Responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 cc e decorrenza del termine decennale

Cassazione civile sez. II, ord. 03/05/2024, (ud. 08/03/2024, dep. 03/05/2024), n.11906, rel. Caponi, offre un interessante ripasso sull’oggetto tramite la sempre ottima penna del prof.  Caponi.

<<3.2. …. Per gli immobili destinati a lunga durata, l’art. 1669 c.c. imputa all’appaltatore una responsabilità complessivamente più grave, soprattutto sotto il profilo della durata, che si atteggia come speciale rispetto alla responsabilità per i vizi ex artt. 1667-1668 c.c. A sua volta, nell’ambito dell’appalto, la disciplina degli artt. 1667-1668 c.c. riveste carattere eccezionale rispetto alle regole generali della responsabilità nei contratti. Coerente con questo quadro normativo è appunto la conclusione enunciata da Cass. 28233/2017 (tra le altre). In caso di immobili destinati a lunga durata, ove sia fatta valere la responsabilità ex art. 1669 c.c. , l’irrilevanza della circostanza che l’opera appaltata sia stata ultimata o meno, è una conseguenza logica della neutralizzazione (indotta da quel quadro normativo) delle regole generali sulla risoluzione del contratto per inadempimento (artt. 1453 ss. c.c.).

Tuttavia, l’art. 1669 c.c. contempla pur sempre il “compimento” fra gli elementi della propria fattispecie. Pertanto, dalla combinazione tra la cornice normativa della responsabilità in materia di appalto privato e il coerente orientamento della giurisprudenza di legittimità discende che la parola “compimento” debba poter riferirsi anche a casi in cui l’opera appaltata non sia stata ultimata. Ciò non è una contraddizione in termini, ma proprio una conferma del carattere speciale dell’art. 1669 c.c. , innanzitutto rispetto agli artt. 1667-1668 c.c. , come ci si avvia ad argomentare.

In caso di rovina, pericolo di rovina, gravi difetti, l’art. 1669 c.c. offre una (maggiore) tutela al committente. Siffatta maggiore tutela è da contemperare però con l’interesse imprenditoriale dell’appaltatore ad individuare con la maggiore certezza possibile il momento in cui il rapporto decennale di responsabilità si esaurisce. Ciò comporta innanzitutto l’esigenza di fissare in modo certo il dies a quo di decorrenza del termine, neutralizzando l’impatto negativo del maggiore fattore di incertezza: l’eventuale diatriba tra le parti sul contenuto dell’obbligazione assunta dall’appaltatore in base al contratto di appalto (esemplare sotto tale profilo è l’attuale caso di specie).

Il legislatore ha conseguito l’obiettivo delineando ex art. 1669 co. 1 c.c. una nozione di “compimento” autonoma rispetto all’oggetto dell’obbligazione che ha fonte nel contratto di appalto. Tale nozione rinviene, cioè, i propri tratti distintivi entro il campo tracciato dalla struttura e dalla funzione dell’art. 1669 c.c. Sul piano della struttura della fattispecie, saliente è l’assenza di qualsivoglia complemento di specificazione: “nel corso di dieci anni dal compimento”, senz’altro. Ciò suggerisce immediatamente all’interprete una lettura disciplinata e rigorosa, diretta a controllare (del resto inevitabili) precomprensioni, come quella di assumere che il significato della successiva parola (“opera”) coincida automaticamente (sempre e comunque) con l'”opera” di cui parla l’art. 1655 c.c. Le due parole possono – ma non debbono necessariamente (per tutto quanto si è argomentato nel corso di questo paragrafo) – significare la stessa cosa (la stessa opera).

3.3. – Proprio nel suo essere priva di complemento di specificazione, la parola “compimento” esibisce nondimeno – per così dire – una qualità di “intenzionalità”, nel senso letterale del tendere ad altro da sé: essa chiede all’interprete di ascriverle quella specificazione di cui è priva. Infatti, la domanda: “compimento di che?” rimane ineludibile e trova risposta attraverso la proiezione delle istanze di regolazione scaturenti di volta in volta dalla concreta controversia da decidere, pur nel contesto della direttiva che l’art. 1669 c.c. offre all’interprete in prospettiva generale. Si tratterà quindi di concretizzare il significato del compimento di quei lavori o di quell’opera di cui si allega la rovina totale o parziale ovvero il manifestarsi con evidenza di un pericolo di rovina o di un grave difetto, indipendentemente dalla circostanza che tali lavori o tale opera coincidano (o meno) con l’obbligazione oggetto del contratto di appalto.

Esemplare è il caso di specie: le lesioni sulle travi di fondazione e lo sfaldamento del cemento si sono “presentate evidenti” (nel senso di cui all’art. 1669 c.c.) nel 2022, mentre i lavori di cui si allega il grave difetto che le ha causate (la costruzione dei pilastri e di solai) si sono “compiuti” (sempre nel senso di cui all’art. 1669 c.c.) nel 1988. Entrambi tali fatti, che costituiscono gli elementi rilevanti per l’accertamento del la sussistenza del rapporto di responsabilità ex art. 1669 c.c. in capo all’appaltatore, sono incontestati nella loro collocazione temporale tra le parti. L’arco di tempo tra i due supera non di poco il decennio. Viceversa, le parti controvertono sull’individuazione dell’opera assunta dall’appaltatore ad oggetto della propria obbligazione ex art. 1655 c.c. , ma ciò è propriamente irrilevante. L’irrilevanza si accredita alla luce del concreto atteggiarsi del caso di specie, non già in linea generale. Ciò è frutto appunto della (relativa) autonomia (da concretizzare di volta in volta) dell’opera, dei lavori, dalla cui rovina o dal cui grave difetto sorge la responsabilità ex art. 1669 c.c. , rispetto all’opera oggetto dell’obbligazione dell’appaltatore ex art. 1655 c.c. In altre costellazioni potrà ben accadere (e forse potrà essere anche l’evenienza più frequente) che, per l’effetto dell’art. 1669 c.c. , si tratti esattamente del compimento della stessa opera oggetto del contratto di appalto.

