Importante direttiva sulla parità stipendiale di genere e sul divieto di discriminazioni

Viene data notizia della Direttiva (UE) 2023/970 del Parlamento europeo e del Consiglio del 10 maggio 2023 volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva e i relativi meccanismi di applicazione , portante  significative innovaizoni.

Solo alcune:

  • il punto più ostico dei concetti di “uguale lavoro” o “di pari valore”- Il secondo concetto è delineato dall’art. 4.4 (<I sistemi retributivi sono tali da consentire di valutare se i lavoratori si trovano in una situazione comparabile per quanto riguarda il valore del lavoro sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere concordati con i rappresentanti dei lavoratori, laddove tali rappresentanti esistano. Tali criteri non si fondano, direttamente o indirettamente, sul sesso dei lavoratori e includono le competenze, l’impegno, le responsabilità e le condizioni di lavoro, nonché, se del caso, qualsiasi altro fattore pertinente al lavoro o alla posizione specifici. Sono applicati in modo oggettivo e neutro dal punto di vista del genere, escludendo qualsiasi discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso. In particolare, le pertinenti competenze trasversali non devono essere sottovalutate>).
  • trasparenza retributiva prima dell’assunzione (cioè ai meri candidati all’assunzione), art. 5
  • trasparenza retributiva sulla progressione in carriera, art. 6
  • diritto di informazione scritta, art. 7
  • comunicazioni sul divario retribuivo di genere, art. 9, e obbligo di valutazione congiunta con i sindacati, art. 10
  • diritto al risarcimento, art. 16. Qui il c. 3 specifica il danno chiedibile: <<Il risarcimento o la riparazione pongono il lavoratore che ha subito un danno nella posizione in cui la persona si sarebbe trovata se non fosse stata discriminata in base al sesso o se non si fosse verificata alcuna violazione dei diritti o degli obblighi connessi al principio della parità di retribuzione. Gli Stati membri assicurano che il risarcimento o la riparazione comprendano il recupero integrale delle retribuzioni arretrate e dei relativi bonus o pagamenti in natura, il risarcimento per le opportunità perse, il danno immateriale, i danni causati da altri fattori pertinenti che possono includere la discriminazione intersezionale, nonché gli interessi di mora>>.
  • recepimento entro 7 giugno 2026

Il danno per essere caduto nella trappola del phishing è a carico della banca

Un caso classico di phishing esaminato da Cass. sez. III sent. 12/02/2024 n. 3.780, rel. Moscarini:

fatto:

<Di.An., in qualità di procuratrice di Po.Ma., convenne in giudizio, davanti al Giudice di Pace di Paola, Poste Italiane Spa chiedendo accertarsi la responsabilità contrattuale o extracontrattuale della società convenuta per la perdita patrimoniale subita dal Polizza ammontante ad Euro 2900 a seguito di un’operazione posta in essere da ignoti sulla propria carta Postepay Evolution.

A sostegno della domanda rappresentò che il Polizza aveva ricevuto una mail in apparenza proveniente da Poste Italiane Spa, con la quale era stato invitato ad accedere al proprio conto mediante un link contenuto nella mail inserendo le proprie credenziali per effettuare il cambio della password; che l’utente aveva effettuato la richiesta operazione ed aveva successivamente riscontrato un addebito di Euro 2.900 per un’operazione a favore di Anytime Paris Fra, da lui mai compiuta.>>

Ecco l’insegnamento in diritto:

<<La giurisprudenza di questa Corte, qualificata in termini contrattuali la responsabilità della banca, ha affermato che la diligenza posta a carico del professionista, per quanto concerne i servizi posti in essere in favore del cliente, ha natura tecnica e deve valutarsi tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento assumendo come parametro quello dell’accorto banchiere (Cass. n. 806 del 2016); dunque la diligenza della banca va a coprire operazioni che devono essere ricondotte nella sua sfera di controllo tecnico, sulla base anche di una valutazione di prevedibilità ed evitabilità tale che la condotta, per esonerare il debitore, la cui responsabilità contrattuale è presunta, deve porsi al di là delle possibilità esigibili della sua sfera di controllo.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti consolidata nel senso di ritenere che la responsabilità della banca per operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, con particolare verifica della loro riconducibilità alla volontà del cliente mediante il controllo dell’utilizzazione illecita dei relativi codici da parte di terzi, va esclusa se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente configurabile, ad esempio, nel caso di protratta attesa prima di comunicare l’uso non autorizzato dello strumento di pagamento ma il riparto degli oneri probatori posto a carico delle parti segue il regime della responsabilità contrattuale. Mentre, pertanto, il cliente è tenuto soltanto a provare la fonte del proprio diritto ed il termine di scadenza, il debitore, cioè la banca, deve provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, sicché non può omettere la verifica dell’adozione delle misure atte a garantire la sicurezza del servizio. Ne consegue che, essendo la possibilità della sottrazione dei codici al correntista attraverso tecniche fraudolente una eventualità rientrante nel rischio d’impresa, la banca per liberarsi dalla propria responsabilità, deve dimostrare la sopravvenienza di eventi che si collochino al di là dello sforzo diligente richiesto al debitore (Cass., 1, n. 2950 del 3/2/2017; Cass., 3, n. 18045 del 5/7/2019; Cass., 6-3, n. 26916 del 26/11/2020).

Era pertanto onere di Poste Italiane, come correttamente ritenuto dalla impugnata sentenza, a dover provare di aver adottato soluzioni idonee a prevenire o ridurre l’uso fraudolento dei sistemi elettronici di pagamento, quali ad esempio l’invio al titolare della carta di appositi sms alert di conferma di ogni singola operazione, sulla base di un principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. In assenza di tale prova è corretta la decisione di imputare alla banca il rischio professionale della possibilità che terzi accedano ai profili dei clienti con condotte fraudolente>>.

Invio di sms alert che, a questo punto, diverrà un onere imprescindibile per la banca.

