Chi risponde per le prestazioni periodiche o continuative successive al trasferimento di azienda?

Cass. sez. III, ord. 23 Aprile 2024, n. 10.902. , rel. Porreca (segnalazione di ilcaso.it), circa fornitura erogata da ServiozioElettrico Nazxinale spa

<<In caso di cessione d’azienda, dei debiti per il pagamento di prestazioni continuative o periodiche eseguite dopo il trasferimento risponde il solo acquirente, per effetto del suo subentro ex lege nei contratti in corso a prestazioni corrispettive non ancora integralmente eseguite da alcuna delle parti, mentre, ai sensi dell’art. 2560 c.c., l’alienante risponde soltanto dei debiti residuati da contratti in cui il terzo contraente abbia già adempiuto la propria prestazione prima della cessione. (In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di accoglimento dell’opposizione a un decreto ingiuntivo di condanna del cedente l’azienda al pagamento del corrispettivo di energia elettrica somministrata dopo la cessione)>>. (massima ufficiale)

Arrivata la decisione del Grand Board EUIPO sulla domanda di marchio COVIDIOT

Eleonora Rosati in IPKat ci notizia della decisione finale sulla domanda di marchio COVIDIOT per Class 6: Metal clips. Class 9: Computer gaming software; Mobile apps. Class 28: Board games; Toys.

V. mio post 13.06.2022 sulla decisione di appello di rimettere alla corte allargata.

Si tratta di Grand Board of Appeal 16.05.2024, Matthias Zirnsack applicant: qui la traduzione inglese offerta dall’Ufficio (qui invece la pagina del database)

Il G. Board conferma il rigetto sia per contrarietà ad ordine pubblico che per assenza di distintività.

La decisione è importante per profondità di analisi e sarà un punto di riferimento.

Mi limito  ricordare solo che l’apparentemente political expression nel caso de quo è invece una commercial espression, quindi con minor tutela (§ 136 ss.)

Sintesi:

<§ 146 To summarise, it is important that within the interpretation of the conditions of Article 7 EUTMR, the interests of the applicant must be balanced with public interests. An application for trade mark registration does not enjoy a stronger scope of protection under the right of freedom of expression because the word is also part of the political debate.    Rather, it is treated merely as a commercial term. Such trade mark applied for must be refused like any other sign, once the conditions of Article 7 EUTMR are met. (…)

Consequently, the trade mark applied for must be refused in accordance with Article 7(1)(f) EUTMR, because when used as a trade mark for the contested goods, such as games and similar products, it would trivialise one of the deadliest pandemics ever, in a way that is contrary to human dignity and hence accepted principles of morality  >

Trib Bologna su concorrenza parassitaria e sul rapporto tra tutela d’autore ex art. 2.4 l. aut., da una parte, e art. 2.10 l. aut., dall’altra.

In un caso di pretesa copiatura di decorazioni su mattonelle, Trib. Bologna n. 747/2023 del 03.04.2023, Rg 1234/2019, rel. Romagnoli, segnalato da giurisprudenzadelleimprese.it, affronta i due temi.

Sul primo:

<< estrema sintesi, la concorrenza parassitaria consiste nella imitazione sistematica e protratta nel tempo
dell’attività imprenditoriale del concorrente, laddove ciò che distingue tale fattispecie di modalità
scorretta di concorrenza (ex art. 2598 n. 3 c.c.) rispetto ai casi tipici di cui ai nn. 1 e 2 dell’art. 2598 c.c.
è il continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente attraverso l’imitazione non
tanto dei prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali in un contesto temporale prossimo,
così da rivelare l’intento di avvantaggiarsi sul mercato sfruttando il lavoro e gli sforzi altrui (cfr. ex
multis Cassazione civile, sez. I, 12/10/2018, n. 25607); in altre parole, la concorrenza parassitaria
consiste nel comportamento dell’imprenditore che in modo sistematico e continuo segue le orme di un
imprenditore concorrente, ne imita le iniziative con assiduità e costanza, non limitandosi a copiare un
unico oggetto (cfr. Cass. civ. sez. I, 29/10/2015, n. 22118) e dunque pur senza confusione di attività e
di prodotti (cfr. Trib. Napoli 18.2.2014) sicché, ove si sia correttamente escluso nell’elemento
dell’imitazione servile dei prodotti altrui il centro dell’attività imitativa (requisito pertinente alla sola
fattispecie di concorrenza sleale prevista dal n. 1 dello stesso art. 2598 c.c.), debbono essere indicate le
attività del concorrente sistematicamente e durevolmente plagiate, con l’adozione e lo sfruttamento, più
o meno integrale ed immediato, di ogni sua iniziativa, studio o ricerca (Cass. n. 25607 cit.).
In ultima analisi, nella concorrenza parassitaria l’attività commerciale dell’imitatore si traduce in un
cammino continuo e sistematico, anche se non integrale, essenziale e costante sulle orme altrui, giacché
l’imitazione di tutto o di quasi tutto quello che fa il concorrente, nonché l’adozione più o meno
immediata di ogni sua nuova iniziativa, seppure non realizzi una confusione di attività e di prodotti, è
contraria alle regole che presiedono all’ordinato svolgimento della concorrenza (Tribunale Milano, Sez. Proprieta’ Industriale e Intellettuale, 02/05/2013, n. 6095)”.

