Invalidità della delbera condominiale per errato riparto spese, tra annullabilità (se relativa ad una specifica spesa) e nullità (se relativa a tutte le eventuali spese future)

Cass. sez. II, ord. 19/02/2025 n. 4.301, rel. Caponi:

<<Quanto al merito, la Corte di appello ha ritenuto correttamente che la delibera impugnata si era limitata a ripartire concretamente le spese per un singolo intervento senza modificare i criteri generali di riparto, mantenendosi nell’ambito delle attribuzioni dell’assemblea, risultando quindi meramente annullabile e, in quanto tale, soggetta al termine di decadenza di cui all’art. 1137 c.c., rimasto pacificamente inosservato (sul punto si rinvia a Cass. SU 9839/2021, e a successive pronunce conformi, con cui è stato statuito che sono nulle le delibere che, a maggioranza, stabiliscono o modificano i criteri generali di ripartizione delle spese previsti dalla legge o dalla convenzione, da valere per il futuro, mentre sono meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni adottate in violazione dei criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione stessi, trattandosi di deliberazioni assunte nell’esercizio di dette attribuzioni assembleari, cosicché la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza previsto dall’art. 1137, comma 2, c.c.)>>.

Comunione di brevetto e sfruttamento indipendente da parte del contitolare

Intervento della Cassazione sul (sempre un pò ostico) tema in oggetto.

Si tratta di Cass. sez. I, sent. 18/02/2025 n. 4.131, rel. Marulli.

Lo sfruttamento autonomo e diretto (non tramite licenza, parrebbe) da parte del contitolare non è ammesso, poichè deprezza il valore della privativa e ne altera la destinazione economica.

<<16. Ora, se di ciò si fa estensione al nostro campo non è difficile credere che lo sfruttamento incondizionato del brevetto, sia pure se solo nella forma del sfruttamento produttivo, che in regime di comunione si concedesse al singolo contitolare non finirebbe per pregiudicare il valore del brevetto in sé, atteso che, potendo disporre dei diritti brevettuali apparentemente senza limiti, il singolo contitolare sarebbe libero di determinare a propria discrezione modi e forme di sfruttamento del trovato. Se si guarda, cioè, la cosa dal punto di vista dell’art. 6, comma 1, cod. prop. ind. e, sulla scorta del rinvio che esso fa alle norme sulla comunione, dal punto di vista dell’art. 1102 cod. civ. e del principio secondo cui l’uso consentito al singolo comunista del bene comune non può alterarne la destinazione, lo sfruttamento uti singulus del brevetto ne altera indubbiamente la destinazione perché la tutela che esso poteva accordare quando lo sfruttamento era conferito collegialmente e collegialmente esercitato, laddove per intenderci il mercato accordava un certo valore al trovato, viene inesorabilmente meno quando allo sfruttamento di più si sostituisca lo sfruttamento da parte di uno solo. Sicché se anche a questo titolo si volesse continuare a parlare di lesione del diritto di esclusiva, essa non sarebbe ravvisabile nel fatto che il contitolare non possa fare uso del bene comune perché ciò andrebbe in urto all’uso degli altri contitolari, ma andrebbe ravvisata nel fatto che lo sfruttamento individuale del brevetto deprime il valore intrinseco di esso, ne altera la destinazione e pregiudica il diritto degli altri contitolari di ritrarre dal brevetto i benefici che l’esclusiva loro concessa era in grado di assicurare.

17. Su questo punto la pur commendevole sentenza di merito oggetto qui di impugnazione non tiene e va, come detto, debitamente cassata affinché si attenga al seguente principio di diritto: “In materia di brevetto di cui siano contitolari due o più soggetti, il rinvio contenuto nell’art. 6, comma 1, cod. propr. ind. alle norme sulla comunione dei diritti reali deve essere inteso nel senso, che in difetto di convenzione contraria, a mente dell’art. 1102, comma 1, cod. civ. è precluso al singolo comunista lo sfruttamento produttivo del trovato a cui voglia procedere uti singulus in quanto ciò, riflettendosi sulla tutela accordata con il brevetto, altera la destinazione della cosa e lede in tal modo il diritto di esclusiva dell’altro o degli altri contitolari” >>.

