenti, da parte degli organi fallimentari, siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza (Sez. 5 n. 1925 del 26/09/2018, Rv. 274455)>>

Significativa è l’affermazione, per cui non rileva solo l’impossibilità di ricostruire gli affari del fallito, ma anche la semplice “difficoltà” di farlo, qualora sia superabile solamente con  una particolare diligenza.

Dunque e a contrario,  l’elemento oggettivo non ricorre se la difficoltà è invece superabile con una diligenza “modesta”.

L’aggettivo “particolare” parrebbe infatti da intendere appunto come “signficativa”, “apprezzabile”, “non modesta” etc..

Il consenso ai cookie non può avvenire tramite deselezione ma solo tramite selezione. Inoltre il venditore deve avvisare sulla durata dell’attività dei cookie e sulla loro accessibilità da parte di terzi

La Corte di Giustizia in data odierna si è pronunciata in materia di consenso al trattamento dati costituito dal deposito di file c.d. cookie nel pc dell’utente (sentenza 1 ottobre 2019, C-673/17, Bundesverband der Verbraucherzentralen und Verbraucherverbände – Verbraucherzentrale Bundesverband eV contro Planet49 GmbH).

In particolare ha detto che non è conforme alla disciplina europea l’impostazione, secondo cui l’utente dà il consenso deselezionando una casella di assenso già preimpostata come selezionata (una sorta di opt out), anzichè selezionando una casella bianca (opt in).

Il requisito della «manifestazione» della volontà della persona interessata, infatti, evoca chiaramente un comportamento attivo e non passivo: e il consenso espresso mediante una casella di spunta preselezionata non implica un comportamento attivo da parte dell’utente di un sito Internet (§ 52).

Secondo la Corte ciò è ancora più esatto con il reg. 679 del 2016 c.d. GDPR, visto che qui per «consenso dell’interessato» si intende <<qualsiasi manifestazione di volontà libera, specifica, informata e inequivocabile dell’interessato, con la quale lo stesso manifesta il proprio assenso, mediante dichiarazione o azione positiva inequivocabile, che i dati personali che lo riguardano siano oggetto di trattamento>> (art .4 n. 11 reg.) (§§ 60-62 sentenza).

Tuttavia secondo la Corte ciò era desumibile già dalla dir. 46 del 1995,  laddove chiedeva un consenso manifestato in maniera inequivocabile (art. 7 lett. a). Anzi era desumibile già solo dalla necessità di manifestazione di un consenso (art. 2  lett. h), tale non potendo essere un atteggiamento passivo (§§ 51-55 sentenza).

La Corte invoca poi a favore di questa opinione pure l’art. 5 § 3 della dir. 2002/58, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche). Secondo tale norma, l’archiviazione di informazioni o l’accesso ad informazioni già archiviate è  lecito solo <<a condizione che l’abbonato o l’utente in questione abbia espresso preliminarmente il proprio consenso>> (§ 56 sentenza)

Con altra questione pregiudiziale, poi, il giudice del rinvio chiedeva se l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2002/58 dovesse essere interpretato nel senso che tra le informazioni da comunicare all’utente di un sito Internet rientrano anche il periodo di attività dei cookie, nonché la possibilità o meno per i terzi di avere accesso a tali cookie.

La risposta è stata positiva su entrambi i punti: il fornitore deve comunicare sia la durata della permanenza dei file nel pc dell’utente (non solo della loro attività direi, non potendosi ammettere un cookie presente ma silente, senza consenso), sia la possibilità di accesso di terzi.

Ciò è del resto ineludibile, in base al disposto dell’articolo 10, lettera c), della direttiva 95/46, nonché all’articolo 13, paragrafo 1, lettera e), del reg. 2016/679.

Breve nota di A. Reinalter-S- Vale, Cookie e consenso dell’utente,  in Giur. it., 2020-1, 79 ss

Violazione del diritto d’autore su banca dati: processo per la liquidazione del danno (altro episodio nella lite Business Competence c. Facebook)

Con sentenza 17.09.2019, n. 8244/2019, RG 68360/2013, il Tribunale di Milano sez. spec. impresa A, ha deciso la lite per la liquidazione del danno nella lite Business Competence (di seguito: BC) contro Facebook (di seguito : FB), relativa ad un’applicazione che offriva informazioni presenti in FB (su esercizi commerciali nei dintorni) in base ad un sistema di geolocalizzazione.

Con sentenza del 2016  non definitiva (da poco confermata in appello) il Tribunale di Milano  aveva accertato la violazione in capo a FB per aver riprodotto nella propria applicazione Nearby l’applicazione Faround di BC e aveva quindi condannato la prima al risarcimento del danno, disponendo la prosecuzione del processo per la determinazione del quantum (verosimilmente ex art. 278 cpc).

