Ancora sulla conclusione online del contratto del tipo “clickwrap”

Eric Goldman segnala Appello New York 25.11.2024, Wu v. Uber, sull’oggetto, naturalmente sempre sull’approvazione o meno della clausola arbitrale (qui predisposta da Uber).

Di seguito lo screenshot rappresentante la modalità richiesta di approvazione:

In generale , dice la corte, non c’è motivo per non applicare la disciplina comune:

<<There is no sound reason why the contract principles described above should not be
applied to web-based contracts in the same manner as they have long been applied to
traditional written contracts. Although this Court has not, until now, had the opportunity
to offer substantial guidance on the question, state and federal courts across the country
have routinely applied “traditional contract formation law” to web-based contracts, and
have further observed that such law “does not vary meaningfully from state to state”
(Edmundson v Klarna, Inc., 85 F4th 695, 702-703 [2d Cir 2023]). Case law from other
jurisdictions may therefore provide useful guidance>>.

Nello specifico, la proposta era sufficientemente chiara:

<< The headline and the larger text in the center of the screen—“We’ve updated our
terms” and “We encourage you to read our updated Terms in full”—clearly advised
plaintiff that she was being asked to agree to a contract with Uber. The terms themselves
were again made accessible by a hyperlink on the words “Terms of Use,” which were
formatted in large, underlined, blue text. A reasonably prudent user would have understood from the color, underlining, and placement of that text, immediately beneath the sentence
“encourag[ing]” users to “read [the] updated Terms in full,” that clicking on the words
“Terms of Use” would permit them to review those terms in their entirety. Finally, Uber
provided plaintiff with an unambiguous means of accepting the terms by including a
checkbox, “Confirm” button, and bolded text expressly stating that, “By checking the box,
I have reviewed and agree to the Terms of Use.” It is undisputed that plaintiff checked and box and clicked the “confirm” button.>>

Disciplina dei vizi della vendita per difetti o malattie degli animali

Cass. sez. II, ord. 06/12/2024 n. 31.288, rel. Giannaccari:

Fatto storico e processuale:

<<1. Con sentenza N. 149/2020 del 21.1.2020, la Corte d’Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha accolto la domanda con la quale Ie.Al. e Ba.Pi. avevano chiesto la condanna di Ma.Ro. Roberto alla riduzione del prezzo di vendita del cane To. per vizi dell’animale, oltre al risarcimento dei danni.

Gli attori avevano esposto di aver acquistato da Ma.Ro., venditore di animali, il cane di nome To., che, al momento dell’acquisto era privo di coda e di un testicolo; dopo la consegna, avevano scoperto che il cane aveva anche altre gravi malformazioni genetiche ed avevano sostenuto consistenti spese per le sue cure.

1.1. La Corte d’Appello ha ritenuto che l’assenza di coda e di un testicolo fossero vizi manifesti, tanto più che l’animale non era stato acquistato per finalità riproduttive e, in relazione a tali vizi, ha rigettato la domanda; quanto alla malformazione a carico delle vertebre e dei tessuti molli, il giudice d’appello ha ritenuto che si trattasse di vizi occulti ed ha condannato il venditore alla riduzione del prezzo ed al risarcimento dei danni>>.

In diritto:

<<5.4. Il venditore era, pertanto, tenuto a garantire il compratore dai vizi della cosa, ai sensi dell’art. 1476, comma 1, n. 3 c.c. salvo che i vizi non fossero evidenti o facilmente riconoscibili; in applicazione di tale principio, la garanzia non è stata correttamente estesa dalla Corte d’Appello alla mancanza della coda o del testicolo, anomalie che erano evidenti ictu oculi al momento della vendita.

5.5. Si trattava non solo di vizi palesemente riconoscibili ma non rilevanti ai fini della garanzia perché il venditore non aveva garantito la capacità riproduttiva del cucciolo ed i compratori non avevano manifestato interesse alla capacità riproduttiva.

5.6. Diversamente, la garanzia per vizi era operante per le altre patologie dell’animale, risultando che il cane era affetto da criptorchidismo e da malformazione genetica delle pelvi, da patologie a carico delle vertebre e dei tessuti molli.

5.7. Si trattava di vizi occulti che si erano manifestati dopo la vendita nonostante il venditore avesse garantito la qualità, sanità e purezza di razza del cane (pag. 7 della sentenza impugnata).