I doveri del sindaco di società e l’onere probatorio della loro violazione da parte della curatela fallimentare (anche solo come eccezione di inadempimento alla richiesta di pagamento del compenso)

Cass.  Sez. I del 24/01/2024, n. 2.350, rel. Dongiacomo, con passaggi di un certo interesse:

sul secondo punto:

<<4.2. Il tribunale, infatti, pur avendo (correttamente) affermato che la vigilanza dei sindaci non si estende alla verifica della convenienza delle scelte gestionali degli amministratori, dovendo, piuttosto, riguardare la legittimità delle scelte e la correttezza dei procedimenti decisionali seguiti dagli stessi, ha ritenuto l’infondatezza dell’eccezione d’inadempimento con la quale il Fallimento aveva dedotto la “carenza di vigilanza” da parte del sindaco opponente in ordine ad alcune operazioni gestorie compiute dagli organi di gestione, limitandosi a rilevare, per un verso, che non era emersa la necessaria incidenza causale tra le omissioni imputate allo stesso e l’evento lesivo consistito nell’aumento indebito della massa passiva, e, per altro verso, che il collegio sindacale, come si evince dal contenuto delle verifiche svolte e dalle relazioni periodiche predisposte dagli stessi, aveva preso effettivamente atto dell’incremento dell’indebitamento e degli insoluti via via maturati, invitando il consiglio di amministrazione ed il socio di maggioranza ad effettuare concreti interventi finanziari e manifestando sempre la propria preoccupazione per l’equilibrio finanziario della società.

4.3. Il tribunale, tuttavia, ha, in tal modo, illegittimamente omesso di considerare, così cadendo nel vizio di falsa applicazione delle norme invocate dal ricorrente, come in precedenza indicate, il principio, che questa Corte ha ripetutamente affermato, secondo il quale il curatore del fallimento della società committente, nel giudizio di verificazione conseguente alla domanda di ammissione del credito vantato dal professionista (come il sindaco della società poi fallita) al compenso asseritamente maturato nei confronti della stessa, è legittimato a sollevare l’eccezione d’inadempimento (anche nel caso in cui si fosse prescritta la corrispondente azione: art. 95, comma 1°, l.fall.) secondo i canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale: vale a dire con il (solo) onere di contestare, in relazione alle circostanze del caso (come le operazioni gestorie, asseritamente contrarie ai principi di corretta amministrazione, che ha specificamente dedotto e altrettanto doverosamente documentato in giudizio quali fatti storici che avrebbero imposto al sindaco la condotta che, in relazione al mandato ricevuto, avrebbe dovuto tenere e non ha, invece, tenuto), la negligente o incompleta esecuzione, ad opera del professionista istante, della prestazione di vigilanza dovuta, restando, per contro, a carico di quest’ultimo l’onere di dimostrare, a fronte delle circostanze dedotte e provate dal curatore, di aver, invece, esattamente adempiuto per la rispondenza della sua condotta al modello professionale e deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è intervenuto con la propria opera (cfr. Cass. SU n. 42093 del 2021).

4.4. In tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, infatti, il creditore che agisca per l’adempimento (oltre che per la risoluzione contrattuale ovvero per il risarcimento del danno) deve soltanto provare la fonte del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento (Cass. SU n. 13533 del 2001)

4.5. Si tratta, peraltro, di un criterio di riparto dell’onere della prova applicabile anche al caso in cui il debitore convenuto si avvalga, com’è accaduto nel caso in esame, dell’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. poiché il debitore eccipiente può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento o l’inesatto adempimento alle obbligazioni assunte dal creditore (di cui deve dedurre e dimostrare il fatto costitutivo), spettando, per contro, a chi ha agito in giudizio l’onere di provare di aver esattamente adempiuto alle stesse (Cass. SU n. 13533 del 2001; Cass. n. 3373 del 2010; Cass. n. 826 del 2015; Cass. n. 3527 del 2021).

4.6. Pertanto, ove il preteso creditore (come il sindaco della società fallita) proponga opposizione allo stato passivo, dolendosi dell’esclusione di un credito (al compenso maturato) del quale aveva chiesto l’ammissione, il Fallimento, dinanzi alla pretesa creditoria azionata nei suoi confronti, può sollevare, per paralizzarne l’accoglimento in tutto o in parte, l’eccezione di totale o parziale inadempimento o d’inesatto adempimento da parte dello stesso ai propri obblighi contrattuali (e cioè, com’è accaduto nel caso in esame, la “carenza di vigilanza” da parte del sindaco opponente in ordine ad alcune operazioni compiute dagli amministratori, dal curatore eccipiente dedotte e documentate, in quanto, a suo dire, “contrarie al principio di corretta amministrazione”), con, appunto, il solo onere di allegare, in relazione alle circostanze di fatto del caso (che ha l’onere di provare), l’inadempimento del sindaco istante (al suo dovere di vigilanza sull’attività di gestione della società: art. 2403, comma 1°, c.c.); spetta poi a quest’ultimo il compito di provare il fatto estintivo di tale dovere, costituito dall’avvenuto esatto adempimento, e cioè di aver adeguatamente vigilato sulla condotta degli amministratori, attivando, con la diligenza professionale dallo stesso esigibile in relazione alla situazione concreta, i poteri-doveri inerenti alla carica (art. 2407, comma 1°, c.c.)>>.

sul primo punto:

<4.7. I sindaci, in effetti, non esauriscono l’adempimento dei proprio compiti con il mero e burocratico espletamento delle attività specificamente indicate dalla legge avendo, piuttosto, l’obbligo di adottare (ed, anzi, di ricercare lo strumento di volta in volta più consono ed opportuno di reazione, vale a dire) ogni altro atto (del quale il sindaco deve fornire la dimostrazione) che, in relazione alle circostanze del caso (ed, in particolare, degli atti o delle omissioni degli amministratori che, in ipotesi, non siano stati rispettosi della legge, dello statuto o dei principi di corretta amministrazione) fosse utile e necessario ai fini di un’effettiva ed efficace (e non meramente formale) vigilanza sull’amministrazione della società e le relative operazioni gestorie (cfr., al riguardo, Cass. n. 18770 del 2019, in motiv., per cui “l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale onere, l’inerzia del sindaco integra di per sé la responsabilità, restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami, indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale”).

4.8. Né, d’altra parte, può rilevare il fatto il fatto che le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, come quelle che gravano sui componenti del collegio sindacale, sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato.

4.9. È senz’altro vero, infatti, che il professionista, assumendo l’incarico, s’impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato (come, nel caso del sindaco, la legittimità e la correttezza dell’intera gestione sociale) ma non anche a conseguirlo e che l’inadempimento del professionista non può essere, pertanto, desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dalla società committente, dovendo essere, piuttosto, valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale ed, in particolare, al dovere di diligenza professionale fissato dall’art. 1176, comma 2°, c.c. (e, nel caso del sindaci, dall’art. 2407, comma 1°, c.c.).

