Copyright sul design di una lampada oppure solo sull’intero allestimento fieristico in cui è inserita?

La seconda risposta è quella giusta per Cass. sez. I, ord. 29/04/2024 n. 11.413, rel. Caiazzo, in una decisione non particolarmente perspicua. E’ il caso della lampada Castiglioni.

Il Trib. accoglie la domanda solo sulla lampada. L’appello ammette in teoria la tutela solo sull’intero allestimento fieristico ma in pratica poi non la concede.

LA SC  rigetta il ricorso confermando il secondo grado.

Il punto più interssante è il passaggio della corte di appello , riportato dalla SC :

<<In particolare, la Corte d’appello ha evidenziato che “…il tutto non senza considerare, infine, come la rilevante differenza funzionale che connota gli oggetti in questione (faretto illuminante posto all’esterno della lampada nella scenografia della Triennale e corpo illuminante interno al telo nella lampada per cui è qui processo), lungi dal costituire mero elemento “irrilevante” (come asserito dal Tribunale), appaia tale da escludere in radice la stessa ipotesi di plagio evocata da parte appellata, concorrendo a integrare una diversa modalità diffusiva della luce ed un diverso impatto visivo e stilistico.”.

In sostanza, non può condividersi la diversa interpretazione del Tribunale, secondo la quale l’apporto creativo era ravvisabile anche nella sola lampada, sebbene estrapolata dal contesto del più ampio allestimento ove risultava inserita, quale elemento di spicco dello stesso, dotato di piena autonomia. Invero, nell’opera per cui è causa, le differenze che la lampada presenta rispetto al bene esposto alla triennale connota una diversa modalità diffusiva della luce, tale da escludere ogni forma di plagio parziale>>.

Cioè la lampada da sola e l’intero allestimento, in cui è inserita, sono oggetti diversi per la privativa: o l’uno o l’altro.

La scelta della ricorrenza dell’una o dell’altro da parte del giudice è questione di fatto, precisa la SC.

NOnconcordo: il concetto di opera dell’ingegno è giuridico, non fattuale.

Ci son anche dei passaggi generali sul concett di “opera” applicato ai modelli, ma nulla di interssante (<<L’individuazione dell’oggetto è quindi una ricerca necessaria che va svolta su basi oggettive per evitare problemi di certezza del diritto; la percezione e le sensazioni soggettive di coloro che osservano l’opera rappresentano comunque elementi strumentali a tal fine, ma non sono decisivi.

Alla luce dell’insieme di tali osservazioni, si arriva ad una prima conclusione e cioè che sono qualificabili come “opere” quei modelli che rappresentano una creazione intellettuale originale propria dell’autore.>>)

Risarcimento del danno non patrimoniale da violazione di privacy

In un caso di erronea divulgazione online da parte della PA di dati sanitari di una pazienda, però immediatamente eliminata, regola la domanda risarcitoria Cass. sez. III, 16/04/2024 ord. n. 10.155, rel. Ambrosi:

<<1.1. Secondo il costante orientamento di questa Corte, in materia di responsabilità civile, è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, da identificare con qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione.

All’esito della pronunzia Corte Cost. n. 235 del 2014 e dell’entrata in vigore della L. n. 124 del 2017 (che all’art. 1, comma 17, ha modificato l’art. 138 Cod. ass. richiamato dai ricorrenti), questa Corte ha posto in rilievo come il giudice del merito sia tenuto “a valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico – relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”)” (così Cass., 31/1/2019, n. 2788; Cass., 21/9/2017, n. 21939).

Il danno preteso, dovendo necessariamente consistere in un profilo consequenziale rispetto al fatto dannoso denunciato (non potendo esaurirsi nella figura del c.d. danno-evento, ossia in re ipsa), dev’essere essere oggetto di specifica allegazione e di prova, anche tramite il ricorso al valore rappresentativo di presunzioni semplici (v. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 19551 del 10/07/2023, Rv. 668139 – 01; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20643 del 13/10/2016, Rv. 642923 – 02), ossia anche attraverso l’indicazione degli elementi costitutivi e delle specifiche circostanze di fatto da cui desumerne, sebbene in via presuntiva, l’esistenza (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 34026 del 18/11/2022, Rv. 666153 – 01).

Inoltre, questa Corte ha posto in evidenza che in tema di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, la liquidazione compiuta dal giudice di merito sfugge ad una precisa valutazione analitica e resta affidata al criterio equitativo, non sindacabile in sede di legittimità allorquando lo stesso giudice dia conto del criterio medesimo e la valutazione risulti congruente al caso e la concreta determinazione dell’ammontare del danno non sia, per eccesso o per difetto, palesemente sproporzionata (Cass. Sez. 3 14/07/2004, n. 13066) o non congrua (Cass. Sez. 3, 7/03/2003 n. 3414) o, addirittura, simbolica o irrisoria (Cass. Sez. 3, 16/05/2003 n. 7632).