Sul secondo:

<<Innanzi tutto, va correttamente individuato l’ambito di tutela autorale tra le opere del disegno
industriale ex art. 2 n. 10 L.A. e le opere dell’arte figurativa di cui al n. 4 dell’art. 2 L.A., che si
pongono su un piano di reciproca esclusione (cfr. Cass. civ. sez. I, 23.3.2017 n. 7577 in motivazione)
essendo, in particolare, protette come disegno industriale le opere che trovano la loro collocazione
“nella fase progettuale di un oggetto destinato ad una produzione seriale, a condizione che siano
dotate di carattere creativo e valore artistico”, mentre ricadono nell’ambito di tutela dell’arte
figurativa le opere riprodotte “in un solo esemplare o in un numero limitato di esemplari […] e
destinato a un mercato differente, sicuramente più ristretto, rispetto a quello cui sono indirizzati i beni
oggetto della produzione industriale” (cfr. ex multis Cassazione civile, sez. I, 12.1.2018, n. 658).
Nella fattispecie, il motivo decorativo delle piastrelle non è opera figurativa, neppure nel caso, non
provato, della trasposizione/incorporazione di opera figurativa dell’artista sulla piastrella: non si dubita
del contributo artistico dello stilista, che si concretizza nel motivo decorativo della piastrella, ma la
destinazione alla produzone industriale è incompatibile con la tutela autorale ex art. 2 n. 4 L.A.
D’altronde, la destinazione all’industria e alla riproduzione seriale, non fa della decorazione della
piastrella un’opera del design industriale ex art. 2 n. 10 L.A., non solo perché il carattere creativo e la
novità sono elementi costitutivi anche dell’opera del design industriale, ma soprattutto perché l’opera
del design industriale è quella che presenta “di per sé carattere creativo e valore artistico”, laddove
tale quid pluris è ricavabile da indicatori oggettivi, quali il riconoscimento da parte degli ambienti
culturali ed istituzionali di qualità estetiche ed artistiche, l’esposizione in mostre o musei, la
pubblicazione su riviste specializzate ecc. (cfr. Tribunale Torino, Sez. spec. Impresa, 31.1.2019, n.
482); prove che spettano alla parte che invoca la tutela e che fanno difetto nella fattispecie che occupa.
Nella fattispecie trattasi, in definitiva, di mera decorazione della piastrella, che non assurge né ad opera
dell’arte figurativa né a design industriale per il fatto di essere il risultato della collaborazione con
l’artista che ne ha disegnato il motivo ornamentale>>

Cass. sez. III, 24.04.2024, n. 11.126, rel. Cricenti.

<<Ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale è necessario che tra le parti sia raggiunta l’intesa su tutti gli elementi dell’accordo, non potendosene ravvisare la sussistenza qualora – raggiunta l’intesa solamente su quelli essenziali, pure riportati in apposito documento (cosiddetto “minuta” o “puntuazione”) – risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori, con la conseguenza che, rispetto a tale convenzione, non può esservi inadempimento, non essendo la stessa fonte di obbligazioni determinate. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza che aveva negato efficacia vincolante ad un accordo, finalizzato ad una divisione di alcuni beni immobili e di alcune società che le parti avevano in comune, che si limitava a prevedere l’assegnazione reciproca degli immobili, indicati solo genericamente, e delle quote sociali alle parti o a persone da nominare). (massima ufficiale)>> (da ilcaso.it)

I fatti di causa, per meglio capire la regola astratta:

