Presupposti e onere della prova della petitio hereditatis (e differenza dall’azione di rivendica)

Utili precisazini in Cass. sez. II, 07/04/2025 n. 9.153, rel. Pirari:

<<

È ben noto, invero, che il recupero, da parte dell’erede, dei beni ereditari di cui sia nel possesso un terzo, sia in qualità di erede, sia senza titolo, avviene con l’esercizio dell’azione di petizione ereditaria ex art. 533 cod. civ., la quale, oltre ad avere natura reale e non contrattuale, è fondata sull’allegazione della qualità di erede con la finalità di conseguire il rilascio dei beni compresi nell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione da chi li possiede senza titolo o in base a titolo successorio che non gli compete, ma non quelli che, al momento dell’apertura della successione del de cuius, erano già fuoriusciti dal suo patrimonio e che, in ragione di ciò, non possono essere considerati quali beni ereditari (in tal senso, Cass., Sez. 2, 17/10/2024, n. 26951; Cass., Sez. 2, 4/4/2024, n. 8942).

Questa azione consente, peraltro, di chiedere sia la quota dell’asse ereditario, sia il suo valore, potendo così assumere tanto natura di azione di accertamento o funzione recuperatoria (Cass., Sez. 6-2, 24/9/2020, n. 20024), quanto di condanna al rilascio dei beni ereditari posseduti dal convenuto a titolo di erede (Cass., Sez. 2, 19/1/1980, n. 461).

In sostanza, la petitio hereditatis, la cui legittimazione spetta dal lato attivo e passivo soltanto, rispettivamente, a colui che adduce la sua qualità di erede e a colui che sia in possesso dei beni di cui il primo chiede la restituzione (nei sensi suddetti, tra le tante, Cass., Sez. 2, 1/4/2008 n. 8440; Cass., Sez. 2, 22/07/2004, n. 13785; Cass., Sez. 2, 15/3/2004 n. 5252; Cass., Sez. 2, 02/08/2001, n. 10557), si fonda pur sempre sull’allegazione di uno status, l’universum jus ereditario, ed ha per oggetto beni che vengono riguardati come elementi costitutivi dello universum jus o quota parte di esso (Cass., Sez. 2, 19/4/1979, n. 2211), presupponendo, perciò, l’accertamento della sola qualità ereditaria dell’attore o di diritti che a costui spettano iure hereditatis, qualora siano contestati dalla controparte, differenziandosi così dalla rei vindicatio, malgrado l’affinità del petitum. Da ciò consegue, quanto all’onere probatorio, che, mentre l’attore in rei vindicatio deve dimostrare la proprietà dei beni attraverso una serie di regolari passaggi durante tutto il periodo di tempo necessario all’usucapione, nella hereditatis petitio può invece limitarsi a provare la propria qualità di erede (anche mediante atto notorio o certificazione rilasciata dall’Ufficiale dello Stato civile, cfr. Cass., Sez. 2, 15/03/2004, n. 5252; Cass., Sez. U, 22/03/1969, n. 921) ed il fatto che i beni, al tempo dell’apertura della successione, fossero compresi nell’asse ereditario (Cass., Sez. 2, 19/3/2021, n. 7871; Cass., Sez. 2, 16/01/2009, n. 1074; Cass., Sez. 2, 22/07/2004, n. 13785; Cass., Sez. 2, 15/03/2004, n. 5252; Cass., Sez. 2, 02/08/2001, n. 10557; Cass., Sez. 2, Sez. 2, 19/04/1979, n. 2211), se contestato.

Né vale a immutare la qualificazione dell’azione in azione di rivendicazione il fatto che il convenuto non contesti la qualità di erede dell’attore, come preteso dal ricorrente, sia in quanto, ai fini della configurabilità di detta azione, è sufficiente che sia contestato anche uno solo dei suoi necessari presupposti, ossia la qualità di erede dell’attore o la sussistenza di diritti che a lui spettano jure hereditario (Cass., Sez. 2, 19/04/1979, n. 2211), sia in quanto la mancata contestazione della qualità di erede non fa venire meno le finalità recuperatorie della petizione ereditaria (Cass., Sez. 2, 16/1/2009, n. 1074).

