Funzione dell’assgno divorzile a costitizione di trust

Cass. sez. I, ord. 03/04/2024 n. 8.859, rel. Caiazzo:

<<La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi (Cass., SU, n. 18287/18).

In tema di attribuzione dell’assegno divorzile e in considerazione della sua funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa, il giudice del merito deve accertare l’impossibilità dell’ex coniuge richiedente di vivere autonomamente e dignitosamente e la necessità di compensarlo per il particolare contributo dato, durante la vita matrimoniale, alla formazione del patrimonio comune o dell’altro coniuge, nella constatata sussistenza di uno squilibrio patrimoniale tra gli ex coniugi che trovi ragione nelle scelte fatte “manente matrimonio”, idonee a condurre l’istante a rinunciare a realistiche occasioni professionali – reddituali, la cui prova in giudizio spetta al richiedente; a tal fine, l’assunzione, in tutto o in parte, delle spese di ristrutturazione dell’immobile adibito a casa coniugale, di proprietà esclusiva dell’altro coniuge, non costituisce ex se prova del suddetto contributo, rientrando piuttosto nell’ambito dei doveri primari di solidarietà e reciproca contribuzione ai bisogni della famiglia durante la comunione di vita coniugale (Cass., n. 9144/23).

Nella specie, alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte, il thema decidendum consiste nel verificare se la Corte d’appello abbia correttamente applicato i principi affermati dapprima dalle Sezioni Unite, e poi ribaditi da questa stessa Sezione, in ordine ai presupposti dell’assegno divorzile.

In particolare, il ricorrente censura la sentenza impugnata che non avrebbe motivato sul contributo dell’ex moglie alla formazione del patrimonio comune, o dell’ex coniuge; la So.Ro. ha sostanzialmente replicato che avrebbe contribuito alla formazione del trust che, sebbene formalmente di proprietà della madre del ricorrente, si sarebbe costituito con il contributo di entrambi i coniugi (s’invoca la proprietà indivisa, in comunione).

Al riguardo, la Corte d’appello, nell’argomentare sui presupposti dell’assegno divorzile, ha affermato che “..considerando le utilità connesse all’essere beneficiaria, insieme al coniuge, dei proventi di gestione del trust, l’appellata non aveva certamente investito in proprie aspettative professionali, che pur ha coltivato..”.

La controricorrente assume altresì che la prova di tale comproprietà sarebbe desumibile dalle lettere inviatele dal ricorrente nelle quali avrebbe sostanzialmente riconosciuto tale comproprietà, prescindendo dai dati formali (e ciò sebbene la stessa controricorrente abbia eccepito, infondatamente, l’improcedibilità del ricorso proprio per la mancata regolare produzione di tali lettere).

Orbene, come detto, la Corte territoriale ha fatto riferimento, genericamente, alle utilità che l’ex moglie traeva dal trust, ma non ha certo argomentato su una proprietà comune indivisa (in tal senso, alla luce della narrazione della controricorrente, emerge che neppure il Tribunale abbia chiaramente affermato ciò).

Si può dunque ragionevolmente presumere che l’ex moglie beneficiasse delle rendite del trust allo stesso modo di ogni utilità connessa al tenore di vita garantito dalla rilevante consistenza del patrimonio e del reddito dell’ex marito.

Pertanto, può affermarsi che, effettivamente, come lamentato dal ricorrente, la Corte d’appello abbia riconosciuto la funzione perequativa – assistenziale dell’assegno divorzile, senza nessuna evidenza probatoria del contributo che l’ex moglie avrebbe apportato alla formazione del patrimonio comune, o dell’ex marito, né di rinunce ad aspettative professionali (al riguardo, la So.Ro. assume di non svolgere l’attività di psicoterapeuta dal 2013), considerando altresì che la sentenza impugnata ha accertato che l’unico figlio, convivente dall’età di 12 anni con il padre, sia stato poi accudito e mantenuto esclusivamente dallo stesso genitore.

Inoltre, la corte d’appello ha accertato che il patrimonio della So.Ro. è consistente e, quantunque, di dimensioni inferiori a quello del ricorrente, certo idoneo alla richiedente per garantire di vivere autonomamente e dignitosamente.

Peraltro, la questione della contitolarità del patrimonio costituente il trust (prescindendo dalla valenza probatoria che s’intenda attribuire alle lettere inviate dal ricorrente all’allora moglie, di cui la sentenza impugnata non discorre) non può, in astratto, venire in rilievo ai fini dell’assegno divorzile, ma solo in ordine all’accertamento delle comproprietà; ma il ricorrente adduce la sentenza del marzo 2022, che avrebbe riconosciuto la titolarità del trust in capo alla propria madre; tale sentenza risulta depositata in cassazione, indicata al punto 5.ci del relativo indice, da intendersi come inammissibile produzione di documento nuovo.

Invero, nel giudizio per cassazione è ammissibile la produzione di documenti non prodotti in precedenza solo ove attengano alla nullità della sentenza impugnata o all’ammissibilità processuale del ricorso o del controricorso, ovvero al maturare di un successivo giudicato, mentre non è consentita la produzione di documenti nuovi relativi alla fondatezza nel merito della pretesa, per far valere i quali, se rinvenuti dopo la scadenza dei termini, la parte che ne assuma la decisività può esperire esclusivamente il rimedio della revocazione straordinaria ex art. 395, n. 3, c.p.c. (Cass., n. 18464/18; n. 4415/20).

In definitiva, deve affermarsi che la motivazione della Corte territoriale risulta di fatto imperniata sul mantenimento del tenore di vita pregresso di cui godeva l’ex moglie e, pertanto, non è rispettosa dei principi affermati dalla richiamata elaborazione giurisprudenziale di questa Corte, ai fini della liquidazione dell’assegno divorzile, dei quali ha sostanzialmente omesso l’esame>>.