4.10. È anche vero, tuttavia, che il diritto del professionista al compenso (che nel caso dei sindaci è previsto dall’art. 2402 c.c. e dev’essere corrisposto anno per anno: Cass. n. 6027 del 2021), se non implica il raggiungimento del risultato programmato con il conferimento del relativo incarico (e cioè la legittimità dell’intera gestione sociale e la sua conformità ai principi di corretta amministrazione: art. 2403, comma 1°, c.c.), richiede, nondimeno, che il giudice di merito accerti, in fatto, la concreta ed effettiva idoneità funzionale delle prestazioni svolte a conseguire tale risultato, essendo, in effetti, evidente che, in difetto, pur in difetto di una responsabilità contrattuale del professionista a tal fine incaricato (per la mancanza, ad esempio, di danno che ne sia conseguito), non potrebbe neppure parlarsi di atto di adempimento degli obblighi contrattualmente assunti dallo stesso (cfr. Cass. n. 36071 del 2022, in motiv.) e giustifica, quindi, il rifiuto del committente, a norma dell’art. 1460 c.c., al pagamento, in tutto o in parte, del compenso (in ipotesi) maturato.

4.11. L’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. può essere, di conseguenza, opposta dal cliente (o dal curatore del relativo fallimento) al professionista (come il sindaco) che abbia violato l’obbligo di diligenza professionale quando le prestazioni svolte dallo stesso, a prescindere dal mancato conseguimento del risultato perseguito, non sono state, per la negligenza con cui sono state eseguite, oggettivamente funzionali, in tutto o in parte, alla soddisfazione degli interessi del primo, così come dedotti, per volontà delle parti o (come nel caso dei sindaci) della legge, nel contratto di prestazione d’opera professionale tra loro intercorso ed abbiano, di conseguenza, negativamente inciso sulla effettiva realizzazione(o possibilità di realizzazione) degli stessi (cfr. Cass. n. 13207 del 2021).

4.12. Il dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2403 c.c. è, in effetti, configurato dalla legge con particolare ampiezza poiché non è circoscritto all’operato degli amministratori ma si estende al regolare svolgimento dell’intera gestione sociale in funzione della tutela non solo dell’interesse dei soci ma anche di quello concorrente dei creditori sociali (Cass. n. 2772 del 1999; Cass. n. 5287 del 1998; più di recente, in tema di sanzioni amministrative, Cass. n. 1601 del 2021): né, d’altra parte, riguarda solo il mero e formale controllo sulla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, essendo conferito ai componenti del relativo collegio il potere-dovere di chiedere notizie sull’andamento generale e su specifiche operazioni quando queste possono suscitare perplessità, per le modalità delle loro scelte o della loro esecuzione.

4.13. Il compito essenziale dei sindaci, infatti, è di verificare il rispetto dei principi di corretta amministrazione, che la riforma del diritto societario ha esplicitato e che già in precedenza potevano ricondursi all’obbligo di vigilare sul rispetto della legge e dell’atto costitutivo, secondo la diligenza professionale prevista dall’art. 1176, comma 2°, c.c., e cioè di controllare in ogni tempo che gli amministratori, alla stregua delle circostanze del caso concreto, compiano la scelta gestoria nel rispetto di tutte le regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale.

4.14. Se è pur vero, pertanto, che il sindaco non risponde automaticamente, in termini d’inadempimento ai propri doveri giuridici, per ogni fatto gestorio aziendale non conforme alla legge o allo statuto ovvero ai principi di corretta amministrazione, è, tuttavia, necessario, a fini del corretto adempimento dei propri obblighi, che abbia esercitato (o, quanto meno, tentato, con la dovuta diligenza professionale, di esercitare) l’intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge.

4.15. Come questa Corte ha di recente ribadito, infatti, da un lato, solo un più penetrante controllo, attuato mediante attività informative e valutative, a partire dalla richiesta di informazioni o di ispezione ai sensi dell’art. 2403-bis c.c., può dare concreto contenuto all’obbligo di tutela degli essenziali interessi affidati al collegio sindacale, cui non è consentito di rimanere acriticamente legato e dipendente dalle scelte dell’amministratore, quando queste collidano con i doveri imposti dalla legge, avendo, piuttosto, il dovere di individuarle e di segnalarle ad amministratori e soci, non potendo assistere nell’inerzia alle altrui condotte dannose: senza neppure potersi limitare alla richiesta di chiarimenti all’organo gestorio ma dovendosi spingere a pretendere dal medesimo le cd. azioni correttive necessarie. Così come, dall’altro lato, il sindaco dovrà fare ricorso agli altri strumenti previsti dall’ordinamento, come i reiterati inviti a desistere dall’attività dannosa, la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c. (ove omessa dagli amministratori, o per la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate, dunque anche ex artt. 2446 e 2447 c.c.), il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite (ai sensi di tali disposizioni), i solleciti alla revoca delle deliberazioni assembleari o sindacali illegittime, l’impugnazione delle deliberazioni viziate, il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia (ove proponibile) al tribunale ex art. 2409 c.c. o all’autorità giudiziaria penale ed altre simili iniziative (Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.).

4.16. La configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, comma 2°, c.c. non richiede, del resto, l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere [invece si!!!, nds], essendo, piuttosto, sufficiente che gli stessi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o, comunque, non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunciando i fatti al pubblico ministero per consentirgli di provvedere, ove possibile, ai sensi dell’art. 2409 c.c. (cfr. Cass. n. 32397 del 2019; Cass. n. 16314 del 2017; Cass. n. 13517 del 2014).

4.17. D’altra parte, anche la semplice minaccia di ricorrere ad un’autorità esterna può costituire deterrente, sotto il profilo psicologico, al proseguimento di attività antidoverose da parte dei delegati: e senza trascurare, altresì, che la condotta impediente omessa va valutata nel contesto complessivo delle concrete circostanze in quanto l’inerzia del singolo nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo degli altri acquista efficacia causale dato che, all’opposto, una condotta attiva giova a “rompere il silenzio” sollecitando, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge e ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri (Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.).

4.18. A fronte di iniziative anomale da parte dell’organo amministrativo, i sindaci hanno, dunque, l’obbligo di porre in essere, con debita tempestività, tutti gli atti necessari all’assolvimento dell’incarico con la dovuta diligenza, correttezza e buona fede, attivando ogni loro potere (se non di intervento sulla gestione, che non compete se non in casi eccezionali) di sollecitazione e denuncia, diretta, interna ed esterna, doveroso per un organo di controllo (Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.).