Da ciò consegue che, qualora il convenuto non contesti la qualità di erede dell’attore, ma si limiti a negare l’appartenenza del bene all’asse ereditario (come appunto nella fattispecie in esame), l’azione di petizione ereditaria non si trasforma in azione di rivendicazione, in quanto tale situazione non fa venire meno le finalità recuperatorie della petizione ereditaria, ma produce effetti solo sul piano probatorio, esonerando l’attore dalla prova della sua qualità, fermo restando l’onere – nei limiti relativi alla difesa della controparte – dell’appartenenza del bene all’asse ereditario al momento dell’apertura della successione (Cass., Sez. 2, 18/7/2012, n. 14732; Cass., 20/10/1984, n. 5304).

Proprio in considerazione della natura recuperatoria dell’azione di petizione ereditaria e della sua differenza rispetto all’azione di rivendicazione, l’appartenenza del bene all’asse relitto, ove contestata, non è soggetta al rigoroso onere della c.d. probatio diabolica, come per la rivendicazione, e non impone, dunque, di dimostrare i vari trasferimenti della proprietà, in capo al de cuius, sino alla copertura del tempo sufficiente ad usucapire, essendo sufficiente, all’uopo, dimostrare l’inclusione del bene nell’asse relitto, anche attraverso prove presuntive, come la dichiarazione di successione e le intestazioni catastali>>.

Applicando al caso sub iudice:

<<Alla stregua di tali principi, deve allora ritenersi corretta la qualificazione dell’azione proposta da An.Vi. in termini di petizione ereditaria, come operata in entrambi i gradi del giudizio, atteso che quest’ultimo, proponendosi come erede testamentario della madre, aveva chiesto la condanna del convenuto al rilascio dell’appartamento oggetto del lascito, restando indifferente il fatto che il suo status fosse rimasto pacifico in causa, così come altrettanto correttamente è stata ritenuta provata l’appartenenza del bene al relictum, siccome arguita in fatto dai giudici di merito sulla base del testamento, della dichiarazione di successione e degli accertamenti compiuti dal c.t.u., che aveva verificato l’intestazione fin dall’origine dello stesso alla testatrice>>.

Onere della prova delle azioni di accertamento della proprietà/do rivendica (a seconda che l’attore sia o meon nel possesso) e decisività della nota di trascrizione rispetto al titolo nella pubblicità immobiliare

Due punti trattati da Cass. sez. II ord. 25/02/2025, n. 4.874, rel. Pirari:

1° :

<<Occorre innanzitutto chiarire come la domanda di accertamento della proprietà e quella di rivendicazione, esercitate da chi non è nel possesso del bene, non divergono rispetto all’ampiezza e rigorosità della prova sulla spettanza del diritto, essendo entrambe azioni a contenuto petitorio dirette al conseguimento di una pronuncia giudiziale utilizzabile per ottenere la consegna della cosa da parte di chi la possiede o la detiene (vedi Cass., Sez. 2, 3/8/2022, n. 24050; Cass., Sez. 2, 9/6/2000, n. 7894; Cass., Sez. 2, 27/4/1982, n. 2621; si veda anche Cass. n. 1481/1973), diversamente da quanto accade per l’azione di accertamento esercitata da chi è nel possesso del bene, tendendo essa non già alla modifica di uno stato di fatto, ma soltanto all’eliminazione di uno stato di incertezza circa la legittimità del potere di fatto sulla cosa di cui l’attore è già investito, attraverso la dichiarazione che esso risponde esattamente allo stato di diritto (Cass., Sez. 2, 9/6/2000, n. 7894; Cass., Sez. 2, 27/4/1982, n. 2621; Cass., Sez. 2, 29/3/1976, n. 1122; Cass., Sez. 2, 5/5/1973, n. 1182; Cass., Sez. 2, 9/10/1972, n. 2957).

Soltanto in quest’ultimo caso l’attore è soggetto a un minore onere probatorio, in quanto è tenuto ad allegare e provare esclusivamente il proprio titolo di acquisto, ma non anche i vari trasferimenti della proprietà sino alla copertura del tempo sufficiente ad usucapire (Cass., Sez. 2, 9/6/2000, n. 7894; Cass., Sez. 2, 4/12/1997, n. 12300; Cass., Sez. 2, 27/4/1982, n. 2621), mentre con l’azione di rivendicazione ex art. 948 cod. civ. e con quella di accertamento in assenza di possesso, quand’anche non accompagnate dalla domanda di rilascio (in questi termini Cass., Sez. 2, 7/4/1987, n. 3340), è imposto all’attore di fornire la c.d. probatio diabolica della titolarità del proprio diritto – che costituisce un onere da assolvere ogniqualvolta sia proposta un’azione fondata sul diritto di proprietà tutelato erga omnes -, dimostrando il titolo di acquisto proprio e dei suoi danti causa fino ad un acquisto a titolo originario ovvero il compimento dell’usucapione (Cass., Sez. 2, 3/8/2022, n. 24050, cit.; Cass., Sez. 2, 19/1/2022, n. 1569; Cass., Sez. 2, 10/9/2018, n. 21940; Cass. n. 1210/2017; Cass., Sez. 2, 21/2/1994, n. 1650; Cass., Sez. 2, 13/8/1985, n. 4430; Cass., Sez. 2, 2/2/1976, n. 330; Cass., Sez. 2, 13/3/1972, n. 732).