Per la determinazione del tenore di vita ai dini dell’assegno di mantenimento, conta non solo il reddito ma anche il “patrimonio goduto” in costanza di matrimonio

Cass. Sez. I, Ord. del 24 aprile 2024, n. 11146,rel. Reggiani

<< Ciò che rileva, ai fini della determinazione dell’assegno in questione è
l’accertamento del tenore di vita condotto dalle parti quando vivevano insieme,
da rapportare alle condizioni reddituali e patrimoniali esistenti al momento
della separazione. (…)

Ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge, il tenore di vita goduto dalle parti in costanza di convivenza va rapportato alle condizioni reddituali e patrimoniali esistenti al momento della separazione e tale accertamento va condotto considerando non solo il reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma anche gli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti, quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso>>.

Poi:

<<Nel rigettare il ricorso promosso avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva ripristinato l’assegno di mantenimento in favore della moglie, la Corte di Cassazione ritorna nuovamente sul concetto del medesimo tenore di vita, quale criterio per il riconoscimento del contributo in favore del coniuge economicamente debole, insistendo sulla valutazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi durante la convivenza e successive alla separazione: al riguardo anche l’attitudine dei coniugi al lavoro proficuo costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento, ma l’accertamento non può essere limitato al solo mancato svolgimento di tale attività e vanno escluse mere valutazioni astratte e ipotetiche (Cass., Sez. I, Ordinanza n. 24049 del 06.09.2021).

Nel caso concreto, la Corte territoriale, dopo avere esaminato le risultanze processuali, ha correttamente valutato gli elementi di prova relativi al periodo di convivenza dei coniugi, così acquisendo elementi per ricostruire il tenore di vita matrimoniale da rapportare alla situazione delle parti successiva alla separazione, dando rilievo al lungo periodo durante il quale la moglie è rimasta a casa per accudire la famiglia.

Le generiche deduzioni del ricorrente in ordine alla relazione sentimentale e alla convivenza della moglie, in difetto di specifiche allegazioni di fatti impeditivi del diritto all’assegno di mantenimento, rendono la relativa censura inammissibile, né consentono di prospettare la decisività dei fatti di cui si lamenta l’omesso esame>>

(massime di CEsare Fossati in ONDIF)

Cass. sez. I, Ord. 26 aprile 2024, n. 11.208, rel. Reggiani:

<<Con riguardo all’onere della prova, in base alle regole generali, deve ritenersi gravante sulla parte che richiede l’addebito della separazione l’onere di provare sia la contrarietà del comportamento del coniuge ai doveri che derivano dal matrimonio, sia l’efficacia causale di questi comportamenti nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza.

È, invece, onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda nella determinazione dell’intollerabilità della convivenza, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale alla violazione dell’obbligo derivante dal matrimonio.

L’anteriorità della crisi della coppia rispetto alla violazione di tali obblighi, quale causa di esclusione del nesso causale tra quest’ultima condotta violativa degli obblighi derivanti dal matrimonio e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, integrando un’eccezione in senso lato, è rilevabile d’ufficio, purché sia allegata dalla parte a ciò interessata e risulti dal materiale probatorio acquisito al processo>>.

(massima di Ferrandi Francesca in Ondif)

V. pure mio post a Cass. 10.489/2024.

Il diritto alla bigenitorialità può essere leso quando un genitore, seppur per lavoro, si trasferisce con i figli a 850 km di distanza (da Napoli a Pordenone) dall’altro

Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 21/03/2024) 07/05/2024, n. 12282, rel. Meloni:

<<In particolare il Giudice di merito ha dichiarato di essere pervenuto alla impugnata decisione tenendo in considerazione le inequivoche volontà espresse dai minori, intese come favorevoli al trasferimento, in particolare sulla volontà dei minori ha affermato: “atteso che sia C.C. che D.D. sono parsi al giudice, che li ha ascoltati in presenza della Dr.ssa F.F. dell’UPP, hanno dichiarato entrambi di essere felici di trasferirsi a P, città che già conoscono per esservi stati spesso con la madre ed il suo compagno, di aver già visto le scuole presso le quali saranno iscritti, di essere certi del fatto che, in caso di loro disagio tornerebbero a N, come promesso dalla madre, di non aver alcuna intenzione di sostituire il padre con la figura del compagno della madre, di essere certi di tornare a N ogni qualvolta lo vorranno e che il padre potrà recarsi da loro senza alcun problema, di farsi portavoce anche della piccola E.E.”

Il primo motivo di ricorso è fondato in quanto il trasferimento dei tre figli in località distante parecchi chilometri da quella di residenza del padre non potrà non essere di ostacolo alla frequentazione del genitore coi figli nonostante al primo sia stata riconosciuta la “facoltà di vederli e tenerli quando desidera”. Infatti, la Corte di merito non ha valutato quella considerevole distanza tra le due città che non consente frequentazioni giornaliere, se non della durata di poche ore, ma al contrario solo visite di più giorni, data la notevole durata del viaggio. Tenendo poi conto che i figli frequentando la scuola, corsi sportivi, palestra, etc., non possono certo assentarsi troppo tempo dalla città di residenza, quantomeno nel lungo periodo scolastico, senza individuare idonee compensazioni.

Il trasferimento potrebbe configurare una violazione del diritto alla bigenitorialità anche in quanto la Corte di merito non ha valutato in alcun modo la questione, limitandosi a riportare le dichiarazioni rese dai due fratelli C.C. e D.D. ma non risulta sia stata ascoltata la più piccola E.E.>>.

Obbligo di manutenzione del guardrail da parte della PA ex art. 2051 cc

Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 24/04/2024) 03/05/2024, n. 11.950, rel. Gianniti:

Principio di diritto:

La P.A. che, pur avendo collocato una barriera laterale di contenimento per diminuire la pericolosità di un tratto stradale, non curi di verificare che la stessa non abbia assunto nel tempo una conformazione tale da costituire un pericolo per gli utenti ed ometta di intervenire con adeguati interventi manutentivi al fine di ripristinarne le condizioni di sicurezza, viola sia le norme specifiche che le impongono di collocare barriere stradali nel rispetto di determinati standard di sicurezza, sia i principi generali in tema di responsabilità civile“.

E poi:

<< Questa Corte, con ordinanza 01/02/2018, n. 2482 (e, nello stesso senso, con ordinanze nn. 2479 e 2480 del 2018) ha avuto modo di precisare che:

“In tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro”.