L’esattezza del giudizio però è dubbia.

Che l’uso non concertato da parte del singolo deprezzi il valore economico della privativa è assai probabile, quasi certo. Che questo costituisca “alterazione della destinazione economica”, vietata dall’art. 1102 cc, è invece assai dubbio, pur adattando il concetto dalle res alle privative.  Andava comnunque argomentato ben più a fondo.

Anzi la SC pare confondere i citt.  due aspetti, senza poi nemmeno distinguere tra i possibili tipi di sfruttamento: – in proprio, su quali mercati e/o per quali prodotti; – oppure  indirettamente tramite licenza a terzi e con quale tipo di licenza (esclusiva /non esclujsiva, su quali territori …).

Ringrazio Paolo Cuomo per la segnalazione della sentenza.

Danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale: è un concetto unitario oppure no?

Cass. sez. III, ord. 21/01/2025 n. 1.473, rel. Condello, dice di no, dovendosi distinguere secondo che sia o meno qualificabile come danno cd biologico:

<<3.4. Con riguardo al primo profilo, è incontestato, e neppure disconosciuto dalla odierna ricorrente, che il danno da perdita parentale, che è il danno subito iure proprio dai congiunti per la venuta meno della relazione parentale che li legava rispettivamente al defunto, ha natura autonoma e si differenzia dai pregiudizi dai congiunti superstiti subiti iure hereditatis.

Come questa Corte ha avuto più volte modo di sottolineare (in particolare Cass., sez. 3, 19/10/2016, n. 21059; Cass., sez. 3, 17/01/2018, n. 901; Cass, sez. 3, 13/04/2018, n. 9196), le voci di danno non patrimoniale non rientranti nell’ambito del danno biologico, in quanto non conseguenti a lesione psico-fisica, ben possono essere definiti come danno parentale, attenendo alla sfera relazionale della persona, autonomamente e specificamente configurabile allorquando la sofferenza e il dolore non rimangano più allo stato intimo ma evolvano, seppure non in “degenerazioni patologiche” integranti il danno biologico, in pregiudizi concernenti aspetti relazionali della vita, ovvero lo sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di un congiunto, poiché il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2,29 e 30 Cost.). Il danno da perdita del rapporto parentale, infatti, viene definito come quel danno che va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti (così Cass. civ., sez. 3, 09/05/2011, n. 10107).

L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, favorita dagli spunti ricostruttivi offerti dalla dottrina, ha dimostrato la fallacia della nozione di danno riflesso o “da rimbalzo”, evidenziando come la genesi dei pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dai congiunti della vittima non si configuri come propagazione alle vittime secondarie delle conseguenze dell’illecito e, dunque, del primo e unico evento lesivo, ma, piuttosto, come causazione di una pluralità di eventi dannosi coincidenti con la lesione di altrettanti interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico in titolarità di diversi soggetti; come osservato in dottrina, l’illecito plurioffensivo è il risultato di un’indagine condotta in punto di rapporto di causalità: non è una prima lesione a riflettersi sulla persona di altri, ma un unico illecito che colpisce più soggetti (in questo senso si esprime Cass., sez. 3, 08/04/2020, n. 7748).

Ne discende, come ben rilevato dalla Corte d’Appello, che impropriamente la ricorrente, a supporto delle censure, fa leva sul concetto di danno riflesso e sulla distinzione fra vittima primaria e vittima secondaria>>.

In tema si v. ora: – Rossetti, La liquidazione equitativa del danno, vol. 1, art. 1226, in Il cod. civ. Comm. coord. da Busnelli-Ponzanelli, Giuffrè, 2025, 297 ss, spt. sub E) a p. 307 ss; – Spera, Responsabilità civile e danno alla persona, Giuffrè, 2025, 909 ss.