<<Ad ogni modo, risulta dal tenore letterale, e dall’intero contenuto,
che l’accordo contiene la previsione che alcuni beni immobili siano
assegnati ad una parte a ed altri all’altra, ma, nello stesso tempo,
si prevede che occorre andare dal notaio per farlo, e gli immobili
sono indicati solo genericamente: si stabilisce infatti che le spese
delle compravendite devono stabilirsi entro un certo tempo; inoltre
i trasferimenti societari sono fatti a favore di una delle parti o di
persona da nominare. Con la conseguenza che né i “trasferimenti
“di immobili né quelli delle società possono dirsi immediati, ossia
immediatamente efficaci, in quanto per alcuni è prevista la stipula
successiva di atti di compravendita, e per gli altri la scelta,
successiva, se attribuirli alle parti o a persona da nominare.
È evidente, dunque, che l’accordo in questione – come ha
puntualmente osservato la Corte d’appello – non costituisce la
regolamentazione finale del rapporto, ma ne è solo una
regolamentazione provvisoria: si tratta di un accordo preparatorio
con il quale le parti hanno raggiunto l’intesa su alcuni aspetti
soltanto del definitivo rapporto, con la conseguenza che le
trattative possono proseguire (ed è previsto che proseguano) sulle
rimanenti parti dell’accordo. Lo dimostra il fatto che le parti stesse
rimandano al futuro (entro un termine dato) di dare incarico al
notaio e di individuare la persona da nominare cui attribuire le
quote.>>

Responsabilità penale dell’amministratore senza delega per fatti di bancarotta

Inusualmente riferisco di una sentenza penale per la sua importanza anche civilistica.

Si tratta di Cass. pen. sez. 5 n. 20153 del 12-04.2024 (data ud.), rel. Borrelli:

<< 4. Se il punto cruciale del ragionamento del Collegio della cautela e del ricorso del pubblico ministero è, dunque, la consapevolezza di Mo.Ca. circa il mendacio e se tale consapevolezza passa attraverso la verifica di quella dell’esistenza delle distrazioni taciute o dissimulate nei bilanci, allora un altro doveroso passaggio preliminare è quello di ricostruire, sia pur brevemente, gli approdi di questa Corte sul tema del versante soggettivo della responsabilità dell’amministratore senza delega, tale potendo ritenersi Mo.Ca. ancorché munito di delega per alcune attività, delega, tuttavia, non concernente l’ambito interessato dalle distrazioni.

A tale riguardo, può affermarsi che la giurisprudenza di questa Corte – che il Collegio condivide e da cui non intende discostarsi – salvo qualche incertezza in tempi più risalenti, negli ultimi anni si è attestata su un’esegesi particolarmente rigorosa quanto alla responsabilità dell’amministratore senza delega e, in particolare, ai criteri in base ai quali ritenerlo consapevole e, quindi, responsabile di attività predatorie ai danni della società amministrata, commesse dall’amministratore munito di delega. Quello che oggi si richiede per ritenere dimostrato il dolo della distrazione in capo all’amministratore senza delega è che questi abbia “effettiva conoscenza” di fatti predatori ovvero di segnali di allarme di questi ultimi e non che le anomalie siano semplicemente “conoscibili”[a differenza dal civile in cui basta l’indempimento, irrilevante essendo l’elemento soggettivo. Semmai  il prob. quando ricorra inadempimento, in presenza di questo o quel segnala di allarme]

In questo senso va innanzitutto ricordato il recente approdo di Sez. 5, n. 33582 del 13/06/2022, Benassi, Rv. 284175, secondo cui “in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il concorso per omesso impedimento dell’evento dell’amministratore privo di delega è configurabile quando, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà, nella forma del dolo indiretto, di non attivarsi per scongiurare detto evento, dovendosi infine accertare, sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, la sussistenza del nesso causale tra le contestate omissioni e le condotte delittuose ascritte agli amministratori con delega”. La pronunzia, in particolare, ha preso in esame la figura dell’amministratore senza delega alla luce della riforma del diritto societario, evidenziando come questi non abbia più un generale obbligo di vigilanza sulla gestione attuata dagli organi delegati, ma, ai sensi dell’art. 2381, comma 6, cod. civ., un dovere di agire informato e di chiedere ragguagli al consiglio di amministrazione, dovere che si attualizza laddove vi sia la conoscenza o di fatti nocivi per la società oppure di indicatori di anomalie che riconducano ad attività nocive.

