Il rendiconto, per accertare debiti e crediti a fini divisori, può essere eseguito anche in corso di causa divisoria

Cass. sez. II, ord. 12/01/2024, n. 1.319 rel. Picaro:

<<Il rendiconto, ancorché per il disposto dell’art. 723 c.c. costituisca operazione contabile che deve necessariamente precedere la divisione, poiché preliminare alla determinazione della quota spettante a ciascun condividente, non si pone, tuttavia, in rapporto di pregiudizialità con la proposizione della domanda di divisione giudiziale, ben potendosi richiedere tale divisione ex art. 1111 c.c. a prescindere dal rendiconto, a tanto potendosi e dovendosi provvedere nel corso del giudizio. Il giudice non può, peraltro, disporre il rendiconto senza istanza delle parti, le quali devono indicare i presupposti di fatto del relativo obbligo, con la conseguenza che la detta istanza non può non essere soggetta al regime di cui all’art. 345 c.p.c.>>

(massima di DeJure)

Azione di riduzione (con scelta tra conguaglio monetario e separazione del bene in natura), collazione e divisione ereditaria

Cass. sez. II Ord. 06/03/2024  n. 5.978, rel. Picaro:

<<Anzitutto va evidenziato che l’impugnata sentenza ha affermato il principio che il legittimario vittorioso ai fini della reintegrazione della quota riservatagli dalla legge possa optare – in luogo dell’assegnazione del bene, o dei beni in natura, che sono stati oggetto della donazione lesiva della legittima inefficace nei suoi confronti a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione – per la corresponsione di una somma in danaro equivalente al valore della quota medesima, richiamando a giustificazione del principio l’art. 560 cod. civ. con una motivazione meramente apparente, inidonea a spiegare le ragioni effettive del principio.

Tale norma, infatti, intitolata “Riduzione del legato o della donazione d’immobili”, al primo comma prevede all’opposto, per l’ipotesi in cui oggetto della donazione da ridurre sia un immobile comodamente divisibile, che la riduzione avvenga mediante la separazione in natura e la conseguente assegnazione al legittimario nella misura occorrente alla reintegrazione della quota legittima, separazione a maggior ragione attuabile sempre in natura quando, come nella specie, oggetto della donazione da ridurre erano più beni immobili distinti (nel caso in esame quattro distinti terreni ed un fabbricato in Tolve vico III Vignali delle Corti), che almeno in parte avrebbero potuto essere trasferiti in proprietà al legittimario pretermesso, allo scopo di reintegrare la quota di legittima lesa, mentre al secondo comma si riferisce all’ipotesi, non verificatasi, in cui l’immobile oggetto di donazione da ridurre non sia comodamente divisibile, ed al terzo comma attribuisce al donatario, e non certo al legittimario pretermesso, la facoltà di ritenere l’immobile oggetto della donazione da ridurre compensando in denaro quest’ultimo, sempre che il valore dell’immobile donatogli non superi l’importo della porzione disponibile e della quota che gli spetta come legittimario. Neppure può ritenersi idonea a giustificare il riportato principio la sottolineatura fatta dall’impugnata sentenza in ordine alle indiscusse diversità di petitum e di causa petendi dell’azione di riduzione per lesione di legittima e per l’azione di divisione, che non possono fare trascurare però che in caso di accoglimento dell’azione di riduzione per lesione di legittima delle donazioni compiute dal defunto, che non abbia lasciato beni alla sua morte a favore del legittimario pretermesso, si determina solo tra quest’ultimo ed il donatario una comunione relativamente ai beni oggetto della donazione da ridurre, che – ove richiesto (come nel caso di specie) – può essere anche oggetto di divisione nell’ambito dello stesso giudizio e che deve essere sciolta nel rispetto dei criteri dettati dagli articoli 560 e 561 cod. civ.

Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, infatti, in caso di legittimario pretermesso, le azioni di riduzione e di divisione possono essere proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 2367/1970; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 1206/1962).

Il principio è stato ribadito anche di recente, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 31125/2023; Cass. n. 19284/2019).