Tale principio di diritto – successivamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 27724/2018; n. 20312/2019; n. 38089/2021; n. 35429/2022; nn. 14228 e 21675/2023), anche a Sezioni Unite (Cass. n. 20943/2022) – è stato poi ancor più di recente riaffermato, statuendosi (Cass. n. 11152/23) che la responsabilità ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva – in quanto si fonda unicamente sulla dimostrazione del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, non già su una presunzione di colpa del custode – e può essere esclusa:

a) dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo, oppure

b) dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo (rientranti nella categoria dei fatti umani), caratterizzate, rispettivamente, la prima dalla colpa ex art. 1227 c.c. (bastando la colpa del leso: Cass. n. 21675/2023) o, indefettibilmente, la seconda dalle oggettive imprevedibilità e imprevenibilità rispetto all’evento pregiudizievole.

In particolare, questi ultimi concetti vanno intesi, come già chiarito, non nel senso della assoluta impossibilità di prevedere l’eventualità di una condotta imprudente, negligente o imperita della vittima (che è, ovviamente, sempre possibile), ma nel senso del rilievo delle sole condotte “oggettivamente” non prevedibili secondo la normale regolarità causale, nelle condizioni date, in quanto costituenti violazione dei doveri minimi di cautela la cui osservanza è normalmente prevedibile (oltre che esigibile) da parte della generalità dei consociati e la cui violazione, di conseguenza, è da considerarsi, sul piano puramente oggettivo della regolarità causale (non quindi, con riferimento al piano soggettivo del custode), non prevedibile né prevenibile.

I principi di diritto sin qui esposti risultano, nella loro sostanza, espressamente richiamati, condivisi e fatti propri dalla corte d’appello, nella decisione impugnata.

Invero, la corte – dopo aver rilevato che non può essere condotta abnorme quella del conducente che impatta violentemente contro il guardrail, il quale è funzionalmente posto ad attutire le conseguenze degli impatti violenti; e che, come accertato dal ctu, “è più probabile che non” che l’autovettura non potesse sfondare un guardrail in buono stato di manutenzione e continuo, per cui “diverse sarebbero state le conseguenze derivanti dall’urto contro una barriera integra e in buono stato di manutenzione” – facendo buon governo dei principi affermati da questa Corte in tema di concorso di cause, da un lato, ha affermato che: “la mancanza di continuità della barriera guardrail nel tratto di strada interessato ha consentito il verificarsi del sinistro, aggravando in concreto le conseguenze dannose, ponendosi, dunque, come condizione necessaria dell’evento” e, dall’altro, ha escluso che “la causa remota, costituita dalla condotta di guida tenuta dal E.E. (velocità ed impatto contro il guardrail), fosse connotata da peculiarità tali da porsi come antecedente imprevedibile né da sola era idonea a determinare l’evento, che, non si sarebbe verificato, ove la barriera di protezione fosse stata continua e in buono stato di manutenzione”.

La piena conformità della conclusione della corte territoriale ai principi sopra ricordati, applicati in esito a ricostruzioni fattuali non sindacabili in quanto tali nella presente sede di legittimità (siccome scevre da evidenti vizi logici o giuridici), conduce alla conclusione di infondatezza delle doglianze dell’ente ricorrente  >>.

E’ abuso del processo agire per il danno da uccisione del padre dapprima e della madre poi, cagionati dalla medesima condotta?

risponde di si Cass. civ. sez. III, ord. 26 Marzo 2024 n. 8.217, est. Rossetti:

<<2. Tutte le suddette censure sono inammissibili ex art. 360 bis, n. 1, c.p.c..
Senza alcun reale sforzo per vincere le motivazioni dell’orientamento
consolidato, i ricorrenti si dilungano a sostenere di essere stati vittime di “due
fatti illeciti”, e che di conseguenza legittima fu la loro duplice iniziativa
giudiziaria.
Deve tuttavia osservarsi in senso contrario che il “fatto” illecito è stato uno
soltanto: la condotta dell’ignoto conducente il quale causò il sinistro. La
circostanza che per effetto di tale condotta abbiano perso la vita due persone
non vuol dire che siano stati commessi due illeciti, ma che la medesima
condotta ha causato a ciascuno dei congiunti delle vittime due danni.
Questi danni, per di più, sono stati patiti dalle medesime persone, e nulla
avrebbe impedito loro di domandare il risarcimento del danno non
patrimoniale patito tanto per la morte del padre, quanto per la morte della
madre.
Quello in esame rappresenta dunque un caso di scuola di abuso del processo>>.

Soluzione probabilmente esatta

Diffamazione e obbligo per il diffamante di far rimuovere il dato anche presso terzi

Cass. sez. I, ord. 05/04/2024, (ud. 01/02/2024, dep. 05/04/2024), n. 9.068, rel. Caiazzo, pone un importante regola comportamentale a carico del diffamante, che può essere impartita dal giudice:

<<In tema di responsabilità civile per diffamazione, il pregiudizio all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima(Cass., n. 8861/21; n. 25420/17; n, 13153/17). [acquisito]

Nella specie, il risarcimento dei danni non patrimoniali è stato richiesto e liquidato, sulla scorta delle allegate presunzioni afferenti alla diffusione nazionale del servizio televisivo, alla rilevanza dell’offesa e alla posizione sociale dell’offeso (professore universitario). Il terzo motivo è parimenti infondato, anche se la motivazione su tale capo del provvedimento impugnato va corretta. Invero, la Corte d’appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha statuito la condanna della ricorrente anche alla rimozione del servizio e delle notizie che lo riproducevano dal canale youtube e dai motori di ricerca, mentre in primo grado tale ordine era stato contenuto nei limiti della disponibilità della ricorrente (con rigetto dell’istanza ex art. 614-bis, c.p.c., proprio perché la misura non dipendeva solo dalla volontà della società convenuta).