La sentenza (rel. Marangoni) è interessante per la motivazione inerente la stima del danno (profilo centrale nella pratica). Il Collegio:

  • stima come royalty persa quella conseguente ad un tasso lordo del 5 (cinque) %  , desunto dai CTU  dal settore computer software e internet (§§ 3-4);
  • ritiene non significativi i ragionamenti sulla stima condotti da BC, dato che il suo progetto commerciale all’epoca dei fatti di causa era ancora in fase di iniziale sviluppo ed inolre soggetto ai necessari adeguamenti, in un settore con elevata e costante innovazione (§ 2, p. 6)
  • non dà importanza al fatto che FB abbia disatteso l’ordine giudiziale di trasmettere ai CTU i dati sulla diffusione di Nearby. Ciò perchè il successo economico di Nearby non è comunque utilizzabile per calcolare le chanche di Faraound in sede di giudizio controfattuale, dato che (§ 2 e § 5) i due business sono incomparabili: Nearby era distribuito grauitamente  ed inserito automaticametne nella piattaforma principale FB, mentre Faraound era/sarebbe stato a pagamento sia per utenti che per inserzionisti;
  • limita il periodo su cui calcolare le royalties mancate a due anni. I CTU invece -se ben capisco- avevano calcolato un periodo  temporalmente illimitato, dato che -come app di FB- si doveva correlarla alla vita utile di FB stessa. Il Collegio ha deciso così in base al quadro di vivace concorrenzialità delle app inerenti a FB (§ 6/7).
  • pertanto la liquidazione del Tribunale,  a fronte di una liquidazione: -di € 18.805.000,00  chiesta da BC; -di € 1.614.000,00 come corretta dalle osservazioni di FB; -di € 3.831.000,00 suggerita in via intermedia ed equitativa dai CTU, si è assestata (pure equitativamente) su € 350.000,00 (§ 8): meno di 1/10 del suggerimento del CTU e quasi 1/5 della somma che tiene conto delle correzioni apportate dalla stessa  FB.
  • ha compensato per intero le spese dei due gradi cautelari sia per l’esito, sia “per la obiettiva impossibilità in tale fase di pervenire ad un effettivo giudizio di interferenza tecnica tra le contrapposte applicazioni” (§ 9)

La ragione sociale della s.n.c. deve contenere il nome del socio, inteso come prenome e cognome indicati per esteso ex art. 6 / 2 c.c.

Secondo il Tribunale di Udine, quale giudice del Registro Imprese, la ragione sociale di una s.n.c. deve contenere il nome del socio inteso come prenome e cognome, riportati per esteso.

In applicazione di ciò, ha ordinato la cancellazione ex art. 2191 c.c. dell’iscrizione di una delibera di modifica del contratto sociale che, se ben capisco (è stata anonimizzata), aveva sostituito il prenome per esteso con una sua abbreviazione.

Effettivamente l’art. 2292 cc menziona solo il “nome” , a differenza dell’art. 2563 c.2 c.c., il quale, a proposito della ditta, ritiene sufficiente  anche la sigla.

Si tratta del decreto 3 giugno 2019, RG 1337/2019.

La Corte di Giustizia sul cumulo di protezione per disegni e modelli (tutela specifica e tutela d’autore)

La Corte di Giustizia con sentenza 12.09.2019, C-683/17, Cofomel-Sociedade de Vestuário SA c. G‑Star Raw CV,  esamina una questione pregiudiziale sollevata dalla corte suprema portoghese.

Il diritto portoghese concede protezione d’autore anche a <<opere d’arte applicata, disegni e modelli industriali e opere di design che costituiscano una creazione artistica, indipendentemente dalla tutela della proprietà industriale>>, § 15

Pertanto il giudice portoghese chiede alla C.G. <<se l’interpretazione data dalla Corte all’articolo 2, lettera a), della direttiva 2001/29 osta ad una normativa nazionale – nel caso di specie, la norma di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera i), del codice del diritto d’autore e diritti connessi – che garantisca protezione a titolo di diritti d’autore a opere d’arte applicata, disegni e modelli industriali e opere di design, che, al di là del loro fine utilitario, producono un effetto visivo loro proprio e rilevante da un punto di vista estetico, di tal guisa che la loro originalità è il criterio centrale per l’attribuzione della protezione nell’ambito dei diritti d’autore>>, § 25.

[ La formulazione del questito non è chiara: il dettato normativo non dice esattamente quello che chiede il giudice, ma forse questi si riferisce ad una prassi interpretativa nazionale.]

La Corte riformula  la questione così: <<il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 2, lettera a), della direttiva 2001/29 vada interpretato nel senso che osta al conferimento, da parte di una normativa nazionale, di tutela ai sensi del diritto d’autore a modelli come i modelli di capi di abbigliamento oggetto del procedimento principale in base al rilievo secondo il quale, al di là del loro fine utilitario, essi producono un effetto visivo loro proprio e rilevante da un punto di vista estetico>>, § 26

Il passo centrale dunque, su cui certe la risposta, è il concetto di “producono un effetto visivo loro proprio e rilevante da un punto di vista estetico”. Cioè la Corte , se ben intendo, deve giudicare sulla compatibilità della normativa posta della direttiva 29/2001 con la tutela portoghese basata su tale concetto .