4.19. Né del resto può rilevare il fatto che il collegio sindacale abbia in tutto o in parte ignorato le operazioni gestorie compiute dagli amministratori; la colpa, infatti, può consistere tanto in un difetto di conoscenza, quanto in un difetto di attivazione: – sotto il primo profilo, il sindaco è in colpa per non aver colposamente rilevato l’altrui illecita gestione: dove, però, non è affatto decisivo che nulla traSpaia da formali relazioni degli amministratori, perché l’obbligo di vigilanza impone, ancor prima, la ricerca di adeguate informazioni; – sotto il secondo profilo, il sindaco è tenuto a conoscere i doveri specifici posti dalla legge e ad attivarsi perché l’organo amministrativo compia al meglio il proprio dovere gestorio, vigilando per impedire il verificarsi ed il protrarsi della situazione illecita: l’inerzia, a fronte dell’illecito altrui, è dunque in sé colpevole: e il disinteresse è già indice di colpa [vero ma scontato, nds] (Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.; Cass. n. 24170 del 2022, la quale, in materia di sanzioni amministrative, ha osservato come il comportamento inerte dei sindaci integra la mancata adeguata vigilanza da parte degli stessi sulla condotta degli amministratori tutte le volte in cui fosse esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite e reagire ad esse).

4.20. E neppure è sufficiente per escludere l’inadempimento dei sindaci il fatto di essere stati tenuti all’oscuro o di avere assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi ove gli stessi abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta degli amministratori, sebbene fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite e reagire ad esse, prevenendo danni ulteriori: nello stesso modo in cui le dimissioni presentate, ove non fossero accompagnate anche da concreti atti volti a contrastare, porre rimedio o impedire il protrarsi degli illeciti gestori, non escludono l’inadempimento del sindaco posto che, per la pregnanza degli obblighi assunti proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato, la diligenza richiesta al sindaco impone, piuttosto, un comportamento alternativo e le dimissioni diventano, anzi, sotto questo profilo, esemplari della condotta colposa tenuta dal sindaco, rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità (Cass. n. 18770 del 2019).

4.21. E neppure, infine, può rilevare il fatto che, come invece affermato dal tribunale, l’inadempimento contestato al sindaco non abbia arrecato un danno alla società committente: l’eccezione d’inadempimento, che può essere dedotta anche in caso di adempimento solo inesatto, si limita, infatti, a consentire alla parte che la solleva il legittimo rifiuto di adempiere (in tutto o in parte) in favore dell’altro contraente che a sua volta non ha adempiuto (o ha adempiuto inesattamente) la propria obbligazione e, dunque, (salvo il limite della buona fede: Cass. n. 1690 del 2006) non è subordinata alla presenza degli stessi presupposti richiesti per la risoluzione del contratto e l’azione di risarcimento dei danni conseguentemente arrecati, e cioè, rispettivamente, la gravità e la dannosità dell’inadempimento dedotto (cfr. Cass. n. 12719 del 2021)>>.

Diritto di installazione dell’antenna sulla proprietà altrui come servitù coattiva di passaggio

Cass. Sez. II Sent. del 08/11/2023, n.  31.101, rel. Amato:

propongo due massime sul medesimo insegnamento:

<<In tema di servitù di passaggio di antenna a favore di radioamatore, il diritto all’installazione dell’impianto sulla proprietà esclusiva altrui deriva direttamente dall’art. 21 Cost., di talché, nei casi in cui quest’ultimo non possa utilizzare spazi propri o comuni vi è l’obbligo, da parte dei proprietari di un immobile, di consentire la collocazione di antenne sulle porzioni in loro dominio esclusivo, senza diritto all’indennizzo e senza previa autorizzazione scritta, ma nei limiti del rispetto dei diritti proprietari, ai sensi dell’art. 91, comma 3, 92, comma 7, e 209, comma 2, d.lgs. n. 259 del 2003. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO GENOVA, 27/10/2017)>>   (CED Cassazione)

oppure:

<<Con riguardo ad un edificio in condominio ed all’installazione d’apparecchi per la ricezione di programmi radio-televisivi, il diritto di collocare nell’altrui proprietà antenne televisive, riconosciuto dalla L. 6 maggio 1940, n. 554, artt. 1 e 3 e del D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, art. 231 (ora assorbiti nel D.Lgs. n. 259 del 2003), è subordinato all’impossibilità per l’utente di servizi radiotelevisivi di utilizzare spazi propri, giacché altrimenti sarebbe ingiustificato il sacrificio imposto ai proprietari. Trattandosi di un fatto costitutivo del diritto all’installazione, l’onere di provare – se del caso anche con una C.T.U. – che non sia possibile utilizzare uno spazio proprio o condominiale per l’installazione, resta a carico del soggetto che intenda effettuarla>> (Massima redazionale: non è specificato di chi,  ma credo di OneLegale, avedola ivi reperita)

La mancata audizione del minore infradodicenne è giustificata anche in presenza di “suo turbamento e disagio”: un nuovo caso di legittimo non ascolto?

Cass. Sez. I, Ord. n. 3.465 del 07.02.2024, rel. Pazzi, sull’ascolto del minore infradodicenne (art. 337 octies c.1 cc; regola sostanzialmente uguale nella corrispondente norma del rito di famiglia Cartabia, art. 473 bis.4 c.1 cpc):

<<5.3 Non vi è dubbio che, in tema di provvedimenti in ordine alla convivenza dei figli con uno dei genitori, l’audizione del minore infradodicenne capace di discernimento costituisca un adempimento previsto a pena di nullità, a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo, in relazione al quale incombe sul giudice che ritenga di ometterlo un obbligo di specifica motivazione, se ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore (cfr., per tutte, Cass. 1474/2021).

Il particolare valore di questa audizione in termini di contraddittorio sostanziale, nel senso illustrato al punto precedente, impone al giudice un obbligo di specifica e circostanziata motivazione, tanto più necessaria quanto più l’età del minore si approssima a quella dei dodici anni, non solo se egli ritenga il minore infradodicenne incapace di discernimento ovvero l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore, ma anche qualora il giudice opti, in luogo dell’ascolto diretto, per un ascolto effettuato nel corso di indagini peritali o demandato a un esperto al di fuori di detto incarico (Cass. 12957/2018).

Si deve, tuttavia, ritenere che nel caso di specie il mancato ascolto del minore sia stato giustificato da un’espressa e adeguata motivazione, poiché la Corte di merito non si è affatto limitata a ricordare di non aver ascoltato il minore (nato il omissis e dunque infradodicenne nel corso dell’intero procedimento di appello) a seguito del ricorso presentato ai sensi dell’art. 709-ter cod. proc. civ., ma ha precisato che ciò è avvenuto “in considerazione del suo palese stato di turbamento e di disagio” (pag. 15), aggiungendo, poi, che anche nella successiva fase del processo persistevano le medesime ragioni per non disporre l’audizione (pag. 18).

