Un provvedimento cautelare romano esamina i due temi in oggetto. Si tratta della odinanza cautelare 08.04.2020, RG 8159/2017-8159-1/2017, giudice Guido Romano, relativa all’azione di responsabilità contro gli amministratori di Enpam Sicura srl (di cui socio unico era Enpam, cassa di previdenzxa dei medici).
L’ordinanza è leggibile in www.giurisprudenzadelleimprese.it con massime di P.F. Mondini.
1° – Circa il primo profilo il tribunale si adegua all’orientamento dominante, secondo cui la richiesta di cancellazione di una società di capitali, in presenza di posti attive, comporta tacita rinuncia ai crediti relativi.
<<dunque, la giurisprudenza distingue, nell’ambito delle posizioni attive residue, non definite o sopravvenute, a seconda che si tratti di posizioni «gestite» da parte del liquidatore prima di richiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese, oppure di mere pretese rispetto alle quali il mancato espletamento di un’attività di gestione delle medesime, da parte del liquidatore, fa presumere un disinteresse e, quindi, una tacita rinunzia da parte della società, poi estinta. Con riferimento alle prime, invece, l’effetto «rinunziativo» è impedito da una attività – «ulteriore» rispetto alla sola cancellazione della società dal registro delle imprese – del liquidatore, consistente in una «espressa» gestione della posizione, attraverso, ad es., la cessione del credito (ancorché litigioso) a terzi e l’inclusione del corrispettivo nel bilancio di liquidazione (e, dunque, nella distribuzione del ricavato) ovvero ancora nella attribuzione di un diritto già azionato ad un determinato socio (con menzione nella nota integrativa)>> p. 8/9
Nel caso specifico il giudice rigetta la domanda di accertamento di tacita rinuncia, dal momento che il giudizio introdotto da Enpam andava qualificato come rapporto giuridico “coltivato” prima di procedere a chiedere la cancellazione. Per questo il credito non è ritenuto abbandonato e nella suta titolarità sono subentrati i soci (socio unico) della società cancellata. Tuttavia Il tribunale dichiara in generale di attenersi all’orientamento dominante.
Qui mi limito a dire che tale tesi, del tutto dominante, non persuade. Infatti l’atto di rinuncia comportante l’abdicazione ad un proprio diritto per poter essere ravvisato nella modalità tacita richiede fatti del tutto significativi, inequivocabilmente concludenti: certo tale non è una semplice condotta omissiva, quale la non menzione nel bilancio di liquidazione e/o nella delibera di assegnazione ai soci subentranti uti singuli.
La remissione del debito (art.1236 cc), che per i più è un negozio unilaterale, può sì consistere in condotte diverse dalla dichiarazione ad hoc: purchè, tuttavia, si tratti di fatti concludenti e non equivoci. La legge stessa ne ipotizza uno: restituzione volontaria del titolo originale ex art. 1237/1.
La posizione maggioritaria cennata, dunque, non trova rispondenza nell’ordinamento-.
2° – E’ invece condivisibile l’affermazione, secondo cui -in tema di responsabilità degli amministratori- la business judgment rule si applica non solo alle scelte gestionali in senso stretto ma anche a quelle (per così dire a monte) di tipo organizzativo.
La tesi è da molti contestata; a me pare invece esatta.
Il tribunale dà per scontati profili importanti come la natura contrattuale dell’azione sociale (rectius della responsabilità fatta valere con l’azione sociale), e come la natura colposa della responsabilità, trascurando che questo tema -al netto di molta confusione terminologico/concettuale- è molto controverso nella responsabilità contrattuale generale (forse proprio per la confusione).
A parte ciò però (e una certa imprecisione da dove a pagina 15 chiede la riconducibilità della lesione- invece che del danno- al fatto dell’amministratore), le successive considerazioni in tema di business Judgement rule convincono. Vale la pena di riportarle.
Il tribunale procede dicendo che<<il principio della insindacabilità delle scelte di gestione non è assoluto, avendo la giurisprudenza elaborato due ordini di limiti alla sua operatività. La scelta di gestione è insindacabile, in primo luogo, solo se essaè stata legittimamente compiuta (sindacato sul modo in cui la scelta è stata assunta) e, sotto altro aspetto, solo se non è irrazionale (sindacato sulle ragioni per cui la scelta compiuta è stata preferita ad altre)>>Pagina 15/16.