L’assolvimento di tale rigoroso onere probatorio può avvenire con qualsiasi mezzo, non necessariamente documentale, ma anche mediante un consulente tecnico (purché, in tal caso, il convincimento del giudice si ponga come conseguenza univoca e necessaria dei fatti emersi dall’indagine tecnica) o mediante le risultanze dei registri catastali, le quali, pur non valendo a dimostrare con precisione la proprietà di un immobile, sono tuttavia utilizzabili dal giudice di merito come indizi suscettibili di convincimento, se presi in considerazione con rigore logico di ragionamento e convalidati da altri elementi di causa (Cass., Sez. 2, 14/4/1976, n. 1314; vedi anche Cass., Sez. 2, 3/8/2022, n. 24050, cit., Cass., Sez. 2, 9/6/2000, n. 7894; Cass., Sez. 2, 21/2/1994, n. 1650; Cass., Sez. 24/6/1971, n. 2000), sebbene il relativo rigore non possa che stabilirsi in relazione alla peculiarità di ogni singola controversia.

Infatti, il criterio di massima secondo cui l’attore deve fornire la prova rigorosa della sua proprietà e dei suoi danti causa fino a coprire il periodo necessario per l’usucapione, può subire opportuni temperamenti a seconda della linea difensiva adottata dal convenuto (Cass., Sez. 6-2, 19/1/2022, n. 1569), non nel senso che la mancata dimostrazione dell’usucapione da parte di quest’ultimo esoneri l’attore in rivendicazione dall’onere di provare il proprio diritto, ma nel senso che detto onere resta attenuato allorché il convenuto, nell’opporre l’usucapione, abbia riconosciuto, seppure implicitamente, o comunque non abbia specificamente contestato, l’appartenenza del bene al rivendicante o ad uno dei suoi danti causa all’epoca in cui assume di avere iniziato a possedere (Cass., Sez. 2, 3/8/2022, n. 24050; Cass., Sez. 2, 19/10/2021, n. 28865). Ne deriva che, ove il convenuto spieghi una domanda ovvero un’eccezione riconvenzionale, invocando un possesso ad usucapionem iniziato successivamente al perfezionarsi dell’acquisto ad opera dell’attore in rivendica (o del suo dante causa), l’onere probatorio gravante su quest’ultimo si riduce alla prova del suo titolo d’acquisto, nonché della mancanza di un successivo titolo di acquisto per usucapione da parte del convenuto, attenendo il thema disputandum all’appartenenza attuale del bene al convenuto in forza dell’invocata usucapione e non già all’acquisto del bene medesimo da parte dell’attore (Cass., Sez. 2, 22/04/2016, n. 8215).

In ragione di ciò, l’attore in rivendicazione è tenuto ad allegare i fatti storici su cui fonda la proprietà, in guisa da consentire all’avversario di prendere consapevolmente posizione al riguardo, anche ai fini dell’eventuale delimitazione della catena probatoria dei titoli di acquisto, non potendo la relevatio ab onere probandi correlata al principio di non contestazione ex art. 115, primo comma, cod. proc. civ., prescindere da essa (Cass., Sez. 2, 27/11/2023, n. 32820)>>.

2°:

<<Come noto, l’istituto della trascrizione attua una forma di pubblicità a tutela della circolazione dei beni, finalizzata alla soluzione di conflitti fra più acquirenti dello stesso diritto dal medesimo dante causa, ma non incide sulla validità e sull’efficacia dell’atto, ancorché non trascritto, salvo la concorrenza con altri atti trascritti, senza avere alcuna influenza sulla validità e sull’efficacia dell’atto, anche se non trascritto, salvo la concorrenza con altri atti trascritti (Cass., Sez. 2, 09/09/2013, n. 20641; Cass., Sez. 2, 05/07/1996, n. (…)52; Cass., Sez. 2, 02/06/1993, n. 6159), sicché, configurandosi come un onere, è un quid pluris rispetto all’atto trascrivendo (Cass., Sez. 3, 12/12/2003, n. 19058).