Prova della capacità di intendere e volere del testatore

Cass. sez. II, ord. 23/01/2025  n. 1.632, rel. Fortunato:

<<L’accertamento delle condizioni di capacità della testatrice si basa sulle risultanze delle cartelle cliniche che descrivevano, nel periodo del ricovero durante il quale era stato redatto il testamento, ricovero esitato nel decesso, una persona vigile, cosciente, consapevole, capace di volere e di autodeterminarsi.

Appare svolto un giudizio di prevalenza di tali elementi documentali rispetto agli elementi contrari, svalutando le deduzioni del ricorrente circa la condizione di angoscia e di annullamento della volontà per effetto della malattia e delle cure, dando rilievo all’autenticità dello scritto quale ulteriore riscontro che le condizioni cliniche non erano tali da comportare un totale annullamento della capacità.

Nessuna anomalia o elemento indiziario utile ha ritenuto di poter dedurre il giudice dal contenuto della scheda o dalla pretesa inadeguatezza dell’erede ad occuparsi dei figli.

La mancata ammissione della prova è dipesa dalla valutazione di sufficienza ed esaustività delle risultanze già acquisite, piuttosto che da una prognosi di fallimento del mezzo istruttorio, in relazione alla puntualità delle risultanze, alla loro convergenza e al carattere tecnico del giudizio espresso dai medici, non essendo il giudice di merito tenuto a respingere espressamente e motivatamente le richieste istruttorie ove i fatti risultino già accertati e i mezzi istruttori formulati appaiano inidonei a vanificare, anche solo parzialmente, detto accertamento (Cass. 14611/2005; Cass. 15502/2009; Cass. 23780/2014; Cass. 14682/2018; Cass. 30855/2019; Cass. 21289/2023).

Resta escluso che il mancato utilizzo del ragionamento presuntivo possa risolversi nella proposta di una diversa soluzione, senza far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio del giudice (Cass. 15737/2003; Cass. 5279/2020; Cass. 22366/2021).

Inoltre, pur potendo la parte dolersi che il giudice non abbia fatto ricorso al ragionamento presuntivo sulla base di fatti noti emersi in istruttoria, il vizio, non denunciabile come violazione dell’art. 2729 c.c. (secondo le istruzioni della sentenza delle S.U. n. 8053/2014), può integrare l’omesso esame di un fatto secondario ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 5 c.p.c. (Cass. 17720/2018)

Nel caso in esame, non emerge con evidenza la decisività degli elementi indiziari cui si appella il ricorrente, a fronte di contrarie risultanze processuali provenienti dal personale medico munito di specifiche competenze nella valutazione clinica della paziente. Inoltre, le circostanze esposte in ricorso sono state valutate e ritenute irrilevanti e – comunque – è preclusa in questa sede la possibilità di censurare la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., norma che contempla un vizio della sentenza la cui deducibilità non si sottrae ai limiti che discendono dalla preclusione imposta dall’art. 348 ter, comma IV e V, c.p.c. in caso di cd. doppia conforme, dato che la sentenza di appello appare fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione di primo grado (Cass. 706/2024; Cass. 14211/2024; Cass. 14944/2024)>>.

Il danno morale per la figlia va sempre presunto in caso di decesso del padre, anche se non convivente

regola pacifica riaffermata da Cass. Sez. III, Ord. 16/02/2025, n. 3.904, rel. Graziosi, a seguito di rigetto della domanda risarcitoria in appello:

<<1. l’unico motivo presentato nel ricorso denuncia violazione ed erronea interpretazione degli articoli 1223 e 2059 c.c., nonché violazione “dei precetti costituzionali dedicati alla famiglia”, ex articoli 29, 30 e 31 Cost.;

si osserva che Cass. sez. 3, ord. 14 ottobre 2019 n. 25774 insegna che per i membri della c.d. famiglia nucleare la perdita può essere sempre presunta, salva la prova contraria di controparte, “solo in base alla loro appartenenza al medesimo nucleo familiare minimo”; si richiama pure Cass. sez. 6-3, ord. 15 febbraio 2018 n. 3767 – per cui “l’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del “quantum debeatur”)”, essendo in tali casi “onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo” -, oltre alla non massimata, più recente Cass. sez. 6-3, 28 febbraio 2020 n. 5452;

si sostiene, quindi, che la cessazione della convivenza non significa “porre fine al forte, peculiare e duraturo legame affettivo” dei figli verso i genitori, per cui non sussisterebbe nel caso in esame l’asserita carenza probatoria affermata dalla Corte territoriale, che ha dato una sentenza “del tutto priva di motivazione”>>.

La SC aggiunge:

<< l’unico motivo del ricorso è manifestamente fondato;

le sue argomentazioni hanno correttamente smontato le singolari ragioni che il giudice d’appello ha posto alla base del diniego risarcitorio, del tutto difformi dalla giurisprudenza ormai consolidata; oltre a quella invocata dalle ricorrenti, da intendersi come qui richiamata, non si può omettere di ricordare l’ancor più prossima Cass. sez.3, 15 luglio 2022 n. 22397: “L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del “quantum debeatur”): in tal caso, grava sul convenuto l’onere di provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo” (cfr. pure Cass. sez. 3, 30 agosto 2022 n. 25541 e Cass. sez. 3, ord. 4 marzo 2024 n. 5769);>>

La prova della (com-)proprietà nel giudizio divisorio, in assenza di contestazioni tra coeredi

Cass. sez. II, ord. 13/02/2025  n. 3.654, rel. Maccarrone.

Fatto processuale:

<<La Corte d’Appello di Salerno ha effettivamente posto alla base della sentenza ricorsa un difetto di prova sulle caratteristiche dei beni da dividere e sulla loro titolarità, pur non mettendo in discussione l’esistenza di una comunione ereditaria in relazione ai beni morendo dismessi da Su.An. (le cui eredi erano Su.Gi. e Su.An.) e da Su.An. (le cui eredi erano Su.Gi. -della quale sono eredi Da.Gi. e Da.An.- e Im.An.-che ha donato la quota di comproprietà sugli immobili oggetto di comunione ereditaria a Cu.Ga.-) né, in totale assenza di contestazioni ad opera degli interessati, il diritto delle parti di procedere alla sua divisione secondo le quote indicate.

La Corte di merito ha respinto, per carenza di prova, la domanda di divisione, con una pronuncia che appare inopportunamente formulata perché fa derivare un effetto sostanziale negativo da una valutazione che si ferma invece al vaglio formale di intempestività della produzione della documentazione necessaria, allegata dalla parte attrice -nell’evidente interesse anche delle controparti, in pacifica assenza di contestazioni riguardo al diritto di procedere alla divisione e alle quote di relativa spettanza- per provare la titolarità dei beni in capo ai danti causa e la situazione delle iscrizioni e trascrizioni ad essi relative ai fini della dimostrazione di insussistenza di pesi o iscrizioni pregiudizievoli>>.

La bacchettata della Cass.:

<<Così facendo, la Corte d’Appello di Salerno non ha tenuto in alcun conto le caratteristiche proprie del giudizio di divisione, giungendo alla decisione contestata in questa sede attraverso passaggi motivazionali sovrapponibili -così come le doglianze ad essi rivolte dai ricorrenti signori Da.Gi., Da.An – a quelli già esaminati approfonditamente e sistematizzati da questa Corte nell’ordinanza n. 6228/2023 -affrontati, prima, nell’ordinanza n.10067/2020- dalle cui considerazioni, pienamente condivisibili, non vi è motivo di discostarsi.

