Concorrenza sleale verso Amazon per recensioni fasulle e prezzolate

Provvedimento cautelare interessante, anche non del tutto condivisibile, quello emesso da Trib. Milano sez. impr., ord., 21 marzo 2024, giudice Dal Moro (menzionato in molti siti; testo preso da Foro Italiano-News), Amazon EU sarl+1 c. DP.

La cautela inibitoria si basa su slealtà concorrenziale (art. 2598 n. 3 cc), data dalla falsità delle recensioni fatte apparire sul marketplace di Amazon in attuazione di apposito business (l’anonimato del quale e del suo sito è facilmente superabile con qualche rapida ricerca in rete e probabilmente pure dalla pubblicazione ordinata dal giudice sui siti Altroconsumo e Codacons)

In breve il soggetto pagava chi andava poi a disporre (o aveva in precedenza disposto) recensioni false su questo o quel venditore.

L’illiceità è sicura. Altrettanto non è la qualificazione come concorrenza sleale, mancando il rapporto di concorrenza.

Il Trib. opina in senso opposto: <<In secondo luogo, pare altrettanto indubitabile che l’attività economica svolta nella specie (offerta del servizio di recensione) concorra con quella medesima svolta da Amazon sul medesimo mercato, posto che quest’ultimo, come affermato anche in sede di legittimità, è identificato dalla “comunanza di clientela” da intendersi come “insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti (beni o servizi n.d.r.) che sono in grado di soddisfare quel bisogno”, e che, quindi, l’attività in concreto svolta deve identificarsi anche alla luce dell'”esito di mercato fisiologico e prevedibile”, e comprenda, perciò, servizi “affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale”.
Il “mercato dell’offerta in vendita” su cui opera Amazon si articola anche in un segmento specifico identificato nel servizio accessorio e funzionale delle recensioni dei prodotti venduti, il quale viene svolto anche dal sig. P., con strumenti che lo rendono illecito non solo perché mira a falsare la genuinità del riscontro del consumatore/ acquirente, ma anche perché si avvale in maniera subdola dello strumento che Amazon stessa utilizza per rendere detto servizio, alterandone la veridicità e l’affidabilità con conseguente grave danno all’immagine e alla reputazione della ricorrente. >>

La concorenzialità invece manca: Amazon trae ricavi dalla percentuale sui ricavi conseguiti dal venditore, non dalle recensioni, che sono solo strumentali a creare affidabilità verso il marketplace.

Nemmeno il periculum in mora pare esistere.

Dice invece di si il Trib.: <<Il Tribunale ritiene che sussista, altresì, il periculum in mora presupposto dell’emissione del richiesto provvedimento cautelare. Infatti, in assenza di un provvedimento urgente, appare fondato il timore che nell’attesa di una decisione di merito la prosecuzione di siffatta condotta illecita possa concorrere a causare pregiudizi difficilmente riparabili se non irreparabili in termini di credibilità della piattaforma di vendita on line ricorrente, considerando anche che risulta che il business illecito del P. si rivolga in modo prevalente a detta piattaforma e che stia, altresì, intensificandosi con particolare riferimento proprio alla medesima (cfr. doc. 18 e doc. 19, contenenti “screenshot” del sito (omissis), rispettivamente, alla sezione “bestsellers” in cui vengono pubblicizzati cinque pacchetti di recensioni false tre dei quali riferibili allo store Amazon, e alla sezione “nuovi arrivi” in cui vengono pubblicizzati pacchetti di recensioni false esclusivamente riferibili allo store Amazon)>>.

Che per qualche mese in più di opertività vernga irreparabilmente lesa la credibilità di Amazon, non è molto credibile. Si tenga infatti conto da un lato che una larga parte delle recensioni in rete è  di assai dubbia veridicità  e, dall’altro, che si tratta di fatto notorio (basta una rapida googlata di articoli in proposito).

L’irreparabilità poi andrebbe comunque argomentata un pò meglio.