Venendo all’esame delle lamentate violazioni di legge per error in iudicando, questa Corte già in passato ha affermato che (Cass.n. 1079/1970) nel caso di azione tendente alla riduzione di disposizioni testamentarie (e lo stesso principio vale per le donazioni) che si assumano lesive della legittima, il giudice deve anzi tutto accertare quale sia la quota di legittima spettante all’attore legittimario (nel caso in esame in relazione al solo donatum in assenza di beni relitti dal de cuius), e deve, a tal fine, riunire fittiziamente i beni e determinare l’asse ereditario, procedendo poi alla sua valutazione secondo i valori del tempo dell’apertura della successione e tenendo conto anche della qualità dei beni, se fruttiferi o meno. Accertata così la quota di legittima, nel procedere alla sua liquidazione, deve tenersi presente che il legittimario ha diritto di conseguirla in natura e solo eccezionalmente in denaro, e che, in questo ultimo caso, il credito del legittimario non è di valuta, ma di valore, per cui, operando l’aestimatio rei, per il soddisfacimento del suo diritto, deve aversi riguardo alla quantità di denaro occorrente per attribuirgli il valore che aveva diritto a conseguire, di modo che detta aestimatio deve riferirsi alla data in cui l’integrazione e la liquidazione si determina, cioè al momento della pronuncia giudiziale che la effettua.

Più recentemente è stato sottolineato come (Cass. n. 39368/2021; Cass. n. 22097/2015) una delle differenze più significative tra la collazione e l’azione di riduzione consista proprio nel fatto che quest’ultima obbliga alla restituzione in natura dell’immobile donato, mentre l’altra ne consente l’imputazione di valore, sicché (vedi Cass. n. 28196/2020) se la collazione, nei rapporti indicati nell’art. 737 c.c., pone il bene donato, in proporzione della quota ereditaria di ciascuno, in comunione fra i coeredi che siano il coniuge o discendenti del de cuius, donatario compreso, senza alcun riguardo alla distinzione fra legittima e disponibile, e può comportare di fatto l’eliminazione di eventuali lesioni di legittima, consentendo agli eredi legittimi di conseguire nella divisione porzioni uguali, ciò non esclude che il legittimario possa contestualmente esercitare l’azione di riduzione verso il coerede donatario, atteso che solo l’accoglimento di tale domanda assicura al legittimario leso la reintegrazione della sua quota di riserva con l’assegnazione di beni in natura, privando i coeredi della facoltà di optare per l’imputazione del relativo valore.

Trattasi di una conseguenza derivante dalla stessa natura della pronuncia che accolga l’azione di riduzione (vedi in tal senso Cass. n. 39368/2021, cit.), che determina l’inefficacia per il legittimario della disposizione lesiva e che comporta, ove la disposizione abbia ad oggetto determinati beni, l’instaurarsi di una comunione tra beneficiario della disposizione lesiva e legittimario, nella quale la quota di compartecipazione del secondo è determinata in misura corrispondente al valore proporzionale della lesione da recuperare sul bene in rapporto al valore del bene stesso.

Tale conclusione trova poi il conforto dell’art. 560 cod. civ., che regola proprio la disciplina della comunione così determinatasi, prevedendo che preferibilmente la quota di legittima debba essere reintegrata mediante la separazione della parte del bene necessaria per soddisfare il legittimario, aggiungendo però che, laddove la separazione in natura non sia possibile, ed il bene quindi sia non comodamente divisibile, lo scioglimento della comunione avverrà sulla base di criteri preferenziali specificamente individuati dal comma 2° ed in deroga a quelli di carattere generale posti dall’art. 720 cod. civ.

E’ pur vero che la giurisprudenza si è occupata anche dell’ipotesi di reintegra della quota del legittimario in denaro, ritenendo che in tal caso l’obbligazione abbia natura di debito di valore, necessitante di adeguamento, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore dei beni in natura esistenti nell’asse, ma ciò presuppone che la reintegra in denaro o sia frutto di una concorde volontà delle parti, nella specie insussistente per la contraria volontà espressa da Pe.Ro., o che scaturisca dallo scioglimento della comunione secondo le modalità specificamente dettate dall’art. 560 cod. civ.

Ma ove non ricorrano tali condizioni, resta fermo che l’inefficacia della donazione lesiva, quale effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione, determina il subentro del legittimario nella comunione dei singoli beni oggetto della donazione, e quindi la reintegra in natura (vedi Cass. n. 39368/2021, cit.).

Ritiene il Collegio di dover quindi assicurare continuità a quanto di recente affermato con le pronunce di questa Corte n. 39368/2021 (cit.) e n. 16515/2020, le quali hanno ribadito che la reintegrazione, in linea di principio, va fatta in natura, mediante attribuzione, in tutto o in parte secondo che la riduzione sia pronunciata per intero o per una quota, dei beni oggetto delle disposizioni ridotte. E’ pur vero che tale affermazione viene di norma compiuta a tutela del diritto del legittimario, che non è in linea di principio suscettibile di essere convertito in un diritto di credito, ma ciò non toglie che l’osservanza della regola possa essere pretesa anche dal soggetto che subisce la riduzione, nella specie il donatario Pe.Ro., che non può essere costretto, contro la sua volontà, a liquidare in denaro la lesione che il legittimario ha diritto di recuperare in natura, e ciò soprattutto nel caso in cui, per effetto dell’andamento del mercato immobiliare e del lungo tempo trascorso tra l’apertura della successione e la conclusione delle operazioni divisionali, il mercato immobiliare abbia subito una fluttuazione in negativo, che renda quindi la reintegra in denaro svantaggiosa rispetto all’ipotesi in cui la reintegra sia realizzata in natura>>.