3.1.2. Sul punto, giova sottolineare come nella specie il Tribunale ha avuto cura di evidenziare che la divulgazione di informazioni in violazione degli obblighi di riservatezza e di privacy avvenuta in modo illegittimo (in particolare, circa gli aspetti inerenti allo stato di salute e alla vita sessuale della odierna parte ricorrente, nonché alle prestazioni sanitarie cui era stata sottoposta, e alle coordinate bancarie del coniuge su cui accreditare il rimborso ottenuto) determinò l’odierna azienda controricorrente a provvedere in un tempo brevissimo (nelle ore immediatamente successive alla pubblicazione) ad oscurare i dati sensibili presenti nel testo diffuso.

Di conseguenza, il Tribunale ha correttamente considerato il complesso degli elementi istruttori documentali e testimoniali acquisiti ed è pervenuto alla quantificazione e liquidazione del danno in via equitativa, in modo unitario e omnicomprensivo e proporzionato al danno di natura non patrimoniale subìto in concreto dalla parte ricorrente>>.

L’interpretazione del regolamento condominiale contrattuale non può essere estensiva, laddove pone limiti alle facoltà individuali

Cass. sez. II, ord. 23/05/2024 n. 14.377, rel. Besso Marcheis, circa una clausola contenente  la <<previsione di orari per lo svolgimento di lavori di ordinaria e straordinaria manutenzione (taglio erba, giardinaggio, manutenzioni dell’immobile, etc.), consentiti solo dal lunedì al sabato in determinate fasce orarie e vietati nei giorni festivi>>:

<<La giurisprudenza di questa Corte sottolinea, infatti, come il regolamento contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà, sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare, ma “la compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rilevatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l’individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti” (così Cass. n. 21307/2016)>>.

La disoccupazione non fa venir meno il dovere di versare l’assegno di mantenimento dei figli

Cass. sez. I, ord. 07/05/2024  n. 12.283, rel. Meloni:

<<In ordine ai primi due motivi, la Corte di merito così ha motivato: “Né nel caso in esame, come già rilevato dal Giudice di prime cure, l’appellante non è stato in grado di dimostrare il proprio impedimento allo svolgimento di attività lavorativa, non apparendo dirimente la certificazione medica prodotta che, nell’attestare le problematiche legate alla lombosciatalgia, non esclude di per sé l’abilità al lavoro, specie ove si consideri che come – in maniera condivisibile – affermato dal Tribunale di Patti, “il limite a svolgere eventuali mansioni che comportino sforzo fisico e di carico alla schiena non è pertinente alle specifiche competenze del ricorrente medesimo il quale ha sempre svolto lavori di grafico ovvero di imprenditore nel campo dell’informatica e quindi involgenti uno sforzo prettamente intellettivo”.

Parametrate le due modeste situazioni economiche, del resto, non emerge dal lato della madre una floridità di posizione tale da poter sorvolare sulla necessaria contribuzione del padre al fine di consentire un’adeguata crescita della minore, o da modificare l’assetto relativo alla contribuzione alle spese straordinarie e a quelle di trasferta per l’esercizio del diritto di visita, queste ultime da mantenere inalterate, onde compensare la modesta entità dell’assegno periodico.” (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).

Sulla base di questi fatti, emersi pacificamente e riconosciuti da parte dei Giudici di Appello, come correttamente statuito dai Giudice di primo grado (che richiamano gli stessi principi stabiliti da questo Supremo Collegio) occorre osservare che la giurisprudenza è costante nel ritenere che anche il genitore disoccupato è obbligato a mantenere i figli.

Neanche la perdita del lavoro costituisce oggettiva impossibilità di fare fronte alle obbligazioni economiche (Cass. sent. n. 39411/17 del 24.08.17). La Corte di Cassazione, infatti, ha stabilito il principio secondo il quale “il genitore separato o divorziato deve versare l’assegno di mantenimento per i figli anche se è disoccupato”, sussistendo il dovere dell’obbligato di attivarsi ed impegnarsi ulteriormente nella ricerca di una occupazione, per essere in condizione di fare fronte agli impegni intrinseci alla scelta della genitorialità>>.

Ne segue allora probabilmente che permane la rilevanza penale (art. 570 e 570 bis c.p.) del macanto versamento, pur nella condizione di disoccupazione

Squilibrio tra prestazioni e liceità della clausola atipica: sindacato delle volontà espresse in contratto?