Amazon è corresponsabile di violazione di marchio per i prodotti contraffatti venduti sul suo marketplace

Sentenza euroepa di notevole rilievo sul tema in oggetto: Corte Giustizia 22.12.2022, cause riunite C-148/21 e C-184/21, Louboutin c. Amazon.

Louboutin L. agì contro Amazon (A.) per violazione di marchio azionando la norma corrispondente all’art. 9.2.a) dir,. 2017/1001. e spt. il § 3.b).

Quesito: << Con le loro questioni, che devono essere esaminate congiuntamente, i giudici del rinvio chiedono, in sostanza, se l’articolo 9, paragrafo 2, lettera a), del regolamento 2017/1001 debba essere interpretato nel senso che si possa ritenere che il gestore di un sito Internet di vendita online che integra, oltre alle proprie offerte di vendita, un mercato online usi esso stesso un segno identico a un marchio dell’Unione europea altrui per prodotti identici a quelli per i quali tale marchio è stato registrato, quando venditori terzi propongono in vendita su detto mercato, senza il consenso del titolare del citato marchio, siffatti prodotti recanti il suddetto segno. Essi si chiedono, in particolare, se sia rilevante a tal riguardo il fatto che detto gestore ricorra a una modalità di presentazione uniforme delle offerte pubblicate sul suo sito Internet, mostrando allo stesso tempo gli annunci relativi ai prodotti che vende in nome e per conto proprio e quelli relativi a prodotti proposti da venditori terzi su tale mercato, che esso faccia apparire il proprio logo di noto distributore su tutti i suddetti annunci e offra ai venditori terzi, nell’ambito della commercializzazione dei loro prodotti, servizi complementari consistenti nel fornire assistenza per la presentazione dei loro annunci nonché nello stoccaggio e nella spedizione dei prodotti proposti sul medesimo mercato. In siffatto contesto, i giudici del rinvio si interrogano altresì sulla questione se occorra prendere in considerazione, eventualmente, la percezione degli utenti del sito Internet in questione.>>, § 23.

risposta:

1° passo: <<Pertanto, per accertare se un annuncio, pubblicato su un sito Internet di vendita online che integra un mercato online da un venditore terzo attivo su quest’ultimo, che utilizza un segno identico a un marchio altrui possa essere considerato parte integrante della comunicazione commerciale del gestore di detto sito Internet, occorre verificare se tale annuncio possa stabilire un nesso tra i servizi offerti da detto gestore e il segno in questione, per il motivo che un utente normalmente informato e ragionevolmente attento potrebbe ritenere che sia il suddetto gestore a commercializzare, in nome e per conto proprio, il prodotto per il quale viene utilizzato il segno in questione.>>, § 48.

<< Per quanto riguarda, in primo luogo, la modalità di presentazione di tali annunci, si deve ricordare che la necessità che gli annunci su Internet siano mostrati in modo trasparente è sottolineata nella legislazione dell’Unione sul commercio elettronico (sentenza del 12 luglio 2011, L’Oréal e a., C‑324/09, EU:C:2011:474, punto 95). Gli annunci pubblicati su un sito Internet di vendita online che integra un mercato online devono quindi essere presentati in modo da consentire a un utente normalmente informato e ragionevolmente attento di distinguere facilmente le offerte provenienti, da un lato, dal gestore di tale sito Internet e, dall’altro, da venditori terzi attivi sul mercato online ivi integrato (v., per analogia, sentenza del 12 luglio 2011, L’Oréal e a., C‑324/09, EU:C:2011:474, punto 94).