Tale pronunzia si pone sulla scia di altre decisioni che, per quanto di specifico interesse in questa sede, hanno sottolineato come la responsabilità dell’amministratore senza delega non possa prescindere dall’effettiva conoscenza dei fatti depauperativi o di segnali di allarme – inequivocabili – che ad essi riconducano e che siano stati volontariamente ignorati, scongiurando, così il rischio di un addebito del reato a titolo di colpa (per inettitudine, incapacità o imprudente fiducia nell’agire dell’organo delegato) o, addirittura, di responsabilità oggettiva da posizione (Sez. 1, n. 14783 del 09/03/2018, Lubrina e altri, Rv. 272614; Sez. 5, n. 42519 del 08/06/2012, Bonvino e altri, Rv. 253765; Sez. 5, n. 42568 del 19/06/2018, E. Rv. 273925; Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi e altri, Rv. 261938; Sez. 5 n. 21581 del 28/04/2009, Mare, Rv. 243889; Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012, dep. 2013, Berlucchi, Rv. 256939, concernente proprio la bancarotta impropria da reato societario; Sez. 5, n. 42519 del 08/06/2012, Bonvino, Rv. 253765)

Nella sentenza Tanzi, in particolare, oltre ad essere stato delineato il concetto di “segnale di allarme” – con la puntualizzazione che esso deve essere “conosciuto” e non meramente “conoscibile” e che deve essere eloquente della situazione critica sottesa – si è anche rimarcato il limite dello scrutinio di legittimità sulle valutazioni del Giudice di merito circa la responsabilità dell’amministratore senza delega in rapporto, appunto, alla conoscenza degli indicatori suddetti e al loro grado di significatività e di intellegibilità. “E’ dalla conoscenza dei segnali di allarme, intesi come momenti rivelatori, con qualche grado di congruenza, secondo massime di esperienza o criteri di valutazione professionale, del pericolo dell’evento” – così la pronunzia in discorso – “che può desumersi la prova della ricorrenza della rappresentazione dell’evento da parte di chi è tenuto – per la posizione di garanzia assegnatagli dall’ordinamento – ad uno specifico devoir d’alerte (che include in sé anche l’obbligo di una più pregnante sensibilità percettiva, oltre che il dovere di ostacolare l’accadimento dannoso). La sentenza richiamata ha anche precisato che “questa dimostrazione deve inquadrarsi nel bagaglio di esperienza e cognizione professionale proprio del preposto alla posizione di garanzia, la cui valutazione – in rapporto ai sintomo allarmante – deve esplicarsi in concreto, volta per volta: dal che consegue che la convinzione di questa percezione e del relativo grado di potenzialità informativa del fatto percepito, è rimessa alla valutazione del giudice di merito, insuscettibile di censura se accompagnata da adeguata giustificazione” >>.

Un interessante e celebre caso di tutela della rinomanza di marchio,. per ora negata dall’ Ufficio italiano

Anna Maria Stein in IPKat ci notizia di una interessante sentenza (dep. 16.04.2024 n. 296/24-ric. 8043) della ns Commissione dei Ricorsi sul caso e marchio Elettra  Lamborghini.

In breve l’attrice , nipote del fondatore della casa automobilistica, aveva chiesto la registrazione del marchio costituito dal suo nome anche per classi uguali a quelle della nota casa automobilistica. La quale si è opposta azionando la rinomanza.

La Commissione, rovesciando la decisione amministrativa, esclude l’abuso della rinmanza in quanto : – il segno avrebbe acquisto una sua notorietà indipendentemente dalla nota Casa , per cui non ne avrebbe trarrebbe indebito vantaggio; – ex art. 8/3 cpi, la notorietà civile permette la registrazione.

Il econdo è il punto teoricamente interessante.

La decisione lascia però perplessi. La norma si limita ad escludere i terzi dalla registrazione, ma non dà un diritto al titolare del nome civile più ampio di quelle che spetta al titolare di nome non famoso.

La norma governante il caso è solo quella sulla rinomanza, art. 12.1.e) cpi.

La scelta della scuola per il minore da parte del giudice

Cass. sez. I, ord. 16/05/2024 n. 13.570, rel. Caiazzo:

<<Il contrasto insorto tra genitori legalmente separati, entrambi esercenti la responsabilità genitoriale, in ordine alla scelta della scuola (se d’ispirazione “religiosa” o “laica”) presso cui iscrivere i figli, deve essere risolto in considerazione dell’esigenza di tutelare il preminente interesse dei minori a una crescita sana ed equilibrata, e importa una valutazione di fatto, non sindacabile nel giudizio di legittimità, che può ben essere fondata sull’esigenza, in una fase esistenziale già caratterizzata dalle difficoltà conseguenti alla separazione dei genitori, di non introdurre fratture e discontinuità ulteriori, come facilmente conseguenti alla frequentazione di una nuova scuola, assicurando ai figli minori la continuità ambientale nel campo in cui si svolge propriamente la loro sfera sociale ed educativa (Cass., n. 21553/21).