Cass. sez. II, ord. 20/03/2024  n. 7.447, rel. Amato:

La clausola come riferita dalla SC:

<< “I venditori si obbligano nel caso in cui i lavori stessi non fossero, sia pure per motivi non dipendenti dalla loro volontà, completati per il 30 aprile 2003, a versare una penale di Euro100,00 al giorno per i primi 250 giorni di ritardo a partire dal 1° maggio 2003. A tal fine consegnano all’acquirente un assegno di Euro25.000,00 che l’acquirente metterà all’incasso immediatamente, autorizzandolo, in caso di ritardo nel completamento dei lavori, a trattenere la somma di Euro100,00 al giorno, con la restituzione della differenza ai venditori entro il periodo di 250 giorni di cui innanzi, salvi gli ulteriori danni in caso di ritardo superiore a 250 giorni nel completamento dei lavori medesimi“. La Corte distrettuale – correttamente riferendosi ad un orientamento consolidato di questa Corte che esclude l’applicabilità degli effetti specifici stabiliti dal legislatore per la clausola penale in assenza di inadempimento o ritardo imputabile al debitore (Cass. n. 4603 del 02/08/1984, cit. dalla Corte d’appello, confermata di recente da: Cass. n. 13956 del 2019; Cass. 10/05/2012, n. 7180; 30/01/1995, n. 1097) – ha escluso che la pattuizione in esame possa essere qualificata come clausola penale, trattandosi invece di clausola di contenuto atipico, come tale assoggettabile al vaglio di meritevolezza, ex art. 1322, comma 2, cod. civ>>.

Prosegue poi la SC:

<<2.2.1. Il Collegio non condivide, tuttavia, né l’opportunità di sottoporre al vaglio di meritevolezza una pattuizione lecita, né le ragioni in virtù delle quali la Corte distrettuale perviene ad un esito negativo di tale giudizio, laddove ritiene che il forte squilibrio dell’assetto negoziale, a tutto vantaggio dell’acquirente, implichi la mancanza di causa giustificatrice.

Deve innanzitutto rilevarsi che la questione relativa allo squilibrio originario nello scambio tra attribuzioni reciproche non è attratta nell’area della causa, poiché opera sul piano degli effetti, e quindi sul piano del rapporto negoziale e della sua esecuzione: eventuali squilibri nelle reciproche attribuzioni patrimoniali non comportano l’invalidità dell’atto di autonomia sotto il profilo della causa, ma postulano un concreto assetto di interessi eminentemente “privati” e, quindi, l’eventuale ricorso a strumenti di tutela di natura risolutoria [non necessariamente: l’abuso di dipendenza economica genera nullità e i vizi della volontà  annullabilità , e pure essi costituiscono lato sensu un abuso] . Quando, infatti, la prestazione reciproca conserva un significato trasparente e un contenuto lecito, non spetta ad un’autorità esterna alle parti – qual è quella giudiziale, priva dei poteri preventivi e generali del legislatore – il giudizio, singolare e a posteriori, sull’equilibrio dei valori scambiati. Del resto, l’interesse non meritevole di tutela si colloca tra il difetto di causa (anche per assenza di serietà di essa) e la causa illecita (per contrasto con norme imperative, con l’ordine pubblico, con il buon costume).

2.2.2. Venendo al caso di specie, i contenuti essenziali che emergono dalla pattuizione sopra riportata possono essere così riassunti: nel regolamento degli opposti interessi, l’obbligo di completamento dei lavori del giardino pertinenziale – assunto dalla parte venditrice anche con precise scadenze temporali, che giungono fino ad includere un maggior danno rispetto a quello forfettariamente pattuito – è sostenuto da un obbligo risarcitorio che assume connotazioni di garanzia nei confronti degli interessi della parte acquirente, tanto da essere onorato in parte in anticipo, e comunque dovuto anche nel caso in cui l’inadempimento, o il ritardo nell’adempimento, si verifichi a prescindere dalla sua imputabilità in capo agli obbligati.

2.2.3. Esclusa l’illiceità di tale pattuizione, un controllo in termini di meritevolezza si imporrebbe ove non risultasse con chiarezza la concreta ragione che induce le parti ad uno scambio [interessante: la illiceità ex 1322 cc è l’assenza di una -qualsiasi, aggiungerei- razionalità, che tale sia per l’opinione diffusa nella società] . Una volta emerse le ragioni lecite, il patto atipico si pone al di qua del confine con la nullità per difetto del titolo giustificativo dello scambio: solo varcato detto confine troviamo la regola dell’art. 1322 cod. civ. che meriti il costo di una coercizione giudiziale.

Quel che rende meritevole di tutela una situazione fondata su un patto atipico lecito né del tutto irrilevante è un canone di giudizio interno – che spetta al giudice del merito individuare – all’equilibrio complessivo fra i contrapposti interessi privati. Nel caso che ci occupa, la causa giustificatrice del patto atipico lecito sopra riportato non è assolutamente mancante: essa è, invece, rinvenibile nell’intento di garanzia rispetto a rischi (p.e.: la concessione in sanatoria da parte del Comune) dei quali parte acquirente si è del tutto spogliata, e dei quali si è fatta invece interamente carico parte venditrice>>.

La SC poi dà per scontato che il 1322 cc, riferito ai contratti atipici, si applichi pure alle clausole atipiche: probabilmente è esatto, ma andava un poco motiovato.