Applicazione alla fattispecie sub iudice:

<<La Corte d’Appello di Potenza, che peraltro ha interpretato la disponibilità espressa da Pe.Ma. ad ottenere un conguaglio in denaro (non la compensazione in denaro della quale parla l’art. 560, comma 2°, ultima parte cod. civ.) come volontà di ottenere la reintegrazione della quota riservatale in denaro anziché in natura, traendone inammissibilmente conferma da quanto richiesto dagli eredi di Pe.Ma. solo nella comparsa di costituzione del giudizio di secondo grado, non si è attenuta a tali principi, in quanto, una volta determinata la misura della lesione, avrebbe dovuto verificare in via prioritaria se sussistevano le condizioni per la reintegrazione della legittima in natura, determinando la quantità di beni oggetto della donazione ridotta secondo il valore degli stessi alla conclusione delle operazioni divisionali occorrenti a questo fine (Cass. n. 2006/1967) e l’importo dell’eventuale conguaglio, non potendo procedere direttamente alla reintegra dell’intera quota riservata in denaro.

Il modo di procedere nella reintegrazione della quota riservata a Pe.Ma. seguito dalla sentenza impugnata, confermativa di quella di primo grado, ha avuto, inoltre, come effetto quello di attribuire agli eredi del legittimario pretermesso la rivalutazione monetaria sul valore della quota riservata dalla data dell’apertura della successione alla sentenza conclusiva delle operazioni divisionali ed i frutti civili sotto forma di interessi su di essa, anziché i frutti naturali dei beni assegnati per la reintegrazione della quota a partire dalla domanda giudiziale ex art. 561, ultimo comma, cod. civ., con applicazione degli articoli 820 e 821 cod. civ.

Dovrà farsi applicazione per i beni assegnati a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione al legittimario pretermesso Pe.Ma., alla quale sono subentrati gli eredi Sa.Ro., Sa.Lu., Po.An. e Po.Do., del principio, di recente ribadito dalla sentenza n. 31125 dell’8.11.2023 di questa Corte, per cui in tema di divisione i frutti naturali della cosa comune già separati al momento della divisione sono di proprietà di tutti i partecipanti, in conformità del disposto degli articoli 820 e 821 cod. civ. e non possono quindi, salva diversa volontà delle parti, diventare di proprietà esclusiva del condividente cui sia stato assegnato il bene che li ha prodotti. Invece, nell’ipotesi in cui i frutti stessi non siano stati ancora separati al momento della divisione, è operante l’efficacia retroattiva prevista dall’art. 757 cod. civ., con la conseguenza che il condividente assegnatario ha il diritto di percepire per l’intero i frutti stessi anche se riferibili al periodo in cui il bene che li ha prodotti era comune (Cass. n. 2975 del 20/03/1991, richiamata in n. 25021/2019).

Concetto di “stato di adottabilità” (art. 8 L. 184/1983)

Cass. Sez. I, Ord.  08 marzo 2024 n. 6.261, Rel.  Caiazzo:

<<Il giudice di merito, nell’accertare lo stato di adottabilità di un minore, deve esprimere una prognosi sull’effettiva ed attuale possibilità di recupero, attraverso un percorso di crescita e sviluppo delle capacità e competenze genitoriali, con riferimento, in primo luogo, alla elaborazione, da parte dei genitori, di un progetto, anche futuro, di assunzione diretta della responsabilità genitoriale, caratterizzata da cura, accudimento, coabitazione con il minore, ancorché con l’aiuto di parenti o di terzi, ed avvalendosi dell’intervento dei servizi territoriali.   Inoltre, nella valutazione della situazione di abbandono, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità, l’organo giudicante deve fondare il suo convincimento effettuando un riscontro attuale e concreto, basato su indagini ed approfondimenti riferiti alla situazione presente e non passata, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto genitoriale da parte dei genitori”

(massima di Francesca Ferrandi in Ondif).