3.4. – L’argomentazione svolta nei nn. 3.2. e 3.3. è un’implicazione logica tratta da Cass. 28233/2017, cui si dà continuità, aggiungendo che l’esigenza di certezza che presiede alla determinazione del dies a quo di decorrenza del termine decennale (ove una maggiore certezza si coniuga con un accorciamento della distanza tra il parametro e l’oggetto della valutazione) incontra conferme di realizzazione attraverso altri strumenti (irrilevanti nel caso di specie), come l’insensibilità a cause di sospensione o di interruzione del termine, cosicché il decennio ex art. 1669 c.c. si staglia nella sua qualità di “termine di sbarramento finale”.

3.5. – A questo punto aperta è la strada diretta a cogliere l’errore in cui è incorsa la Corte di appello laddove (p. 8), dal rilievo che il fatto generatore della responsabilità del costruttore risiede nella “gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e pressioni”, ha tratto la conseguenza che “il termine decennale non risulti compiuto, avuto altresì riguardo alla notoria ed ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio”.

Al contrario di quanto ritiene la Corte territoriale (e il controricorrente), tale soluzione non trova sostegno nella giurisprudenza di questa Corte. La Corte di appello invoca l’orientamento secondo il quale: “Ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1669 c.c. in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore”. Tale è, in effetti, la parte rilevante della massima di Cass. 5920/1993 (citata dalla Corte territoriale e ripresa dal controricorrente) che ha trovato ripetute conferme nella giurisprudenza di legittimità fino alla recente Cass. 13707/2023.

A fondamento della propria conclusione, la Corte di appello ne ha tratto: se il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto dall’art. 1669 c.c. attiene alle “condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore” (così la massima estratta da Cass. 5920/1993, ma identica è quella da Cass. 13707/2023), nel caso di specie la condizione di fatto generatrice della responsabilità sarebbe la “gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e pressioni”. Tale condizione si è quindi verificata ben entro il decennio (anzi, già al momento della stessa costruzione), sebbene essa abbia impiegato molto tempo per manifestare il suo impatto lesivo, in considerazione della “notoria ed ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio”.

L’argomento è (apparentemente) disarmante. Cosicché (in un certo senso) disarmante ha da essere anche la risposta. L’ordinamento giuridico italiano rinviene le proprie fonti nel diritto, per come esso è scritto nella Costituzione, nei codici e nelle leggi e per come esso è di conseguenza interpretato dalla giurisprudenza, ma l’interpretazione giurisprudenziale trova espressione esclusiva nel testo integrale delle sentenze, e non già nel testo delle massime, che non a caso (anche quando sono “ufficiali”) sono estratte da un ufficio cui sono addetti magistrati che in quella qualità esercitano una funzione amministrativa, non giurisdizionale. Alle massime vanno riconosciute funzioni di documentazione e di euristica: esse sono uno strumento di ricerca e di selezione delle sentenze rilevanti per la trattazione e la decisione del caso.

Ne segue che la massima in questione, certamente rilevante, rinvia al testo della sentenza e il significato di questa, a sua volta, è da cogliere alla luce della sua funzione interpretativa dell’art. 1669 c.c. , ove si dispone esplicitamente che, nel “corso di dieci anni dal compimento”, il grave difetto deve presentarsi come “evidente”. Non a caso, nel testo della sentenza che costituisce una delle espressioni più recenti di questo indirizzo (Cass. 13707/2023, cit. , p. 5 s.) si può leggere: “entro tale termine decennale devono verificarsi le condizioni di fatto che manifestano con evidenza il pericolo o il grave difetto della costruzione” (corsivo nostro, n.d.r.). Pertanto, la (parte di) massima giurisprudenziale di cui si discute è da leggere in questi termini: ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1669 c.c. , in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che rendono evidente la responsabilità del costruttore ovvero, in modo ancora migliore: che rendono evidente il pericolo di rovina o i gravi difetti (scontando il tacito presupposto che la rovina totale o parziale sia di per sé evidente). Nel caso di specie, il grave difetto si è “presentato evidente” a distanza di quasi quindici anni dal “compimento”>>.

Solo che non convince la distinzione tra compimento e ultimazione. E’ vero che “compimento” letteralmente è diverso da “completamento”, ma il senso nell’art. 1669 pare il medesimo.

Mutui al tasso Euribor e contratti a valle di intese vietate perchè restrittive della concorrenza

Cass. sez. 3 sent. 12.007 del 3 maggio 2024, rel. Tatangelo, pone i seguenti principi di diritto (ex art. 363 cpc) (testo  da ilcaso.it):

«i contratti di mutuo contenenti clausole che, al fine di determinare la misura di un tasso d’interesse, fanno riferimento all’Euribor, stipulati da parti estranee ad eventuali intese o pratiche illecite restrittive della concorrenza dirette alla manipolazione dei tassi sulla scorta dei quali viene determinato il predetto indice, non possono, in mancanza della prova della conoscenza di tali intese e/o pratiche da parte di almeno uno dei contraenti (anche a prescindere dalla consapevolezza della loro illiceità) e dell’intento di conformare oggettivamente il regolamento contrattuale al risultato delle medesime intese o pratiche, considerarsi contratti stipulati in “applicazione” delle suddette pratiche o intese; pertanto, va esclusa la sussistenza della nullità delle specifiche clausole di tali contratti contenenti il riferimento all’Euribor, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990 e/o dell’art. 101 TFUE»; [prova sull’elemento soggettivo? da dare con dati fattuali]
«le clausole dei contratti di mutuo che, al fine di determinare la misura di un tasso d’interesse, fanno riferimento all’Euribor, possono ritenersi viziate da parziale nullità (originaria o sopravvenuta), per l’impossibilità anche solo temporanea di determinazione del loro oggetto, laddove sia provato che la determinazione dell’Euribor sia stata oggetto, per un certo periodo, di intese o pratiche illecite restrittive della concorrenza poste in essere da terzi e volte a manipolare detto indice; a tal fine è necessario che sia fornita la prova che quel parametro, almeno per un determinato periodo, sia stato oggettivamente, effettivamente e significativamente alterato in concreto, rispetto al meccanismo ordinario di determinazione presupposto dal contratto, in virtù delle condotte illecite dei terzi, al punto da non potere svolgere la funzione obbiettiva ad esso assegnata, nel regolamento contrattuale dei rispettivi interessi delle parti, di efficace determinazione dell’oggetto della clausola sul tasso di interesse»;
«in tale ultimo caso (ferme, ricorrendone tutti i presupposti, le eventuali azioni risarcitorie nei confronti dei responsabili del danno, da parte del contraente in concreto danneggiato), le conseguenze della parziale nullità della clausola che richiama l’Euribor per impossibilità di determinazione del suo oggetto (limitatamente al periodo in cui sia accertata l’alterazione concreta di quel parametro) e, prima fra quelle, la possibilità di una sua sostituzione in via normativa, laddove non sia possibile ricostruirne il valore “genuino”, cioè depurato dell’abusiva alterazione, andranno valutate secondo i principi generali dell’ordinamento»