Questa spiegazione, infatti, non può essere considerata come avulsa dal contesto motivazionale in cui è inserita, tramite il quale la Corte territoriale ha abbondantemente spiegato in cosa consisteva lo stato di turbamento e disagio addotto a ragione della mancata audizione, laddove a più riprese ha rappresentato che il bambino si era dimostrato fortemente influenzato dalle “modalità educative inadeguate” della madre, che avevano non solo ostacolato il suo sviluppo, ma anche provocato comportamenti respingenti nei confronti del padre non imputabili a quest’ultimo.

Il puntuale riferimento al “comportamento possessivo ed escludente” tenuto dall’odierna ricorrente, determinante la mancanza di un autonomo e spontaneo discernimento del bambino (influenzato dalla madre al punto da rendere non genuine dichiarazioni accusatorie nei confronti del padre; cfr. pag. 17), assolve, dunque, l’obbligo di motivazione a cui i giudici distrettuali erano tenuti per giustificare la sua mancata audizione>>.

Costiuisce comunicazione al pubblico predisporre in appartamenti-vacanze televisioni con antenna interna per fruizione di opere protette?

Dicono di si le sempre interessanti Conclusioni dell’avvocato generale Szpunar  del 22.04.2024, C-135/2023 (ne dà notizia Eleonora Rosati su IPKat).

Si tratta di breve summa sul sempre poco chiaro problema.

Per l’AG va data la stessa risposta data dalla CG nel notissimo prececedente SGAE del 2006 (C-306/2005), relativa a camere di albergo, ed invece risposta opposta a quella data nel recente caso Stim e SAMI del 2020 (C‑753/18), relativo a apparecchiature in auto per noleggio.

La differenza tra quest’ultimo e quello de quo sta nel fatto che qui l’infrastruttura è realzzata dal convenuto, mentre nel primo le comapgnie di noleggio auto se la trovano già montata nelle auto acquistate (però potrebbero disabilitarla: che sia economicamente non conveniente è irrilevante)

<<40. È vero che, nella situazione oggetto del procedimento principale, il gestore di un condominio non effettua una trasmissione del segnale televisivo verso tali appartamenti, in quanto ciascun appartamento è dotato di un’«autonoma» attrezzatura fisica che permette la ricezione di tale segnale. L’atto del gestore, tuttavia, non si limita a fornire ai conduttori unicamente un apparecchio televisivo e un’antenna interna, che essi potrebbero utilizzare in qualsivoglia modo. Dotando gli appartamenti di apparecchi televisivi muniti di antenne interne regolate in modo da permettere la ricezione del segnale della trasmissione televisiva terrestre disponibile nella zona di copertura nella quale è situato il suo immobile, il gestore permette ai conduttori di usufruire di trasmissioni televisive ben definite, all’interno degli appartamenti locati e durante il periodo di locazione. (…)

42. A mio avviso è dunque possibile ritenere che, installando negli appartamenti destinati a locazione apparecchi televisivi muniti di antenne interne, il gestore di un condominio realizzi, con piena cognizione delle conseguenze del proprio comportamento, un «atto di comunicazione» consistente nel dare ai conduttori accesso a opere protette contenute nelle trasmissioni televisive che è possibile ricevere in detti appartamenti mediante tali apparecchi, in maniera sostanzialmente identica alla situazione delle camere d’albergo dotate di apparecchi televisivi collegati a un’antenna centrale>>.

E poi:_

<< 53. Non avendo alcuna influenza sull’installazione degli impianti radio a bordo degli autoveicoli, le società di noleggio di simili veicoli non agiscono neppure a scopo di lucro, contrariamente al gestore di un condominio destinato a locazione che vi installa apparecchi televisivi (49). Orbene, il carattere lucrativo dell’intervento dell’utente interessato, pur non essendo, di per sé, decisivo ai fini dell’esistenza di un atto di comunicazione, può essere indicativo della natura intenzionale di tale intervento. (…)

56. Orbene, se l’elemento decisivo nel procedimento principale è l’intervento intenzionale dell’utente allo scopo di dare ai propri clienti l’accesso a trasmissioni televisive, in forza del principio di neutralità tecnologica, dovrebbe essere irrilevante che tale accesso sia fornito loro mediante un’antenna centrale o più antenne interne (54).

57. Pertanto, il fatto che il gestore di un condominio dia ai conduttori l’accesso a trasmissioni televisive mediante apparecchi televisivi muniti di antenne interne installati in tali appartamenti dev’essere considerato un atto di comunicazione di opere protette contenute in dette trasmissioni. Occorre inoltre verificare se e, eventualmente, a quali condizioni tale comunicazione sia rivolta a un pubblico nuovo, come richiesto dalla giurisprudenza della Corte in materia>>.

Mi parrevbbe condibisibile.

Piouttosto sarebbe ora di abnalzizare il concetto di “pubblico tenuto inconsidrazine dal titolare deri diritti quando autorizzo per la prima voklta la diffusione dell’opera”: è tutto da dismtrare l’orjentamento segjuito dalla CG per cui esso comrense gli impienti fruiti da residenti ma non da ospiuti di albergo o case vacanze o simili.

Vedremo se la CG le seguirà (probabile).

PMA, coppia omoaffettiva femminile e impugnazione dell’atto di nascita nella sola forma della rettificazione

Cass.  Sez. I, Ord. 20 febbraio 2024, n. 4.448, rel. Tricomi:

Sulla rettificazione (ex art. 454 cc, oggi art. 95 ss dpr 396/2000):

<<2.4. Come questa Corte ha più volte affermato, la rettificazione degli atti di stato civile non può ritenersi limitata alla sola correzione degli errori materiali che siano commessi nella formazione degli atti di stato civile, poiché, come è dato desumere anche dall’art. 454 c.c. (poi abrogato dal D.P.R. n. 396 del 2000, art. 110, comma 3) che applica il procedimento di rettificazione a casi che restano al di fuori dell’ambito della mera correzione degli errori materiali, l’espressione “rettificazione richiesta dall’interesse pubblico” (R.D. n. 1238 del 1939, ex art. 163, poi abrogato dal medesimo D.P.R.) non può essere intesa in senso stretto, né può essere limitata alla sola rettificazione di singoli atti, ma deve essere riferita in senso ampio alla tenuta dei registri dello stato civile nel loro complesso e può ricomprendere la cancellazione di un atto compilato o trascritto per errore, la formazione di un atto omesso, ed anche la cancellazione di un atto irregolarmente iscritto o trascritto (Cass. n. 16567/2021; Cass. n. 1204/1984).