Esecuzione sui beni in fondo patrimoniale, opposizione all’esecuzione e revocatoria del fondo medesimo

Tema tradizionale, ma sempre assai utile alla pratica, quello esaminato da Cass. sez. III, ord. 13/11/2023 n. 31.575, rel. Saija:

<<Deve anzitutto ribadirsi che il diritto del creditore di soddisfarsi sui beni del proprio debitore, in forza della garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 c.c., è ovviamente di portata generale. Esso, con specifico riguardo ai beni conferiti dal debitore in fondo patrimoniale, non perde tale carattere, ma deve coniugarsi con la regola eccettuativa dettata dall’art. 170 c.c., secondo cui “L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. Il creditore, dunque, non può agire esecutivamente su detti beni (sempre che il fondo sia stato regolarmente costituito e annotato sull’atto di matrimonio, questioni qui non in discussione) se: a) il debito è insorto per il soddisfacimento di scopi estranei ai bisogni della famiglia; b) il creditore stesso ne era a conoscenza (all’atto della stessa insorgenza del debito).

Pertanto, nel momento in cui il creditore aggredisce senz’altro esecutivamente i beni già conferiti in fondo patrimoniale all’atto del pignoramento (e sempre che il fondo sia stato regolarmente costituito e annotato, ut supra, giacché in caso contrario non v’e’ alcun ostacolo all’azione esecutiva del creditore), viene speso il presupposto implicito della pignorabilità dei beni stessi, ossia, correlativamente: aa) che il debito venne contratto per far fronte ai bisogni della famiglia; ed inoltre, bb) che esso creditore non era a conoscenza dell’estraneità dell’obbligazione ai bisogni familiari.

Ebbene, è proprio con l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., comma 2, che il debitore esecutato può far valere il descritto regime di impignorabilità, restando onerato di dimostrare che detti presupposti (implicitamente o esplicitamente invocati dal pignorante, non importa) sono nella specie insussistenti (circa l’attribuzione dell’onere della prova in capo all’opponente, in subiecta materia, si vedano, ex multis, Cass. n. 2970/2013; Cass. n. 4011/2013; Cass. n. 5385/2013; Cass. n. 21800/2016; Cass. n. 18110/2020; Cass. n. 41255/2021): egli deve dunque dimostrare che il debito è stato contratto per scopi estranei ai bisogni familiari e che il creditore ne era consapevole, da tanto discendendo, dunque, l’insussistenza del diritto del pignorante di procedere esecutivamente sui beni aggrediti, benché conferiti nel fondo patrimoniale.

In questo quadro, pertanto, ben si spiega quale sia l’interesse, per il creditore, nel proporre l’azione revocatoria ordinaria dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale, ex art. 2901 c.c.: egli a tanto può determinarsi, evidentemente, quando abbia contezza dell’opponibilità del fondo rispetto alla propria eventuale azione esecutiva, ossia quando ritenga (e di tanto sia consapevole, all’atto della relativa insorgenza) che il proprio credito venne effettivamente contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia: in tali condizioni, egli non può procedere direttamente al pignoramento, anche per non esporsi al rischio di accoglimento dell’opposizione all’esecuzione proposta dal debitore. In tal caso, l’aggredibilità del bene in executivis deve necessariamente passare per la previa declaratoria di inefficacia dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale nei confronti del creditore, sempre che ovviamente ne sussistano i presupposti ex art. 2901 c.c., ed in primis la natura pregiudizievole dell’atto dispositivo (che, com’e’ noto, è atto a titolo gratuito; v. Cass. n. 19131/2004; Cass. n. 24757/2008), nonché la consapevolezza del debitore di tale natura, ossia l’eventus damni e il consilium fraudis.

3.2.3 – Quanto precede spiega ampiamente, dunque, il perché l’azione revocatoria ordinaria debba essere proposta anche nei confronti del coniuge non debitore, che è in tal caso litisconsorte necessario: infatti, solo con la sentenza (per di più, passata in giudicato) può rimuoversi, per il creditore attore, il limite alla pignorabilità dei beni, sulla cui destinazione familiare il coniuge non debitore (a prescindere, si ripete, dalla circostanza che egli ne sia divenuto o meno proprietario) può legittimamente confidare, quantomeno in relazione alla posizione di quel dato creditore: ottenuta la declaratoria di inefficacia relativa dell’atto costitutivo del fondo, il creditore può così liberamente pignorare i beni che vi siano stati conferiti, senza alcun limite, secondo lo statuto dettato dagli artt. 2901 c.c. e ss.. Ciò giustifica, dunque, la partecipazione necessaria del coniuge al relativo giudizio, non diversamente da quanto avviene, per l’azione revocatoria in generale, per l’avente causa del debitore, sussistendo litisconsorzio necessario tra questi, il proprio avente causa e lo stesso creditore attore (per tutte, Cass. n. 11150/2003).

3.2.4 – La posizione del coniuge non debitore si prospetta in guisa affatto diversa, invece, nel caso di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. proposta dall’altro coniuge, titolare dei beni pignorati.