Sono contrari al buon costume anche i finanziamenti ad impresa già decotta

Cassazione civile sez. I, ord. 19/02/2024 n. 4.376, rel. Amatore:

Premessa generale:

<<Occorre invero ricordare che, secondo la giurisprudenza incontrastata espressa da questa Corte di legittimità, la disciplina unitaria della condictio indebiti trova il suo completamento nella norma di cui all’art. 2035 cod. civ. la quale funge da limite legale all’applicabilità del precedente art. 2033, di modo che il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su una “condictio ob iniustam causam”, deve procedere d’ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite, alla ulteriore valutazione dell’atto o del contratto di cui abbia ravvisato l’illegalità o la contrarietà all’ordine pubblico, sul diverso piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente, da un lato, che la nozione di negozio contrario al buon costume comprende (oltre ai negozi che infrangono le regole del pudore sessuale e della decenza) anche i negozi che urtano contro i principi e le esigenze etiche della coscienza collettiva, elevata a livello di morale sociale, in un determinato momento ed ambiente, e per altro verso che sono irripetibili, ai sensi dell’art. 2035 cod. civ. i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative (cfr. anche: Cass. 783/87; 2081/85; Cass. 4414/81, Cass. 1035/77)>>.

E sul punto specifico;

<<Da qui la valutazione di immoralità delle prestazioni eseguite dal ricorrente e la loro irripetibilità, sulla scorta proprio di un consolidato (e qui condiviso) indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità e puntualmente richiamato nel provvedimento del Tribunale.

È stato infatti affermato da questa Corte, in termini sovrapponibili alla fattispecie concreta in esame, che “ai fini dell’applicazione della “soluti retentio” prevista dall’art. 2035 c.c., le prestazioni contrarie al buon costume non sono soltanto quelle che contrastano con le regole della morale sessuale o della decenza, ma sono anche quelle che non rispondono ai principi e alle esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico, dovendosi pertanto ritenere contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l’erogazione di somme di denaro in favore di un’impresa già in stato di decozione integrante un vero e proprio finanziamento, che consente all’imprenditore di ritardare la dichiarazione di fallimento, incrementando l’esposizione debitoria dell’impresa trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine “predatoria” nei confronti di soggetti economici in dissesto” (così espressamente: Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16706 del 05/08/2020; v. anche: Sez. L, Sentenza n. 2014 del 26/01/2018; Sez. 3, Sentenza n. 9441 del 21/04/2010; Sez. 3, Sentenza n. 5371 del 18/06/1987).   (…)

1.2.8 A ciò va aggiunto che, come risulta documentato nel giudizio di merito, nella fattispecie il finanziamento è stato effettuato in favore di una società già caratterizzata da grave ed irreversibile insolvenza, e non già da uno stato di mero squilibrio finanziario, come richiesto dall’art.2467, comma 2, cod. civ., con la conseguenza che i richiami al predetto dettato normativo da parte del ricorrente risultano completamente fuori fuoco.

1.2.9 Va ulteriormente precisato che nulla vieta – contrariamente a quanto invece opinato dal ricorrente – che un contratto giudicato illecito e, come tale, nullo ai sensi dell’art.1418 cod. civ., possa essere soggetto anche alla sanzione civilistica dell’irripetibilità sancita dall’art.2035 cod. civ., ove si ravvisino – proprio come accertato nella fattispecie in esame – prestazioni dettate da finalità per l’appunto immorali. Ed invero, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che un atto negoziale giudicato in contrasto con una norma imperativa o con l’ordine pubblico possa essere, al contempo, suscettibile di una valutazione in termini di contrarietà al buon costume, proprio per gli effetti di cui al citato art. 2035 cod. civ., con la conseguenza che “chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume” (Cass. 9441/2010, 25631/2017). Si tratta infatti di indirizzo consolidato (Cass. s.u. 4414/1981, Cass. 5371/1987) che, inquadrando la disciplina unitaria della condictio indebiti, ne precisa il completamento con la norma di cui all’art. 2035 c.c., “la quale funge da limite legale all’applicabilità del precedente art. 2033, di modo che il giudice di merito, chiamato a pronunziarsi su una condictio ob iniustam causam, deve procedere d’ufficio, e sulla base delle risultanze acquisite, alla ulteriore valutazione dell’atto o del contratto di cui abbia ravvisato l’illegalità o la contrarietà all’ordine pubblico, sul diverso piano della sua contrarietà al buon costume, tenendo presente … che sono irripetibili, ai sensi dell’art. 2035 c.c., i soli esborsi fatti per uno scopo contrario al buon costume, ma non pure le prestazioni fatte in esecuzione di un negozio illegale per contrarietà a norme imperative” (Cass. 5 agosto 2020 n. 16706; Cass. 6 dicembre 2019 n. 31883). Detto altrimenti, “la contemporanea violazione, da parte di una medesima prestazione, tanto dell’ordine pubblico quanto del buon costume, attingendo ad un livello di maggiore gravità, deve ricevere il trattamento previsto per la prestazione che sia soltanto lesiva del buon costume” (v. Cass. 3 aprile 2018 n. 8169; Cass. 27 ottobre 2017 n. 25631), con la conseguenza che detta prestazione non può essere suscettibile di ripetizione, imponendosi l’applicazione dell’art. 2035 cod. civ., secondo il noto brocardo per cui in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis>>.