A tal fine, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, a tale limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitele dalla parte (Cass. n. 13000/2019).

Inoltre, questa Corte, ha ulteriormente chiarito, proprio nell’ambito di un giudizio che, come il presente, non traeva origine dall’impugnazione da parte di un interessato del rifiuto opposto dall’Ufficiale di stato civile alla richiesta di trascrizione dell’atto di nascita, ma dalla domanda, proposta dal Pubblico Ministero, ai sensi del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, comma 2, di “cancellazione” della iscrizione già effettuata, in quanto fondata sull’allegazione della contrarietà della iscrizione alla disciplina dettata da disposizioni nazionali, che tale domanda trae origine da una difformità tra la situazione di fatto, quale dovrebbe essere nella realtà secondo la predetta disciplina, e quella annotata nel registro degli atti di nascita, causata da un errore asseritamente compiuto in sede di iscrizione, e non dà pertanto luogo ad una controversia di stato, ma proprio ad una delle controversie previste dal D.P.R. n. 396, art. 95 (cfr. Cass. n.7413/2022; Cass. n. 23319/2021; Cass. n. 21094/2009)

Applicando tali principi alla presente fattispecie, pertanto, deve ritenersi che l’unico strumento utilizzabile, ai fini della contestazione della legittimità della annotazione sull’atto di nascita operata dall’Ufficiale di stato civile, dev’essere individuato nel procedimento di rettificazione, la cui funzione, collegata a quella pubblicitaria propria dei registri dello stato civile ed alla natura dichiarativa propria delle annotazioni in essi contenute, aventi l’efficacia probatoria privilegiata prevista dall’art. 451 c.c., ma non costitutive dello status cui i fatti da esse risultanti si riferiscono, esclude peraltro l’idoneità della decisione ad acquistare efficacia di giudicato in ordine alla sussistenza del rapporto giuridico di filiazione (Cass. n.7413/2022)>>.

Sulla (confermata) impossibilità di iscrivere anche il cd genitore intenzikn ale:

<<2.5. Peraltro, nella specie, oggetto dell’iscrizione contestata dal Pubblico Ministero è la dichiarazione di riconoscimento effettuata dalla madre intenzionale.

La decisione della Corte di appello è conforme alla giurisprudenza di legittimità che ha affermato in più occasioni che “In caso di concepimento all’estero mediante l’impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, voluto da coppia omoaffettiva femminile, la domanda volta ad ottenere la formazione di un atto di nascita recante quale genitore del bambino, nato in Italia, anche il c.d. genitore intenzionale, non può trovare accoglimento, poiché il legislatore ha inteso limitare l’accesso a tali tecniche alle situazioni di infertilità patologica, fra le quali non rientra quella della coppia dello stesso genere; non può inoltre ritenersi che l’indicazione della doppia genitorialità sia necessaria a garantire al minore la migliore tutela possibile, atteso che, in tali casi, l’adozione in casi particolari si presta a realizzare appieno il preminente interesse del minore alla creazione di legami parentali con la famiglia del genitore adottivo, senza che siano esclusi quelli con la famiglia del genitore biologico, alla luce di quanto stabilito dalla sentenza della Corte cost. n. 79 del 2022.” (Cass. n.22179/2022; conf. Cass. nn. 3769/2024, 511/2024, 7668/2020, 6383/2022, 7413/2022)>>.

Il fondo vicino è causa dell’incendio in esso sia originato, anche se non adiacente a quello danneggiato, stante l’interposizione di altro fondo di terzo estraneoto

Cass. sez. III, ord. 11/01/2024, n.1262, rel. Saija:

<In tema di responsabilità per danni da cose in custodia ex art. 2051 c.c., il proprietario del fondo dal quale si sia propagato un incendio è responsabile dei danni causati ad altro fondo, senza che sia necessaria una indefettibile contiguità fisica tra il fondo originante e quello danneggiato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva affermato la responsabilità della proprietaria del fondo dal quale aveva avuto origine l’incendio, poi propagatosi in quello del danneggiato dopo aver attraversato un fondo intermedio di proprietà di un terzo estraneo al giudizio)>.

(massimario Cass., da DeJure)

Responsabilità aquiliana da lesione del rapporto parentale è aquiliana, prescrizione e potere del giudice di qualificare la domanda

Cass. sez. III, sent. 05/02/2024 n. 3.267, rel. Rubino:

<<Le figlie della vittima, sig. Bo.Ma., agiscono per il risarcimento del danno iure proprio patito a causa della perdita del rapporto parentale col padre. La loro azione è stata correttamente inquadrata dal giudice di merito nell’ambito della responsabilità extracontrattuale fatta valere nei confronti della struttura sanitaria.

Non è invocabile in riferimento all’azione proposta, contrariamente a quanto auspicato dalle ricorrenti, la figura del contratto con effetti protettivi anche nei confronti del terzo, al fine di ricondurla nell’alveo della responsabilità contrattuale, in quanto è giurisprudenza ormai consolidata di questa Corte l’affermazione secondo la quale il rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria o il medico non produce, di regola, effetti protettivi in favore dei terzi, fatta eccezione per il peculiare e circoscritto campo delle prestazioni sanitarie afferenti alla procreazione, in cui il contratto concluso dalla gestante con la struttura sanitaria, avente ad oggetto le prestazioni sanitarie correlate alla nascita del bambino, per la peculiarità dell’oggetto, è idoneo ad incidere in modo diretto anche sulla posizione di quei soggetti diversi dalla gestante, ma ad essa inscindibilmente legati nel comune interesse al miglior andamento del parto, ovvero del nascituro e del padre, sì da farne scaturire una tutela estesa a tali soggetti (Cass. n. 14615 2020, in cui la Corte ha escluso la spettanza dell’azione contrattuale “iure proprio” agli eredi di un soggetto ammalatosi e poi deceduto a causa di infezione da HCV contratta a seguito di emotrasfusioni eseguite presso un ospedale, precisando che essi avrebbero potuto eventualmente beneficiare della tutela aquiliana per i danni da loro stessi subiti; v. anche Cass. n. 11320 del 2022).