In tal caso, il primo è per definizione estraneo all’azione esecutiva intrapresa dal creditore, perché – come s’e’ detto – questi ha proceduto al relativo pignoramento sul presupposto dell’inoperatività del vincolo derivante dal fondo, nei suoi confronti, e su beni del proprio debitore: ciò a meno che il coniuge non debitore non vanti egli stesso un diritto reale sul bene, che sia incompatibile con l’azione esecutiva, per come spiegata, nel qual caso – fermi i poteri officiosi del giudice dell’esecuzione circa l’individuazione della effettiva spettanza al debitore esecutato del diritto pignorato – lo stesso coniuge non debitore ben potrà reagire con l’opposizione.

Tanto può accadere, a titolo esemplificativo, quando il coniuge non debitore sia divenuto comproprietario dei diritti conferiti dall’altro coniuge nel fondo, ai sensi dell’art. 168 c.c. (beninteso, si tratta di ipotesi non necessaria, perché l’atto costitutivo può escludere tale effetto). La legittimazione all’opposizione del coniuge non debitore, però, presuppone che il pignoramento attinga direttamente il diritto reale di cui egli sia titolare.

3.2.5 – Tuttavia, ove non ricorrano tali condizioni, non solo il coniuge non debitore non è legittimato ad opporsi in proprio (arg. ex Cass. n. 18065/2004; Cass. n. 10641/2014; Cass. n. 19376/2017), ma non v’e’ spazio neppure per la sua partecipazione (per di più necessaria) all’opposizione all’esecuzione proposta dal coniuge esecutato, perché l’oggetto del relativo giudizio consiste esclusivamente nell’accertamento dell’inesistenza del diritto del creditore di procedere ad esecuzione forzata sui beni dell’opponente, in quanto conferiti nel fondo patrimoniale. All’esito, dunque, ne discenderà che: 1) o tale diritto sussiste, e dunque i beni pignorati erano destinati naturaliter al soddisfacimento del credito azionato nei confronti del coniuge disponente, benché conferiti nel fondo, e sono stati correttamente pignorati; 2) oppure tale diritto non sussiste, e dunque i beni non potevano destinarsi alla soddisfazione del credito azionato, sicché sono stati pignorati illegittimamente.

Nell’un caso o nell’altro, la posizione del coniuge non debitore (e non titolare del diritto pignorato) rimane sullo sfondo, e non entra di regola nel perimetro soggettivo della controversia ex art. 615 c.p.c., che resta relegato ad una contesa tra creditore pignorante-opposto, da un lato, e debitore esecutato-opponente, dall’altro.

Non può dunque configurarsi – come propugnato dai ricorrenti anche in memoria – alcuna interpretazione logico-sistematica dell’ordinamento che imponga di considerare il coniuge non debitore come litisconsorte necessario, sia nel giudizio di revocatoria ordinaria, sia di opposizione all’esecuzione>>.

Per l’assegno divorzile , alla moglie non basta essersi dedicata alla famiglia, ma bisogna anche che ciò abbia comportato sacrifici economici e/o di crescita professional-lavorativa

Cass. sez. I, ord. 20/05/2024 n. 13.919, rel. D’Orazio:

<<4. …  In particolare, si è affermato che il riconoscimento dell’assegno divorzile in funzione perequativo – compensativa non si fonda sul fatto, in sé, che uno degli ex coniugi si sia dedicato prevalentemente alle cure della casa e dei figli, né sull’esistenza in sé di uno squilibrio reddituale tra gli ex coniugi – che costituisce solo una precondizione fattuale per l’applicazione dei parametri di cui all’art. 5, comma 6, l. n. 898 del 1970 – essendo invece necessaria un’indagine sulle ragioni e sulle conseguenze della scelta, seppure condivisa, di colui che chiede l’assegno, di dedicarsi prevalentemente all’attività familiare, la quale assume rilievo nei limiti in cui comporti sacrifici di aspettative professionali e reddituali, la cui prova spetta al richiedente – nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che, in presenza di uno squilibrio reddituale tra gli ex coniugi, aveva attribuito l’assegno divorzile in ragione dell’attività domestica svolta dalla ex moglie, a prescindere dall’allegazione e dalla prova della perdita di concrete prospettive professionali e di potenzialità reddituali conseguenti alla scelta di dedicarsi alle cure della famiglia ed omettendo, altresì, di considerare che il patrimonio della richiedente era formato in misura prevalente da attribuzioni compiute da parte dell’ex coniuge – (Cass. , sez. 1, ordinanza, 13 ottobre 2022, n. 29920; in tal senso anche Cass. , sez. 1, 28 luglio 2022, n. 23583; Cass. , sez. 1, 8 settembre 2021, n. 24250). (…)

Va, insomma, data continuità al principio di diritto per cui, in tema di attribuzione dell’assegno divorzile e in considerazione della sua funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa, il giudice del merito deve accertare l’impossibilità dell’ex coniuge richiedente di vivere autonomamente e dignitosamente e la necessità di compensarlo per il particolare contributo dato, durante la vita matrimoniale, alla formazione del patrimonio comune o dell’altro coniuge, nella constatata sussistenza di uno squilibrio patrimoniale tra gli ex coniugi che trovi ragione nelle scelte fatte “manente matrimonio”, idonee a condurre l’istante a rinunciare a realistiche occasioni professionali – reddituali, la cui prova prova in giudizio spetta al richiedente (Cass. , n. 9144 del 2023; Cass. Sez.U. , n. 35385 del 2023)>>.