Quanto alla prova della comproprietà sui beni da dividere, con l’ordinanza n. 6228/2023 questa Corte aveva già sottolineato come “Nei giudizi di scioglimento della comunione, la prova della comproprietà dei beni dividendi non è quella rigorosa richiesta in caso di azione di rivendicazione o di accertamento positivo della proprietà, atteso che la divisione, oltre a non operare alcun trasferimento di diritti dall’uno all’altro condividente, è volta a far accertare un diritto comune a tutte le parti in causa e non la proprietà dell’attore con negazione di quella dei convenuti, sicché, in caso di non contestazione sull’appartenenza dei beni” -contestazione che nel caso di specie nemmeno è stata sollevata-, “non può disconoscersi la possibilità di una prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico, siccome ridondanti a vantaggio della collettività dei condividenti’; quanto alla tutela, comprendente la possibile partecipazione al giudizio di divisione, dei terzi controinteressati, nell’ordinanza in esame si evidenzia che “Nel giudizio di scioglimento della comunione, il dovere del giudice di ordinare, in presenza di trascrizioni o iscrizioni contro i singoli compartecipi, la chiamata in giudizio dei creditori e degli aventi causa ai sensi degli artt. 784 c.p.c. e 1113 c.c., rispondendo alla sola esigenza di consentire loro di vigilare sul corretto svolgimento del procedimento divisionale in ragione degli effetti riflessi da esso derivanti su garanzie patrimoniali ed effettiva realizzazione del proprio acquisto, non giustifica l’implicita imposizione, a carico dei compartecipi, di documentare, sotto pena di inammissibilità della domanda, la presenza o l’ assenza di trascrizioni e iscrizioni sulla quota indivisa dei singoli, configurandosi la chiamata dei creditori iscritti e degli aventi causa dei compartecipi come onere da assolvere affinché la decisione faccia stato nei loro confronti, senza costituire condizione di validità della divisione; in ordine, infine, alla documentazione da acquisire necessariamente per procedere alle operazioni di divisione, la Corte precisa che “Nei giudizi di scioglimento della comunione, la produzione dei certificati relativi alle trascrizioni e iscrizioni sull’immobile da dividere, imposta dall’art. 567 c.p.c. per la vendita del bene pignorato, non costituisce un adempimento previsto a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda, neppure quando debba procedersi alla vendita dell’immobile comune, atteso che questa, a differenza di quanto accade nel processo di espropriazione, non avviene ai danni di qualcuno, ma nell’interesse di tutti, sicché il richiamo alle norme del processo di espropriazione è limitato alle sole modalità esecutive della vendita e ai relativi rimedi’ -ne consegue quindi che per l’allegazione di tutta la documentazione inerente alla situazione degli immobili da dividere non si deve tenere conto dei termini previsti per le preclusioni istruttorie nell’ordinario giudizio di cognizione-. Anche per quest’ultimo profilo l’ordinanza esaminata ripercorre chiaramente e approfondisce le linee interpretative già individuate dalla giurisprudenza di legittimità precedente: si richiama, in particolare, la già citata ordinanza n.10067/2020, secondo la quale “Nei giudizi di scioglimento della comunione, la produzione dei certificati relativi alle trascrizioni e iscrizioni sull’immobile da dividere, imposta dall’art. 567 c.p.c. per la vendita del bene pignorato, non costituisce un adempimento previsto a pena di inammissibilità o improcedibilità della domanda, tenuto conto che, in tali giudizi, l’intervento dei creditori e degli aventi causa dei condividenti è consentito ai soli fini dell’opponibilità delle statuizioni adottate. Ciò vale anche nel caso in cui si debba procedere alla vendita dell’immobile comune, sebbene le informazioni richieste dal predetto articolo si debbano necessariamente acquisire a tutela del terzo acquirente, ma a tale esigenza sovraintende d’ufficio il giudice della divisione, il quale, nello svolgimento del potere di direzione delle operazioni, può ordinare alle parti la produzione della documentazione occorrente o avvalersi del professionista delegato alla vendita”.