In quanto finalizzata a risolvere il conflitto tra soggetti che hanno acquistato lo stesso diritto dal medesimo titolare, la trascrizione può essere provata soltanto a mezzo della produzione in giudizio – in originale o in copia conforme – della nota di trascrizione, la quale ha la funzione di fonte della pubblicità immobiliare, improntata al principio di autoresponsabilità, secondo il quale, essendo la nota di trascrizione un atto di parte, gli effetti connessi alla formalità della trascrizione si producono in conformità ed in stretta relazione al contenuto della nota stessa (Cass., Sez. 1, 05/07/2000, n. 8964).

Solo le indicazioni in essa riportate consentono, infatti, di individuare, senza possibilità di equivoci ed incertezze, gli elementi essenziali del negozio, i beni ai quali esso si riferisce e il soggetto al quale la domanda sia rivolta, senza che possa essere surrogata né dai contenuti dei titoli presentati o depositati con la nota stessa, né dalla confessione della controparte (Cass., Sez. 3, 19/02/2019, n. 4726; Cass., Sez. 1, 27/12/2013, n. 28668; Cass., Sez. 3, 01/06/2006, n. 13137; Cass., Sez. 3, 11/01/2005, n. 368).

L’autonomia della nota di trascrizione rispetto al titolo è data proprio dai suoi contenuti, tant’è che l’inesattezza nella nota di cui all’art. 2659 cod. civ., ad esempio, dell’indicazione della data di nascita del dante causa di un trasferimento immobiliare, con conseguente annotazione del titolo nel conto di diverso soggetto, determinando incertezza sulla persona a cui si riferisce l’atto, nuoce, ai sensi dell’art. 2665 cod. civ., alla validità della trascrizione stessa, da considerarsi, in concreto, occulta ai terzi, i quali non sono posti in grado, secondo gli ordinari criteri nominativi di tenuta dei registri immobiliari, di conoscere l’esistenza di tale atto (Cass., Sez. 2, 07/06/2013, n. 14440).

Orbene, la decisione assunta dai giudici di merito non si conforma affatto ai suddetti principi, avendo essi ritenuto provata la trascrizione del contratto del 1990, pur in assenza della relativa nota, alla stregua della sola indicazione della data di trascrizione contenuta nel contratto del 2003, così ponendosi in contrasto col principio di diritto che di seguito si formula:

“in tema di trascrizione, il conflitto fra più acquirenti dello stesso diritto dal medesimo dante causa si risolve sulla base della priorità delle rispettive trascrizioni, la quale può essere provata in giudizio soltanto attraverso la produzione – in originale o in copia conforme – della nota di trascrizione, siccome improntata al principio di autoresponsabilità, secondo il quale, essendo la stessa un atto di parte, gli effetti connessi alla relativa formalità si producono in conformità e in stretta relazione al contenuto della nota stessa, che contiene gli elementi essenziali del negozio, i beni ai quali esso si riferisce e il soggetto al quale la domanda sia rivolta”  >>.

Danno da occupazione abusiva dell’immobile: in re ipsa o da provare?

E’ nel secondo senso Cass. sez. un. 15.11.2022 n. 33.645, rel. Scoditti.

 

La decisione va condivisa.

Premessa: si tratterebbe di danno emergente e non mancato guadagno : << 4.2. Entrambe le ordinanze interlocutorie pongono la questione
della configurabilità del c.d. danno
in re ipsa nell’ipotesi di
occupazione
sine titulo dell’immobile, ma il punto di divergenza fra gli
orientamenti che esse esprimono riguarda non il mancato guadagno,
bensì la perdita subita. Entrambe le ordinanze escludono infatti che
un danno
in re ipsa sia configurabile in relazione al lucro cessante e si
può convenire sul dato che nella giurisprudenza di legittimità le
occasioni di guadagno perse devono essere oggetto di specifica
prova, naturalmente anche a mezzo di presunzioni. La problematica
del danno
in re ipsa emerge in entrambe le ordinanze in relazione alla
facoltà di godere del proprietario quale individuazione dell’esistenza di
un danno risarcibile per il sol fatto che di tale facoltà il proprietario sia
stato privato a causa dell’occupazione abusiva dell’oggetto del suo
diritto
>>