Secondo l’orientamento della CEDU (sentenza n. 54032/22), alcune limitazioni sulle modalità di coinvolgimento del minore in una pratica religiosa scelta da uno dei genitori non costituiscono una discriminazione se funzionali a garantire e preservare il superiore interesse del minore.

E’ stato altresì affermato che, in caso di contrasto tra genitori in ordine a questioni di maggiore interesse per i figli minori, la relativa decisione, ai sensi dell’art. 337-ter, comma 3, c.p.c., è rimessa al giudice, il quale, chiamato, in via del tutto eccezionale, a ingerirsi nella vita privata della famiglia attraverso l’adozione dei provvedimenti relativi in luogo dei genitori, deve tener conto esclusivamente del superiore interesse, morale e materiale, del minore a una crescita sana ed equilibrata, con la conseguenza che il conflitto sulla scuola primaria e dell’infanzia, pubblica o privata, presso cui iscrivere il figlio, deve essere risolto verificando non solo la potenziale offerta formativa, l’adeguatezza edilizia delle strutture scolastiche e l’assolvimento dell’onere di spesa da parte del genitore che propugna la scelta onerosa ma, innanzitutto, la rispondenza al concreto interesse del minore, in considerazione dell’età e delle sue specifiche esigenze evolutive e formative, nonché della collocazione logistica dell’istituto scolastico rispetto all’abitazione del bambino, onde consentirgli di avviare e/o incrementare rapporti sociali e amicali di frequentazione extrascolastica, creando una sua sfera sociale, e di garantirgli congrui tempi di percorrenza e di mezzi per l’accesso a scuola e il rientro alla propria abitazione (Cass., n. 26820/23: nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, in quanto, nella scelta tra la scuola pubblica e privata, aveva considerato criterio dirimente l’assolvimento dell’esborso economico da parte di uno dei due genitori).

Nella fattispecie, la Corte territoriale ha adeguatamente argomentato nel senso che la scelta della prosecuzione del ciclo scolastico secondario (dopo la scuola elementare) rispondeva all’esigenza di preservare il miglior interesse del minore il quale aveva espresso il desiderio di continuare a frequentare l’istituto privato Gonzaga in Milano dove aveva numerose amicizie e buoni rapporti con gli insegnanti; come desumibile dalla relazione psicodiagnostica preventivamente richiesta da entrambi i genitori: il minore aveva bisogno di stabilità e conservazione dei riferimenti acquisiti, anche alla luce del disturbo non specificato, di cui soffriva.

Pertanto, la Corte territoriale – con ragionamento conforme ai principi già elaborati da questa Corte – ha correttamente ritenuto che l’esigenza di garantire la piena liberà di credo religioso a favore del minore era da ritenere recessiva rispetto al superiore interesse di quest’ultimo di soddisfare i propri desideri di continuare la frequentazione della scuola privata e di garantirne la crescita equilibrata e stabile, fondata sui riferimenti sociali acquisiti.

Né può, infine, obiettarsi che la decisione impugnata possa essere intesa come una violazione del principio di laicità del nostro ordinamento costituzionale, in quanto essa esprime, di fatto, un plausibile giudizio di bilanciamento dello stesso con i principi di rango costituzionale afferenti alla cura e alla tutela dei minori, in ogni loro declinazione.

In conclusione, il detto principio di laicità non può essere invocato in termini assoluti, né esso può assurgere a valore tiranno, rispetto agli altri, pure in gioco, la cui portata è stata legittimamente limitata in ragione della tutela degli interessi del minore e dei limiti strettamente indispensabili per realizzare tale tutela sì che la complessiva ponderazione giudiziale risulta immune dai pretesi vizi logici e giuridici. Le spese seguono la soccombenza>>.