5.8. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di vendita di animali, le norme del codice civile si applicano in mancanza di leggi speciali o, in via gradata, degli usi locali; il venditore è tenuto alla garanzia per vizi per il solo fatto oggettivo della loro presenza, salvo che il compratore fosse a conoscenza dei vizi o che gli stessi fossero facilmente riconoscibili sempre che il venditore non abbia dichiarato che l’animale ne era esente (Cassazione civile sez. II, 17/05/2004, n. 9330)

5.9. Si tratta di vizi che rilevano anche in relazione all’art. 130 del Codice del Consumo, nella formulazione ratione temporis applicabile, sotto il profilo del “difetto di conformità” del bene.

5.10. Sussiste, pertanto, la responsabilità del venditore, il quale era tenuto ad una particolare diligenza in qualità di venditore professionale mentre aveva garantito la salute del cucciolo, senza assicurarsi delle reali condizioni patologiche in modo da porre gli acquirenti nella condizione di decidere se concludere il contratto, nella consapevolezza delle sofferenze che l’animale avrebbe dovuto sopportare, dei disagi da affrontare e delle spese per le cure.

5.11. Ne consegue che, sia ai sensi della normativa civilistica (art. 1492 c.c.) che del Codice del Consumo (art. 130, commi 2 e 7 del Codice del Consumo), gli acquirenti potevano chiedere, a loro scelta, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, oltre al risarcimento dei danni>>

Nella separazione coniugale, l’assegno di mantenimento va parametrato al precedente tenore di vita (a differenza dal divorzio)

Cass. Civ., Sez. I, Ord. 26 novembre 2024, n. 30502, rel. Acierno:

<<Risulta, infine, pienamente condivisibile l’interpretazione dell’art. 156 c.c.
offerta dalla Corte d’Appello presta piena adesione alla consolidata
giurisprudenza di questa Corte per cui: “a norma dell’art. 156 cod. civ., il
diritto all’assegno di mantenimento sorge nella separazione personale a favore
del coniuge cui essa non sia addebitabile, quando questi non fruisca di redditi
che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello esistente
durante il matrimonio e sussista disparità economica tra i coniugi; il parametro
al quale va rapportato il giudizio di adeguatezza è dato dalle potenzialità
economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento
condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del
richiedente, senza che occorra un accertamento dei redditi rispettivi nel loro
esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle
situazioni patrimoniali complessive di entrambi” (Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n.
3974 del 19/03/2002 )>>

Opinion della European Copyright Society sulla originalità del design a fini di protezione tramite copyright

Il 3 dicembre 2024 la ECS ha diffuso un suo dettagliato parere sul tema, titolato The Protection of Works of Applied Art under EU Copyright Law . Opinion of the European Copyright Society in MIO/konektra (Cases C-580/23 and C-795/23).

Parere assai articolato e documentato, che si porrà come testo importante per affrontare la non semplice questioni della tutela d’autore per il design.

Riporto solo un pezzo della parte IV Conclusion – Answers to the questions referred to the CJEU:

<<We have explained the approach above at [19]-[51]. As established in the Court’s jurisprudence, for there to be a protectable work, there must be expression (not merely ideas), and that expression needs to involve free and creative choices as a result of which the author has stamped their personality on the work. In general, in the case of works of applied arts, the presence of functional constraints will often severely limit the freedom of choice, and the
utilitarian goals may well mean that the designer will rarely make creative choices. Importantly, the mere presence of alternative choices is not of itself sufficient to show creativity. Even where there is freedom to choose the expressive elements, and that freedom is exercised creatively, it is also possible that the resulting designs will not bear the imprint of the author. As the Court
made clear in Cofemel, just because the production is aesthetically appealing or attractive does not imply either that creative choices have been made, or that the result bears the personal imprint of the author.
In assessing these elements, “factors surrounding the creative process” might offer indications as to what functional constraints existed, how much freedom there was, and whether the decisions made by the author were creative. As explained at [42]-[43], while the author’s explanation of the choices s/he/they made is not irrelevant (and could assist a tribunal in understanding the author’s perception of the design freedom and the character of the choices), it is also not determinative. Ultimately, the tribunal will need to decide whether, as a result of
making creative choices, the objective features of the resulting production reflect the author’s personal touch”

Libertà matrimoniale e dovere di informare il nubendo circa la propria visione del rapporto instaurando prima della celebrazione

Interessanti affermazioni in Cass. sez. III, ord. 05/11/2024  n. 28.390, rel. Scoditti:

<<Ciò premesso, deve considerarsi che la libertà matrimoniale è un diritto della personalità, sancito anche dall’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Benché il matrimonio sia un atto di autonomia privata, non può esservi attribuito l’effetto impegnativo del vincolo di cui all’art. 1372 c.c. alla luce del diritto di chiedere la separazione giudiziale al cospetto di un fatto tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. Come affermato da Cass. n. 18853 del 2011: “nel vigente diritto di famiglia, contrassegnato dal diritto di ciascun coniuge, a prescindere dalla volontà o da colpe dell’altro, di separarsi e divorziare, in attuazione di un diritto individuale di libertà riconducibile all’art. 2 Cost., ciascun coniuge può legittimamente far cessare il proprio obbligo di fedeltà proponendo domanda di separazione ovvero, ove ne sussistano i presupposti, direttamente di divorzio. Con il matrimonio, infatti, secondo la concezione normativamente sancita del legislatore, i coniugi non si concedono un irrevocabile, reciproco ed esclusivo “ius in corpus” – da intendersi come comprensivo della correlativa sfera affettiva – valevole per tutta la vita, al quale possa corrispondere un “diritto inviolabile” di ognuno nei confronti dell’altro, potendo far cessare ciascuno i doveri relativi in ogni momento con un atto unilaterale di volontà espresso nelle forme di legge””. Si tratta del diritto strettamente personale ed irrinunciabile, riconosciuto ai coniugi dall’ordinamento italiano, di far cessare gli stessi effetti civili, in attuazione di un diritto individuale di libertà riconducibile all’art. 2 Cost. Con riferimento ad altro profilo, ha affermato Cass. n. 6598 del 2019 che “l’ordinamento non tutela il bene del mantenimento della integrità della vita familiare fino a prevedere che la sua violazione di per sé possa essere fonte di una responsabilità risarcitoria per dolo o colpa in capo a chi con la sua volontà contraria o comunque con il suo comportamento ponga fine o dia causa alla fine di tale legame. L’ammissione di una tale affermazione incondizionata di responsabilità potrebbe andare a confliggere con altri diritti costituzionalmente protetti, quali la libertà di autodeterminarsi ed anche la stessa libertà di porre fine al legame familiare, riconosciuta nel nostro ordinamento fin dal 1970”.

L’atto di impegno matrimoniale è rimesso alla libera e responsabile scelta del soggetto, quale espressione della piena libertà di autodeterminarsi al fine della celebrazione del matrimonio. Tale libertà non può essere limitata da un obbligo giuridico di comunicare alla propria controparte uno stato soggettivo quale l’incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale, avvertendo il soggetto il rischio concreto della sua dissoluzione ed effettuando la scelta matrimoniale nella consapevolezza di tale rischio, ciò che in altri termini comporta un tentativo o prova di convivenza matrimoniale. Affinché tale libertà non sia compromessa dall’incombenza di una conseguenza quale la responsabilità risarcitoria derivante dall’inottemperanza ad un dovere giuridico, la comunicazione in discorso, in quanto relativa alla sfera personale affettiva, può comportare esclusivamente un dovere morale o sociale. Alla luce della libertà della scelta matrimoniale non emergono, dalla mancata comunicazione dello stato d’animo di incertezza in questione, un interesse della controparte meritevole di tutela da parte dell’ordinamento con il riconoscimento del rimedio risarcitorio e, dunque, un danno ingiusto.

La riserva mentale circa la concreta possibilità della dissoluzione del matrimonio è così improduttiva di effetti per l’ordinamento italiano, sia dal lato del coniuge portatore della riserva, che non può avvantaggiarsene fino a conseguire la nullità del matrimonio (in conformità del resto alla generale irrilevanza della riserva mentale in materiale negoziale), sia dal lato dell’altro coniuge, che non è titolare di un interesse meritevole di tutela risarcitoria per l’ordinamento, per avere fatto affidamento sulla mancanza di quella riserva.

Va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto: “non rappresenta fatto costitutivo di responsabilità risarcitoria l’omessa comunicazione da parte di uno dei due coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, dello stato psichico di concreta incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale e della scelta di contrarre matrimonio con la riserva mentale di sperimentare la possibilità che il detto vincolo non si dissolva”.