 La Corte ribadisce concetti noti tra cui:

<<La nozione di «opera» (..) costituisce (..) una nozione autonoma del diritto dell’Unione che deve essere interpretata e applicata in modo uniforme, e che presuppone il ricorrere di due elementi cumulativi. Da una parte, tale nozione implica che esista un oggetto originale, nel senso che detto oggetto rappresenta una creazione intellettuale propria del suo autore. D’altra parte, la qualifica di opera è riservata agli elementi che sono espressione di tale creazione (..) >>, § 29

Quanto al primo elemento, l’originalità <<è necessario e sufficiente che rifletta la personalità del suo autore, manifestando le scelte libere e creative di quest’ultimo>>, § 30

Quanto al secondo elemento, <<la nozione di «opera» di cui alla direttiva 2001/29 implica necessariamente l’esistenza di un oggetto identificabile con sufficiente precisione e oggettività>>, § 32. Infatti <<da un lato, le autorità competenti a garantire la tutela dei diritti esclusivi inerenti al diritto d’autore devono poter conoscere con chiarezza e precisione gli oggetti in tal modo protetti. Lo stesso vale per i terzi nei confronti dei quali si può far valere la tutela rivendicata dall’autore di detto oggetto. Dall’altro lato, la necessità di evitare qualsiasi elemento di soggettività, pregiudizievole per la certezza del diritto, nel processo di identificazione di detto oggetto implica che quest’ultimo sia stato espresso in modo obiettivo>>, § 33

Quando un oggetto presenta queste due caratteristiche, deve beneficiare della tutela d’autore, <<ove la portata di tale tutela non dipende dal grado di libertà creativa di cui ha goduto il suo autore e non è pertanto inferiore a quella di cui gode ogni opera che ricade in detta direttiva>>, § 35

Svolte queste premesse generali,  la Corte esamina se i modelli sub judice costituiscano opere ai sensi della direttiva 29/2001.

Disegni e modelli non sono in linea di principio assimilabili alle opere protette (§ 40) , ma è possibile concedere una protezione d’autore speciale (§ 42) in aggiunta a quella loro propria (§ 43).

Pertanto è confermato che modelli e disegni, se rispettano i due requisit predetti,  costituiscano “opere” ex dir. 29 (§ 48).

Poi la CG esamina il punto specifico e cioè <<se siano qualificabili come «opere», alla luce di queste esigenze, modelli come i modelli di capi di abbigliamento oggetto del procedimento principale che, al di là del loro fine utilitario, producono, secondo il giudice del rinvio, un effetto visivo loro proprio e rilevante da un punto di vista estetico, ove le questioni di detto giudice vertono sulla questione se un tale elemento di originalità estetica costituisca il criterio centrale di attribuzione della protezione prevista dalla direttiva 2001/29>>, § 49 . L’inciso finale (“ove le questioni di detto giudice..”) pare da interpretare nel senso che la CG valuta sul presupposto che il requisito costituisca l’unico (quello “centrale”) cui è subordinata la concessione della tutela d’autore a disegni e modelli.

La risposta è negativa, soprattutto alla luce del secondo requisito sopra ricordato.

Infatti l’effetto estetico prodotto da un modello è il risultato della sensazione soggettiva della bellezza percepita dall’osservatore. Quindi <<questo effetto di natura soggettiva non consente, di per sé, di caratterizzare l’esistenza di un oggetto identificabile con sufficiente precisione e oggettività ai sensi della giurisprudenza menzionata ai punti da 32 a 34 della presente sentenza>>, § 53.

È bensì vero, ricorda la Corte, che le considerazioni estetiche fanno parte dell’attività creativa. Tuttavia la produzione di un effetto estetico non permette di determinare se il modello sia o meno creazione intellettuale, che rifletta la libertà di scelta e la personalità del suo autore e cioè se sia o meno originale (§ 54): che, come detto, è l’unico criterio rilevante.

Di conseguenza il requisito dell’ <<effetto visivo loro proprio e rilevante da un punto di vista estetico>>, menzionato dal giudice di rinvio, non permette di concedere la tutela per le opere (§ 55), per cui la Corte concludeche la direttiva 29  osta a conferire tutela d’autore in base a questo requisito (§ 56).

La decisione può avere grande impatto, in quanto non ammette per alcun settore requisiti ulteriori, a parte l’orignalità, per la protezione d’autore.   Tuttavia lascia un po’ perplessi.

La normativa europea ed internazionale permette ai singoli Stati di fissare le condizioni a cui concedere la protezione d’autore a modelli e disegni: v. i §§ 3-14 e poi §§ 42-47 e soprattutto dir. 98/71 e reg. 6/2002, fatti salvi dall’art. 9 della dir. 29:

  • cons. 8 dir. 98/71: <<«[C]onsiderando che, in mancanza di un’armonizzazione della normativa sul diritto d’autore, è importante stabilire il principio della cumulabilità della protezione offerta dalla normativa specifica sui disegni e modelli registrati con quella offerta dal diritto d’autore, pur lasciando gli Stati membri liberi di determinare la portata e le condizioni della protezione del diritto d’autore>>;
  • art. 17 dir. 98/71: <<«I disegni e modelli protetti come disegni o modelli registrati in uno Stato membro o con effetti in uno Stato membro a norma della presente direttiva sono ammessi a beneficiare altresì della protezione della legge sul diritto d’autore vigente in tale Stato fin dal momento in cui il disegno o modello è stato creato o stabilito in una qualsiasi forma. Ciascuno Stato membro determina l’estensione della protezione e le condizioni alle quali essa è concessa, compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve possedere>>;
  • cons. 32 REg. 6/2002: <<In assenza di una completa armonizzazione delle normative nazionali in tema di diritto d’autore è importante stabilire il principio della cumulabilità della protezione conferita dal disegno o modello comunitario con quella conferita dal diritto d’autore, pur lasciando agli Stati membri piena facoltà di determinare la portata e le condizioni della protezione conferita dal diritto d’autore>>;
  • art. 96 § 2 reg. 6/2002: <<Disegni e modelli protetti in quanto tali da un disegno o modello comunitario sono altresì ammessi a beneficiare della protezione della legge sul diritto d’autore vigente negli Stati membri fin dal momento in cui il disegno o modello è stato ideato o stabilito in una qualsiasi forma. Ciascuno Stato membro determina l’estensione della protezione e le condizioni alle quali essa è concessa, compreso il grado di originalità che il disegno o modello deve possedere>>.
  • art. 9 della dir. 29 /2001: <<La presente direttiva non osta all’applicazione delle disposizioni concernenti segnatamente brevetti, marchi, disegni o modelli, modelli di utilità, topografie di prodotti a semiconduttori, caratteri tipografici, accesso condizionato, accesso ai servizi di diffusione via cavo, la protezione dei beni appartenenti al patrimonio nazionale, gli obblighi di deposito legale, le norme sulle pratiche restrittive e sulla concorrenza sleale, il segreto industriale, la sicurezza, la riservatezza, la tutela dei dati e il rispetto della vita privata, l’accesso ai documenti pubblici, il diritto contrattuale.>>