(notizia da ilcaso.it)

Sulla determinazione del danno in via equitativa (artt. 1226 e 2056 cc)

Cass. sez. I, ord. 07/03/2024  n. 6.116, rel. Abete:

<<15. Questo Giudice spiega che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, sicché grava sulla parte interessata l’onere di provare non solo l’ “an debeatur” del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi “in re ipsa”, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso (cfr. Cass. 8.1.2016, n. 127; Cass. 17.10.2016, n. 20889; Cass. 22.2.2018, n. 4310; Cass. 6.12.2018, n. 31546; Cass. (ord.) 18.3.2022, n. 8941, secondo cui la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. consente di sopperire alle difficoltà di quantificazione del danno, al fine di assicurare l’effettività della tutela risarcitoria, ma non può assumere valenza surrogatoria della prova, incombente sulla parte, dell’esistenza dello stesso e del nesso di causalità giuridica che lo lega all’inadempimento o al fatto illecito extracontrattuale; Cass. 19.3.1980, n. 1837).

Ulteriormente questo Giudice spiega che è necessario che il giudice indichi in maniera congrua, ancorché sommaria, le ragioni del percorso logico cui è ancorata la valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17492)>>.

Niente di nuovo.

 

Sulla priorità dei disegni/modelliu UE costituita previo modello utilità

Teoricamente itnressante questione decisa da Corte di giustizia 27.02.2024, C-382/21 P, EUIPO v. Kaikai , segnalata da Marcel Pemsel su IPKat.

La lite è centrata sulla decorrenza del dies a quo per una valida priorità di una domanda di disegno/modello ex reg. 6/2006, il cui art. 41 dice: <<1. Chiunque abbia regolarmente depositato una domanda di registrazione di un disegno o modello o di un modello d’utilità in uno o per uno degli Stati che aderiscono alla convenzione di Parigi o all’accordo che istituisce l’Organizzazione mondiale del commercio, ovvero il suo avente causa, fruisce, per un periodo di sei mesi dalla data di deposito della prima domanda, di un diritto di priorità per effettuare il deposito di una domanda di registrazione di disegno o modello comunitario per il medesimo disegno o modello o per il medesimo modello di utilità.

2. È riconosciuto come fatto costitutivo del diritto di priorità qualsiasi deposito avente valore di deposito nazionale regolare a norma della legislazione dello Stato nel quale è stato effettuato o in forza di accordi bilaterali o multilaterali>>.

Il dubbio giuridico nasce dal fatto che : i) Kai kai aveva rivendicato priorità per un  previo deposito come modello di utilità (almeno così pare: arg. da § 28) e nel termine di 12 mesi, non di 6 mesi; ii) il cit. art. 41 parla di termine semestrale e solo per modelli di utilità, non per invenzioni. iii) la Conv. Unione di Parigi pone invece un termine dui 12 mesi per invenzioni e modelli di utilità,

Ebbene, la CG riformando il Trib., afferma l’applicabilità del solo art. 41 reg. UE 6/2002:  per cui la priorità richiesta era stata giustamente negata dall’EUIPO

Del resto, prosegue la CG,  la norma di Conv. Unione (art. 4) non si applica direttamente nell’ordinamento europeo, che non ne è parte: ciò nemmeno considerando che di fatto l’ha recepita con i TRIPs, i quali non hanno efficacia diretta, § 63.

Per la precisione:

<<68   Ne consegue che le norme enunciate all’articolo 4 della Convenzione di Parigi sono prive di effetto diretto e, pertanto, non sono idonee a creare in capo ai singoli diritti che questi possano far valere direttamente in forza del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza del 25 ottobre 2007, Develey/UAMI, C‑238/06 P, EU:C:2007:635, punti 39 e 43).