La corte del Delaware in una ponderosa sentenza sul purpose della company (McRitchie v. Zuckerberg, et al.)

La court of chancery , giudice Leister, C.A. No. 2022-0890-JTL , 30 aprile 2024, (qui la pag. web della corte con lelenco  perlomeno ad oggi e qui link diretto al testo dell’opinion) ragiona sull’altgenrativca single-firm model (or firm-specific model) vs. Modern Modern Portfolio Theory diversification.

Segnalata dal prof.  Bainbridge.

Curiosa causa petendi: gli attori allegano la negligenza xcostituita dall’aver Zuck Sandbert etc. condotto Meta etc. con riguardo all’itneresse della società medesima e non deglio azionisti che hanno portafoglio diversidicati: i quali preferirebbero che Meta internalizzasse le esternalità prodotte per valorizzare al meglio i loro portafogli.

Forse mi sfugge qualcosa, ma ha dell’incredibile che si impegni una corte e che questa risponda con una setnenza di 101 opagg. su un punto che dovrebbe essere pacifico: gli amministgratori devono occuparsi di far rendere gli investimenti nella loro societò, non in eventuali altre in cui alcuni soci avessero per caso investito per diversificare (nemmeno nella modalità light di evitare loro dannosità facendosene carico in proprio).   Così facendo, al contrario, si renderebbero inadempienti al loro incarico.

Trattandosi di contratto, infatti, chi lo gestisce deve far fruttare quel contratto, non altri.

A parte il ns art. 2247 cc, la logica lo impone. Sarebbe invece giuridicamente illogico onerare gli amministratori di far fruttare investimenti in altri contratti sociali: a meno che i patti sociali questo dicano e che lo dicano in modo sufficientemente determinato.

Sintesi iniziale offerta dalla Corte:

<<Under the standard Delaware formulation, directors owe fiduciary duties to the corporation and its stockholders. Implicitly, the “stockholders” are the stockholders of the specific corporation that the directors serve, i.e., “its” stockholders.
The standard Delaware formulation thus contemplates a single-firm model (or firm-specific model) in which directors of a corporation owe duties to the stockholders as investors in that corporation. That point is so basic that no Delaware decisions have felt the need to say it. Fish don’t talk about water.
The plaintiff takes a different view. Capitalizing on the word “stockholders,” the plaintiff observes that stockholders are investors. The plaintiff then argues that under Modern Portfolio Theory, prudent investors diversify. Therefore, says the plaintiff, the law must operate on the assumption that a corporation’s stockholders are diversified. The plaintiff concludes that owing fiduciary duties to the corporation and its stockholders must mean owing duties that run to the corporation and its stockholders as diversified equity investors>>.

Affidamento in prova ai servizi sociali e limitazione della potestà genitoriale

Cass. sez. I, ord. 30/04/2024 n. 11.624, rel. Parise:

<<4.1. Secondo l’orientamento più recente di questa Corte, al quale il Collegio intende dare continuità (cfr. da ultimo Cass. 32290/2023), l’affidamento ai servizi sociali, oggi specificamente disciplinato dall’art. 5-bis della legge 4 maggio 1983 n. 184 (norma inserita dall’art. 28, comma 1, lett. d, del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023) costituisce una species del più ampio genus dell’affidamento a terzi, ma presenta alcune peculiarità, in ragione della natura e delle funzioni dei servizi sociali ed anche delle ragioni che determinano il giudice della famiglia a scegliere un soggetto pubblico, avente compiti istituzionali suoi propri, prefissati per legge, e non una persona fisica individuata in ambito familiare. Qualora sia disposto l’affidamento del minore ai servizi sociali occorre distinguere, anche nel regime previgente all’entrata in vigore dell’art. 5-bis della legge 184/1983 (che trova la sua base normativa negli artt. 25 e 26 r.d.l. 1404/1934, conv. nella l. 835/1935, e succ. modif.), l’affidamento con compiti di vigilanza, supporto ed assistenza senza limitazione di responsabilità genitoriale (c.d. mandato di vigilanza e di supporto) dall’affidamento conseguente a un provvedimento limitativo della responsabilità genitoriale. Nel primo caso, si tratta del conferimento da parte del giudice di un mandato con l’individuazione di compiti specifici per assicurare la funzione di supporto ed assistenza ai genitori ed ai figli e per vigliare sulla corretta attuazione dell’interesse del minore. Questa tipologia di “affidamento” ai servizi, da definire come mandato di vigilanza e supporto, non incidendo per sottrazione sulla responsabilità genitoriale, non richiede, nella fase processuale che precede la sua adozione, la nomina di un curatore speciale, salvo che il giudice non ravvisi comunque, in concreto, un conflitto di interessi, e non esclude che i servizi possano attuare anche altri interventi di sostegno rientranti nei loro compiti istituzionali; richiede, tuttavia, che il provvedimento del giudice sia sufficientemente dettagliato sui compiti demandati – con esclusione di poteri decisori- e che siano definiti i tempi della loro attuazione, che devono essere il più rapidi possibili. Nel secondo caso, il provvedimento di affidamento consegue ad un provvedimento limitativo (anche provvisorio) della responsabilità genitoriale. Esso costituisce un’ingerenza nella vita privata e familiare (similmente all’affidamento familiare, sul punto v. Cass. 16569/2021) e, pertanto, deve essere giustificato dalla necessità di non potersi provvedere diversamente all’attuazione degli interessi morali e materiali del minore, non avendo sortito effetto i programmi di supporto e sostegno già svolti in favore della genitorialità; l’adozione di questo provvedimento presuppone la sua discussione nel contraddittorio, esteso anche al minore, i cui interessi devono essere imparzialmente rappresentati da un curatore speciale; i contenuti del provvedimento devono essere conformati al di proporzionalità tra la misura adottata e l’obiettivo perseguito e il giudice deve esercitare un’adeguata vigilanza sull’operato dei servizi. Pertanto si richiede, anche nel regime previgente alla entrata in vigore dell’art. 5-bis l. 184/1983, che i compiti dei servizi siano specificamente descritti nel provvedimento, in relazione a quelli che sono i doveri e i poteri sottratti dall’ambito della responsabilità genitoriale e distinti dai compiti che sono eventualmente demandati al soggetto collocatario se questi è persona diversa da i genitori; i servizi non possono svolgere funzioni e compiti propri della responsabilità genitoriale se non specificamente individuati nel provvedimento limitativo; deve essere necessariamente nominato, nella fase processuale che precede la sua adozione, un curatore speciale del minore, i cui compiti vanno pure precisati>>.