Servitù discontinua (di passggio) e servitù apparenti

Cass. sez. II, ord. 10/04/2024 n. 9626, rel. Varrone:

<<D’altra parte, la sentenza è conforme alla giurisprudenza di legittimità in tema di servitù discontinue secondo cui: l’esercizio saltuario non è di ostacolo a configurarne il possesso, dovendo lo stesso essere determinato in riferimento alle peculiari caratteristiche ed alle esigenze del fondo dominante; pertanto, ove non risultino chiari segni esteriori diretti a manifestare l’animus dereliquendi, la relazione di fatto instaurata dal possessore con il fondo servente non viene meno per l’utilizzazione non continuativa quando possa ritenersi che il bene sia rimasto nella virtuale disponibilità del possessore (Sez. 2, Sentenza n. 3076 del 16/02/2005, Rv. 586433 – 01).

Anche in riferimento al requisito dell’apparenza deve ribadirsi che: Il requisito dell’apparenza della servitù discontinua, richiesto al fine della sua costituzione per usucapione, si configura quale presenza di segni visibili di opere di natura permanente obiettivamente destinate al suo esercizio, tali da rivelare, in maniera non equivoca, l’esistenza del peso gravante sul fondo servente per l’utilità del fondo dominante e non un’attività posta in essere in via precaria, o per tolleranza del proprietario del fondo servente, comunque senza animus utendi iure servitutis; tale onere deve avere carattere stabile e corrispondere, in via di fatto, al contenuto di una determinata servitù che, peraltro, non implica necessariamente un’utilizzazione continuativa delle opere stesse (Sez. 2, Ordinanza n. 32816 del 27/11/2023, Rv. 669433 – 01)>>.

Cass. sez. I, ord. 17/05/2024, (ud. 01/02/2024, dep. 17/05/2024), n.13739, rel. Meloni:

<<Orbene, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, la revisione dell’assegno divorzile di cui all’art. 9 della l. n. 898 del 1970 postula l’accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi idonea a mutare il pregresso assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo dell’assegno, secondo una valutazione comparativa delle condizioni suddette di entrambe le parti. In particolare, in sede di revisione, il giudice non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o della entità dell’assegno, sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti già compiuta in sede di sentenza divorzile ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento della attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in che misura, le circostanze, sopravvenute e provate dalle parti, abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto e ad adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale-reddituale accertata (Cass. 10133/2007; Cass. 787/2017; Cass. 11177/2019).

Nel caso in esame la Corte di Appello sminuisce senza adeguata motivazione l’elemento costituito dalla convivenza della Bi.An. con il nuovo compagno, il Sig. Po.Fr., motivando tale conclusione sulla base della precedente sentenza della Corte di Appello 487/2021 ormai passata in giudicato, che aveva escluso, perché ritenuta non provata, la convivenza tra la Bi.An. ed il Po.Fr.; tale accertamento sarebbe stato coperto da giudicato in ordine al dedotto e deducibile e non più rivedibile nemmeno in base alla circostanza che la donna aveva trasferito la sua residenza in un appartamento datole in comodato gratuito dal Po.Fr. il quale a sua volta, pacificamente, risiede nella stessa via ed allo stesso numero civico ((…), Vicenza) seppure in interni diversi.

Tale assunto non è stato adeguatamente esaminato dal giudice di merito atteso che, in sede di revisione dell’assegno, il giudice di merito non poteva escludere a priori, in quanto già coperto da giudicato, la convivenza della Bi.An. con altro compagno ma doveva considerare ogni circostanza sopravvenuta allegata nel ricorso e particolarmente il dato particolarmente pregnante della residenza della Bi.An. allo stesso indirizzo del Po.Fr..

Questa Corte (Sez. 1 -, Ordinanza n. 14151 del 04/05/2022), infatti, ha affermato che “In tema di divorzio, ove sia richiesta la revoca dell’assegno in favore dell’ex coniuge a causa dell’instaurazione da parte di quest’ultimo di una convivenza more uxorio, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto, quale elemento indiziario, dell’eventuale coabitazione con l’altra persona, in ogni caso valutando non atomisticamente ma nel loro complesso l’insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al processo nei modi ammessi dalla legge, e gli eventuali ulteriori argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale i conviventi si siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale”.