Ricordato il dovere di curare l’adetguatezza dell’assetto ex art. 2381 cc (p. 16 in fine), il tribunale così osserva:
<<Ebbene, sebbene debba darsi atto di un orientamento dottrinario che ritiene che on sia possibile traslare i principi che sorreggono la regola sopra evidenziata alle scelte non gestorie, ma organizzative, ritiene il Tribunale che sia condivisibile la conclusione favorevole. In tale prospettiva, in estrema sintesi, si evidenzia che la funzione organizzativa rientra pur sempre nel più vasto ambito della gestione sociale e che essa deve necessariamente essere esercitata impiegando un insopprimibile margine di libertà, per cui le decisioni relative all’espletamento della stessa vengono incluse tra le decisioni strategiche. In altre parole, la predisposizione di un assetto organizzativo non costituisce l’oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell’impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere. E va da sé che tale obbligo organizzativo può essere efficacemente assolto guardando non tanto a rigidi parametri normativi (non essendo enucleabile dal codice un modello di assetto utile per tutte le situazioni), quanto ai principi elaborati dalle scienze aziendalistiche ovvero da associazioni di categoria o dai codici di autodisciplina. Così, come è stato efficacemente affermato, l’esistenza di un ambito discrezionale entro il quale gli amministratori possono compiere le loro scelte aventi carattere organizzativo deriva dal fatto che il legislatore ha utilizzato come criterio di condotta, a cui essi devono attenersi nella configurazione e nella verifica degli assetti societari, la clausola generale dell’adeguatezza e, dunque, una clausola elastica, al pari, della clausola di diligenza dovuta nel realizzare una scelta imprenditoriale. In definitiva, la scelta organizzativa rimane pur sempre una scelta afferente al merito gestorio, per la quale vale il criterio della insindacabilità e ciò pur sempre nella vigenza dei limiti sopra esposti e, cioè, che la scelta effettuata sia razionale (o ragionevole), non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell’incarico>>
Nulla da aggiungere, tutto esatto (tranne, volendo sottilizzare: l’adeguatezza non è clausola elastica, al pari della diligenza: l’adeguatezza è proprio la diligenza, applicata al profilo organizzativo della prestazione gestoria).
Del resto a ben vedere non può che essere così: dovunque ci sia discrezionalità e cioè pluralità di scelte tutte ex-ante razionalmente giustificabili, non si può che lasciare libero l’amministratore. Ci si deve infatti sempre mettere nell’ottica ex ante e curando al massimo (con specifico sforzo psicologico) di non farsi depistare dal senno di poi, c.d. hindsight bias
Questa affermazione di applicabilità della b.i.r. alle scelte organizzative è stata successivamente condivisa da Trib. Roma sez. spec. decr. 24.09.2020, rel. Bernardo, Giuffrida e aa. c. Prandi e aa., Foro. it., 2020/12, 3965 (che richiama il precedente “concittadino” di aprile).
Questa pronuncia del 2020, però, limita il concetto di <gestione>, quando il cocnetto sia quello di cui all’art. 2409 cc (gravi irregolarità), osservando: <<La nuova formulazione della norma, che fa riferimento all’esistenza del fondato sospetto di «gravi irregolarità nella gestione» — a differenza della precedente formulazione dell’art. 2409 c.c. che richiedeva il «fondato sospetto di gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori e dei sindaci» — consente di affermare come non assuma rilievo qualsiasi violazione di doveri gravanti sull’organo amministrativo, ma soltanto la violazione di quei doveri idonei a compromettere il corretto esercizio dell’attività di gestione dell’impresa e a determinare pericolo di danno per la società amministrata o per le società controllate, con esclusione di qualsiasi rilevanza, invece, dei doveri gravanti sugli amministratori per finalità organizzative, amministrative, di corretto esercizio della vita della compagine sociale e di esercizio dei diritti dei soci e dei terzi estranei.>>
Il punto è interessante e merita approfondimento. A prima vista però pare arbitrario restringere il concetto di gestione nell’art. 2409 mentre lo si allarga nell’art. 2392. Nè giova la differenza di dettato tra la precedente (gr. irr. nell’adempimento dei doveri) e l’attuale versione (gr. irr. nella gestione) dell’art. 2409, come opina il Tribunale: anche nell’art. 2392, infatti, si parla indirettamente ma sicuramente di doveri <gestionali>, dato che per l’art. 2381/1 agli amministratori incombe proprio la gestione dell’impresa (è irrilevante che la disposizione, sotto il profilo letterale, non menzioni <obblighi>) (ma non cambierebbe nulla anche considerando solamente l’art. 2392 cc).