Applicazione al caso in esame:

<<4.2 Nel caso di specie la Corte distrettuale ha riscontrato in entrambi i genitori “carenze e capacità genitoriali limitate e in parte compromesse, nel caso del padre a causa di atteggiamenti violenti e note caratteriali”, mentre nei confronti della madre è stato espresso un giudizio di “fragilità per una sua certa immaturità e la sua conseguente difficoltà a gestire in maniera equilibrata la difficile situazione familiare”, determinata dall’aspra conflittualità con il marito e dalla conseguente incomunicabilità tra i genitori. La Corte di merito ha, pertanto, confermato la statuizione del Tribunale, che aveva disposto l’affidamento dei minori ai Servizi Sociali, e detto provvedimento ha connotazioni certamente limitative, quantomeno, della responsabilità genitoriale del padre, al quale sono consentiti incontri con i figli solo con modalità protette e rigidamente regolamentate, benché, invero, non risultino specificamente descritti nella sentenza impugnata i compiti dei Servizi.

L’adozione di questo provvedimento di affidamento limitativo, tuttavia, non è avvenuta all’esito di una discussione in un contraddittorio complesso esteso anche ai minori, i cui interessi fossero adeguatamente rappresentati da un curatore speciale processuale.

L’emersione nel corso del giudizio di comportamenti dei genitori pregiudizievoli degli interessi dei figli, costituiti dall’elevato livello di conflittualità tra loro esistente e dal conseguente profondo coinvolgimento dei bambini nel dissidio, poneva in capo ai giudici distrettuali il dovere di provvedere a tale nomina, in ragione del sopravvenuto conflitto di interessi con i genitori, non più idonei a rappresentare i minori. L’inottemperanza a questo dovere, il difetto di interlocuzione che ne è derivato e il difetto di rappresentanza dei minori hanno determinato, in applicazione dei principi in precedenza richiamati, la nullità della decisione impugnata in relazione alle statuizioni che riguardano la regolamentazione dei rapporti genitoriali e di ogni aspetto agli stessi connesso, sicché si impone la cassazione della sentenza, limitatamente a dette statuizioni, con rinvio alla Corte di merito>>

Licenza di marchio quando il licenziante è una comunione (anzichè una titolarità singolare): il caso Acanfora/Legea torna in Cassazione dopo la pausa alla Corte di Giustizia

Acanfora/Legea è il leading case sul tema in oggetto.

Dopo la sosta europea , torna in Italia presso il giudice remittente e viene deciso da  Cass. sez. I, sent. 19/04/2024  n. 10.637, rel. Terrusi, che, applicando l’interpretazione della CGUE, cassa con rinvio alla corte di appello napoletana.

<<XI. – Sennonché la sottostante questione di diritto va risolta in senso esattamente opposto, in base alla considerazione – di matrice dottrinale ma in certo qual senso già presente in giurisprudenza – per cui la concessione di licenze esclusive a terzi è un atto dispositivo del marchio, poiché, alterando la destinazione della cosa e impedendo agli altri partecipanti alla comunione di farne uso, incrina l’esclusività del diritto che è tipica della privativa.

Invero, se disposta a maggioranza, la concessione di licenze esclusive sul marchio è lesiva dei diritti di esclusiva dei dissenzienti.

La concessione in licenza implica infatti uno sfruttamento indiretto del bene immateriale. E lo sfruttamento indiretto è idoneo a vulnerare l’esclusiva che i titolari dissenzienti avrebbero diritto a mantenere integra.

Ne segue che quale che sia la durata della concessione (infra o ultranovennale o a tempo indeterminato) e la modalità (gratuita o meno) dell’attribuzione a terzi del diritto di utilizzazione in via esclusiva del marchio, quell’attribuzione, proprio perché esclusiva, implica un atto di disposizione giuridica suscettibile di un medesimo unico trattamento.

Poiché ogni decisione inerente allo sfruttamento del diritto comune di proprietà industriale è astrattamente idonea a pregiudicare l’interesse di ciascuno dei contitolari a preservare l’integrità del proprio diritto, la regola che viene in rilievo è quella posta dall’art. 1108, primo e terzo comma, cod. civ. per il modello degli atti pregiudizievoli; quegli atti che – come per es. l’alienazione o la costituzione di diritti reali, o anche la locazione ultranovennale -segnando il limite di compromissione del diritto “di alcuno dei partecipanti”, richiedono l’unanimità dei consensi.

Considerando poi che nella concessione del marchio a terzi è normalmente radicata proprio la concessione del diritto di esclusiva, essendo codesto un predicato della funzione del segno, il principio non può che comportare – nell’ottica dell’art. 6 del c.p.i. – una soluzione opposta a quella sostenuta dalla corte d’appello di Napoli>>.