La Corte territoriale ha respinto il motivo d’appello con il quale era stato censurato il suddetto ordine poiché illegittimo – concretizzatosi nell’imposizione di un facere inattuabile senza la collaborazione dei terzi – in quanto l’art. 17, c.2, GDPR contempla un obbligo del titolare del trattamento che è non solo quello di cancellare i dati personali ma anche di adottare tutte le misure ragionevoli, anche tecniche – tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione – per informare i titolari (che stanno trattando i dati personali) della richiesta dell’interessato di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei propri dati.

Anzitutto, va ribadito, come affermato nella sentenza impugnata, l’obbligo del titolare del trattamento dei dati personali di attivarsi per la loro cancellazione, attraverso ogni attività volta alla rimozione del servizio e delle notizie che lo riproducono dai motori di ricerca (e dal canale youtube).

Circa l’eccezione d’inapplicabilità del citato art. 17, c.2, GDPR, giova rilevare che i principi affermati dai giudici di merito trovano la loro fonte nell’ordinamento europeo, sebbene il predetto art. 17 del Regolamento 2016/679 sia entrato in vigore successivamente ai fatti di causa. Al riguardo, va innanzitutto menzionata la sentenza 13 maggio 2014 della Corte di giustizia dell’Unione Europea (in causa C-131/12 Google Spain). Si tratta di una vicenda che aveva ad oggetto il problema dell’accesso ai dati esistenti sulla rete internet alla luce dell’allora vigente direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, poi abrogata dal Regolamento 2016/679/UE; in particolare, la terza questione esaminata (punti 89 e ss.) riguardava il diritto dell’interessato a ottenere che il motore di ricerca sopprimesse determinati dati dall’elenco dei risultati reperibili sulla rete. Circa gli importanti principi enunciati, la Corte di giustizia ha premesso (punto 92) che il trattamento dei dati personali può risultare incompatibile con l’art. 12, lett. b), della direttiva non soltanto se i dati sono inesatti, ma anche se essi sono inadeguati, non pertinenti o eccessivi in rapporto alle finalità del trattamento, oppure non aggiornati o conservati per un arco di tempo superiore a quello necessario, “a meno che la loro conservazione non si imponga per motivi storici, statistici o scientifici”. La Corte ha altresì affermato che il diritto dell’interessato, derivante dagli artt. 7 e 8 della Carta, di chiedere “che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico”, mediante la sua inclusione in un elenco accessibile tramite internet, prevale – in linea di massima – sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca e anche su quello del pubblico a reperire tale informazione in rete; a meno che non risultino ragioni particolari, “come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica”, tali da rendere preponderante e giustificato l’interesse generale ad avere accesso a tale informazione (punto 97).

Pertanto, può affermarsi che i principi sanciti dal suddetto art. 17 abbiano recepito quelli in precedenza già applicati dalla Corte CEDU, che trovavano la loro fonte nella Convenzione CEDU, nell’ambito di un’organica disciplina della materia.

Nel caso concreto, in particolare, circa la doglianza afferente all’inesigibilità di tale obbligo con riferimento alla rimozione del servizio televisivo per cui è causa dal canale youtube e dai motori di ricerca, il collegio ritiene che l’ambito del dovere concretamente esigibile ed applicabile nei confronti della R.T.I. Spa consista nell’attivarsi e dimostrare di averlo fatto con i responsabili dei portali che hanno fatto e fanno uso del filmato divulgato in sede televisiva. [importante]

Invero, limitarsi, da parte della società ricorrente, ad eccepire l’inapplicabilità e l’inesigibilità dell’obbligo statuito dalla Corte d’appello, perché rientrante nella disponibilità di terzi, esprime una difesa che prescinde dalla necessaria attività collaborativa intesa a impedire – per quanto possibile e nei suoi obblighi di diligenza riparativa – l’illegittimo uso, da parte di terzi, dei dati personali reputati come eccedenti.

Nella specie, la ricorrente non ha allegato di aver adottato quelle cautele e svolto quelle iniziative nei confronti dei terzi operatori, finalizzate – per quanto possibile – a limitare il danno lamentato per il carattere eccedente del “girato”; ne consegue, come detto, che la statuizione della sentenza impugnata va confermata, attraverso una parziale correzione della motivazione, nel senso che va affermato il principio secondo cui, in casi siffatti grava sulla responsabile del prodotto televisivo-informativo, eccedente i limiti della critica giornalistica, la dimostrazione di aver posto in pratica ogni iniziativa volta a rendere edotti (e persuadere) i terzi che se ne siano appropriati circa l’illegittima diffusione di filmati televisivi e “girati filmici”, già negativamente valutati sul piano della offesa alla dignità delle persone coinvolte nel prodotto veicolato.

Né può obiettarsi, al riguardo, che tale attività verso i terzi costituisca una forma di risarcimento in forma specifica eccessivamente onerosa, ex art. 2058, c. 2, c.c., in quanto essa ovviamente non implica la certezza dell’adempimento richiesto ai terzi, ma presuppone la doverosa attività volta a ottenere la cessazione dell’illegittimo trattamento dei dati personali da parte dei terzi, venendo cioè in rilievo solo un’obbligazione di mezzi, non certo di risultato. Parimenti infondata è la doglianza relativa al fatto che la Corte d’appello non avrebbe potuto statuire l’obbligo della R.T.I. Spa oltre i limiti della propria disponibilità – come invece pronunciato dal Tribunale – in mancanza dell’appello incidentale da parte del Ca.Sa., in quanto la sentenza impugnata non ha condannato la ricorrente ad una prestazione diversa da quella oggetto della sentenza di primo grado – incorrendo in un’asserita pronuncia ultra petita – ma ha solo specificato le modalità dell’obbligo gravante sul titolare del trattamento dei dati personali, in piena conformità del petitum dedotto nell’atto introduttivo del giudizio.

D’altra parte, la stessa ricorrente ha inteso attivarsi per richiedere la tutela delle opere televisive dall’uso improprio del diritto d’autore e di produttore, mentre avrebbe anche potuto e dovuto richiedere le prestazioni necessarie per tutelare i dati del controricorrente. In tal senso, la cooperazione del creditore potrebbe rendersi necessaria attraverso l’indicazione, alla R.T.I. Spa, dei motori di ricerca che avevano e hanno fatto uso del filmato in questione. Sul punto, viene in rilievo il principio di correttezza e buona fede il quale, già secondo la Relazione ministeriale al codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”, ma che deve essere inteso in senso oggettivo, in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 della Costituzione che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (Cass., SU, n. 28056/08; Cass., n. 22819/10; n. 9200/21; n. 16743/21)>>.