La Corte avrebbe dovuto spiegare – alla luce di tali norme- come possa imporre alla disciplina nazionale di disegni e modelli lo stesso concetto di “opera proteggibile”, previsto per le altre opere secondo la dir. 29.

Pare infatti  difficile ritenere che la previsione di requisiti ulteriori specifici (da noi il valore artistico: art.  2 n. 10 l.a.; in Germania, la soglia particolarmente elevata di originalità, secondo la teoria giurisprudenziale dei tre livelli della stessa, c.d. Stufentheorie, su cui v. Donle-Held-Nordemann-Schiffel-Nordemann, The interplay between design and copyright protection for industrial products, 31.05.2012, per AIPPI, §§ 4-5) possa essere incompatibile con la disciplina europea ex dir. 29. Come appena visto, infatti, la  normativa europea ed internazionale permette ai singoli Stati di determinare le condizioni della protezione.

Questa tesi è stata sostenuta pure da alcuni Stati intervenuti, tra cui l’Italia, ma contrastata dalle conclusioni dell’A.G. Szpunar, che nega l’esistenza di una lex specialis per disegni e modelli (v. sue conclusioni  2 maggio 2019, §§ 33-48). Egli contrasta il pur chiaro dettato normativo cit., affermando -con rif. al reg. 6/2002- che era anteriore alla dir. 29 e dunque volutamente provvisorio in attesa di un aromnizzazione del diritto di autore europea (§ 37).

Secondo l’AG, la ragione consisterebbe soprattutto nel fatto che: i) l’elaborazione dei due atti normativi (reg. 6/2002 e dir. 29) è proceduta in contemporanea; ii)  che la regola sul punto del reg. 6/2002 era presente anche nella sue versioni iniziali; iii)  che, pur essendo la dir. 29 stata approvata prima del reg., è però entrata in vigore dopo. In conclusione, le disposizioni, che lasciano agli Stati la determinazione della tutela di autore a disegni e mdoelli, andrebbero soggette ad una sorta di interpretatio abrogans.

Questa posizione mi pare alquanto debole.

I punti i) e ii) vanno valorizzato in senso opposto: il fatto che sia stata mantenuta la disciplina iniziale anche quanto la dir. 29 era in avanzato stato di elaborazione ,-anzi, era stata già approvata formalmente, significa che il tenore letterale è stato consapevolmente voluto e dunque è stata voluta la disciplina speciale per disegni e modelli. Il punto iii) è irrilevante: quello che conta è se esisteva o meno una disciplina generale  d’autore (basterebbero lavori avanzati, non essendo necessaria la approvazione definitiva), quando è stato varato il reg. 6 : e la risposta è positiva. Il momento di entrata in vigore non ha alcun rilievo interpretativo.

Ancora , l’AG contrasta l’art. 9 della dir. 29 dicendo che <<la direttiva 2001/29, la quale è relativa al diritto d’autore, non debba pregiudicare le disposizioni di altri settori, come il diritto dei disegni e dei modelli. Tuttavia, l’articolo 17 della direttiva 98/71, al pari dell’articolo 96, paragrafo 2, del regolamento n. 6/2002, [1° argomento] non sono disposizioni afferenti al settore del diritto dei disegni e dei modelli, bensì a quello del diritto d’autore. [2° argomento] Una diversa interpretazione implicherebbe che la protezione delle opere delle arti applicate attraverso il diritto d’autore dipenda dal diritto dei disegni e dei modelli, mentre questi due settori sono tra loro autonomi. L’articolo 9 della direttiva 2001/29 non può, pertanto, essere interpretato come determinante l’esclusione dei disegni e dei modelli dall’armonizzazione operata con la direttiva 2001/29>> (§ 39).

Il ragionamento non è corretto. Circa il primo argomento, l’art. 9 non fa salve solo le regole ad hoc di disegni e modelli, ma tutte le <<disposizioni concernenti segnatamente brevetti, marchi, disegni o modelli>>: quindi pure quelle che si occupano della tutela di autore. Circa il secondo , che i due settori siano autonomi è una petizione di principio: le riscostruzioni in sede interpretativa dipendono infatti dalle norme e queste sul punto specifico dicono l’opposto.