Poi i principi affermati:

<<XIII. – Vanno quindi affermati i seguenti principi:

– in caso di comunione sul marchio, il contratto di licenza d’uso a terzi in via esclusiva richiede, per il suo perfezionamento, il consenso unanime dei contitolari, perché la concessione al licenziatario dell’esclusiva priva i contitolari del godimento diretto dell’oggetto della comunione, e dunque rileva secondo il disposto dell’art. 1108, primo e terzo comma, cod. civ.;

– ove la licenza sia stata concessa in via esclusiva con l’accordo unanime dei titolari è sempre possibile il venir meno della volontà di prosecuzione di uno dei medesimi, il quale non è vincolato in perpetuo alla manifestazione originaria; tale circostanza implica la necessità di rinegoziare l’atto mediante una nuova concessione, da concordare ancora una volta con unanimità dei consensi>>.

Il primo principio è esatto. Il secondo invece suscita serie perplessità: anzi pare errato, trascurando nella sua assolutezza la regole negozialmente pattuite, che non possono venire caducate dal ripensamento di un contitolare licenziante.

Prova della simulazione e impugnabilità per simulazione di una donazione inserita tra le condizioni di separazione o divorzio congiunti

Cass. sez. II,  ord. 30/04/2024 n. 11.525, rel. Fortunato:

Sul primo punto:

<<Non può condividersi la conclusione cui è pervenuto il giudice di merito, secondo cui la prova della simulazione poteva esser data per testi o per presunzioni solo in caso di perdita incolpevole del documento contenente la controdichiarazione.

Secondo il costante insegnamento di questa Corte, nel caso di simulazione di contratti formali, la prova soggiace a limitazioni diverse a seconda che si tratti di simulazione assoluta o relativa.

Nel primo caso, l’accordo simulatorio, pur essendo riconducibile tra i patti per i quali opera il divieto di cui all’art. 2722 c.c., non rientra tra gli atti per i quali è richiesta la forma scritta “ad substantiam” o “ad probationem”, menzionati dall’art. 2725 c.c., avendo natura ricognitiva dell’inesistenza del contratto apparentemente stipulato, sicché la prova testimoniale (e per presunzioni: Cass. 5296/1981) è ammissibile in tutte e tre le ipotesi contemplate dal precedente art. 2724 cod. civ. e quindi 1) se vi sia un principio di prova per iscritto costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato; 2) quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; 3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova (Cass. 4339/1983; Cass. 850/1986; Cass. 2998/1988; Cass. 697/1997; Cass. Cass. 10240/2007).

Per contro, solo nel caso di simulazione relativa occorre distinguere, poiché se la domanda è proposta da creditori o da terzi – che, essendo estranei al negozio, non sono in grado di procurarsi le controdichiarazioni scritte – la prova per testi o per presunzioni non può subire alcun limite; qualora, invece, la domanda venga proposta dalle parti o dagli eredi, la prova per testi, essendo diretta a dimostrare l’esistenza del negozio dissimulato, del quale quello apparente deve rivestire il necessario requisito di forma, è ammessa soltanto nell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2724 c.c., cioè quando il contraente ha senza colpa perduto il documento, ovvero quando la prova è diretta fare valere l’illiceità del negozio (Cass. 697/1997; Cass. 10240/2007; cfr. Cass. 18204/2017 secondo cui, in caso di simulazione relativa di un contratto di donazione, non si richiede che la controdichiarazione sia contenuta in un atto pubblico, essendo sufficiente la produzione della scrittura privata).

L’errore della Corte distrettuale è consistito, quindi, nell’aver ritenuto indimostrata l’esistenza della simulazione in mancanza della dimostrazione della perdita incolpevole della controdichiarazione, potendo invece far ricorso alla prova testi o per presunzioni anche negli altri casi di cui all’art. 2724 c.c., trattandosi di provare l’inesistenza del contratto e non l’esistenza di un contratto diverso>>.

Sul secondo:

<<Sostenendo che i negozi contenenti attribuzioni patrimoniali tra i coniugi, ove recepite tra le condizioni della separazione coniugale omologata, non sarebbero impugnabili per simulazione, la sentenza si è conformata ad un indirizzo non più attuale, poiché, sviluppando le argomentazioni delle S.U (sentenza n. 21761/2021), in ordine alla valenza negoziale di detti accordi e alla natura dichiarativa della pronuncia che ne convalidi la conformità alla legge, all’interesse dei figli e all’ordine pubblico nell’ambito della separazione omologata o del divorzio congiunto, la successiva giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che tali pattuizioni sono soggette alle ordinarie impugnative negoziali a tutela delle parti o di terzi (Cass. 24687/2022; Cass. 15169/2022; Cass. 10443/2019).

In caso di separazione consensuale o divorzio congiunto (o su conclusioni conformi), la pronuncia giudiziale incide sul vincolo matrimoniale mentre, riguardo all’accordo tra i coniugi, realizza – in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli – un controllo esterno.

Ne consegue la possibilità di far accertare la simulazione dei negozi familiari attributivi di beni immobili, non ostandovi l’intervenuto recepimento tra le condizioni della separazione omologata o del divorzio congiunto>>.

Il concetto di “consumatore medio” (art. 20 cod. cons.) deve prendere atto della razionalità limitata e dei bias cognitivi

Interessante opinione dell’AG Emiliou nel caso C-646/22, Compass Banca v. AGCM, Conclusioni 25.04.2024, su rinvio pregiudiziale del ns Cons. Stato.

La lite riguardava  la proposta abbinata di finanziamento e assicurazione da parte di Compass, ritenuta pratica aggressiva da AGCM.