Appare opportuno ancora sottolineare, con richiamo letterale alla motivazione, pure particolarmente significativa per la controversia sub iudice e pienamente condivisibile, dell’ ordinanza n.6228/2023, quanto segue: il minor rigore della prova della comproprietà nei giudizi di divisione non significa che “la divisione immobiliare possa farsi “sulla parola”, ma più limitatamente che, in una situazione nella quale la comune proprietà dei beni dividendi”, fondata sul presupposto dell’appartenenza dei beni stessi alla comunione, “sia incontroversa, non si potrebbe disconoscere la possibilità della prova indiziaria, né la rilevanza delle verifiche compiute dal consulente tecnico (cfr. Cass. n. 21716/2020), tenuto conto, appunto, che non si fornisce la prova di un fatto costitutivo di una domanda che vede le parti in contrapposizione fra loro (Cass. n. 1065/2022). La domanda di divisione, infatti, anche quando sia proposta da uno solo, è sempre comune a tutti i condividenti (Cass. n. 6105/1987; n. 15504/2018), i quali sono tutti sul medesimo piano ed hanno tutti eguale diritto alla divisione (Cass.n.4353/1980). Pertanto, le verifiche condotte dall’ausiliario d’ufficio ridondano a vantaggio della collettività dei condividenti, così come andrebbe a svantaggio di tutti una acquisizione postuma, anche se operata d’ufficio dal consulente, dal quale emergesse che la proprietà comune, non contestata o desunta a livello indiziario, non trova conferma sul piano documentale (Cass. n. 40041/2021)”; la validità dell’indirizzo interpretativo esposto perdura anche dopo la pronuncia delle SSUU della Corte di Cassazione n.25021/2019 che, “nel riconoscere che gli atti di scioglimento della comunione sono soggetti alla sanzione della nullità prevista dall’art. 46, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 e dall’art. 40, comma 2, della L. n. 47 del 1985 (Cass., S. U., n. 25021/2019), hanno chiarito che la divisione va annoverata fra gli atti ad efficacia tipicamente costitutiva e traslativa. La giurisprudenza successiva a tale pronuncia ha chiarito che l’assimilabilità della divisione agli atti traslativi, nella logica seguita dalle Sezioni unite, è operata per giustificare l’applicazione ad essa dei divieti stabiliti dalla disciplina urbanistica in materia di immobili abusivi, non già nel senso del riconoscimento che la divisione sia il risultato di un trasferimento delle quote indivise degli altri condomini, tale da rendere applicabili le regole del contratto traslativo. In altre parole, il riconoscimento della natura costitutiva-traslativa della modificazione operata dalla divisione, condiviso da larga parte della dottrina, deve svolgersi pur sempre nel quadro della retroattività reale che la legge attribuisce eccezionalmente all’atto divisionale, per cui l’acquisto dei singoli condividenti si considera avvenuto al momento iniziale della comunione (art. 757 c.c.). Nonostante il riconoscimento della sua natura costitutiva, la divisione continua a non potersi annoverare fra i titoli idonei a fornire, nel giudizio di rivendicazione proposto nei confronti dei terzi, la prova della proprietà dei beni compresi nei lotti rispettivamente assegnati, dovendosi inoltre escludere che la divisione sia da sola sufficiente a formare il titolo per l’usucapione abbreviata (Cass. n. 1976/1983; 1532/1967). Tali conclusioni, da sempre chiare alla giurisprudenza, si confermano ancora esatte, depurate naturalmente dall’improprio riferimento alla natura dichiarativa della divisione, operato, in verità, in modo del tutto tralatizio nelle massime (Cass. n. 26692/2020)”.