La sentenza della Corte di Giustizia nel caso italiano Jamendo sulle collecting societies nel diritto d’autore UE

C. Giust. C-10/22 del 21.03.2024, Liberi editori e autori LEA c. Jamendo SA., avv. gen. Szpunar, affronta il complicato tema della equiparazione tra organismi di gestione collettiva (OGC; SIAE da noi)  e entità di gestione indipendenti (EGI)  secondo la duplice possibilità offerta dalla direttiva 2014/25.

La radicale esclusione degli EGI non è compatbile con la direttiva, mentre una differenza disciplinare può esserlo (più vincolante per le EGI), in ragione della più lasca disciplina per esse prevista dalla direttiva.

Sintesi finale:

<<96  Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve ritenere che il trattamento differenziato, operato dalla normativa nazionale di cui trattasi, delle entità di gestione indipendenti rispetto agli organismi di gestione collettiva risponda all’intento di conseguire l’obiettivo di protezione del diritto d’autore in modo coerente e sistematico, dal momento che la direttiva 2014/26 assoggetta le entità di gestione indipendenti ad obblighi meno rigorosi rispetto a quelli degli organismi di gestione collettiva per quanto riguarda, in particolare, l’accesso all’attività di gestione dei diritti d’autore e dei diritti connessi, la concessione delle licenze, le modalità di governance nonché il quadro di sorveglianza cui sono soggette. In dette circostanze, tale trattamento differenziato può essere considerato idoneo a garantire il conseguimento di detto obiettivo.

97 Tuttavia, per quanto concerne, sotto un secondo profilo, la questione se la restrizione consistente nell’escludere le entità di gestione indipendenti dall’attività di intermediazione dei diritti d’autore non vada oltre quanto è necessario per garantire il conseguimento dell’obiettivo di interesse generale connesso alla protezione del diritto d’autore, occorre rilevare che una misura meno lesiva della libera prestazione di servizi potrebbe consistere, segnatamente, nel subordinare la prestazione di servizi di intermediazione dei diritti d’autore nello Stato membro interessato a obblighi normativi specifici che sarebbero giustificati riguardo all’obiettivo di protezione del diritto d’autore.

98 Pertanto, occorre constatare che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale, nella misura in cui preclude, in modo assoluto, a qualsiasi entità di gestione indipendente, a prescindere dagli obblighi normativi cui essa è soggetta in forza del diritto nazionale dello Stato membro in cui è stabilita, di esercitare una libertà fondamentale garantita dal Trattato FUE, risulta andare oltre quanto è necessario per proteggere il diritto d’autore.

99 Alla luce di tutte le precedenti considerazioni, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 56 TFUE, in combinato disposto con la direttiva 2014/26, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa di uno Stato membro che esclude in modo generale e assoluto la possibilità per le entità di gestione indipendenti stabilite in un altro Stato membro di prestare i loro servizi di gestione dei diritti d’autore nel primo di tali Stati membri>>.

L’art. 180 l. aut. però è stato modificato nel settembre/novembre 2024, nel senso di equiparare i due tipi di enti.

Nel maggio 2024 è stato emanato il regolamento AGCOM sulla rappresentatività e sui doveri delle collecting , delibera 95-24 (v. pag. web del provvedimento  e il link diretto al regolamento, allegato A).

Nel febbraio 2023  il Consiglio di Stato  aveva rigettato il ricorso di SIAE nell’opposiizone da questa fatta all’accertamento AGCM di abuso di posizione dominante (sentenza 15.02.2023, sez. 6, N. 01580/2023 REG.PROV.COLL.) che esamina fra le altre l’ambito soggettivo ed oggettivo di applicaizone dell’art. 180 l. aut. prima e dopo lke modifiche del 2017 (§ 17 ss , p. 732 ss del file).

Della ponderosa sentenza ricordo solo l’affermata natura eccezionale dell’esclusiva SIAE , oggi delle collecting in generale (p. 74/5)

Seconda bocciatura del mega compenso di Musk accordatogli dal board di Tesla da parte del medesimo giudice della corte del Delaware

Richard J. Tornetta v. Elon Musk et al.Court of chancery of Delaware 2 dicembre 2024m C.A. No. 2018-0408-KSJM, giudice McCORMICK, C.