Il Tribunale UE sul giudizio di confondibilità tra marchi denominativi

Il Tribunale UE 27.06.2019, T-268/18 (leggibile in italiano solo per estratti), Luciano Sandrone c. EUIPO, affina alcune regole sul giudizio di confondibilità tra marchi denominativi (quello posteriore patronimico , impregiudicata la questione su quello anteriore).

Il conflitto riguardava il marchio anteriore “don Luciano” e il marchio posteriore “Luciano Sandrone” (chiesto dal titolare del’omonima ditta individuale di Barolo, Italia). Entrambi erano stato chiesti per prodotti alcolici ed entrambe paiono essere imprese vitivinicole.

Rovesciando la decisione della Commissione di Ricorso, il Tribunale afferma alcuni principi sul giudizio di confusione tra marchi denominativi:

  • nel marchio “don Luciano” prevale “Luciano”, anche se non al punto da rendere “don” trascurabile (§§ 66- 67);
  • il marchio “Luciano Sandrone” è percepito come combinazione di nome e cognome da parte del pubblico dell’intera unione. inoltre “Luciano” è meno distintivo di “Sandrone”: quest’ultimo è cognome raro, sicchè ha un <<valore intrinseco superiore>> (§ 68, riportando la decisione della commissione).
  • invece il nome “Luciano” non è da considerare raro, nonostante che in alcuni paesi  non sia molto comune (Germania e Finlandia).Quest’ultima circostanza infatti non fa venir meno la circostanza che in questi stessi paesi si sappia (o meglio che il pubblico di riferimento di tali paesi sappia) che il nome è molto diffuso in altri paesi (Italia Spagna Portogallo Francia) , i quali costituiscono “parte sostanziale”  dell’UE ( §§ 73-74).
  • Pertanto si può dire che nel suo insieme il pubblico dell’Unione considera elemento più distintivo l’elemento <<Sandrone>> rispetto al nome, essendo meno comune, anche anche se <<Luciano>> non è trascurabile (§ 75).
  • Questo per il confronto fonetico e visivo. Circa il confronto concettuale (ove si valuta la concordanza semantica: CG caso SAbel, 11.11.1997, C-251-95, ricordata al § 84), nel caso specifico non lo si può fare: ciò perché i nomi di persona -a meno che siano riferiti ad esempio persone famose- non hanno un concetto corrispondente (§§ 85-86). Quindi censura la decisione della Commissione di Ricorso sul punto (§ 91).

Infine, sulla valutazione globale del rischio di confusione, ribadisce alcune regole note tra cui:

  • è sufficiente che l’impedimento alla registrazione esista anche solamente per una parte dell’unione (§  92).
  • la interdipendenza tra i fattori (cioè somiglianza tra segni e affinità tra prodotti/servizi) comporta che si compensano reciprocamente, sicchè <<un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi designati può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i marchi e viceversa>>  (§ 93)
  • <<nel settore vitivinicolo i nomi sono molto importanti, sia che si tratti di cognomi o di nomi di tenute, in quanto essi servono a contraddistinguere e a designare i vini. In generale, occorre ricordare che i consumatori sono abituati a designare e a riconoscere il vino in funzione dell’elemento denominativo che serve a identificarlo e che tale elemento designa in particolare il viticoltore o la proprietà su cui il vino è prodotto (…)>>. Ne segue che è l’elemento distintivo “sandrone” che <<servirà a identificare i vini del ricorrente, ovvero la denominazione nel suo insieme, vale a dire “luciano sandrone”, ma non unicamente l’elemento “luciano”>> (§ 99).
  • <<nel settore dei vini, in cui è molto frequente l’uso di segni costituiti da nomi o cognomi, è inverosimile che il consumatore medio possa credere nell’esistenza di un collegamento economico tra i titolari dei segni in conflitto per il solo fatto che essi condividono il nome italiano Luciano, percepito come molto diffuso, secondo il punto 47 della decisione impugnata, in Spagna, in Francia, in Italia e in Portogallo, e per il quale non è stato dimostrato che potrebbe essere percepito come raro in altri paesi dell’Unione. Questo semplice fatto non consente quindi di concludere, per quanto riguarda i marchi relativi a vini, nel senso della sussistenza di un rischio di confusione, poiché il pubblico di riferimento non si aspetta che detto nome, di comune diffusione, sia utilizzato da un solo produttore quale elemento di un marchio>> (§ 101).
  • Soprattutto (dico io), <<la commissione di ricorso non ha neppure preso in considerazione il debole grado di carattere distintivo dell’elemento comune ai due marchi, ossia «luciano», derivante dal fatto che tale nome può designare un numero potenzialmente indeterminato di persone e che, pertanto, l’insieme del pubblico di riferimento sarà in grado di distinguere il marchio anteriore dal marchio di cui si chiede la registrazione, poiché quest’ultimo contiene, inoltre, l’elemento «sandrone», un cognome dotato di un valore intrinseco superiore>> (§ 102);
  • il punto precedente è corroborato <<dalla giurisprudenza della Corte, secondo la quale non si può ammettere che qualsiasi cognome che costituisce un marchio anteriore possa essere opposto con successo alla registrazione di un marchio composto da un nome e dal cognome in questione (v., in tal senso, sentenza del 24 giugno 2010, Becker/Harman International Industries, C‑51/09 P, EU:C:2010:368, punto 39). Non esiste quindi alcun automatismo che consenta di concludere nel senso dell’esistenza di un rischio di confusione quando un marchio anteriore consistente in un cognome è ripreso in un altro marchio, aggiungendovi un nome. Tale considerazione vale altresì quando il marchio anteriore consiste, in particolare, in un nome proprio e il segno di cui si chiede la registrazione è una combinazione di tale nome e di un cognome>> (§ 103) [non “vale altresì”, direi, ma “a maggior ragione”, quando il primo è un nome e il secondo un cognome+nome]

Ancora sulla lite Vivendi-Mediaset: un’applicazione dell’art. 83 septies TUF

La lite tra Vivendi (in seguito : V.) e Mediaset (in seguito: M.) si arricchisce di un cautelare interessante, perchè applica l’art. 83 septies TUF: si tratta dell’ordinanza 31.08.2019 giudice Simonetti Amina, RG 33508, 2019-1, Trib. Milano sezione feriale civile.