51      Orbene, la circostanza che il gestore di un sito Internet di vendita online che integra un mercato online ricorra a una modalità di presentazione uniforme delle offerte pubblicate sul suo sito Internet, mostrando allo stesso tempo i propri annunci e quelli dei venditori terzi e facendo apparire il proprio logo di noto distributore tanto sul suo sito Internet quanto su tutti i suddetti annunci, compresi quelli relativi a prodotti offerti da venditori terzi, può rendere difficile tale chiara distinzione e dare quindi all’utente normalmente informato e ragionevolmente attento l’impressione che sia il suddetto gestore a commercializzare, in nome e per conto proprio, anche i prodotti offerti in vendita dai menzionati venditori terzi. Pertanto, se detti prodotti recano un segno identico a un marchio altrui, tale presentazione uniforme è idonea a creare un collegamento, agli occhi di siffatti utenti, fra il segno in questione e i servizi forniti dal medesimo gestore.

  In particolare, quando il gestore di un sito Internet di vendita online associa alle varie offerte, provenienti da lui stesso o da terzi, senza distinzioni in funzione della loro origine, etichette quali «bestseller», «i più desiderati» o «i più regalati», al fine segnatamente di promuovere alcune di tali offerte, siffatta presentazione è idonea a rafforzare nell’utente normalmente informato e ragionevolmente attento l’impressione che i prodotti così promossi siano commercializzati da detto gestore, in nome e per conto proprio.>>, §§ 49-50.

2° passo:

< In secondo luogo, la natura e la portata dei servizi forniti dal gestore di un sito Internet di vendita online che integra un mercato online ai venditori terzi che propongono su tale mercato prodotti recanti il segno in questione, come quelli consistenti, in particolare, nel trattamento delle domande degli utenti relative a tali prodotti o nello stoccaggio, nella spedizione e nella gestione dei resi di detti prodotti, possono del pari dare l’impressione, a un utente normalmente informato e ragionevolmente attento, che questi stessi prodotti siano commercializzati da detto gestore, in nome e per conto proprio, e quindi creare un nesso, agli occhi di tali utenti, tra i suoi servizi e i segni che appaiono su detti prodotti nonché negli annunci dei menzionati venditori terzi>>, § 53.

Risposta finale:

<<l’articolo 9, paragrafo 2, lettera a), del regolamento 2017/1001 deve essere interpretato nel senso che si può ritenere che il gestore di un sito Internet di vendita online che integra, oltre alle proprie offerte di vendita, un mercato online utilizzi esso stesso un segno identico a un marchio dell’Unione europea altrui per prodotti identici a quelli per i quali tale marchio è stato registrato, quando venditori terzi propongono in vendita sul mercato in parola, senza il consenso del titolare di detto marchio, siffatti prodotti recanti il suddetto segno, se un utente normalmente informato e ragionevolmente attento di tale sito stabilisce un nesso tra i servizi del menzionato gestore e il segno in questione, il che si verifica in particolare quando, tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione di cui trattasi, un utente siffatto potrebbe avere l’impressione che sia il gestore medesimo a commercializzare, in nome e per conto proprio, i prodotti recanti il suddetto segno. È rilevante a tale riguardo il fatto che detto gestore ricorra a una modalità di presentazione uniforme delle offerte pubblicate sul suo sito Internet, mostrando allo stesso tempo gli annunci relativi ai prodotti che vende in nome e per conto proprio e quelli relativi a prodotti proposti da venditori terzi su tale mercato, che esso faccia apparire il proprio logo di noto distributore su tutti i suddetti annunci e che esso offra ai venditori terzi, nell’ambito della commercializzazione dei prodotti recanti il segno in questione, servizi complementari consistenti in particolare nello stoccaggio e nella spedizione di tali prodotti.>>, § 54

Sulla responsabilità di Amazon per prodotti in violazione di marchio venduti da terzi sul suo marketplace

Sono arrivate la conclusioni 02.06.2021 del bravo avvocato generale Szpunar nella causa C-148/21 e C-184/21, Louboutin c. Amazon.

Il quesito è semplice ma importante: Amazon è responsabile per le contraffazioni di marchio realizzate da terzi con prodotti venduti sul suo market place tramite i servizi accessori di stoccaggio e distribuzione?

L’AG dice di no e la analisi è incentrata sul cocnetto di <uso> posto dalla dir. 2017/1001 art. 9.2.