Ecco i quattro motivi supportanti la decisione, come li riassume all’inizio della stessa il giudice:

<<The motion to revise is denied. The large and talented group of defense firms
got creative with the ratification argument, but their unprecedented theories go
against multiple strains of settled law. There are at least four fatal flaws. First, the
defendants have no procedural ground for flipping the outcome of an adverse post-trial decision based on evidence they created after trial. Second, common-law ratification is an affirmative defense that must be timely raised, which means that, at a minimum, it cannot be raised for the first time after the post-trial opinion. Third, what the defendants call “common law ratification” has no basis in the common law— a stockholder vote standing alone cannot ratify a conflicted-controller transaction. Fourth, even if a stockholder vote could have a ratifying effect, it could not do so here due to multiple, material misstatements in the proxy statement. Each of these defects standing alone defeats the motion to revise>>

Quelli interssanti sono il 3 ° (sub C, p. 34 ss) e soprattutto il 4° (sub D, P. 41 SS) : ratifica invalda perchè senza basi nel common law e comunque perchè i soci erano disinformati (inesattezze nella delega di voto)

Riporto solo ciè che Tesla aveva detto ai suoi soci:

<<• Their vote could “extinguish claims for breach of fiduciary duty by
authorizing an act that otherwise would constitute a breach.”166
• “[T]he deficiencies, including disclosure deficiencies, procedural
deficiencies, and breaches of fiduciary duty, identified by the Delaware
Court in connection with the Board and our stockholders’ original
approval of the 2018 CEO Performance Award should be ratified and
remedied and any wrongs found by the Delaware Court in connection
with the 2018 CEO Performance award should be cured.”167
• “[I]f the 2018 CEO Performance Award is ratified, those options will be
restored to Mr. Musk. As a result, Mr. Tornetta may not be considered
to have rendered the ‘benefit’ to Tesla through his lawsuit that is
claimed by his attorneys.”168
• And “a new stockholder vote allows the disclosure deficiencies found by
the Tornetta court to be corrected, among other things>>.

Ebbene, dice il giudice, “All of this is materially false or misleading”.

Importasnti studiosi di diritto societario usa pensano che i giudici del Delaware siano diventasti un pò troppo pro minoranze e troppo poco pro amministratori:  ad es. Jonathan Macey e Stephen M. Bainbridge.

Di quest’ultimo v. il suo post 2 dicembre 2024 sulla seconda sentenza qui ricordata.

Ancora sull’assegno divorzile

Cass. sez. I, ord. 28/11/2024  n. 30.602, rel. Garri:

<<I criteri di cui all’art.5, comma 6, in esame costituiscono, nel loro complesso, il parametro di riferimento tanto della valutazione relativa all’ an debeatur quanto di quella relativa al quantum debeatur: l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente, prescritto ai fini della prima operazione, deve aver luogo mediante una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti che tenga conto anche del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dello avente diritto, tutto ciò in conformità della funzione non solo assistenziale, ma anche compensativa e perequativa dell’assegno divorzile, discendente direttamente dal principio costituzionale di solidarietà. (…).

Sciolto il vincolo coniugale, in linea di principio ciascun ex coniuge deve provvedere al proprio mantenimento, ma tale principio è derogato, in base alla disciplina sull’assegno divorzile, oltre che nell’ipotesi di non autosufficienza di uno degli ex coniugi, anche nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale dall’uno all’altro coniuge, ex post divenuto ingiustificato, spostamento patrimoniale che in tal caso deve essere corretto attraverso l’attribuzione di un assegno, in funzione compensativo-perequativa.

Ciò detto, il giudice del merito dovrà effettuare un esame bifasico in ordine all’an debeatur dell’assegno divorzile in cui l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, nonché dello squilibrio economico/patrimoniale fra i coniugi costituisce un prius logico-giuridico e fattuale preliminare alla ulteriore valutazione dell’apporto dato dal coniuge economicamente più debole al c.d. menage familiare in costanza di rapporto matrimoniale>>.

Solo che a  tutta questa copiosa (e costante, tutto sommato) giurisporudenza sfugge che nell’art. 5.6 è solo il parametro dell’ultima parte che regola l’AN, mentre sono solo quelli della prima parte che regolano il QUANTUM.

Due Cassazioni su i) presunzione di comproprietà del lastrico solare e formazione del condominio; ii) prova del danno da infiltrazioni per mancato godimento dell’immobile

Cass. sez. II, ord. 29/11/2024 n. 30.713, rel. Oliva:

<<Occorre premettere che, secondo l’insegnamento di questa Corte, “In tema di condominio negli edifici, l’individuazione delle parti comuni, come le terrazze di copertura, risultante dall’art. 1117 c.c. –il quale non si limita a formulare una mera presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini, vincibile con qualsiasi prova contraria– può essere superata soltanto dalle opposte risultanze di un determinato titolo e non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 7449 del 07/07/1993, Rv. 483033; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24189 del 08/09/2021, Rv. 662169).