Tra le questioni proposte qui interessa la prima:  << Se la nozione di consumatore medio di cui alla direttiva 2005/29/CE inteso come consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto – per la sua elasticità ed indeterminatezza – non debba essere formulata con riferimento alla miglior scienza ed esperienza e di conseguenza rimandi non solo alla nozione classica dell’homo oeconomicus ma anche alle acquisizioni delle (…) teorie sulla razionalità limitata che hanno dimostrato come le persone agiscono spesso riducendo le informazioni necessarie con decisioni “irragionevoli” se parametrate a quelle che sarebbero prese da un soggetto ipoteticamente attento ed avveduto[,] acquisizioni che impongono una esigenza protettiva maggiore dei consumatori nel caso – sempre più ricorrente nelle moderne dinamiche di mercato – di pericolo di condizionamenti cognitivi>>.

l’Ag supera una prima obiezione , quella della irrilevanza in causa per mera teoricità (e assenza di rilevanza in casua) della questione: giustamente l’AG la rigetta.

Poi, entrando nel merito, afferma che il concetto di consumatore medio comprende le fragilità cognitive o volitive e quindi i (più o meno frequenti, spesso inevitabili) casi di razionalità limitata (bounded rationality). Su di essi c’è letteratura sterminata : si pensi ai lavori di Herbert Simon, Tversky e il recentemente scomparso Kahneman (e al suo meravigliso libro Pensieri lenti, pensieri veloci) , di Thaler e alla sterminata produzione di Cass Sunstein (che si aggiunge a quella di costituzionalista e di altro ancora) , da noi Paolo Legrenzi etc.

Su tale teoria  si basa il filone dell’economa comportamentale.

<< 43.  Alla luce di questo più ampio contesto ritengo che lo scopo dell’espressione «normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto», contenuta nel considerando 18 della direttiva 2005/29, non sia quello di «alzare il livello» di quanto ci si può attendere da un consumatore tipico rispetto a una determinata prassi commerciale, richiedendogli di essere, ad minima, un individuo razionale che si attiva per ottenere le informazioni rilevanti, elabora razionalmente le informazioni a lui presentate ed è pertanto in grado di adottare decisioni consapevoli (più o meno come un «homo oeconomicus»). Tali termini sono volti piuttosto a garantire che gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali non adottino la prospettiva di un consumatore a tal punto poco informato, attento e avveduto che sia irragionevole o sproporzionato proteggerlo. A tal riguardo, osservo che, nei suoi Orientamenti sull’interpretazione della direttiva 2005/29 (24), la Commissione ha espressamente escluso dall’ambito di applicazione della protezione unicamente il «consumatore acritico, ingenuo o disattento», la cui protezione sarebbe a suo avviso «sproporzionata e creerebbe un ostacolo ingiustificato agli scambi commerciali». Si tratta di una soglia minima piuttosto bassa.

44. Per queste ragioni, non condivido la posizione della Compass Banca secondo cui, per il fatto che la direttiva 2005/29 contiene una disposizione specifica sulla protezione di gruppi di consumatori «particolarmente vulnerabili» (segnatamente, il suo articolo 5, paragrafo 3), il «consumatore medio», cui si riferisce l’articolo 5, paragrafo 2, di tale atto sarebbe, a sua volta, un individuo in grado di agire sempre in modo razionale. A mio parere, il fatto che il legislatore dell’Unione abbia inteso riconoscere una protezione accresciuta a «gruppi particolarmente vulnerabili» di consumatori non significa che non intendesse fornire un elevato livello di protezione a consumatori non rientranti in detti gruppi, o che li abbia considerati quali individui invulnerabili, sempre perfettamente razionali.

45. In terzo luogo, l’obiettivo della direttiva 2005/29, che consiste nel fornire «un livello elevato di tutela dei consumatori», conferma, a mio parere, tale interpretazione. Infatti, tale funzione protettiva – che, come ho osservato nell’introduzione, rappresenta la struttura portante non soltanto della direttiva di cui trattasi, ma di molti dei testi di legge adottati dal legislatore dell’Unione nel settore della tutela dei consumatori – non sarebbe necessaria se il «consumatore medio» dovesse essere sempre considerato rispondente al modello dell’«homo economicus». A costo di dire un’ovvietà, non credo che il legislatore dell’Unione avrebbe adottato la direttiva 2005/29 (il cui obiettivo è di proteggere i consumatori da pratiche che possono «falsare in misura rilevante il [loro] comportamento economico»), se avesse ritenuto che i consumatori siano sempre in grado di agire in maniera razionale >>.

La presa di posizione è condivisibile. Se ne era già occupato Michele Bertani, Pratiche commerciali scorrette e consumatore medio, Giuffrè, 2016 (collana Quad. di Giur. Comm.), cap. II, §§ 1-3 (e spt. il § 3), con proposta analoga (p. 44-45).

Il reale problema teorico è quello del se la legge voglia tutelare il consumatore così come è opppure gli imponga una soglia minima di attenzione  che tutti devon raggiungere, per fruire della tutela.

Non è un problkema da poco e l’AG opta per la prima soluzione.

L’articolato della dir. nulla dice, se non “consumatore medio”.

Qualche (modesto) spunto in più nei considd. 18-19:

<< (18)  È opportuno proteggere tutti i consumatori dalle pratiche commerciali sleali. Tuttavia, la Corte di giustizia ha ritenuto necessario, nel deliberare in cause relative alla pubblicità dopo l’entrata in vigore della direttiva 84/450/CEE, esaminare l’effetto su un virtuale consumatore tipico. Conformemente al principio di proporzionalità, e per consentire l’efficace applicazione delle misure di protezione in essa previste, la presente direttiva prende come parametro il consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l’interpretazione della Corte di giustizia, ma contiene altresì disposizioni volte ad evitare lo sfruttamento dei consumatori che per le loro caratteristiche risultano particolarmente vulnerabili alle pratiche commerciali sleali. Ove una pratica commerciale sia specificatamente diretta ad un determinato gruppo di consumatori, come ad esempio i bambini, è auspicabile che l’impatto della pratica commerciale venga valutato nell’ottica del membro medio di quel gruppo. È quindi opportuno includere nell’elenco di pratiche considerate in ogni caso sleali una disposizione che, senza imporre uno specifico divieto alla pubblicità destinata ai bambini, tuteli questi ultimi da esortazioni dirette all’acquisto. La nozione di consumatore medio non è statistica. Gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali dovranno esercitare la loro facoltà di giudizio tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia, per determinare la reazione tipica del consumatore medio nella fattispecie.