Si noti che si tratta di responsabilità diretta per violazione di disciplina sui marchi, che è armonizzata a livello euroeo: non di quella indiretta per concorso in illecito civile generale , ancora di competenzxsa nazionale (la distinzione è ricordata dall’AG, § 76 ss):

A parte che le categorie responsabilità diretta/indiretta hanno base teorica precaria , dato che l’art. 2055 non distingue , vediamo i punti salienti del ragionamento.

Il primo è quello per cui l’analisi va fatta dal punto di vista dell’utente medio dei prodotti de quibus, §§ 58-61 e § 72.

Il secondo è che A. è precisa nel distinguiere i segni distintivi propri da quelli usati dai clienti sul marketplace, § 86.

Nemmeno i servizi aggiuntivi e valore aggiunto di stoccaggio e distribuzione possono dire che ci sia un USO del segno altrui da parte di A., §§ 92 e 95

Si può concordare o meno col ragionamento.   L’AG comunque pare svalutare il riferimento nell’art. 9/3 del cit. reg. 2017/1001 allo stoccaggio e alla comunicazione commerciale.       Se in queste fasi della sua attività A. permette l’uso di segni in violazione, come può dirsi che non ne faccia <uso>? Quanto meno come concorso, fattispecie da ritenersi rientrante nell’armonizzazione europea (non potendosi farvi rientrare solo le violazioni monosoggettive)?

Dato il modello di business di A., il problema poi può porsi anche per altre privative armonizzate (diritto di autore, design) .

Può forse porsi anche per altre discipline settoriali come la responsabilità del produittore (però A. è ben attenta a dare tutte le informazioni sul  prodotture per evitare l’applcaizione dell’art. 116 cod. cons.) o la garanzia di conformità ex art. 128 cod. cons. (A. può considerarsi <venditore> quando eroga i citt. servizi aggiuntivi?)

Responsabilità di Amazon da prodotto difettoso anche se venduto (suo tramite) da venditore terzo?

la corte di appello della california affronta la ormai nota questione del se Amazon (A.) sia responsabile per i danni provocati da prodotti venduti da terzi tramite il suo marketplace: C. of Appeal of California, Loomis c. Amazon.com LL.CC., 26.04.0221 , n° B297995.

Si era trattato di uno hoover che, messo in carica, aveva preso fuoco e rischiato di incendiare l’abitazione,p. 2-3.

A p. 3 segg. sono indicati i tipi di vendita tramite A. , tra cui il <Fullfilment by Amazon – FBA> (con stoccaggio), ma non usato nel caso de quo.

A p. 5 ss i dati di vendita di hoover via A. (in totale più di 380.000 nel 2015). Proprio nel periodo di acquisto de quo , A. aveva rilevato rischi di difetto sugli hoover e aveva tentato di richiamarli.

A p. 10 ss la teria della strict liability che coinvolge qualunque impresa della catena di produzione e marketing.: <<Under the marketing enterprise theory or stream of commerce approach, the plaintiff must show: “(1) the defendant received a direct financial benefit from its activities and from the sale of the product; (2) the defendant’s role was integral to the business enterprise such that the defendant’s conduct was a necessary factor in bringing the product to the initial consumer market; and (3) the defendant had control over, or a substantial ability to influence, the manufacturing or distribution process.” (Id. at p.776; Kasel v. Remington Arms Co. (1972) 24 Cal.App.3d 711 (Kasel).)>>, p. 12

A p. 12  è anche esamianto il precedente Bolger v. Amazon, pure sfavorevole ad A.