L’art. 1117 c.c., dunque, non introduce una presunzione di appartenenza comune di determinati beni a tutti i condomini, ma fissa un criterio di attribuzione della proprietà del bene, che è suscettibile di essere superato mediante la produzione di un titolo che dimostri la proprietà esclusiva di quel bene in capo ad un condomino, o a terzi, ovvero attraverso la dimostrazione che, per le sue caratteristiche strutturali, la res sia materialmente asservita a beneficio esclusivo di una o più unità immobiliari.

Nel caso del lastrico di copertura, si è ritenuto che esso, in difetto di titolo contrario, rientri ope legis nell’ambito delle parti comuni dell’edificio, stante la sua funzione naturale di copertura dello stesso (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1501 del 21/05/1974, Rv. 369620) e che analogo regime giuridico debba essere attribuito anche alla cd. terrazza a livello, ove essa abbia anche una funzione di copertura e protezione dagli agenti atmosferici dei vani sottostanti (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 863 del 25/03/1971, Rv. 350737 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 20287 del 23/08/2017, Rv. 645233). Pertanto, “… l’individuazione delle parti comuni, come i lastrici solari, emergente dall’art. 1117 c.c. ed operante con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, non siano destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari, può essere superata soltanto dalle contrarie risultanze dell’atto costitutivo del condominio –ossia dal primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali–, ove questo contenga in modo chiaro e inequivoco elementi tali da escludere l’alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d’acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21440 del 06/07/2022, Rv. 665175)>>.

E poi:

<<la Corte di Appello avrebbe dovuto applicare la norma di cui all’art. 1117 c.c. e dunque ribadire il principio secondo cui la cd. presunzione di condominialità “… stabilita per i beni elencati nell’art. 1117 c.c., la cui elencazione non è tassativa, deriva sia dall’attitudine oggettiva del bene al godimento comune sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune, con la conseguenza che, per vincere tale presunzione, il soggetto che ne rivendichi la proprietà esclusiva ha l’onere di fornire la prova di tale diritto; a tal fine, è necessario un titolo d’acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, mentre non sono determinanti le risultanze del regolamento di condominio, né l’inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5633 del 18/04/2002, Rv. 553833; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8152 del 15/06/2001, Rv. 547520, che esclude la natura decisiva dei dati catastali, dotati di mera valenza indiziaria)>>.

Infine:

<< Sul punto, va ribadito che il momento costitutivo del condominio (o, nel caso di specie, del supercondominio, il cui regime giuridico è modellato sulla base di quello del condominio) coincide con il primo atto di frazionamento della proprietà immobiliare, ab origine concentrata nelle mani di un solo soggetto, con il quale la parte acquirente “… salvo che il titolo non disponga diversamente, entra a far parte del condominio ipso jure et facto relativamente alle parti comuni ex art. 1117 c.c. esistenti al momento dell’alienazione e per addizione, man mano che si realizzano, di quelle ulteriori parti necessarie o destinate, per caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune, nonché di quelle che i contraenti, nell’esercizio dell’autonomia privata, dispongano comunque espressamente di assoggettare al regime di condominialità” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 32857 del 27/11/2023, Rv. 669622; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21440 del 06/07/2022, Rv. 665175 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 1615 del 16/01/2024, Rv. 669934)>>.

Si veda poi Cass. sez. II, sent. 02/12/2024  n. 30.791, rel. Giannaccari:

<<2.3. Secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di condominio negli edifici, l’individuazione delle parti comuni, come le terrazze di copertura, risultante dall’art. 1117 c.c. può essere superata soltanto dalle opposte risultanze di un determinato titolo e non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (Cass., Sez. Un., 7 luglio 1993 n. 7449; Cass. 8 settembre 2021 n. 24189).

L’art. 1117 c.c. non introduce una presunzione di appartenenza comune di determinati beni a tutti i condomini, ma fissa un criterio di attribuzione della proprietà del bene (“Sono oggetto di proprietà comune….”), che è suscettibile di essere superato mediante la produzione di un titolo che dimostri la proprietà esclusiva di quel bene in capo ad un condomino, o a terzi, ovvero attraverso la dimostrazione che, per le sue caratteristiche strutturali, la res sia materialmente asservita a beneficio esclusivo di una o più unità immobiliari.