Nella separzione tra coniugi, la intollerabilità della prosecuzione di convincenza può riguardare anche uno solo dei coniugi

Cass. sez. I, ord. 24/04/2024 n. 11.032, rel. Reggiani:

<< In via generale, questa Corte ha affermato che la pronuncia di addebito della separazione non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare che tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata una situazione in cui la convivenza non era più tollerabile, abbia assunto efficacia causale nel determinare la situazione di intollerabilità (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014).    [ovvio]

L’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve, peraltro, essere svolta sulla base della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, consentendo solo tale comparazione di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano riservato, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14162 del 14/11/2001).

L’anteriorità della crisi della coppia rispetto alla violazione di tali obblighi, quale causa di esclusione del nesso causale, integra comunque un’eccezione in senso lato, ed è pertanto rilevabile d’ufficio, purché siano allegati dalla parte a ciò interessata i fatti che ne suffragano l’esistenza e i menzionati fatti risultino provati dal materiale probatorio comunque acquisito al processo (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 20866 del 21/07/2021).

Con specifico riferimento alla violazione dell’obbligo di coabitazione, questa Corte ha ritenuto che il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi contiene di per di per sé tutti i requisiti per configurare l’addebito della separazione personale, tenuto conto che obiettivamente a seguito di tale condotta la convivenza non è più possibile, fermo restando che l’addebito deve essere escluso, ove risulti che esso sia stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile e che, anzi, l’allontanamento del coniuge costituisca una conseguenza di tale intollerabilità (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 648 del 15/01/2020). [ovvio, come sopra]

A prescindere da qualsivoglia elemento di addebito, in applicazione dell’art. 151 c.c., la separazione dei coniugi deve comunque trovare causa e giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, intesa come fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno della vita dei coniugi, purché oggettivamente apprezzabile e giuridicamente controllabile. A tal fine non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione al matrimonio di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza e che sia verificabile in base ai fatti obiettivi emersi in giudizio (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020). [il passaggio più interessante]

Ovviamente, l’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi, nel determinarsi della intollerabilità della convivenza, è un accertamento in fatto riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di una motivazione che non sia viziata (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014). [no: non e’ fatto ma diritto, come emerge anche dalle parole della SC, laddove parla di “appprezzamento di responsabilità”]

(…)  Il giudice del gravame ha, in sintesi, ritenuto provata una condizione di disaffezione, quantomeno da parte della donna, già prima dell’allontanamento di quest’ultima dalla casa coniugale, dato che la donna aveva già prima comunicato al marito la volontà di separarsi per il tramite di un legale e poi aveva lasciato la casa coniugale, aggiungendo che il marito, sottoscrivendo la scrittura di separazione, risulta avere condiviso la decisione di separarsi, regolando convenzionalmente le conseguenze della separazione, compresa l’attribuzione di un assegno in favore della moglie, peraltro senza rappresentare negli atti di causa una condizione di vita matrimoniale in cui la comunione di vita fosse, invece, esistente.

Si tratta di un accertamento in fatto, operato dal giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità che, in virtù di quanto sopra evidenziato, non può essere considerato frutto di extrapetizione.

Lo stesso Si.Gi., nel ricorso per cassazione, ha riportato per esteso le allegazioni della moglie, contenute nella memoria di costituzione per l’udienza presidenziale in Tribunale, ove, nel richiedere l’addebito della separazione al marito, aveva allegato atteggiamenti violenti, tradimenti e comportamenti denigratori dell’uomo nei suoi confronti, oltre che condotte contrarie al dovere di assistenza morale durante la grave malattia della donna, fino alla decisione di quest’ultima di allontanarsi della casa coniugale, dietro suggerimento dei familiari, per timore di reazioni aggressive del marito, che ormai si era reso conto della volontà della moglie di separarsi (p. 14 del ricorso per cassazione).

Si tratta di condotte precedenti all’allontanamento della donna dalla casa coniugale, da quest’ultima avvertite, e dedotte, come causa di una pregressa intollerabilità della convivenza.

Il medesimo ricorrente ha, inoltre, evidenziato che, in appello, la moglie aveva dato rilievo alla missiva inviata dal suo legale, con cui aveva chiesto la separazione, e alla scrittura di separazione sottoscritta da entrambi i coniugi il 10/12/2016, per affermare che in tale occasione i coniugi erano assolutamente consci della crisi coniugale e d’accordo sulla necessità di addivenire ad una soluzione condivisa, entrambi consapevoli che il matrimonio era “finito” (p. 16 del ricorso per cassazione).

Anche tali allegazioni costituiscono argomenti che la donna ha posto a supporto della intollerabilità della convivenza precedente all’allontanamento della donna.

Il giudice di merito, valutando in fatto le risultanze di causa, ha ritenuto provata la obiettiva intollerabilità della convivenza, avvertita dalla donna prima dell’allontanamento da casa, e non contrastata dal marito, anche se non ha accertato i fatti che la stessa ha posto come causa della menzionata condizione di disaffezione.

In altre parole, la Corte di merito ha fatto proprie solo in parte le allegazioni della donna, che aveva dedotto la pregressa intollerabilità della convivenza per fatto imputabile al marito, ritenendo provata, per le ragioni in fatto sopra indicate, semplicemente la ritenuta impossibilità di vivere ancora insieme, percepita dalla moglie e non contrastata dal marito.

(…) Il terzo motivo è infondato.

4.1. Come già evidenziato, la condizione di intollerabilità della convivenza può essere intesa anche in senso soggettivo, non essendo necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti, che sia verificabile in base a fatti obiettivi (così Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015; v. anche v. ancora Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020).