Come ivi si legge , il giudizio di merito consiste nell’impugnazione da parte di Vivendi ex art. 2378 della delibera assembleare Mediaset 18 aprile 2019 con cui le è stato negato il diritto di voto (ma concesso quello di partecipazione).

In sede cautelare V. chiede che il giudice ordini a M. e a chi presiderà l’assemblea dei soci 4 settembre 2019 di ammetterla ad intervenirvi (per una certa percentuale di capitale e diritti di voto) e di consentirle l’esercizio dei pertinenti diritti amministrativi.

Avendo M. dichiarato che l’avrebbe esclusa pure all’assemblea del  4 settembre, V. ha proposto la domanda cautelare.

L’art. 83 septies TUF così recita:

<<Art. 83-septies (Eccezioni opponibili) 1. All’esercizio dei diritti inerenti agli strumenti finanziari da parte del soggetto in favore del quale e’ avvenuta la registrazione l’emittente puo’ opporre soltanto le eccezioni personali al soggetto stesso e quelle comuni a tutti gli altri titolari degli stessi diritti>>.

M. l’ha invocato affermando che V. <<ha acquistato (gli acquisti si sono concentrati negli ultimi 15 giorni del mese di dicembre 2016) e detiene la partecipazione in Mediaset in violazione:
a) delle obbligazioni assunte da Vivendi a favore di Mediaset con il contratto stipulato l’8 aprile 2016 avente ad oggetto la cessione di Mediaset Premium spa,
b) delle disposizioni di cui all’art 43 comma 11 Tusmar, come accertato da Agcom con delibera 178/17/Cons.(doc. 17 citazione).>> (p. 2).

Circa b) , il Tribunale ha ammesso V. al voto e ai diritti conseguenti per la parte di diritti che rispetta i limiti alla concentrazione ex art. 43 c. 11 Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici d. lgs. 177/2005 (la cui violazione è sanzionata da nullità negoziale: c. 4, ivi). La parte residua (eccedente il 10% in M.) era stata trasferita da V. ad una fiduciaria (Simon Fiduciaria spa)

Circa a), il caso offre un’interessante applicazione del concetto di “eccezioni personali” ex art. 83 septies cit. Nel caso specifico l’eccezione consisterebbe nella violazione di un patto di cristallizzazione della situazione societaria (c.d. standstill): cioè un patto di non modifica di essa assunto da V. verso M. nell’ambito delle trattative per l’acquisto di Mediaset Premium spa.

Questo è il punto che qui intendo ricordare. In altre parole, l’eccezione sollevata da M.  consiste nella violazione da parte di V. di un patto di non acquisto di azioni di M., stipulato con quest’ultima.

La dottrina ha osservato che il concetto di “eccezioni personali” è molto ampio, al pari della norma “madre” (art.  1993 c. 1 c.c.) e vi rientrano tutte quelle fondate su rapporti personali (Marano, art. 83 septies, Le soc. per az.-le fonti del dir. it., dir. da Abbadessa e Portale, Giuffrè, 2016, t. 2, § 2, p. 3750; e pure in Id., La circolazione delle azioni dematerializzate e la disciplina dei mercati, Giuffrè, 2013, nuova ed., 226).

Il punto è interessante. Altra dottrina afferma che, data l’ampiezza del dettato normativo, deve intedersi richiamato il diritto comune : cioè vi rientrano tutti quei rapporti che secondo il diritto comune possono reagire negativametne sul rapporto cartolare (F. Martorano, Titoli di credito, Tratt. dir. civ. comm. Cicu Messineo Mengoni, Giuffrè, 2002, p. 304: ma è forse tautologico, perchè resta da capure cosa possa incidere sul rapporto cartolare).

Secondo altri non ci si può richiamare solo alle eccezioni attinenti al fatto costitutivo dell’obbligazione, ma anche a quelle derivanti da un rapporto del tutto estraneo, purchè il possessore ne sia parte (F. De Vescovi, Tre dubbi sulla <<tutela cartolare>> nei tempi della dematerializzazione, BBTC, 2003, 715 ss, a p. 728).

Le ultime due opinioni paiono avere conseguenze diverse . La prima restringe l’ambito delle eccezioni sollevabili, la seconda l’amplia, permettendo anche la compensazione con qualsiasi controcredito.