(19) Qualora talune caratteristiche, quali età, infermità fisica o mentale o ingenuità, rendano un gruppo di consumatori particolarmente vulnerabile ad una pratica commerciale o al prodotto a cui essa si riferisce, e il comportamento economico soltanto di siffatti consumatori sia suscettibile di essere distorto da tale pratica, in un modo che il professionista può ragionevolmente prevedere, occorre far sì che essi siano adeguatamente tutelati valutando la pratica nell’ottica del membro medio di detto gruppo>>.

Le norme europee sulle libertà fondamentali si applicano non solo agli Stati ma anche ai privati, quando abbiano di fatto un’importanza paragonabile (Conclusioni dell’AG Szpunar sulle regole FIFA in tema di trasferimento dei calciatori)

Il sempre ottimo AG SZpunar ha depositato le sue conclusioni 30.04.2024 , C-650-22, FIFA c. BZ .

Sintesi:

– esamina il rapporto tra i due settori disciplinari Ue: concorrenza e libertà fondamentali (spt. quella di circolazione del lavoratrori)

– le regole FIFA li violano entrambi

– alle regole FIFA si applicano le regole sulle libertà fondametnali, pur se dettate per gli Stati (come detto espressamente per l’art. 15 Carta dir. fondam. -v. art. 51-  ma non per l’art. 45 TFUe).   Punto non da poco, affermato in modo veloce (pur citando un precedente CG del 1974) , che avrebbe meritato maggior svolgimento.

Ne riporto i passaggi:

<<32  Secondo la logica dei Trattati, tanto le libertà fondamentali quanto le norme sulla concorrenza sono funzionali all’obiettivo di garantire il funzionamento del mercato interno (14). A tal proposito, il Protocollo (n. 27) sul mercato interno e sulla concorrenza chiarisce espressamente che il mercato interno ai sensi dell’articolo 3 TUE comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata (15). L’idea originaria dei Trattati era che le libertà fondamentali fossero rivolte agli Stati membri in quanto soggetti pubblici, mentre le norme sulla concorrenza dovevano vincolare le imprese private.

33. Nel corso degli anni, tuttavia, la separazione di cui trattasi è divenuta più sfumata. Spesso è difficile negare che alcuni soggetti privati agiscono in modo simile a quello di uno Stato, per mera forza del loro potere economico o per il modo in cui emanano «norme», mentre vi sono altre situazioni in cui gli atti di uno Stato sono più simili a quelli di un’impresa privata. Pertanto, la Corte deve (o ha dovuto) stare al passo con siffatti sviluppi e la giurisprudenza si è evoluta: da un lato, in talune situazioni alcune delle libertà del mercato interno sono state applicate a soggetti privati (16), mentre, dall’altro, in altre situazioni, si è ritenuto che le azioni degli Stati membri rientrassero nell’ambito di applicazione del diritto della concorrenza (17). Una valutazione esaustiva e definitiva del tema di cui trattasi eccederebbe la portata delle presenti conclusioni>>.

Poi:

<< 75Tuttavia, come ho spiegato altrove, in una situazione come quella della presente causa, i soggetti privati come la FIFA sono funzionalmente paragonabili non già a un’istituzione dell’Unione, ma a uno Stato membro che cerca di giustificare una restrizione di una libertà fondamentale (51). La Corte ha costantemente affermato, a partire dalla sentenza Walrave e Koch (52), che le disposizioni del Trattato si applicano a un soggetto come la FIFA. Un siffatto soggetto è trattato come se fosse uno Stato membro che cerca di giustificare una restrizione di una libertà fondamentale (o, a seconda dei casi, una restrizione della concorrenza). Di conseguenza, è semplicemente logico che, in un’ipotesi del genere, le disposizioni della Carta si applichino a detto soggetto nel senso che esso è vincolato dalle stesse. In altri termini, se la Corte non ha avuto problemi ad applicare l’articolo 45 TFUE orizzontalmente a un soggetto come la FIFA, lo stesso deve valere per l’applicazione della Carta >>.

Prima di discutere sulla legittimità della costruzione rispetto ad una veduta, bisogna capire se esista il diritto di veduta (sugli artt. 905 e 907 cc)

Cass. sez. II,  sent. 23/02/2024  n. 4.816, rel. Falaschi:

<<La questione di diritto che il Collegio è chiamato a risolvere riguarda la legittimità o meno della apertura di vedute su un cortile di proprietà esclusiva di un edificio che perciò ne risulti gravato, con la peculiarità che tra l’edificio nel quale è realizzata la veduta ed il cortile non esiste nessun rapporto di accessorietà.

La giurisprudenza di legittimità che si è formata ha avuto riguardo a fattispecie in cui il cortile è comune ai due edifici e in ordine al quale si sono registrate due posizioni: in una fattispecie ha escluso l’applicabilità dell’orientamento che in mancanza di una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari al riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all’art. 1102, comma 1 c.c. (Cass. 14 giugno 2019 n. 16069; Cass. 26 febbraio 2007 n. 4386; Cass. 19 ottobre 2005 n. 20200), in difetto del presupposto della proprietà comune del cortile.

Accanto a tale impostazione si è affiancata altra, che, a ben vedere, meglio si collega alla peculiarità della fattispecie in esame, secondo cui, anche in caso di accertata comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi ed allorché fra il cortile e le singole unità immobiliari di proprietà esclusiva non sussista quel collegamento strutturale, materiale o funzionale, ovvero quella relazione di accessorio a principale, che costituisce il fondamento della condominialità dell’area scoperta, ai sensi dell’art. 1117 c.c., l’apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell’art. 905 c.c. Il partecipante alla comunione del cortile non può, in sostanza, aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell’immobile di sua esclusiva proprietà, finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico dell’edificio frontistante, applicabile ai rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite (Cass. 21 ottobre 2019 n. 26807; Cass. 4 luglio 2018 n. 17480; Cass. 21 maggio 2008 n. 12989; Cass. 20 giugno 2000 n. 8397; Cass. 25 agosto 1994 n. 7511; Cass. 28 maggio 1979 n. 3092). Quest’ultimo orientamento ha trovato conferma in una recente pronuncia (Cass. 11 marzo 2022 n. 7971), con la quale è stato evidenziato che si tratta di rapporti tra proprietà individuali, anche se con beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite.