Il succo è al § D.1, p. 16 ss: <<Contrary to Amazon’s assertion that it merely provided an online storefront for TurnUpUp and others to sell their wares, it is undisputed Amazon placed itself squarely between TurnUpUp, the seller, and Loomis, the buyer, in the transaction at issue. When Loomis wanted to buy a hoverboard for her son, she perused product listings on Amazon’s website. Amazon took Loomis’s order and processed her payment. It then transmitted the order to TurnUpUp, who packaged and shipped the product to Loomis.
When Loomis wondered whether the hoverboard would arrive in time for Christmas, she communicated her concerns through Amazon. TurnUpUp was not allowed to communicate with Loomis directly. If Loomis had wanted to return the hoverboard, the return would have been routed through Amazon.
Amazon remitted Loomis’s payment to TurnUpUp after deducting its fees, including a 15 percent referral fee based on the total sale price. These facts undermine Amazon’s characterization of its marketplace as an online mall providing online storefronts for sellers. Owners of malls typically do not serve as conduits for payment and communication in each transaction between a buyer and a seller. Moreover, they do not typically charge a per-item fee rather than a fixed amount to rent their storefronts. Instead, these actions – 1) interacting with the customer, 2) taking the order, 3) processing the order to the third party seller, 4) collecting the money, and 5) being paid a percentage of the sale – are consistent with a retailer or a distributor of consumer goods>>.

Non adattandosi bene l’e-commerce alla dottrina tradizinale,  la corte invoca la c.d. stream of commerce approach or market enterprise theory per la strict liability: <<“[U]nder the stream-of-commerce approach to strict liability no precise legal relationship to the member of the enterprise causing the defect to be manufactured or to the member most closely connected with the customer is required before the courts will impose strict liability. It is the defendant’s participatory connection, for his personal profit or other benefit, with the injury-producing product and with the enterprise that created consumer demand for and reliance upon the product (and not the defendant’s legal relationship (such as agency) with the manufacturer or other entities involved in the manufacturing-marketing system) which calls for imposition of strict liability. [Citation.]” (Kasel , supra, 24 Cal.App.3d at p. 725.) Thus, a defendant may be strictly liable under the stream of commerce approach if: “(1) the defendant received a direct financial benefit from its activities and from the sale of the product; (2) the defendant’s role was integral to the business enterprise such that the defendant’s conduct was a necessary factor in bringing the product to the initial consumer market; and (3) the defendant had control over, or a substantial ability to influence, the manufacturing or distribution process.” (Bay Summit, supra, 51 Cal.App.4th at p. 778.)>>

Si notino i tre requisiti, di seguito (p. 18 ss) analizzati e  ravvisati nel caso de quo.

Nauturalmente anche la difesa per cui  a. è un mero service provider, a  questo punto, non vale, p. 20 ss

Da ultimo sono interessanti le ragioni di policy enunciate : <<As noted earlier in this opinion, the relevant public policy considerations are: (1) whether Amazon may play a substantial part in insuring that the product is safe or may be in a position to exert pressure on the manufacturer to that end, (2) whether Amazon may be the only member in the distribution chain reasonably available to the injured plaintiff, and (3) whether Amazon is in a position to adjust the costs of compensating the injured plaintiff amongst various members in the distribution chain. (Vandermark, supra, 61 Cal.2d at pp. 262-263.)>>. Vengono analizzate partitatmente e ritenuti applicabili al caso sub iudice, tali da portare al giudizio sfavorevole ad A., p. 24 ss

Esito non diverso per l’azione di negligence generale, p.28/9

E’ infine assai interessante la lunga concurring opinion del giudice Wiley, allegata. Oltre a trovare ammissione (confessione) di A. secondo cui può influire e controllare i prodotti sicchè ne ha strict liability, p. 4, vale la pena di leggere le considerazioni sulla cost-benefit analysis nella tort law: sia in generale 4 ss., che in alcuni precedenti giudiziari, 8 ss .