La non collaborazione processuale dell’allegato incapace non è indice di sua incapacità di gestirsi ai fini della decisione sulla domanda di amministrazione di sostegno

Cass.  Sez. I, Ord. 27/05/2024, n. 14.689,  rel. Caiazzo:

<<La Corte territoriale, premesso che la ricorrente non si era sottoposta alla visita del c.t.u. e che la stessa aveva tenuto una condotta ingiustificatamente oppositiva, anche in ordine alle iniziative intraprese per acquisire riscontri in ordine al suo stato di salute, ha anzitutto, escluso che la documentazione fornita dalla ricorrente dimostrasse buone condizioni di salute, emergendo dalla stessa varie patologie (gastropatia cronica; poliartrosi ad incidenza funzionale) tra cui una condizione di iperosmia la cui origine si supponeva fosse psicologica. Inoltre, la Corte d’appello, muovendo dal rilievo che la ricorrente manifestava una ideazione in più punti priva di linearità e con chiare tendenze ricorsive, ne deduceva che la stessa fosse affetta da patologie psichiatriche e che, i manifestati rifiuti di sottoporsi all’attività diagnostica e ad eventuali percorsi terapeutici, giustificassero le fondate preoccupazioni per l’evoluzione dello stato di salute della ricorrente.

Tale situazione ha dunque indotto la Corte di merito a ritenere sussistenti i presupposti per la nomina dell’amministratore di sostegno, al fine di garantire la salute della A.A. e di preservarne il patrimonio, alla luce dello stato di degrado dell’immobile di sua proprietà.

Ora, se la mancata collaborazione alla visita del c.t.u. costituisce condotta valutabile, ex art. 116 c.p.c. e applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa; nel caso concreto, non è conclusione inequivocabile quella secondo cui la condotta non collaborativa della ricorrente e il suo rifiuto aprioristico di sottoporsi alle visite prescritte costituisse un indice significativo di una condizione di salute tale da rendere necessaria la nomina contestata.

Al riguardo, va rilevato che la decisione impugnata si è fondata su una serie di elementi di natura indiziaria circa lo stato di salute della ricorrente, ritenuta tale da richiedere l’intervento di sostegno in questione, che però, nell’ambito di una valutazione complessiva, non può dirsi costituisca prova sufficiente dei presupposti della misura stessa.

La procedura di nomina dell’amministratore di sostegno presuppone una condizione attuale, se non d’incapacità, quantomeno di seria difficoltà in cui versi la persona, il che esclude la legittimazione a richiedere l’amministrazione di sostegno per quella che si trovi nella piena capacità psico-fisica o tenga condotte di vita solo apparentemente anomale, poiché non occorre che la stessa versi in uno stato d’incapacità d’intendere o di volere, essendo sufficiente che sia priva, in tutto o in parte, di autonomia per una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica”, anche parziale o temporanea e non necessariamente mentale, che la ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi o nella condizione di gravemente lederli; in tale ipotesi, il giudice è tenuto, in ogni caso, a nominare un amministratore di sostegno, poiché la discrezionalità attribuitagli dall’art. 404 c.c. ha ad oggetto solo la scelta della misura più idonea e non anche la possibilità di non adottare alcuna misura, che comporterebbe la privazione, per il soggetto incapace, di ogni forma di protezione dei suoi interessi, ivi compresa quella meno invasiva (Cass., n. 12998/19).

In tema di amministrazione di sostegno, l’accertamento della ricorrenza dei presupposti di legge, in linea con le indicazioni contenute nell’art.12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle persone con disabilità, deve essere compiuto in maniera specifica e circostanziata sia rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario – la cui volontà contraria, ove provenga da persona lucida, non può non essere tenuta in considerazione dal giudice – sia rispetto all’incidenza della stesse sulla sua capacità di provvedere ai propri interessi personali e patrimoniali, verificando la possibilità, in concreto, che tali esigenze possano essere attuate anche con strumenti diversi come, ad esempio, avvalendosi, in tutto o in parte, di un sistema di deleghe o di un’adeguata rete familiare (Cass., n. 21877/22). Nella specie, ai fini della decisione, la Corte ha valorizzato alcune forme di disagio prive, di per sé, di una sufficiente valenza in ordine ai presupposti dell’amministratore di sostegno, come d’altra parte adombrato in motivazione. La Corte d’appello non ha infatti chiaramente statuito riguardo al fatto che la ricorrente fosse persona priva, in tutto o in parte, di autonomia per una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica”, tale che la ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi, avendo in realtà fatto riferimento a patologie di origine psichica, a un non chiaro trattamento (somministrato da privati sin dall’età di 20 anni) e relativo a un quadro clinico di disturbo istrionico di personalità, senza in nessun modo chiarire se le patologie menzionate avessero determinato una tale menomazione, fisica o psichica, tal da rendere necessario disporre – in contrasto con la volontà della persona – la misura in questione, e tale da giustificare l’ampiezza di poteri conferiti all’amministratore, comprensivi della possibilità di riscuotere la pensione della medesima beneficiaria della misura.