Del resto, il riconoscimento di un diritto di veduta comporta una permanente minorazione della utilizzabilità del bene che ne è gravato da parte di chiunque ne sia o ne divenga proprietario, con attribuzione all’edificio limitrofo di un corrispondente vantaggio che a questo finisce per inerire come qualitas, ossia con le caratteristiche di realità tali da inquadrarsi nello schema delle servitù.

Nel caso in esame, il giudice di merito ha applicato seccamente la norma di cui all’art. 907 c.c. senza prima accertare in fatto se la situazione obiettiva trovasse fondamento in una previsione pattizia a titolo derivativo (tramite contratto) o a titolo originario (tramite usucapione o destinazione del padre di famiglia), fondando il proprio convincimento sulla mera anteriorità dell’apertura che da sola non può costituire il diritto di veduta, ritenendo peraltro erroneamente ricorrere ipotesi di non contestazione (tacita) circa lo stato dei luoghi descritto nei titoli di acquisto, confermata dall’eccezione di prescrizione con effetto liberatorio; trattasi di accertamento necessario per poter eventualmente escludere, alla luce del citato principio di diritto affermato dal Collegio, l’applicazione delle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite per far posto all’utilizzo del cortile nei termini fatti valere dalla originaria attrice.

Si rende necessario, dunque, un nuovo esame degli elementi di giudizio che tenga conto dei rilievi sopra esposti>>.

L’adempimento di un legato non signiica necessariamente accettazione tacita, potendo essere itneso diversamente ad es. come adempimento del terzo

Cass. sez. II, sent. 29/04/2024 n. 11.389, rel. Fortunato:

<<E’ noto che l’accettazione deve intendersi avvenuta tacitamente quando il chiamato compie un atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella sua qualità di erede e di dominus dei beni ereditari (c.d. pro herede gestio).

Per aversi accettazione tacita di eredità non basta che il chiamato all’eredità abbia agito con l’implicita volontà di accettarla, ma è altresì necessario che si tratti di atto che egli non avrebbe diritto di porre in essere se non nella qualità di erede, occorrendo la necessaria sussistenza di entrambe le descritte condizioni.

E’ inoltre pacifico nella giurisprudenza di questa Corte – e nelle opinioni dottrinali assolutamente prevalenti – che non integra accettazione tacita di eredità il pagamento di un debito che il chiamato abbia eseguito con denaro proprio, poiché a tale adempimento può provvedere anche un terzo senza alcun esercizio di diritti successori (art. 1180 c.c.; cfr. Cass. 497/1965; Cass. 14666/2012; Cass. 20878/2020).).

Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche riguardo all’esecuzione di un legato, nel senso che il suo adempimento da parte del chiamato non integra necessariamente un atto di accettazione tacita, non ravvisandosi ostacoli per ritenere che anche una disposizione mortis causa a titolo particolare possa, per le più svariate ragioni, essere adempiute da un terzo, al pari dei debiti ereditari.

Non erano decisivi, per ravvisare necessariamente nel pagamento un atto di accettazione né che trattavasi di legato di genere, né l’assenza di denaro nel patrimonio ereditario, poiché anche in tale ipotesi, al contrario di quanto sostiene la resistente nelle memorie illustrative, il pagamento del legato può aver luogo non solo con disponibilità personali del chiamato, ma anche – ad es. – mediante la liquidazione di altri cespiti, mobiliari o immobiliari, presenti nell’asse e con l’impiego del ricavato.

Tuttavia, solo nel secondo caso, non anche nel primo, può configurarsi un atto (la liquidazione del patrimonio del de cuius) che solo l’erede ha il potere di compiere e che può comportare l’accettazione tacita e l’inefficacia di una successiva rinuncia.

D’altronde, la prestazione del legato non è subordinata all’esistenza di un attivo ereditario, poiché i limiti al soddisfacimento del legatario sono individuati esclusivamente nell’esistenza di una eredità accettata con il beneficio d’inventario e nella lesione della legittima (Cass. 1470/1972).

Neppure l’art. 662 c.c. (che prevede che, in mancanza di altre disposizioni del testatore, tenuti alla prestazione del legato sono solo gli eredi o i legatari), è di ostacolo a che il legato possa essere adempiuto da un terzo (art. 1180 c.c.) senza perciò integrare un atto che solo l’erede è in condizione di compiere, avendo la norma il diverso effetto di limitare la volontà del testatore, nel senso che questi non può porne l’onere a carico di soggetti diversi da quelli indicati, pena l’incoercibilità della disposizione (Cass. 1181/1967), oltre che di prevedere un criterio suppletivo di individuazione dei soggetti tenuti all’adempimento in mancanza di indicazioni del de cuius.

L’errore in cui è incorsa la Corte di merito è, perciò, consistito nell’aver qualificato il pagamento di entrambi i bonifici come atti di accettazione tacita, nel primo caso, riguardo al versamento eseguito in favore della madre del de cuius, per il fatto che il marito della ricorrente aveva agito su incarico di quest’ultima e in virtù della causale del bonifico quale acconto sul maggior importo dovuto, nel secondo caso, sul rilievo che a tale adempimento era tenuta la Mu.Ri. anche in assenza di somme nel patrimonio del testatore, omettendo di verificare con quali liquidità fossero stati effettuati entrambi i pagamenti (in particolare, riguardo al primo bonifico di Euro 7500,00, se le somme provenissero effettivamente dalla liquidazione del patrimonio ereditario), e ciò benché la Mu.Ri. avesse esplicitamente eccepito che il bonifico alla Di.Ro. era partito dai suoi conti personali e che nel patrimonio ereditario non vi erano liquidità al momento dell’apertura della successione, neppure per adempiere il legato in favore della madre>>.