Egli conclude così: <<In a nutshell, plaintiff Wilkinson proposed requiring secondhand dealers to take expensive safety measures: dismantling, inspecting, repairing, and granting a mandatory warranty. The court, quite reasonably, was not convinced these steps were cost-effective in light of the existing strict liability duties on the original manufacturer and its original distribution network. Wilkinson’s proposed safety measures were too expensive and ineffective to be socially desirable. So Hicks owed no strict liability duty to Wilkinson. (Accord, Brejcha v. Wilson Machinery, Inc. (1984) 160 Cal.App.3d 630; Tauber–Arons Auctioneers Co. v. Superior Court (1980) 101 Cal.App.3d 268.). In contrast, the measures Amazon can take to minimize the cost of accidents are cost-effective and socially efficient ….. Amazon’s citations thus offer it no support. All involve defendants who, unlike Amazon, had no cost-effective way to reduce the costs of accidents. This case is easy. Amazon is well situated to take cost-effective measures to minimize the social costs of accidents. Strict liability will prompt this beneficial conduct. Loomis wins this appeal. The case will return to the trial court for resolution of issues the appeal has not addressed.>>, p. 20 e 22

Marketplace di Amazon, § 230 e prodotti pericolosi

Poco comprensibile decisione statunitense di una lite relativa a responsabilità da prodotto difettoso. Si tratta di US Distr. Court-South D. of New York, 30.11.2020, Brodie c. Green Spot Foods, Amazon services ed altri,  caso n° 1:20-cv-01178-ER.

La sig.ra Brodie aveva acquistato su Amazon (poi: A.) un prodotto alimentare , sostitutivo della pasta, chiamato <Better than Pasta> , a base di radici orientali dette <konjak>. Il venditore era tale Green Spot Foods.

Il prodotto si era rilevato pericoloso, dato che aveva creato non piccoli problemi di salute all’acquirente.

Qui riporto sul problema della (cor-)responsabilità di A.

Il giudice accoglie la domanda per negligence e per breach of implied warranty  (claim I e II); la rigetta per il claim III (breach of express warranty); la rigetta pure per <Deceptive Practices and False Advertising Under N.Y. Gen. Bus. Law §§ 349 and 350> (claim IV), p. 11 ss

Qui interessa quest’ultimo (claim IV).

La domanda di pratica ingannatoria viene rigettata sulla base del safe harbour costituito dal § 230 CDA: disposizione che esenta da responsabilità il provider per informazioni provenienti da terzi e divulgate tramite la sua piattaforma.

Dice così la corte: <<In line with these cases, the Court inds that Amazon is immune under the CDA. The parties do not dispute that Amazon qualifies as a provider of an interactive computer service. Instead, the question is whether Amazon can be considered an information content provider with respect to Better than Pasta’s advertising, and the Court inds that it is not. There is insufficient factual pleading supporting the plausible inference that Amazon itself created or edited any of the Better than Pasta advertising content. Brodie alleges that Green Spot is “the primary entity responsible for” the product’s advertising and manufactured, packaged, and initially created all advertising for the product. … Further, while Brodie asserts that the BSA handed Amazon editorial control over what Green Spot materials were published,  ….. Brodie does not allege that Amazon actually exercised this control to alter or modify advertising materials received from Green Spot, nor alleges facts giving rise to such an inference>>.

Solo che poco sopra (p. 5 nota 3 e testo relativo) il giudice aveva preso per buona la concorde qualificazione  per cui A. è un retailer (rivenditore/dettagliante) e cioè dante causa della sig.ra Brodie. Ciò probabilmente per l’intenso coinvolgimento di A. nella gestione della presenza sul marketplace e delle vendite.

Ora, se A.  è rivenditore, non si vede come possa dirsi che l’informazione difettosa sul prodotto (il mancato avviso della sua rischiosità/pericoosità) provenga dal terzo venditore. E’ infatti A., in thesi, colui che vende al consumatore: pertanto le informazioni di ciò che vende vanno a lui ricondotte, anche se si fosse in toto affidato (de relato) ai contenuti informativi provenienti dal venditore operante sul suo marketplace.

Si tratta infatti di content provider: <<The term “information content provider” means any person or entity that is responsible, in whole or in part, for the creation or development of information provided through the Internet or any other interactive computer service.>>, § 230 (f)(3) CDA