Al di fuori di questa peculiare situazione trova invece applicazione, in relazione al contratto stipulato dal paziente col medico con o la struttura sanitaria, il principio generale di cui all’art. 1372, comma 2, c.c., secondo il quale il contratto non produce effetti nei confronti dei terzi se non nei casi previsti dalla legge, con la conseguenza che l’autonoma pretesa risarcitoria vantata dai congiunti del paziente per i danni ad essi derivati dall’inadempimento dell’obbligazione contratta dalla struttura sanitaria nei confronti del loro congiunto rileva nei loro confronti come illecito aquiliano e si colloca nell’ambito della responsabilità extracontrattuale (da ultimo, in questo senso, Cass. n. 14258 del 2020, Cass. n. 21404 del 2021; Cass. n. 11320 del 2022; Cass. n. 28959 del 2023).

La responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati iure proprio dai congiunti di un paziente deceduto, è dunque qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall’altro i parenti di quest’ultimo non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso i terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale>>.

E poi sulla regola iura novit curia:

<<Deve ritenersi che la domanda, nel suo nucleo immodificabile, va identificata non in relazione al diritto sostanziale eventualmente indicato dalla parte e considerato alla stregua dei fatti costitutivi della fattispecie normativa (che costituisce oggetto dell’attività qualificatoria rimessa al giudice), ma esclusivamente in base al bene della vita (sia esso la res o l’utilità ritraibile come effetto della pronuncia giudiziale) ed ai fatti storici-materiali che delineano la genesi e lo svolgimento della fattispecie concreta, così come descritta dalle parti e portata a conoscenza del Giudice.

Con la conseguenza che se i “fatti materiali”, come ritualmente allegati hinc et inde, rimangono immutati, è compito del giudice individuare quali tra essi assumano rilevanza giuridica, in relazione alla individuazione della fattispecie normativa astratta in cui tali fatti debbono essere sussunti, indipendentemente dal tipo di diritto indicato dalla parte. In tal senso si giustificano, del resto, le ipotesi di “cumulabilità” della domanda di risarcimento danni, là dove, a tutela del medesimo bene della vita, vengono a “concorrere” sia l’azione contrattuale che quella extracontrattuale, in quanto la modifica della azione non comporta il mutamento del quadro fattuale mediante allegazione di una diversa “condotta materiale”, lesiva dell’interesse giuridico protetto (in questo senso Cass. n. 10049 del 2022, che richiama a sua volta, ex aliis, Cass. 25/09/2018, n. 22540, secondo cui non immuta la “vicenda sostanziale” oggetto del giudizio, la sostituzione dell’originaria domanda del terzo trasportato, tesa a far valere la responsabilità del proprietario del veicolo fondata sul contratto di trasporto concluso tra le parti, con un’altra basata sulla presunzione di responsabilità del proprietario medesimo, ex art. 2054 cod. civ.).

Seguendo tale impostazione ci si allontana dal momento qualificativo astratto ex ante degli elementi giuridici identificativi della domanda, come riferibili ad una determinata fattispecie legale, dovendo invece procedersi progressivamente — secondo la evoluzione della attività allegatoria e deduttiva delle parti — alla esatta configurazione giuridica della pretesa, una volta che risultino compiutamente definiti ed immutati i fatti storici allegati dalla parte a sostegno della richiesta di tutela del bene della vita, elementi che vengono quindi a costituire il nucleo essenziale della domanda (v. Cass. 15/09/2020, n. 19186). L’esatta qualificazione della domanda proposta è quindi compito del giudice, che deve muoversi beninteso nel perimetro delle allegazioni dalle parti per non alterare il contraddittorio.

6.4. – Calando il discorso nel concreto, le signore Bo.Si. e Bo.Ba. hanno chiesto il risarcimento del danno subito, prospettando una responsabilità (contrattuale o extracontrattuale che essa fosse) della struttura sanitaria per aver dato causa alla morte del padre: in senso ampio sono formulate infatti le conclusioni originariamente contenute nell’atto di citazione, riportate a pag. 4 del ricorso. Hanno introdotto il fatto, di possibile rilevanza anche penalistica, della morte del padre in conseguenza del negligente operato dei medici. Hanno poi privilegiato la ricostruzione, a sé più favorevole, in termini di responsabilità contrattuale, ma la domanda è stata proposta ad ampio raggio.

Nel caso di specie, dunque, i fatti storici materiali posti a fondamento della dedotta responsabilità dell’azienda convenuta sono rimasti inalterati nel corso del giudizio (contatto del paziente con il pronto soccorso dell’ospedale – omessa diagnosi di infarto – dimissioni del paziente senza avvia di alcuna terapia, cui faceva seguito a due giorni di distanza la morte) e non sono incompatibili con una qualificazione dell’azione in termini di responsabilità extracontrattuale.

Sul punto non può ritenersi si fosse formato alcun giudicato interno: come rappresentato dal Pubblico Ministero, in appello era ancora in gioco la questione, dirimente, se la responsabilità fosse contrattuale o extracontrattuale. Il gravame era volto a contestare la riconduzione dell’illecito nell’area della responsabilità aquiliana piuttosto che nell’area della responsabilità contrattuale. Di conseguenza, entrambi i titoli di responsabilità erano, e sono restati, in discussione, nel corso del giudizio di impugnazione. Parallelamente, la discussione verteva sulla durata e sulla decorrenza della prescrizione.

L’illecito ipotizzato a carico dell’ospedale, il cui reparto di Pronto Soccorso non avrebbe individuato tempestivamente la patologia infartuale miocardica in atto, dimettendo il paziente senza ulteriori accertamenti e determinandone la morte nell’arco di due giorni, sarebbe riconducibile, ove positivamente accertato nel suo elemento materiale e nel nesso causale tra la condotta dei sanitari e l’evento infausto, alla ipotesi di rilevanza penale, astrattamente configurabile, dell’omicidio colposo. Così qualificato l’illecito, e ricondotto alla fattispecie di astratta rilevanza penalistica, il termine di prescrizione applicabile per l’azione di danni proposta iure proprio è quindi non il termine ordinario quinquennale, ritenuto applicabile dalla corte d’appello, ma il più lungo termine di prescrizione decennale previsto per il reato, applicabile ratione temporis (in quanto solo con la legge n. 251 del 2005, entrata in vigore l’8 dicembre 2005, e quindi non applicabile al caso di specie, che ha modificato, tra l’altro, il regime della prescrizione, è stata ridotta la durata del termine di prescrizione previsto per l’omicidio colposo a sei anni).