Del resto, in ordine all’attuale convivenza della Bi.An. con il Po.Fr. occorre considerare che la sentenza della Corte di Appello 487/2021, passata in giudicato, copre col giudicato il dedotto e deducibile e cioè ogni fatto e accertamento fino alla data della sua pronuncia e non può certo estendere la sua efficacia anche a quanto avvenuto successivamente. Pertanto, i giudici avrebbero dovuto valutare la circostanza della convivenza nello stesso immobile dei due indicati, aggiornando l’esame all’attualità, sulla base di fatti nuovi forniti dal ricorrente. Tanto più che pacificamente risulta acclarato che una nuova convivenza stabile more uxorio fa venir meno il diritto all’assegno di mantenimento, salvo che per la sua eventuale componente compensativa per la quale tuttavia occorre la prova rigorosa del contributo offerto alla comunione familiare ed all’eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative.

Sul punto le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, nr.32198 del 5/11/2021) hanno affermato “In tema di assegno divorzile in favore dell’ex coniuge, qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa; a tal fine il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio, dell’apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge. L’assegno, su accordo delle parti, può anche essere temporaneo”.

Ciò premesso nel caso concreto, posto che la revisione dell’assegno divorzile richiede la presenza di “giustificati motivi” e impone la verifica di una sopravvenuta, effettiva e significativa modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi sulla base di una valutazione comparativa delle rispettive situazioni reddituali e patrimoniali, occorre anche considerare che nel caso in esame la Corte d’appello di Venezia, a fronte della riconosciuta riduzione del reddito del Ma.Gi. da 71.000,00 a 57.000,00 dovuta al pensionamento, ha ridotto solo di un modesto 10% l’assegno nonostante la presenza di tutti gli altri molteplici indici di variazioni reddittuali delle parti che non sono stati nemmeno considerati e cioè appunto la convivenza della Bi.An. con altro compagno; conclusioni della sentenza sulla divisione della comunione de residuo della sentenza della Corte d’Appello di Venezia; presunta attività lucrativa tratta dall’Associazione (…)>>.

Quando sorge l’obbligo per l’Assicuratore della responsabilità professionale di indenizzare l’avvocato assicurato, in presenza di messe in mora inviate dal cliente dannneggiato?

Molto interessante insegnamento da Cass. sez. III, ord. 20/05/2024 n. 13.897, rel. Fiecconi, che va di là dell’ambito della r.c. professionale.

Inadempiment consistito nell’omesa proposizione di oppisizione ad ingiunzione.

Ebbene, non è necessario che l’assicurato (avvocato, cioè il debitore) abbia risarcito il terzo (cliente, cioè il creditore), per far sorgere il dovere indennitario della Assicurazione verso il primo ex art. 1917 cc. Nè c’è timore di suo indebito arricchimento, ad es. ipotizzando una successiva non corrsponsione da parte sua al cliente di quanto ricevuto.

<<8. Al proposito, va richiamato il principio, già esaurientemente indicato in recenti articolate pronunce della Suprema Corte, cui questo Collegio intende conformarsi, in base al quale, l’obbligo dell’assicuratore di tenere indenne il proprio assicurato dalla responsabilità civile, regolato dall’art. 1917 cod. civ., sorge nel momento in cui l’assicurato causi un danno a terzi, costituendo tale evento l’oggetto del rischio assicurato. L’assicuratore è in mora rispetto a tale obbligo solo dopo che sia decorso il tempo presumibilmente occorrente a un diligente assicuratore per accertare la sussistenza della responsabilità dell’assicurato e per liquidare il danno, e sempre che vi sia stata una efficace costituzione in mora da parte dell’assicurato stesso (cfr. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 14481 del 09/07/2020; Cass. Sez. 3 – , Sentenza n. 28811 del 08/11/2019; Cass. Sez. 3 – , Sentenza n. 22054 del 22/09/2017; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9510 del 30/04/2014).

9. Sulla base di tale principio, la liquidità del debito da risarcire al terzo danneggiato non è, di contro, condizione necessaria della costituzione in mora dell’assicuratore, non valendo nel nostro ordinamento il principio “in illiquidis non fit mora” (Cass. Sez. 3 – , Sentenza n. 28811 del 08/11/2019; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4712 del 14/05/1994).

10. Tuttavia, l’assicuratore della responsabilità civile non può essere ritenuto inadempiente all’obbligo di pagamento dell’indennizzo solo per il fatto che, ricevuta la relativa richiesta dall’assicurato, abbia omesso di provvedervi. L’ inadempimento può dirsi sussistente soltanto ove l’assicuratore abbia rifiutato il pagamento senza attivarsi per accertare, alla stregua dell’ordinaria diligenza professionale ex art. 1176, comma 2, cod. civ., la sussistenza di un fatto colposo addebitabile al medesimo assicurato, ovvero anche qualora gli elementi in suo possesso evidenzino la sussistenza di una responsabilità dello stesso assicurato non seriamente contestabile. Il relativo accertamento deve essere compiuto dal giudice di merito con prognosi postuma, vale a dire con riferimento al momento in cui l’assicuratore ha ricevuto la domanda di indennizzo, valutando tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresa la condotta dell’assicurato (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 14481 del 09/07/2020).