69 Pertanto, il diritto di priorità ai fini del deposito di una domanda di disegno o modello comunitario è disciplinato dall’articolo 41 del regolamento n. 6/2002 e gli operatori economici non possono avvalersi direttamente dell’articolo 4 della Convenzione di Parigi.

70 Tuttavia, poiché l’accordo ADPIC vincola l’Unione e dunque prevale sugli atti di diritto derivato dell’Unione, questi ultimi devono essere interpretati, per quanto possibile, in conformità alle disposizioni di tale accordo (v., per analogia, sentenze del 10 settembre 1996, Commissione/Germania, C‑61/94, EU:C:1996:313, punto 52, e del 1º agosto 2022, Sea Watch, C‑14/21 e C‑15/21, EU:C:2022:604, punti 92 e 94 nonché giurisprudenza ivi citata). Il regolamento n. 6/2002 deve quindi essere interpretato, per quanto possibile, conformemente all’accordo ADPIC e, di conseguenza, alle norme enunciate dagli articoli della Convenzione di Parigi, segnatamente l’articolo 4, incorporate in tale accordo (v., per analogia, sentenze del 15 novembre 2012, Bericap Záródástechnikai, C‑180/11, EU:C:2012:717, punti 70 e 82, nonché dell’11 novembre 2020, EUIPO/John Mills, C‑809/18 P, EU:C:2020:902, punti 64 e 65).

71 Nell’interpretare l’articolo 41 del regolamento n. 6/2002 conformemente all’articolo 4 della Convenzione di Parigi, occorre altresì tener conto delle disposizioni del TCB, a norma del quale è stata depositata la domanda anteriore su cui si basa la KaiKai per rivendicare un diritto di priorità. Infatti, dal momento che tutti gli Stati membri dell’Unione sono parti del TCB, si può tener conto delle disposizioni di tale trattato ai fini dell’interpretazione di disposizioni di diritto derivato dell’Unione che rientrano nel suo ambito di applicazione (v., in tal senso, sentenza del 1º agosto 2022, Sea Watch, C‑14/21 e C‑15/21, EU:C:2022:604, punto 90 e giurisprudenza ivi citata). In tale contesto, occorre altresì rilevare che, conformemente al suo articolo 1, paragrafo 2, il TCB non pregiudica i diritti previsti dalla Convenzione di Parigi>>.

e poi:

<<Pertanto, dal chiaro tenore letterale di tale articolo 41, paragrafo 1, risulta inequivocabilmente che, ai sensi di tale disposizione, solo due categorie di domande anteriori – vale a dire, una domanda di registrazione di un disegno o modello e una domanda di registrazione di un modello di utilità – possono fondare un diritto di priorità a beneficio di una domanda di registrazione di un disegno o modello comunitario posteriore, e ciò unicamente entro un termine di sei mesi a decorrere dalla data di deposito della domanda anteriore considerata.

77 Ne risulta altresì che detto articolo 41, paragrafo 1, ha carattere esaustivo e che la circostanza che tale disposizione non fissi il termine entro il quale può essere rivendicato il diritto di priorità fondato su una domanda di registrazione di un brevetto non costituisce una lacuna di detta disposizione, bensì la conseguenza del fatto che quest’ultima non consente di fondare tale diritto su questa categoria di domande anteriori.

78 Pertanto, da un lato, una domanda internazionale depositata a norma del TCB può fondare un diritto di priorità, in applicazione dell’articolo 41, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002, solo nella misura in cui la domanda internazionale in questione abbia ad oggetto un modello di utilità e, dall’altro, il termine per rivendicare tale diritto sulla base di una siffatta domanda è quello di sei mesi, espressamente fissato a detto articolo 41, paragrafo 1.>>

Decisione esatta,

La componente assistenziale e quella compensativa dell’assegno divorzile restano ben distinte per la Cassazione

Cass. Sez. I, Ord. 08/03/2024, n. 6.253, rel. Lamorgese:

Fatti provati:

<<2.2. In relazione alla censura espressa con il primo motivo, occorre rilevare che la Corte di merito ha fondato la prova presuntiva sulla relazione investigativa, il cui contenuto – confermato dal teste, anche se non da lui sottoscritta – è stato riprodotto nel provvedimento impugnato, sull’ammissione della stessa ricorrente di avere una relazione sentimentale, nonché sulla dettagliata dichiarazione della figlia della coppia, che aveva riferito di avere conoscenza della relazione di convivenza della madre con un nuovo compagno dall’anno della separazione.

L’accertamento di una stabile convivenza della donna con un altro uomo è stato, pertanto, effettuato sulla base di diversi elementi indiziari convergenti, tali da dare vita ad una valida prova per presunzioni, sicché non ricorre affatto il vizio di violazione di legge denunciato>>.