Si tratta peraltro di un principio più volte già affermato da questa Corte in relazione all’ipotesi dell’azione proposta iure proprio dai congiunti in dipendenza della morte di un componente della famiglia provocata da trasfusione di sangue infetto: “La responsabilità del Ministero della Salute per i danni da trasfusione di sangue infetto ha natura extracontrattuale, sicché il diritto al risarcimento è soggetto alla prescrizione quinquennale ex art. 2947, comma 1, c.c., non essendo ipotizzabili figure di reato (epidemia colposa o lesioni colpose plurime) tali da innalzare il termine ai sensi dell’art. 2947, comma 3, c.c.. ne consegue che in caso di decesso del danneggiato a causa del contagio, la prescrizione rimane quinquennale per il danno subito da quel soggetto in vita, del quale il congiunto chieda il risarcimento “iure hereditatis”, trattandosi pur sempre di un danno da lesione colposa, reato a prescrizione quinquennale (alla data del fatto), mentre la prescrizione è decennale per il danno subito dai congiunti della vittima “iure proprio”, in quanto, da tale punto di vista, il decesso del congiunto emotrasfuso integra omicidio colposo, reato a prescrizione decennale (alla data del fatto)” (Cass. n. 20882 del 2018; Cass. n.7553 del 2012)>>.

DAnno alla capacità lavorativa generica o specifica per un sedicenne? Sul danno biologico

Cass. sez. III, ord. 20/12/2023 n. 35.663, rel. Cirillo:

– I –

<<Come questa Corte ha già chiarito nella fondamentale ordinanza 27 marzo 2018, n. 7513, in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno dinamico-relazionale, atteso che con quest’ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale).

Si è detto in quella pronuncia, tra l’altro, che la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza d’una lesione della salute, non esce dall’alternativa: o è una conseguenza normale del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora si terrà per pagata con la liquidazione del danno biologico; ovvero è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d. personalizzazione: così già la sentenza 29 luglio 2014, n. 17219). Dunque le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti dinamico-relazionali, che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale. Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico.

A quest’orientamento, già ribadito, tra le altre, dall’ordinanza 28 settembre 2018, n. 23469, e dalla sentenza 11 novembre 2019, n. 28988, va data ulteriore e convinta continuità.

Ciò comporta che nel caso specifico è palese come le censure evidenziate nel motivo in questione siano prive di fondamento, perché le ragioni che i ricorrenti pongono a sostegno della necessità di un ulteriore risarcimento a titolo di personalizzazione si scontrano col dato obiettivo per il quale i danni lamentati sono da ritenere inevitabili per tutti quelli che hanno subito il medesimo tipo di lesione e sono, pertanto, da considerare già risarciti nella stima percentuale del danno biologico>>.

– II –

<<La sentenza impugnata, infatti, pur partendo da una premessa corretta, ne ha tratto una conclusione errata.

La decisione in esame mostra, innanzitutto, di compiere una certa confusione tra capacità lavorativa generica e specifica, essendo evidente che in relazione ad un ragazzo che aveva sedici anni all’epoca del sinistro può parlarsi solo di capacità lavorativa generica, per ovvie ragioni. Ciò premesso, la Corte di merito ha richiamato la sentenza 11 novembre 2019, n. 28988, di questa Corte, ma non ne ha compiuto una corretta applicazione.

E’ necessario ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ha recentemente ribadito (ordinanza 12 giugno 2023, n. 16628) che il danno di natura patrimoniale derivante dalla perdita di capacità lavorativa specifica richiede un giudizio prognostico sulla compromissione delle aspettative di lavoro in relazione alle attitudini specifiche della persona, mentre il danno da lesione della cenestesi lavorativa, di natura non patrimoniale, consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente, neanche sotto il profilo delle opportunità, sul reddito della persona offesa, risolvendosi in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo. Tale tipologia di danno, configurabile solo ove non si superi la soglia del 30 per cento del danno biologico, va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto (così la sentenza 28 giugno 2019, n. 17411, in linea con le precedenti ordinanze 9 ottobre 2015, n. 20312, e 22 maggio 2018, n. 12572; v. pure la sentenza 4 luglio 2019, n. 17931).

Ora, se è esatto affermare che il danno derivante dalla lesione della capacità lavorativa generica – la sola che può venire in considerazione nel caso di specie, trattandosi di un sedicenne – deve essere risarcito in termini di danno biologico, eventualmente, come si è detto, con un appesantimento del punto, va tuttavia rimarcato che tale criterio non è sempre utilizzabile quando il danno alla salute supera una certa soglia. La giurisprudenza di questa Corte ha mostrato, in argomento, alcune oscillazioni, nel senso che non tutte le decisioni sono concordi nell’indicare quale sia la soglia superata la quale la lesione del bene salute comporti di per sé, inevitabilmente, anche un danno patrimoniale. E tuttavia pare evidente che un danno da invalidità permanente nella misura del 36 per cento, caratterizzato dai disturbi così chiaramente illustrati dalla Corte d’appello (difficoltà di deambulazione, zoppia, basculamento del bacino) e accompagnato da un livello di istruzione certamente non elevato, non potrà che tradursi, secondo la regola causale del più probabile che non, anche in una diminuzione della capacità di lavorare e, quindi, di produrre un reddito. E’ ragionevole ritenere, infatti, che B.G. ben difficilmente svolgerà un lavoro intellettuale che, in astratto, potrebbe essere espletato anche da chi si trovi nella sua situazione senza maggiori difficoltà (se non in termini di cenestesi lavorativa); e quindi, dovendo egli probabilmente avviarsi ad un lavoro manuale, una diminuzione patrimoniale rientra nel novero delle possibilità che devono essere considerate.

La Corte d’appello, senza tenere conto di questo dato obiettivo, ha ritenuto di poter limitare il risarcimento al danno non patrimoniale. E, per di più, non ha neppure calcolato un appesantimento del punto di invalidità per tale ragione, giungendo alla sua conclusione senza uno specifico esame della situazione concreta, ma limitandosi ad affermare che non è lecito elevare il danno alla capacità lavorativa generica e autonoma ad ulteriore posta risarcitoria una volta che sia stato ristorato il danno alla salute. Conclusione, questa, che, assunta nella sua assolutezza, non è conforme alla giurisprudenza di questa Corte.

Ne consegue che tale profilo dovrà, dunque, essere riesaminato in sede di giudizio di rinvio, se del caso avvalendosi anche della prova per presunzioni (v. la suindicata ordinanza n. 11750 del 2018)>>.