Né, come detto, la condotta non collaborativa della ricorrente può lasciar presumere una menomazione o difficoltà di vita significativa tale da porla nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi. Né tale condotta oppositiva esclude che la ricorrente sia in realtà una persona lucida, per quanto conducente una forma di vita apparentemente inconsueta, non potendosi escludere che tali anomalie siano da considerare la manifestazione di asprezze o forme caratteriali, seppure esacerbate dall’età della ricorrente.

In definitiva, emerge dagli atti che la nomina dell’amministratore di sostegno sia stato il frutto di un’opzione previsionale calibrata sull’ipotesi di una condotta futura della ricorrente, non sorretta da chiari ed univoci accertamenti clinici e diagnostici; ciò risulta avvalorato dal fatto che non sono stati accertati, né allegati, i fatti di prodigalità (sicuramente rilevanti, ove accertati, come passibili di arrecarle danno e conseguenze pregiudizievoli), ai quali i ricorrenti, prossimi congiunti della A.A., avrebbero fatto riferimento.

Inoltre, il decreto impugnato è altresì censurabile nella parte nella quale ha sottratto all’amministrata anche la possibilità di riscuotere la pensione, emergendo la sproporzione tra il potere conferito all’amministratore di sostegno e le effettive condizioni di salute della ricorrente, come risultanti dalle motivazioni della Corte d’appello. Invero, in tema di amministrazione di sostegno, le caratteristiche dell’istituto impongono, in linea con le indicazioni provenienti dall’art. 12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che l’accertamento della ricorrenza dei presupposti di legge sia compiuto in maniera specifica e focalizzata rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario ed anche rispetto all’incidenza di tali condizioni sulla capacità del medesimo di provvedere ai propri interessi, perimetrando i poteri gestori dell’amministratore in termini direttamente proporzionati ad entrambi i menzionati elementi, di guisa che la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona. In tale quadro, le dichiarazioni del beneficiario e la sua eventuale opposizione, soprattutto laddove la disabilità si palesi solo di tipo fisico, devono essere opportunamente considerate, così come il ricorso a possibili strumenti alternativi dallo stesso proposti, ove prospettati con sufficiente specificità e concretezza (Cass., n. 10483/22).

Ora, dal decreto impugnato si desume che aver conferito tale ampiezza di poteri all’amministratore di sostegno non sia misura proporzionata alle condizioni di salute riscontrate, né funzionale agli obiettivi specifici di tutela della ricorrente, emergendo piuttosto un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona. In definitiva, può essere enunciato il seguente principio di diritto: “Ai fini della nomina dell’amministratore di sostegno, la condotta non collaborativa del soggetto beneficiario della misura non può, di per sé, costituire un indizio significativo della menomazione della salute, fisica o psichica, in mancanza di accertamenti clinici certi ed univoci. L’ambito dei poteri da conferire all’amministratore di sostegno deve rispondere alle specifiche finalità di tutela del soggetto amministrato e non può prescindere da risultanze espressive di un chiaro e significativo stato di menomazione o difficoltà della persona che s’ipotizza bisognevole di tutela“>>.

La business judgment rule non copre le violazioni pubblicistiche (e quelle privatistiche?)

Cass. sez. I, ord. 25/03/2024 n. 8.069, rel. Nazzicone:

<<Merita appena di rimarcare, quanto ai confini della business judgement rule, che questa certamente non copre gli illeciti, tributari o no: trattandosi di regola non più invocabile in presenza di una valutazione di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell’iniziativa economica (cfr. Cass. 6 febbraio 2023, n. 3552; Cass. 19 gennaio 2023, n. 1678; Cass. 21 dicembre 2022, n. 37440; Cass. 16 dicembre 2020, n. 28718; Cass. 22 ottobre 2020, n. 23171; Cass. 22 giugno 2017, n. 15470; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3409; Cass. 28 aprile 1997, n. 3652), e, dunque, tantomeno in presenza di inequivoche violazioni di legge.

Certamente va confermato che all’amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità ex art. 2392 c.c. di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell’amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società (per tutte, quanto al vecchio testo dell’art. 2392: Cass. n. 3652 del 1997, n. 3409 del 2013, n. 1783 del 2015).