<<4.5. La questione posta dal contrasto è, al fondo, se la violazione
del contenuto del diritto, in quanto integrante essa stessa un danno
risarcibile, sia suscettibile di tutela non solo reale ma anche
risarcitoria. Ritengono le Sezioni Unite che al quesito debba darsi
risposta positiva, nei termini emersi nella richiamata linea evolutiva
della giurisprudenza della Seconda Sezione Civile, secondo cui la
locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno
presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della
presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il
pregiudizio allegato (Cass. 7 gennaio 2021, n. 39; 20 gennaio 2022,
n. 4936; 22 aprile 2022, n. 12865). Tale esito interpretativo, per
quanto riguarda la lesione della facoltà di godimento, resta coerente
al significato di danno risarcibile quale perdita patrimoniale subita in
conseguenza di un fatto illecito. La linea da perseguire è infatti,
secondo le Sezioni Unite, quella del punto di mediazione fra la teoria
normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della Seconda
Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla Terza
Sezione Civile. Al fine di salvaguardare tale punto di mediazione,
l’estensione della tutela dal piano reale a quello risarcitorio, per
l’ipotesi della violazione del contenuto del diritto, deve lasciare intatta
la distinzione fra le due forme di tutela>>

<<4.9. Nella comune fattispecie di occupazione abusiva d’immobile è
al contrario richiesta, come si è visto, l’allegazione della concreta
possibilità di esercizio del diritto di godimento che è andata persa. Ciò
significa che il non uso, il quale è pure una caratteristica del
contenuto del diritto, non è suscettibile di risarcimento>>

PRINCIPI DI DIRITO:

<<  –  “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento
del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del

diritto di godimento, diretto o indiretto mediante concessione del
godimento ad altri dietro corrispettivo, che è andata perduta”;
–   “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di
un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chieda il
risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare,
esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso
mediante il parametro del canone locativo di mercato”;
–   “nel caso di occupazione senza titolo di bene immobile da parte di
un terzo, fatto costitutivo del diritto del proprietario al risarcimento
del danno da mancato guadagno è lo specifico pregiudizio subito,
quale quello che, in mancanza dell’occupazione, egli avrebbe
concesso il bene in godimento ad altri verso un corrispettivo superiore
al canone locativo di mercato o che lo avrebbe venduto ad un prezzo
più conveniente di quello di mercato”.
>>

(Si tratterà però spesso di lucro cessante, a dispetto di quanto premettono le SU come sopra riportato)

Importante la precisazione per cui la relevatio ab onere probandi ex art. 115 cpc riguarda solo i fatti noti al convenuto: <<Sia per la perdita subita che per il mancato guadagno va rammentato che l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte convenuta, non anche per quelli ad essa ignoti (Cass.
31 agosto 2020, n. 18074; 4 gennaio 2019, n. 87; 18 luglio 2016, n.
14652; 13 febbraio 2013, n. 3576). Poiché non si compie l’effetto di
cui all’art. 115, comma 1, cod. proc. civ., per i fatti ignoti al
danneggiante l’onere probatorio sorge comunque per l’attore, a
prescindere dalla mancanza di contestazione, ma il criterio di
normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi
di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che
l’evenienza dei fatti ignoti alla parte convenuta sia tendenzialmente
più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno. Ne consegue sul
piano pratico la maggiore ricorrenza per il convenuto dell’onere di
contestazione, nel rigoroso rispetto del requisito di specificità previsto
dall’art. 115 comma 1, nelle controversie aventi ad oggetto la perdita
subita e la maggiore ricorrenza per l’attore dell’onere probatorio, pur
in mancanza di contestazione, nelle controversie aventi ad oggetto il
mancato guadagno>>

Regola spesso violata nella prassi giudiziaria

Azione di regolamento di confini o azione di rivendica?