In tale ottica, questa Corte ha di recente ritenuto dimostrata tale preesistente intollerabilità della convivenza dalla presentazione stessa del ricorso per separazione e dal successivo comportamento processuale, con particolare riferimento alle risultanze negative del tentativo di conciliazione, dovendosi ritenere venuto meno, al ricorrere di tali evenienze, quel principio del consenso che caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale (v. ancora Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015).

Non si tratta di un’interpretazione che abroga la previsione normativa del dovere di coabitazione, perché, comunque, l’allontanamento presuppone l’accertamento di una condizione anche personale, non necessariamente condivisa tra i coniugi, che risulti comunque da dati obiettivi e, ovviamente, non sia la conseguenza della violazione di un altro obbligo matrimoniale da parte di chi compia tale scelta.  [ok]

La coabitazione, infatti, non è convivenza, perché quest’ultima si connota per una condivisione di vita che non è richiesta nella prima.

La coabitazione, ove la convivenza sia divenuta intollerabile anche per una sola persona della coppia, perde di significato coniugale, per il declino dei diritti e doveri reciproci che connotano il rapporto matrimoniale, e non può essere imposta come mero artificio esteriore.

4.3. Nel caso di specie la Corte d’appello ha dato applicazione ai principi enunciati, dando rilievo alla missiva inviata dal legale della moglie prima dell’allontanamento della casa coniugale, in cui quest’ultima ha manifestato la volontà di separarsi, la quale costituisce una obiettiva e inequivoca rappresentazione dell’impossibilità per la donna di continuare a vivere con il marito, seguita, dopo pochi mesi dall’allontanamento, dalla sottoscrizione da parte di entrambi i coniugi di un accordo che regolava le condizioni di separazione e prevedeva un assegno di mantenimento in favore della donna, cui si è aggiunta anche la constatazione, da parte del giudice di appello, che non una parola si leggeva negli atti difensivi del marito su eventuali condizioni della vita matrimoniale che avrebbero potuto rendere imprevedibile la scelta della donna (v. supra e p. 7 e ss. della sentenza impugnata)>>.

Sul “carattere individuale” dei disegni e modelli

Ripasso sul carattere individuale dei modelli (art. 6 reg. EU 6 del 2002) offerto da Trib. UE T-654/22 del 10.04.2024, da segnalzione di Marcel Pemsel in IpKat, M&T 1997, a.s. c.  EUIPO.

Design sub iudice:

 

Anteriorità asseritamente provante l’assenza di car. individ.:

Dopo due rigetti amministrativi, l’istante ottiene vittoria giudiziale: chi la dura la vince (stavolta).

<< 25 It should be noted that Regulation No 6/2002 does not define the concept of the ‘informed user’. According to the case-law, the concept of ‘informed user’ must be understood as lying somewhere between that of the ‘average consumer’, applicable in trade mark matters, who need not have any specific knowledge and who, as a rule, makes no direct comparison between the trade marks at issue, and the ‘sectoral expert’, who is an expert with detailed technical expertise. Thus, the concept of the informed user may be understood as referring, not to a user of average attention, but to a particularly observant one, either because of his or her personal experience or his or her extensive knowledge of the sector in question (judgment of 20 October 2011, PepsiCo v Grupo Promer Mon Graphic, C‑281/10 P, EU:C:2011:679, paragraph 53).

26 As regards the informed user’s level of attention, it should be noted that, although the informed user is not the well-informed and reasonably observant and circumspect average consumer who normally perceives a design as a whole and does not proceed to analyse its various details, he or she is also not an expert or sectoral expert capable of observing in detail the minimal differences that may exist between the designs at issue. Thus, the qualifier ‘informed’ suggests that, without being a designer or a technical expert, the user knows the various designs which exist in the sector concerned, possesses a certain degree of knowledge with regard to the features which those designs normally include, and, as a result of his or her interest in the products concerned, shows a relatively high degree of attention when he or she uses them (see, to that effect, judgment of 20 October 2011, PepsiCo v Grupo Promer Mon Graphic, C‑281/10 P, EU:C:2011:679, paragraph 59 and the case-law cited).

27 In the present case, as regards the applicant’s argument that it is not only the end user himself or herself who may be regarded as an informed user, but also the handle salesperson, it should be noted that, according to the case-law referred to in paragraphs 25 and 26 above, the concept of ‘informed user’ does not refer to a professional quality linked to the product concerned. Furthermore, the informed user is neither an expert nor a specialist, such as a sectoral expert. The applicant’s argument therefore cannot succeed. (…)

34 According to the case-law, the degree of freedom of the designer of a design is determined by, inter alia, the constraints of the features imposed by the technical function of the product or an element thereof, or by statutory requirements applicable to the product to which the design is applied. Those constraints result in a standardisation of certain features, which will thus be common to the designs applied to the product concerned (see judgment of 29 October 2015, Roca Sanitario v OHIM – Villeroy & Boch (Single control handle faucet), T‑334/14, not published, EU:T:2015:817, paragraph 35 and the case-law cited).

35 In the present case, the Board of Appeal’s assessment, set out in paragraph 31 above, is consistent with the case-law of the Court according to which the degree of freedom of the designer of a door handle with a grip is high, on account of the fact that that handle can be made in a significant variety of shapes, colours and materials (judgment of 5 July 2017, Gamet v EUIPO – ‘Metal-Bud II’ Robert Gubała (Door handle), T‑306/16, not published, EU:T:2017:466, paragraphs 45 to 47).

36 Contrary to what the applicant claims, the length of the pivoting lever of a door handle with a grip does not appreciably limit the designer’s freedom either in relation to the particular shape of that lever or in relation to the other elements of the appearance of such a handle, as shown by the examples of door handles illustrated in paragraph 25 of the contested decision. (…)

55 Furthermore, as regards the elements which are, for their part, relevant to the comparison of the overall impressions produced by the designs at issue, it should be noted that, when the informed user uses a door handle with a grip in accordance with its normal use, he or she clasps its gripping area with the hand, which corresponds, in the present case, to the grip, in order to exert downward pressure so that the latch of the door slides and allows the door to be opened, which can then be pushed or pulled. Where the informed user approaches the door handle in order to use it normally, that user sees it from above. Accordingly, the most visible elements of the handle are those corresponding to the outward-facing parts of the handle, namely the front, side and top parts of the handle. As the Board of Appeal acknowledged in paragraphs 33 and 35 of the contested decision, the differences at the back, namely the curvature of the edges and the shape of the neck, will also be visible to the informed user and will not be overlooked by him or her. Moreover, as the applicant points out, the rounded curvature of the edges of the contested design is accompanied by a thinner and smoother appearance which the informed user will easily notice.