Ma non è questo il caso nella vicenda concreta, in cui la corte d’appello ha ritenuto il ricorrente responsabile non per l’esito negativo dell’attività gestoria in sé considerata, ma per l’omesso versamento dell’i.v.a.: ciò vuol dire che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato è stato svolto non in rapporto alle scelte gestorie in quanto tali, ma all’omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive che (non solo normalmente, ma) finanche in base alla regola di condotta già perpetrata in passato dall’organo amministrativo si sarebbero dovute osservare ex ante. Nel caso di specie, dunque, la responsabilità dell’amministratore si ricollega alla violazione di doveri specifici, previsti dalla legge>>.

La SC pare riferirsi a violazioni pubblicistiche (nel caso sub iudice, tributarie) anche se usa termini lati. E l’inadempimento contrattuale, se conveniente, è censurabile o è coperto da b.j.r.? E’ censurabile, direi, non avendo dignità giuridica la tesi dell’inadempimeno efficiente (anche se il discorso è un poco complicato  dovendosi vedere le reali differenze pratiche tra il seguire o rigettare la tesi esposta).

Nella prima parte la Sc ribadisce noti arresti in tema di deterniazione del danno risarcibile a carico dell’amministratore.

Anche in una società con due soci che sono pure gli unici amministratori, il bilancio va prima approvato dal CdA e non può essere portato direttamnente in assemblea da uno dei due

Cass. sez. I, ord. 22/03/2024 n. 7.874, rel . Campese:

<<3.3.1. Sulla base di questa disciplina (normativa e statutaria), dunque, l’affermazione della corte distrettuale secondo cui “nulla vieta”, anzi, l’art. 2479, comma 1, cod. civ. (“I soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori o tanti soci che rappresentino almeno un terzo del capitale sociale sottopongono alla loro approvazione”) “espressamente ammette che l’amministratore sottoponga direttamente all’approvazione dell’assemblea non solo il bilancio ma anche la redazione del relativo progetto” non può essere condivisa.

3.3.2. Invero, come del tutto correttamente dedotto dalla difesa del ricorrente, gli artt. 2475, comma 5, cod. civ. e 30.2. dello statuto di Alpengas Holding Srl sono palesemente finalizzati ad attribuire all’organo amministrativo, nel suo complesso, la paternità di alcuni specifici atti ritenuti dal legislatore di maggiore portata, anche in funzione, evidentemente, delle correlate responsabilità solidali dagli stessi derivanti (cfr. artt. 2434,2392,2621 cod. civ.). Diversamente opinando, dunque, si otterrebbe l’irragionevole risultato di vanificare l’effettiva ratio delle citate previsioni.

3.3.3. Pertanto, la corretta applicazione delle norme di legge e di statuto sopra richiamate induce a concludere che il voto contrario espresso dal Bu.Mi. nel corso dell’assemblea dei soci del 25.8.2016, lungi dal potersi apprezzare “come sicuro indice della scorrettezza della condotta serbata dal socio dissenziente”(cfr. pag. 17 della sentenza oggi impugnata), risultava legittimamente giustificato, in realtà, proprio perché l’appellante aveva ivi lamentato che il progetto di bilancio posto in discussione in quella sede non era stato approvato (contrariamente a quanto imposto dallo statuto, oltre che dall’art. 2475, comma 5, cod. civ.) dall’organo amministrativo prima di essere portato all’assemblea.

(…) 3.3.5. Né, in contrario, può darsi seguito all’assunto della corte territoriale per cui, essendo il Bu.Mi. e lo St.Ha. gli unici soci, peraltro entrambi amministratori di Alpengas Holding Srl, ciò comportava, dal punto di vista sostanziale, che la redazione del bilancio e l’approvazione dello stesso in assemblea si sarebbero risolti “in un atto unitario”(cfr. pag. 16 della sentenza impugnata).

3.3.6. Una tale affermazione, infatti, si rivela in palese contrasto con il consolidato principio – più volte confermato anche da questa Corte – di “separazione” tra attività gestoria (demandata all’organo amministrativo) e quella deliberativa (propria dell’assemblea dei soci), sicché non è predicabile alcuna immedesimazione tra consiglio di amministrazione ed assemblea dei soci, trattandosi di organi diversi, con funzioni tra loro distinte e tipizzate per legge>>

Nella prima parte dell’ordinanza, poi, c’è un approfndimento della SC circa la impugnabilità delle delibere cd negative, anche se per mero obiter dictum . Infatti l’impugnante la delibera di omessa approvaizone del bilancio, aveva chiesto sia l’annullamento della delbiera che a cascata una sentenza costitutiva, che tenesse luogo dell’approvazione mancata.

REspinte però in primo grado , non erano state appellate