Il Tribunale ha però ritenuto non sufficientemente fondata l’eccezione sollevata da M. sotto due profili:

1) le cause di merito promosse da M. (in cui verosimilmente si dibatteva il medesimo tema) erano state da poco rinviate a precisazione conclusione con esclusione di attività istruttoria: il che -direi- indica al giudice la scarsa plausibilità della tesi di M.;

2) anche ammettendo, prosegue il Tribunale, <<l’esistenza nel contratto 8.4.2016 di un implicito patto tra le parti di standstill funzionale al conseguimento degli obiettivi delle parti del Contratto di dar vita ad una partnership industriale paritetica[nota1 : “Patto contestato da Vivendi ed invero non espressamente contenuto nel contratto 8.4.2016, previsto solo in un patto parasociale tra Vivendi e Fininvest che si si sarebbe dovuto sottoscrivere dopo il closing, cui mai si è pervenuti”]>>,  anche ammesso ciò, il fatto però che  M. in quei giudizi abbia modificato la domanda da adempimento a risoluzione del contratto, col conseguente effetto retroattivo, impedisce di ritenere illegittimo [l’acquisto e dunque] il possesso attuale di azioni M. da parte di V.  Precisamente così dice il Tribunle: <<l’attuale pretesa di Mediaset verso Vivendi che questa dismetta tale partecipazione potrebbe non avere più ragione giuridica nella situazione presente, caratterizzata dal fatto che nei giudizi di merito riuniti RG 47205/2016 e 47575/2016 l’attrice Mediaset ha (alla udienza del 4.12.2018) modificato l’originaria domanda di adempimento del contratto 8 aprile 2016 in domanda di risoluzione, dichiarando di non avere più interesse al mantenimento dello Share Exchange Agreement. La risoluzione contrattuale, se pronunciata come richiesto da Mediaset, avrebbe come effetto quello di far venire meno con efficacia retroattiva ogni vincolo contrattuale, tra cui il patto di standstill (se sussistente). Con la conseguenza che il possesso attuale di azioni da parte di Vivendi risulterebbe legittimo, anche se eventualmente ab origine acquistato in violazione del contratto 8.4.2016.>>

Il Tribunale invece nulla dice sulla questione a monte e cioè sulla  possibilità teorica che, tra le eccezioni personali ex art. 83 septies TUF, rientri pure la violazione di un divieto di acquisto di azioni stipulato con l’emittente stessa. Nulla dicendo su tale possibilità ed entrando nel merito, implicitamente l’afferma.

A conforto di questa supposizione si veda un precedente intervento del Tribunale di Milano nel procedimento cautelare per la sospensiva ex art. 2378 c. 2 c.c. relativametne alla impugnazione della delibera assembleare 27 giugno 2018 (Trib. Milano 23.11.2018, Simon fiduciaria spa c. Mediaset spr, giudice: d.ssa Amina Simonetti, RG 2018/50173). Qui non era in causa Vivendi ma solo la sua fiduciaria. Anche qui  << le parti in causa hanno discusso circa la riconducibilità alla nozione di eccezioni personali di cui all’art 83 septies tuf delle eccezioni sollevate da Mediaset a Simon Fiduciaria relative alla violazione dell’art 43 Tusmar e al dedotto inadempimento al contratto 8 aprile 2016 : * sia con riferimento al fatto che tali eccezioni, non traendo fondamento in questioni connesse al rapporto causale sottostante lo strumento finanziario azione (cioè extrastatutarie ed extra societarie) non sarebbero riconducibili alla nozione di eccezioni personali, * sia con riferimento alla diversa identità soggettiva tra la fiduciaria e la fiduciante Vivendi cui si riferiscono i fatti giuridici inerenti le eccezioni>>.

Infatti circa il primo profilo, qui di interesse, il Tribunale risponde così: <<può dirsi, per quanto rileva nel caso di specie, che la nozione di eccezioni personali cui si riferisce l’art 83 septies tuf può essere tratta da quella del diritto comune (art 1993 c.c.), data l’identità di funzione tra le discipline (favorire una circolazione celere e sicura); il riferimento nell’art 83 septies tuf alle eccezioni personali consente di comprendere nella categoria tutte quelle inerenti a colui che è legittimato in quanto titolare del conto (art 83 quinquies Tuf) e che traggano fondamento sia nel contratto c.d. causale (statutario) sottostante lo strumento finanziario, sia in rapporti extra e diretti tra emittente e titolare del conto ( non statutari per quanto riguarda le azioni quali strumenti finanziari). Nota 4: Infatti non può dubitarsi che sia sempre oggetto possibile come eccezione personale ex art 1993 comma 1 c.c. la compensazione fondata su un qualsiasi controcredito e non si dubita che l’art 1993 c.c. si applichi ad alcune eccezioni fondate sui rapporti personali extrastatutari tra azionista e società, anche; la compensazione non può esservi se non in caso di autonoma fonte delle reciproche e contrapposte obbligazioni pecuniarie>> (seguono interessanti osservazioni, su cui non si può qui fermare , in base alle quali il Tribunale afferma che: 1)  la società può opporre al fiduciario la natura elusiva del negozio di trasferimento fiduciario volto a eludere norme di legge o statutarie -si tratterà di abuso del dirito o di negozio in frode alla legge-;  2) la decisione di intestare fiduciariamente ad altri una parte delle azioni, in esecuzione della delibera Agcom per rispettare i tetti partecipativi (quindi con corretezza sotto il profilo amministrativo), non preclude una diversa valutazione di tale operazione sul piano civilistico).