11. Ne consegue che sussiste la mora dell’assicuratore quando la mancata o ritardata liquidazione del danno al proprio assicurato derivi dalla condotta ingiustificatamente dilatoria dell’assicuratore o, ancora, dal suo fatto doloso o colposo, quale l’illegittimo comportamento processuale per aver egli, a torto, contestato in radice la propria obbligazione. In tal caso, quindi, gli interessi moratori decorrono dalla data della “interpellatio” (Cass, Sez. 2, Sentenza n. 9510 del 30/04/2014; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1105 del 15/04/1959).

12. Il principio di cui sopra citato circa l’insorgenza dell’obbligo dell’assicuratore di pagare l’indennizzo solo apparentemente collide con l’orientamento, sancito nella recente pronuncia di questa Suprema Corte (Cass.Sez. III, ord. 18065 del 10/07/2018), con la quale si è chiarito che il diritto dell’assicurato di rivalersi nei confronti dell’assicuratore, ai sensi dell’art. 1917 cod. civ., postula che il pagamento al terzo sia stato eseguito dall’assicurato in base ad un titolo che, se non anche definitivo e non contenente un accertamento (negoziale o giudiziale) della responsabilità dell’assicurato medesimo e dell’ammontare complessivo del risarcimento, sia tuttavia idoneo ad attribuire al pagamento il carattere doveroso previsto dal citato art. 1917 cod. civ. (citando Cass. 30/12/2011, n. 30795; Cass. 1/04/1996, n. 3008).

13. Nel medesimo senso si era espressa la sentenza di questa Corte n. 7330 del 1° luglio 1995, con la quale si affermò che l’obbligazione dell’assicuratore ha per oggetto, ai sensi dell’art. 1917, comma primo, cod. civ., il “rimborso” delle somme che al terzo debbono essere pagate dall’assicurato (v. in tal senso anche Cass. 1/07/1995, n. 7330). Fu allora anche precisato che dall’art. 1917 cod. civ. si ricava anche che “il pagamento” dell’indennità assicurativa al terzo può avvenire nei seguenti tre modi: il primo è quello con il quale l’assicurato prende l’iniziativa del pagamento ed in questo caso la prestazione assicurativa consiste nel rimborso all’assicurato della somma pagata; il secondo è quello con il quale è l’assicuratore ad assumere l’iniziativa del pagamento, previa comunicazione all’assicurato; il terzo comporta egualmente il pagamento diretto da parte dell’assicuratore al danneggiato, ma richiede che vi sia stata richiesta in tal senso dell’assicurato (Cass. 9 /01/1999, n. 103).

14. Nelle menzionate pronunce non si rinviene, tuttavia, alcun riferimento al fatto che il credito risarcitorio del terzo, oggetto dell’assicurazione per la responsabilità civile, debba necessariamente essere liquido al tempo del pagamento dell’assicuratore nelle mani dell’assicurato o del terzo.

15. Sicché, il principio di diritto indicato sulle diverse modalità di adempimento dell’obbligazione di pagamento dell’assicuratore previste nell’art. 1917 cod. civ. opera certamente in rafforzo del diritto dell’assicurato di ricevere l’indennizzo, e a maggior ragione nel caso in cui, come nel caso in questione, una volta ricevuta la denuncia del sinistro l’assicuratore, in base al parametro dell’ordinaria diligenza professionale da valutarsi ex art. 1176, comma 2, cod. civ., sia rimasto inerte rispetto al suo obbligo di tenere indenne l’assicurato.

16. In sintesi, dovendosi accedere a una interpretazione dell’art. 1917, comma 1, cod. civ. che tenga conto, a seconda delle circostanze, dell’ esigenza di mantenere un equilibrio sinallagmatico tra i diversi interessi delle parti nelle possibili dinamiche che si innestano nell’ esecuzione del contratto di assicurazione della responsabilità civile, l’obbligo di tenere indenne l’assicurato di quanto questi deve pagare al terzo non può dirsi sussistere solo in riferimento al tempo in cui diviene liquido ed esigibile il credito del terzo danneggiato, laddove il fatto dannoso del responsabile civile non sia seriamente contestabile e l’assicuratore non si sia attivato dopo la comunicazione di sinistro ricevuta dall’assicurato, in quanto esso sorge in dipendenza della responsabilità civile, dedotta nel contratto di assicurazione, già al tempo dell’avveramento del rischio da indennizzare.

17. Ai fini della verifica dei possibili risvolti di tale interpretazione, non si dimostra quale utile argomento il timore che il pagamento dell’indennizzo dall’assicuratore direttamente all’assicurato possa costituire un indebito per l’assicuratore, ove i terzi danneggiati omettano di coltivare le proprie pretese di risarcimento, e dunque venga meno il titolo del pagamento. In base al secondo comma dell’art. 1917 cod. civ., l’assicuratore ha facoltà di scongiurare tale rischio attivandosi per pagare l’indennità dovuta direttamente nelle mani del terzo danneggiato, previa comunicazione all’assicurato, prevedendosi anche che detto obbligo di pagamento nelle mani del terzo insorga laddove lo richieda lo stesso assicurato>>.