Diritto:

<<2.3. Ciò posto, secondo quanto chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, in tema di assegno divorzile in favore dell’ex coniuge, qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa; a tal fine il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio, dell’apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge e l’assegno, su accordo delle parti, può anche essere temporaneo (Cass. S.U. 32198/2021; Cass. 14256/2022; cfr. pure Cass. 3645/2023).

E’ stato, dunque, precisato che la sussistenza della componente compensativa deve essere specificamente dedotta dalla parte che faccia valere il proprio diritto all’assegno, mentre la Corte d’appello ha affermato che l’odierna ricorrente non aveva provato nulla al riguardo. A fronte di detto assunto, con il secondo motivo la ricorrente, nel richiamare le deduzioni svolte nel giudizio d’appello, anche in ordine alla durata del matrimonio e alla cura delle figlie (pag. 7 e pag. 22 ricorso), in particolare rimarca il proprio contributo alla realizzazione del patrimonio familiare, consistito nell’acquisto della casa familiare, che, tuttavia, in base a quanto si legge nello stesso ricorso, è in comproprietà tra gli ex coniugi pur se abitata dall’ex marito (pag.7), e altresì consistito nell’aver ella prestato in passato attività di lavoro presso terzi (pag.23 ricorso), ossia di collaboratrice domestica, cessata per problemi di salute (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata)>>.

Solo che l’efficacia estintiva del diritto all’assegno, asseritamente prodotta dalla convivenza more uxorio, non è disposta dalla legge.

E  nemmeno vi è ricavabile  interpretativamente, dato che certo non si può equipararla alle “nuove nozze” di cui al medesimo art. 5 l. div. co. 10.

Del resto la legge 76/2016 su unioni civili e convivenze non ha modificato tale disposizione , mentre avrebbe potuto e dovuto dato che si occupava proprio del tema de quo.

L’accettazione di eredità è irrevocabile

Cass. sez. III, sent. 16/01/2024 n. 1.735, rel. Fanticini:

<<13. In difetto di un accertamento giudiziale (tantomeno come res iudicata) sulla mancata acquisizione della qualità di erede (tesi che, invece, sostengono infondatamente i ricorrenti), la perdita del diritto di accettare l’eredità (al pari della rinuncia espressa alla medesima) deve reputarsi priva di effetti se intervenuta dopo l’acquisto della qualità di erede; in proposito, si richiama la puntuale statuizione di Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 15663 del 23/07/2020, Rv. 658738-01: “L’atto di accettazione dell’eredità, in applicazione del principio semel heres semper heres, è irrevocabile e comporta in maniera definitiva l’acquisto della qualità di erede, la quale permane, non solo qualora l’accettante intenda revocare l’atto di accettazione in precedenza posto in essere, ma anche nell’ipotesi in cui questi compia un successivo atto di rinuncia all’eredità.”>>.

REgola risaputa, nulla di nuovo.

Che poi prosegue.

14. Non sussiste, dunque, alcuna preclusione alla domanda di accertamento dell’accettazione tacita dell’eredità da parte di Cl.Bo. (in un momento antecedente alla tacita rinuncia derivante dallo spirare del termine ex art 481 cod. proc. civ.) e, di conseguenza, dell’acquisizione al patrimonio della stessa Bo. dei beni oggetto di pignoramento>>.

Interpretazione del brevetto

Cass. sez. I, ord. 10/05/2023 n. 12.499, rel. Nazzicone:

Premessa processuale:

<<3.1. – Occorre premettere che l’interpretazione del brevetto per invenzione industriale, a qualunque effetto sia resa, si risolve in un accertamento di fatto circa la determinazione della portata dell’invenzione e la volontà del soggetto che domanda il brevetto in ordine al contenuto del diritto di esclusiva, il quale è rimesso al giudice del merito e non è soggetto a controllo da parte della Corte di cassazione in via diretta e primaria, ma solo mediatamente, attraverso la verifica della correttezza logica e giuridica delle ragioni poste a fondamento del convincimento espresso dal giudice>>.

Poi il profilo sostanziale:

<<3.3.2. – I criteri interpretativi del brevetto, dalla ricorrente invocati, prevedono che alla domanda di concessione di brevetto per invenzione industriale debbano unirsi la descrizione, le rivendicazioni e i disegni necessari alla sua intelligenza, dovendo l’invenzione essere descritta in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla (art. 51, commi 1 e 2), e che la descrizione e i disegni servano ad interpretare le rivendicazioni (art. 52, comma 2); essi aggiungono, altresì, che occorre garantire, nel contempo, un’equa protezione al titolare ed una ragionevole sicurezza giuridica ai terzi (art. 52, comma 3).