56 Furthermore, the rounded and thinner shapes of the edges of the contested design constitute differences from the earlier design which will be perceived by the informed user as influencing the manipulation of the handle and are, therefore, important elements in relation to the overall impression produced by the contested design, in accordance with the considerations set out in paragraphs 49 and 50 above. Those aspects have an impact on the ease of use of the handle, since they correspond to the parts of it which come into direct contact with the hand of the informed user.

57 Consequently, in accordance with the considerations set out in paragraph 49 above, the attention of the informed user is focused on all the elements set out in paragraphs 55 and 56 above.

58 In the light of the information provided in paragraphs 55 and 56 above and the high level of attention of the informed user in the present case (see paragraph 22 above), it must be held that, contrary to what the Board of Appeal found in paragraph 35 of the contested decision, the differences in the angles of the grip and the neck are neither marginal nor minor variations of one and the same design. A more rounded shape generally results in a softening of the lines of the neck and grip, which has a significant effect both on the overall appearance and on the ease of use of the door handle. It is therefore an element which attracts the informed user’s attention.

59 It follows from the foregoing that, although the designer’s freedom is high (see paragraph 35 above), those differences are sufficiently significant to produce a different overall impression of the designs at issue, contrary to the Board of Appeal’s analysis.

60 In the light of those considerations, the Board of Appeal erred in finding that the designs at issue produced the same overall impression on the informed user and that the contested design therefore lacked individual character within the meaning of Article 6(1)(b) of Regulation No 6/2002>>.

Responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 cc e decorrenza del termine decennale

Cassazione civile sez. II, ord. 03/05/2024, (ud. 08/03/2024, dep. 03/05/2024), n.11906, rel. Caponi, offre un interessante ripasso sull’oggetto tramite la sempre ottima penna del prof.  Caponi.

<<3.2. …. Per gli immobili destinati a lunga durata, l’art. 1669 c.c. imputa all’appaltatore una responsabilità complessivamente più grave, soprattutto sotto il profilo della durata, che si atteggia come speciale rispetto alla responsabilità per i vizi ex artt. 1667-1668 c.c. A sua volta, nell’ambito dell’appalto, la disciplina degli artt. 1667-1668 c.c. riveste carattere eccezionale rispetto alle regole generali della responsabilità nei contratti. Coerente con questo quadro normativo è appunto la conclusione enunciata da Cass. 28233/2017 (tra le altre). In caso di immobili destinati a lunga durata, ove sia fatta valere la responsabilità ex art. 1669 c.c. , l’irrilevanza della circostanza che l’opera appaltata sia stata ultimata o meno, è una conseguenza logica della neutralizzazione (indotta da quel quadro normativo) delle regole generali sulla risoluzione del contratto per inadempimento (artt. 1453 ss. c.c.).

Tuttavia, l’art. 1669 c.c. contempla pur sempre il “compimento” fra gli elementi della propria fattispecie. Pertanto, dalla combinazione tra la cornice normativa della responsabilità in materia di appalto privato e il coerente orientamento della giurisprudenza di legittimità discende che la parola “compimento” debba poter riferirsi anche a casi in cui l’opera appaltata non sia stata ultimata. Ciò non è una contraddizione in termini, ma proprio una conferma del carattere speciale dell’art. 1669 c.c. , innanzitutto rispetto agli artt. 1667-1668 c.c. , come ci si avvia ad argomentare.

In caso di rovina, pericolo di rovina, gravi difetti, l’art. 1669 c.c. offre una (maggiore) tutela al committente. Siffatta maggiore tutela è da contemperare però con l’interesse imprenditoriale dell’appaltatore ad individuare con la maggiore certezza possibile il momento in cui il rapporto decennale di responsabilità si esaurisce. Ciò comporta innanzitutto l’esigenza di fissare in modo certo il dies a quo di decorrenza del termine, neutralizzando l’impatto negativo del maggiore fattore di incertezza: l’eventuale diatriba tra le parti sul contenuto dell’obbligazione assunta dall’appaltatore in base al contratto di appalto (esemplare sotto tale profilo è l’attuale caso di specie).

Il legislatore ha conseguito l’obiettivo delineando ex art. 1669 co. 1 c.c. una nozione di “compimento” autonoma rispetto all’oggetto dell’obbligazione che ha fonte nel contratto di appalto. Tale nozione rinviene, cioè, i propri tratti distintivi entro il campo tracciato dalla struttura e dalla funzione dell’art. 1669 c.c. Sul piano della struttura della fattispecie, saliente è l’assenza di qualsivoglia complemento di specificazione: “nel corso di dieci anni dal compimento”, senz’altro. Ciò suggerisce immediatamente all’interprete una lettura disciplinata e rigorosa, diretta a controllare (del resto inevitabili) precomprensioni, come quella di assumere che il significato della successiva parola (“opera”) coincida automaticamente (sempre e comunque) con l'”opera” di cui parla l’art. 1655 c.c. Le due parole possono – ma non debbono necessariamente (per tutto quanto si è argomentato nel corso di questo paragrafo) – significare la stessa cosa (la stessa opera).

3.3. – Proprio nel suo essere priva di complemento di specificazione, la parola “compimento” esibisce nondimeno – per così dire – una qualità di “intenzionalità”, nel senso letterale del tendere ad altro da sé: essa chiede all’interprete di ascriverle quella specificazione di cui è priva. Infatti, la domanda: “compimento di che?” rimane ineludibile e trova risposta attraverso la proiezione delle istanze di regolazione scaturenti di volta in volta dalla concreta controversia da decidere, pur nel contesto della direttiva che l’art. 1669 c.c. offre all’interprete in prospettiva generale. Si tratterà quindi di concretizzare il significato del compimento di quei lavori o di quell’opera di cui si allega la rovina totale o parziale ovvero il manifestarsi con evidenza di un pericolo di rovina o di un grave difetto, indipendentemente dalla circostanza che tali lavori o tale opera coincidano (o meno) con l’obbligazione oggetto del contratto di appalto.