Inadimplenti non est adimplendum: sull’art. 1460 cc

Cass. sez. III, ord. 18/02/2025 n. 4.134, rel. Tassone:

<<In tal modo la corte territoriale non applica correttamente l’art. 1460 cod. civ., non tenendo conto degli insegnamenti di questa Suprema Corte, per cui nei contratti a prestazioni corrispettive l’esercizio della eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ.: a) presuppone che vi sia l’inadempimento della controparte (anche solo in termini di inesatto adempimento: v. Cass., 8/7/2024 n. 18587; Cass., 29/1/2021 n. 2154), dato che integra un fatto impeditivo dell’altrui pretesa di pagamento in costanza di inadempimento dello stesso creditore (Cass., 17/7/2023, n. 20719; Cass., 22/11/2016 n. 23759); b) deve essere sollevata in buona fede oggettiva, in relazione alla quale il giudice di merito dovrà verificare se la condotta della parte inadempiente abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico contrattuale, avuto riguardo all’interesse della controparte, e quindi valutare la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, non in rapporto alla rappresentazione soggettiva delle parti, bensì in rapporto alla situazione oggettiva (cfr. Cass., 28/12/2023, n. 36295, Cass., 29/1/2021, n. 2154 e Cass., 3/7/2000, n. 8880)>>.

Applicato al caso de quo, ove si rileva l’errore della Corte di appello:

<<Orbene, a fronte di questi principi di diritto, nel caso di specie la corte territoriale non ha individuato, né tantomeno accertato un concreto inadempimento di LOGISTICA ITALIA, ma si è limitata a far riferimento a una “forte preoccupazione” che sarebbe stata espressa da rappresentanze sindacali ed al mero “rischio” per DHL di subire “una eventuale azione diretta ai sensi dell’art. 7-ter D.Lgs. 21.11.2005, n. 286” (v. p. 6 della sentenza). Per di più, la corte addebita a LOGISTICA ITALIA un ritardo del pagamento dello stipendio di luglio 2014 ai dipendenti dei sub-vettori, ma, al contempo, per un verso espressamente individua la scadenza stipendiale “entro il 7 agosto” successivo, per altro verso dà atto che gli accordi di DHL con i novantasette soci lavoratori dei subvettori sono avvenuti mediante novantasette scritture private in data 31 luglio 2014, cioè cronologicamente e giuridicamente prima del preteso inadempimento stipendiale dell’attuale ricorrente.

La Corte d’Appello, inoltre, anche se si dovesse reputare -ipotesi appunto insostenibile per i dati cronologici da essa stessa rimarcati – che abbia accertato un inadempimento effettivo (per cui tuttavia non si comprende perché sia ricorsa alle nozioni di “preoccupazione” e di “rischio”, veicolanti solo la sussistenza di possibilità pregiudizievoli), per applicare l’art. 1460 cod. civ. avrebbe dovuto – e lo ha del tutto omesso – di procedere al giudizio di comparazione tra tale inadempimento di LOGISTICA ITALIA e l’inadempimento di DHL al pagamento delle fatture per nolo nn. 8, 10, 11, 12, e 13 del 2014 azionate da LOGISTICA ITALIA in sede monitoria.

L’impugnata sentenza giunge quindi a estendere erroneamente la portata applicativa dell’art. 1460 cod. civ., da un lato trasformandola in strumento non di reazione, bensì di tutela preventiva, valevole per ipotesi di mero “rischio di inadempimento”, e dunque per inadempimento non effettivo ma solo potenziale (e – non si può non notare per inciso – potenziale è ogni inadempimento quando la prestazione non è ancora dovuta), e d’altro lato omettendo di verificare se la parte che rivolge l’eccezione sia in buona fede, cioè rifiuti il proprio adempimento a fronte di un concreto e più rilevante inadempimento della controparte del contratto a prestazioni corrispettive>>.

Deduzione dei miglioramenti apportato dal donatario in sede di collazione

Cass. Sez. II, Sent. 18/02/2025, n. 4.146, rel. Fortunato, applica l’art. 748 cc ad un caso di costruzione realizzata sul terreno donato:

<<La realizzazione del manufatto da parte di A.A., prima dell’apertura della successione, si basa sulle risultanze della c.t.u., senza far ricorso al criterio formale dell’art. 2697 c.c. (come è chiaramente evidenziato a pag. 9 della sentenza), dovendo comunque condividersi che, una volta assolto l’onere della prova da parte del donatario di aver realizzato la costruzione con denaro proprio prima dell’apertura della successione, competeva alla ricorrente provare il contrario. Nel calcolare il valore del terreno oggetto di donazione indiretta in favore del coerede la Corte di merito ha considerato le potenzialità edificatorie derivanti dalla destinazione urbanistica del terreno, deducendo dal valore del donatum quello del fabbricato realizzato ex post dal beneficiario della liberalità indiretta, in applicazione dell’art. 748 c.c. (cfr. sentenza, pag. 9), non essendo inficiata la correttezza del criterio adottato dalle successive argomentazioni volte a distinguere tra mera edificabilità ed effettiva edificazione e ad escludere, in adesione a Cass. 20046/2016, la possibilità di considerare miglioria la sopravvenuta attitudine urbanistica, non dipendente da un’attività del donatario o del terzo volta ad incrementare il valore del bene non configura una miglioria. Dispone – per contro – l’art. 748 c.c. che in tutti i casi, si deve dedurre a favore del donatario il valore delle migliorie apportate al fondo nei limiti del loro valore al tempo dell’aperta successione, occorrendo evitare i che coeredi non donatari possano ricevere un’indebita locupletazione dalle opere eseguite a spese del donatario, ottenendo la collazione di beni di valore superiore a quelli donati per effetto di sacrifici patrimoniali sopportati solo dal donatario (Cass. 29247/2020; Cass. 24150/2015). 2. Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 2909 c.c. sostenendo che con la sentenza parziale di primo grado, il Tribunale aveva rinviato la regolazione delle spese al definitivo, dovendo invece pronunciare per quelle tra C.C. e le B.B., avendo definito la causa relativamente a tali parti con decisione da ritenersi definitiva. Pertanto, non avendo la F.F. proposto appello sulle spese, era precluso dal giudicato interno la possibilità di porre dette spese a carico della soccombente con la sentenza definitiva.>>.

Assegno divorzile (privo della compononente perequativa) e assegno alimentare: quali differenze?

Cass. Civ., Sez. I, ord. 16 febbraio 2025 n. 3952, rel. Russo:

<<Nella maggior parte dei casi la differenza concreta tra un assegno di divorzio privato della sua componente compensativa -perequativa e un assegno alimentare potrebbe essere di scarso rilievo: se la finalità assistenziale assume rilievo preponderante rispetto a quella perequativo-compensativa, la quantificazione dell’assegno divorzile deve tendenzialmente effettuarsi sulla base dei criteri di cui all’art. 438 c.c., salvi gli opportuni adattamenti.
Si tratta però di un tendenziale avvicinamento dei calcoli nel procedimento di concreta quantificazione, da farsi tenendo presente la differenza concettuale e normativa tra i due istituti.
Di conseguenza, assegno alimentare e assegno divorzile con funzione assistenziale possono essere anche sensibilmente differenti nel quantum qualora si tratti di patrimoni ingenti.>>

(massima di Valeria Cianciolo in Ondif)

Tutela del format tramite diritto di autore nel Regno Unito

Jeremy Blum e Dhara Reddy (Bristows LLP)/February 19, 2025, in Kluwer Copyright Blog segnalano l’esame dell’oggetto da parte di THE HIGH COURT OF JUSTICE BUSINESS AND PROPERTY COURTS OF ENGLAND AND WALES
INTELLECTUAL PROPERTY ENTERPRISE COURT, 17.01.2025, Rinkoff v. BABY COW PRODUCTIONS LTD., richiamante Snowden J nella sentenza  Norowzian and Green del 2000.

Riporto il succo:

<<44 I do not need to decide on this interim application the precise conditions that must be satisfied before a television format can be protected as a dramatic work.
What I think is apparent from the authorities, however, is that copyright protection will not subsist unless, as a minimum: (i) there are a number of clearly identified features which, taken together, distinguish the show in question from others of a similar type; and (ii) that those distinguishing features are connected with each other in a coherent framework which can be repeatedly applied so as to enable the show to be reproduced in recognisable form>>.