Dunque, la descrizione ed i disegni assolvono alla funzione di interpretare le rivendicazioni, il che deve avvenire secondo una regola di contemperamento, ossia in modo da garantire, nel contempo, un’equa protezione al titolare dell’invenzione e una ragionevole sicurezza giuridica ai terzi (cfr. Cass. 4 gennaio 2022, n. 120).

Questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che la rivendicazione va interpretata alla luce del dato tecnico risultante dalla descrizione (Cass. 4 settembre 2017, n. 20716, non massimata; Cass. 28 luglio 2016, n. 15705; Cass. 8 febbraio 1999, n. 1072) e, dunque, anche dai disegni, espressamente richiamati dall’art. 52, comma 2, cod. propr. ind. (Cass. n. 20716 del 2017, cit.).

Ne’ tali criteri impediscono naturalmente che tale valutazione sia compiuta da soggetto diverso dal tecnico del ramo, secondo i canoni ermeneutici della lettera della rivendicazione, dei dati tecnici descritti e dei disegni allegati.

Come prevede la legge, nell’interpretazione del brevetto si deve fare, invero, riferimento alle cognizioni ed al linguaggio di un tecnico esperto del ramo; ma ciò non implica che solo questi sia in grado di comprendere le descrizioni, né, in particolare, che solo un sarto sia idoneo a comprendere le descrizioni di tagli e cuciture, salva la prova di situazioni eccezionali, nella specie neppure prospettate.

Del resto, l’interpretazione del brevetto va compiuta secondo il nucleo di principi di razionalità ermeneutica, utilizzabili nell’ambito delle interpretazioni anche di atti diversi dal negozio giuridico, alla cui stregua occorre tenere in considerazione il tenore letterale delle parole tecniche usate nelle rivendicazioni ed il significato logico delle stesse, secondo il senso complessivo del contenuto del brevetto, riportato nelle rivendicazioni e nella descrizione, nonché alla luce del criterio esposto del contemperamento tra protezione al titolare e sicurezza giuridica per i terzi. Ne deriva un’evidente contiguità tra le regole speciali e quelle generali di corretta interpretazione degli atti.

3.3.3. – Nella specie, la Corte d’appello non ha esorbitato da tali criteri, come lamentato dalla ricorrente, ma ha, da un lato, affidato le valutazioni ad un tecnico ingegnere, adeguatamente giustificando tale scelta, e, dall’altro lato, proceduto all’interpretazione delle rivendicazioni anche alla luce dei disegni.

Pertanto, la Corte territoriale non ha affatto violato il metodo indicato dalla legge, atteso che questa consente l’ausilio interpretativo delle prime (le rivendicazioni) per mezzo delle seconde (descrizione e disegni), né impone al giudice, ogni volta che sia coinvolto un brevetto nell’ambito merceologico dell’abbigliamento, di consultare un esperto di sartoria, spettando poi sempre al giudice del merito apprezzare le concrete capacità del consulente da lui nominato>>.

Il diritto verso la banca ai documenti ex 119.4 TUB è esercitabile pure in corso di causa e pure dal fideiussore

Cass.  Sez. I, Ord. 14/02/2024, n. 4064, rel. Valentino:

<<Il potere del correntista di chiedere alla banca di fornire la documentazione relativa al rapporto di conto corrente tra gli stessi intervenuto può essere esercitato, ai sensi dell’art. 119, comma 4, TUB (D.Lgs. n. 385 del 1993), anche in corso di causa ed attraverso qualunque mezzo si mostri idoneo allo scopo (Cass., n. 11554/2017). Il titolare di un rapporto di conto corrente ha sempre diritto di ottenere dalla banca il rendiconto, ai sensi dell’art. 119 del D.Lgs. n. 385 del 1993, anche in sede giudiziaria, fornendo la sola prova dell’esistenza del rapporto contrattuale, non potendosi ritenere corretta una diversa soluzione sul fondamento del disposto di cui all’art. 210 c.p.c., perché non può convertirsi un istituto di protezione del cliente in uno strumento di penalizzazione del medesimo, trasformando la sua richiesta di documentazione da libera facoltà ad onere vincolante. Lo stesso diritto spetta, inoltre, al fideiussore il quale, in ragione dell’accessorietà del rapporto di fideiussione rispetto al contratto di conto corrente, può definirsi, in senso lato, un cliente della banca, non diversamente dal correntista debitore principale (Cass., n. 24181/2020)>>.