Esemplare è il caso di specie: le lesioni sulle travi di fondazione e lo sfaldamento del cemento si sono “presentate evidenti” (nel senso di cui all’art. 1669 c.c.) nel 2022, mentre i lavori di cui si allega il grave difetto che le ha causate (la costruzione dei pilastri e di solai) si sono “compiuti” (sempre nel senso di cui all’art. 1669 c.c.) nel 1988. Entrambi tali fatti, che costituiscono gli elementi rilevanti per l’accertamento del la sussistenza del rapporto di responsabilità ex art. 1669 c.c. in capo all’appaltatore, sono incontestati nella loro collocazione temporale tra le parti. L’arco di tempo tra i due supera non di poco il decennio. Viceversa, le parti controvertono sull’individuazione dell’opera assunta dall’appaltatore ad oggetto della propria obbligazione ex art. 1655 c.c. , ma ciò è propriamente irrilevante. L’irrilevanza si accredita alla luce del concreto atteggiarsi del caso di specie, non già in linea generale. Ciò è frutto appunto della (relativa) autonomia (da concretizzare di volta in volta) dell’opera, dei lavori, dalla cui rovina o dal cui grave difetto sorge la responsabilità ex art. 1669 c.c. , rispetto all’opera oggetto dell’obbligazione dell’appaltatore ex art. 1655 c.c. In altre costellazioni potrà ben accadere (e forse potrà essere anche l’evenienza più frequente) che, per l’effetto dell’art. 1669 c.c. , si tratti esattamente del compimento della stessa opera oggetto del contratto di appalto.

3.4. – L’argomentazione svolta nei nn. 3.2. e 3.3. è un’implicazione logica tratta da Cass. 28233/2017, cui si dà continuità, aggiungendo che l’esigenza di certezza che presiede alla determinazione del dies a quo di decorrenza del termine decennale (ove una maggiore certezza si coniuga con un accorciamento della distanza tra il parametro e l’oggetto della valutazione) incontra conferme di realizzazione attraverso altri strumenti (irrilevanti nel caso di specie), come l’insensibilità a cause di sospensione o di interruzione del termine, cosicché il decennio ex art. 1669 c.c. si staglia nella sua qualità di “termine di sbarramento finale”.

3.5. – A questo punto aperta è la strada diretta a cogliere l’errore in cui è incorsa la Corte di appello laddove (p. 8), dal rilievo che il fatto generatore della responsabilità del costruttore risiede nella “gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e pressioni”, ha tratto la conseguenza che “il termine decennale non risulti compiuto, avuto altresì riguardo alla notoria ed ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio”.

Al contrario di quanto ritiene la Corte territoriale (e il controricorrente), tale soluzione non trova sostegno nella giurisprudenza di questa Corte. La Corte di appello invoca l’orientamento secondo il quale: “Ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1669 c.c. in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore”. Tale è, in effetti, la parte rilevante della massima di Cass. 5920/1993 (citata dalla Corte territoriale e ripresa dal controricorrente) che ha trovato ripetute conferme nella giurisprudenza di legittimità fino alla recente Cass. 13707/2023.

A fondamento della propria conclusione, la Corte di appello ne ha tratto: se il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto dall’art. 1669 c.c. attiene alle “condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore” (così la massima estratta da Cass. 5920/1993, ma identica è quella da Cass. 13707/2023), nel caso di specie la condizione di fatto generatrice della responsabilità sarebbe la “gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e pressioni”. Tale condizione si è quindi verificata ben entro il decennio (anzi, già al momento della stessa costruzione), sebbene essa abbia impiegato molto tempo per manifestare il suo impatto lesivo, in considerazione della “notoria ed ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio”.

L’argomento è (apparentemente) disarmante. Cosicché (in un certo senso) disarmante ha da essere anche la risposta. L’ordinamento giuridico italiano rinviene le proprie fonti nel diritto, per come esso è scritto nella Costituzione, nei codici e nelle leggi e per come esso è di conseguenza interpretato dalla giurisprudenza, ma l’interpretazione giurisprudenziale trova espressione esclusiva nel testo integrale delle sentenze, e non già nel testo delle massime, che non a caso (anche quando sono “ufficiali”) sono estratte da un ufficio cui sono addetti magistrati che in quella qualità esercitano una funzione amministrativa, non giurisdizionale. Alle massime vanno riconosciute funzioni di documentazione e di euristica: esse sono uno strumento di ricerca e di selezione delle sentenze rilevanti per la trattazione e la decisione del caso.

Ne segue che la massima in questione, certamente rilevante, rinvia al testo della sentenza e il significato di questa, a sua volta, è da cogliere alla luce della sua funzione interpretativa dell’art. 1669 c.c. , ove si dispone esplicitamente che, nel “corso di dieci anni dal compimento”, il grave difetto deve presentarsi come “evidente”. Non a caso, nel testo della sentenza che costituisce una delle espressioni più recenti di questo indirizzo (Cass. 13707/2023, cit. , p. 5 s.) si può leggere: “entro tale termine decennale devono verificarsi le condizioni di fatto che manifestano con evidenza il pericolo o il grave difetto della costruzione” (corsivo nostro, n.d.r.). Pertanto, la (parte di) massima giurisprudenziale di cui si discute è da leggere in questi termini: ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1669 c.c. , in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che rendono evidente la responsabilità del costruttore ovvero, in modo ancora migliore: che rendono evidente il pericolo di rovina o i gravi difetti (scontando il tacito presupposto che la rovina totale o parziale sia di per sé evidente). Nel caso di specie, il grave difetto si è “presentato evidente” a distanza di quasi quindici anni dal “compimento”>>.

Solo che non convince la distinzione tra compimento e ultimazione. E’ vero che “compimento” letteralmente è diverso da “completamento”, ma il senso nell’art. 1669 pare il medesimo.