2.4. Con riguardo ai lastrici, in particolare, si è ritenuto che, qualora non intervenga una volontà derogatoria degli interessati sul regime di appartenenza, i beni e i servizi elencati dall’art. 1117 c.c., in virtù della relazione di accessorietà o di collegamento strumentale con le singole unità immobiliari, sono attribuiti ex lege in proprietà comune per effetto dell’acquisto della proprietà dei piani o porzioni di piano; pertanto, il lastrico solare è oggetto di proprietà comune se il contrario non risulta dal titolo, per tale intendendosi gli atti di acquisto delle altre unità immobiliari nonché il regolamento di Condominio accettato dai singoli condomini (Cass. 8 ottobre 2021 n. 27363; Cass. 16 luglio 2004 n. 13279).

È stato, inoltre, precisato in giurisprudenza che l’individuazione delle parti comuni, come i lastrici solari, emergente dall’art. 1117 c.c., ed operante con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, non siano destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari, può essere superata soltanto dalle contrarie risultanze dell’atto costitutivo del Condominio, ove questo contenga in modo chiaro e inequivoco elementi tali da escludere l’alienazione del diritto di Condominio (Cass. 6 luglio 2022 n. 21440; Cass. 7 aprile 1995 n. 4060).

2.5. La giurisprudenza di questa Corte richiede, per escludere la previsione di condominialità di cui all’art. 1117 c.c., una espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del Condominio (cfr. ad esempio, in tema di cortili, Cass. n. 7885 del 2021; Cass. n. 16070 del 2019; Cass. n. 18796 del 2020; Cass. n. 5831 del 2017; la regola vale ovviamente anche per gli altri beni indicati nell’art. 1117 c.c.).

Il lastrico, in definitiva, assolve alla primaria funzione di copertura dell’edificio e rientra dunque nel novero delle parti comuni, salva la prova contraria che, però, deve essere fornita in modo chiaro ed univoco, attraverso una espressa riserva di proprietà. (…)      2.7. La prova della proprietà del lastrico doveva avvenire, invece, attraverso un titolo idoneo a dimostrare il superamento della presunzione di condominialità del lastrico solare di cui all’art. 1117 c.c.

Per titolo non si intende, evidentemente, il titolo che individua il soggetto destinatario dei costi della manutenzione, ordinaria e straordinaria, della terrazza, ma deve intendersi l’atto costitutivo dello stesso Condominio, ossia il primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali; tale atto deve contenere in modo chiaro e inequivoco elementi tali da includere l’alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d’acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni (così Cass. n. 21440 del 2022; analogamente, v. anche, Cass. n. 27363/2021 cit.; Cass. n. 13279/2004 cit.; Cass. n. 4060/1995 cit.) >>.

Interessante poi il passaggio di Cass. 30.791/2024 sulla presunzione di danno da mancato godimento del bene reso inutilizzabile:

<<3.4. Sul punto, deve essere richiamata la nota pronuncia delle Sezioni Unite del 15/11/2022, n.33645, che, in tema di prova del danno da perdita di godimento del bene, ha ammesso la prova presuntiva.

Le Sezioni Unite, con la citata sentenza, hanno optato per una mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della II Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione Civile.

Le Sezioni Unite hanno confermato la linea evolutiva della giurisprudenza della II Sezione Civile, nel senso che la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato.

La sentenza delle Sezioni Unite definisce, altresì, la nozione di danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà esso riguarda non la cosa ma il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa sicché il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione.

Il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire.

Nel caso in cui la prova sia fornita attraverso presunzioni, l’attore ha l’onere di allegare il pregiudizio subito, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.

Il principio enunciato dalle Sezioni Unite, riferito alla perdita della disponibilità/godimento dell’immobile per la diversa ipotesi di occupazione senza titolo da parte di un terzo, trova applicazione anche nelle ipotesi in cui la perdita della disponibilità/godimento sia dovuta alla inagibilità dell’immobile in conseguenza dell’attività colposa di terzi.

La Corte di merito ha omesso di accertare se, a causa del protrarsi delle infiltrazioni, l’attrice avesse perso il godimento sia diretto, sia indiretto mediante locazione, del suo appartamento, in quanto non poteva né goderlo, né concederlo a terzi in caso di inabitabilità.