Questa (implicita, nel caso più recente) soluzione pare corretta. La dottrina fa ad es. rientrare nel concetto di “eccezioni personali” ex art 1993 c.c. quelle basate su rapporti extrastatutari, come l’eccezione di compensazione [ma allora secondo il regime comune: art.  1241 ss cc] oppure un pactum de non petendo circa la riscossione dei  dividendi (Angelici C., art. 2354, in Le azioni-artt. 2346-2356, in Il cod. civ. Commentario dir. da Schlesinger, Giuffrè, 1992, 282-283). Quest’ultimo è equiparabile, per tornare al caso nostro, al patto di divieto di acquisto di azioni dell’emittente (stipulato con quest’ultima): non vedo ragione per differenziare i diritti amministrativi da quelli patrimoniali.

Restano da capire quali possano essere altri casi di applicabilità della norma, data la peculiarità della fattispecie. Può essere abbastanza semplice, quando si tratti di pretesa alla riscossione dei dividendi; può esserlo meno, quando la pretesa, paralizzata dalla norma, abbia natura non patrimoniale ma relativa alla partecipazione alla vita organizzativa interna dell’emittente. Ad es.:

– la violazione del medesimo divieto (di acquisto azioni dell’emittente) ma stipulato con terzi, anzichè con l’emittente (ad es. con alcuni soci), costituisce “eccezione personale”? Direi di no, stante la regola di relatività del vincolo contrattuale.

– la violazione di altri obblighi (di qualunque tipo ma non concernenti operazioni su azioni dell’emittente: la fantasia può sbizzarirsi) ma pur sempre con l’emittente, può costituire eccezione personale? Ad es. invocando la normativa comune inadimplenti non est adimplendum ex art. 1460 cc? Parrebbe di si, stante l’ampiezza dell’ambito applicativo riconosciuto dalla dottrina all’art. 83 septies TUF .

Competenza giurisdizionale per violazioni di marchio UE, consistenti in offerta in vendita su internet

Interviene la Corte di Giustizia dell’Unione Europea sul tema in oggetto, decidendo una questione pregudiziale  sollevata dalla Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) e relativa all’art. 97 (rubricato <<Competenza internazionale>>) § 5 del reg. 207/2009.

Secondo l’art. 97 § 1 sono competenti i Tribunali del domicilio del convenuto.

Secondo l’art. 97 § 5,  l’azione può essere promossa  anche <<dinanzi ai tribunali dello Stato membro in cui l’atto di contraffazione è stato commesso>>.

Nel caso specifico il presunto contraffattore era domiciliato in Spagna ed offriva in vendita prodotti contraffatti su internet. I titolari hanno fatto valere la violazione nel Regno Unito e solo per quanto riguarda il territorio britannico (§ 19 e § 55).

La questione riguarda l’interpretazione del concetto di “luogo di commissione della contraffazione“. Precisamente consiste nel capire se con ciò si intenda solo il luogo, in cui il convenuto abbia organizzato la messa on line, oppure anche il luogo (anzi i luoghi), in cui si trovano consumatori e professionisti cui pubblicità ed offerte di vendita sono rivolte, pur se diverso dal primo.

La Corte ha risposto nel secondo senso e ciò, oltre che per altre ragioni, anche tramite una corretta interpretazione della norma sull’ambito oggettivo di protezione conferito dalla privativa.

Secondo l’art. 9 § 2 lett. b) e d) [§ 3 lett. b) ed e) nell’ultima versione consolidata], infatti, costituisce contraffazione anche l’offerta in vendita e l’uso del segno nella pubblicità. Quindi il luogo di commissione della contraffazione in tali casi è laddove la pubblicità o l’offerta vendono percepite dai [“rese accessibili ai”] destinatari (§ 54).

In sintesi , ne segue che <<il titolare di un marchio dell’Unione (…) può introdurre un’azione per contraffazione (…) dinanzi a un tribunale dei marchi dell’Unione europea dello Stato membro sul cui territorio si trovano consumatori o professionisti cui si rivolgono tali pubblicità o dette offerte di vendita, nonostante il fatto che il suddetto terzo abbia adottato le decisioni e le misure finalizzate a tale pubblicazione elettronica in un altro Stato membro>> (§ 65)

Si tratta della sentenza 05.09.2019, causa C-172/18AMS Neve Ltd-Barnett Waddingham Trustees-Mark Crabtree contro Heritage Audio SL-Pedro Rodríguez Arribas.

La cointestazione di conto bancario non significa necessariamente cedere (o cointestare) il relativo credito verso la Banca

La Cassazione chiarisce che cointestare un conto corrente bancario (e anche il dossier titoli appoggiato ad esso: da vedere se sia possibile disgiugnerli) signifca solo estendere la legittimazione ad operare sul conto.

Non significa invece -tranne pattuizione diversa, da provare- trasferire la titolarità del credito.

Il trasferimento del contenuto di un conto corrente (o della intestazione del deposito titoli )  è una forma di cessione del credito verso la banca e come tale presuppone un contratto [uno specifico titolo giuridico: quindi da provare] tra cedente e cessionario.

Si può ricordare per completezza che il titolare può non solo trasferire la proprietà sul contenuto, ma anche semplicemente fare entrare altri nella titolarità, estendendo quindi il profilo soggettivo del diritto. In altre parole può modificare la titolarità del diritto passando dalla proprietà solitaria alla comunione  (il che costituisce parziale trasferimento).

Così Cass. 21963 del 03.09.2019, rel. Gianniti, Piccirilli ed altri c. Sartorelli ed altri, § 2, in fine.