La Corte territoriale, pur asserendo di aderire all’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, confermato dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite, ha erroneamente rigettato la domanda dell’attrice per carenza di prova di concrete richieste di locazione o di vendita dell’immobile rimaste pregiudicate dalle sue condizioni degradate>>.

E’ valida la clausola claims made nella assicurazione della responsabilità civile

Cass. sez. III, ord, 15/11/2024, (ud. 26/06/2024, dep. 15/11/2024), n.29483, rel. Guizzi:

<<11.2.3. Non può, infatti, darsi seguito – perché rimasto del tutto isolato nella giurisprudenza di questa Corte – al principio, affermato dall’arresto di questa Corte (si tratta di Cass. Sez. 3, ord. 13 maggio 2020, n. 8894, Rv. 657843 – 01) al quale si è richiamata la sentenza impugnata, secondo cui deve ritenersi nulla, se non specificamente sottoscritta, la clausola “claims made”, ponendo a carico dell’assicurato un termine di decadenza per denunciare l’evento, la decorrenza del quale non dipende dalla sua volontà.

Si tratta, infatti, di principio in contraddizione con la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha evidenziato – cfr., in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 22 aprile 2022, n. 12908, Rv. 664813 – 01 – che, “di per sé dirimente”, risulta “quanto espressamente statuito in medias res” dalle Sezioni Unite nella sentenza del 6 maggio 2016, n. 9140, al par. 6.2., secondo cui “deve escludersi che la limitazione della copertura assicurativa alle “richieste di risarcimento presentate all’Assicurato, per la prima volta, durante il periodo di efficacia dell’assicurazione”, in relazione a fatti commessi nel medesimo lasso temporale o anche in epoca antecedente, ma comunque non prima di tre anni dalla data del suo perfezionamento, integri una decadenza convenzionale, soggetta ai limiti inderogabilmente fissati nella norma codicistica di cui si assume la violazione”, e ciò perché “l’istituto richiamato, implicando la perdita di un diritto per mancato esercizio dello stesso entro il periodo di tempo stabilito, va inequivocabilmente riferito a già esistenti situazioni soggettive attive nonché a condotte imposte, in vista del conseguimento di determinati risultati, a uno dei soggetti del rapporto nell’ambito del quale la decadenza è stata prevista”, mentre “la condizione racchiusa nella clausola in contestazione consente o preclude l’operatività della garanzia in dipendenza dell’iniziativa di un terzo estraneo al contratto, iniziativa che peraltro incide non sulla sorte di un già insorto diritto all’indennizzo, quanto piuttosto sulla nascita del diritto stesso”, con la conseguenza “che non v’è spazio per una verifica di compatibilità della clausola con il disposto dell’art. 2965 cod. civ.”.

Del pari, tale rilevata “diversità di piani, non comunicanti tra loro, in cui si collocano, rispettivamente, la clausola claims made e la disciplina recata dalla norma dell’art. 2965 cod. civ. è riaffermata, sebbene in modo implicito, ma senza equivoci, dalla successiva sentenza n. 22437/2018, sempre delle Sezioni Unite, la quale ha evidenziato, in armonia con il precedente approdo nomofilattico, che l’anzidetta clausola si configura come delimitativa dell’oggetto del contratto, “correlandosi l’insorgenza dell’indennizzo, e specularmente dell’obbligo di manleva, alla combinata ricorrenza della condotta del danneggiante (la vicenda storica determinativa delle ‘conseguenze patrimoniali’ di cui “l’assicurato intende traslare il rischio”: cioè, del ‘danno’) e della richiesta del danneggiato” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 12908 del 2022, cit.). Ne consegue, pertanto, che “non può essere affetta da nullità, ex art. 2965 c.c., la clausola claims made “perché fa dipendere la decadenza dalla scelta di un terzo”, giacché l’atteggiarsi della richiesta del terzo, quale evento futuro, imprevisto ed imprevedibile, è del tutto coerente con la struttura propria del contratto di assicurazione contro i danni (nel cui ambito, come detto, è da ricondursi la polizza con clausola claims made), in cui l’operatività della copertura deve dipendere da fatto non dell’assicurato” (Cass. Sez. 3, sent. n. 12908 del 2022, cit.; in senso analogo anche Cass. Sez. 3, ord. 8 maggio 2024, n. 12462, Rv. 670901 – 01)>>.