Sul classico (e molto pratico) problema dominicale (artt. 948 e 950 cc ), interviene Cass. 21.07.2021 n. 20.912, rel. Tedesco.

si esprime così:

<<- si è affermato, con costanza di indirizzo che mentre l’azione di revindica presuppone un conflitto di titoli, determinato dal convenuto che nega la proprietà dell’attore contrapponendo al titolo da lui vantato il suo possesso della cosa (possideo quia possideo) ovvero un proprio diverso ed incompatibile titolo d’acquisto, nell’Azione di regolamento di confini i titoli di proprietà non sono controversi e la contestazione attiene alla delimitazione dei rispettivi fondi (conflitto tra fondi) per la incertezza dei confini, oggettiva (derivante dalla promiscuità del possesso della zona confinaria) o soggettiva (provocata dall’assunto attoreo di non corrispondenza del confine apparente a quello reale) (Cass. n. 2212/1984; n. 9900/1995; n. 1204/1998; n. 28349/2011; n. 1006/2018);

– si esperisce azione di regolamento di confini quando si chiede in giudizio la “rettificazione” dell’attuale confine di fatto tra il proprio fondo e quello del vicino, deducendosi che esso non corrisponde alle correlative estensioni delle singole proprietà interessate, come risultanti nella realtà giuridica dai rispettivi, non contestati, titoli;

– si esercita, invece, azione di revindica allorché, deducendosi l’insussistenza, a favore del vicino, di alcun titolo di proprietà su una zona di terreno, esattamente indicata, di fatto arbitrariamente ricompresa nel fondo di lui, si chieda – mediante la determinazione di confini a sé più favorevoli – in realtà l’affermazione del proprio diritto di proprietà su tale zona e la consegna di essa nel proprio possesso (Cass. n. 5589/1977; n. 4457/1976);

– è stato anche chiarito che mentre nell’azione di revindica, l’attore non ha alcuna incertezza circa il confine, ma lo indica in modo certo e chiaro e chiede nell’atto introduttivo la restituzione usurpata, specificandone con esattezza l’estensione, la misura ed i confini, nell’azione di regolamento dei confini, invece, l’attore non sicuro ab initio della individuazione dei confini del suo fondo e non è nemmeno certo che questo sia stato parzialmente occupato dall’avversario, ma si rivolge al giudice proprio per ottenere una giuridica certezza al riguardo. Poiché la determinazione del confine può comportare l’attribuzione ad una delle parti di una zona occupata dall’altra, la richiesta di tale attribuzione non incide sulla essenza dell’Azione, trasformandola in revindica, ma integra soltanto una naturale conseguenza della domanda di individuazione del confine (Cass. n. 671/1977);>>.

Non conta il nomen iuris speso: non c’è bisogmno di sottolinearlo: <<così quando l’attore, pur dichiarando di esercitare un’azione di regolamento di confini, chieda, con espressione precisa ed univoca, l’affermazione del suo diritto di proprietà su zone possedute dal convenuto ed il rilascio di esse, indicando come vero un determinato confine a lui più favorevole, la domanda deve essere qualificata come azione di revindica (Cass. n. 1242/1977);>>

E’ interessante l’applicazione di tali principi (o regole, non sottilizziamo …) ai fatti di causa:

<< – nel caso di specie gli attori, nel proporre la domanda, dopo la identificazione catastale delle porzioni di rispettiva appartenenza, avevano chiarito che ai terreni si accedeva attraverso un distacco privato, comune alle proprietà delle parti in causa, nonché a una ulteriore particella catastale;

– a tale descrizione seguiva la denuncia che il convenuto, in modo del tutto arbitrario, non solo delimitava parte del suddetto terreno comune per realizzare un giardino di sua esclusiva pertinenza, ma si appropriava anche di una porzione del terreno di esclusiva proprietà degli esponenti, invadendola e occupandola con opere permanenti;

– dal canto suo il convenuto, costituendosi, aveva eccepito che il terreno interposto fra il proprio fondo e il mappale (OMISSIS) gli apparteneva in forza di titoli e non era affatto comune;

– anche da parte del convenuto, perciò, la richiesta di determinazione del confine non presupponeva alcuna incertezza, essendo egli sicuro che la porzione delimitata dal muretto era compresa nel lotto di sua proprietà;

– nessun argomento può trarsi dal fatto che il convenuto avesse proposto in riconvenzionale domanda di usucapione;

– è vero, giusti principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, che l’eccezione del convenuto con azione di regolamento di confini di avere usucapito il terreno in contestazione non snatura l’azione proposta trasformandola in rivendicazione, giacché il convenuto con quell’eccezione non contesta l’originario titolo del diritto di proprietà della controparte, ma si limita ad opporre una situazione sopravvenuta, idonea, se riconosciuta, fondata, ad eliminare la dedotta incertezza del confine (Cass. n. 2332/1995);

– è anche vero, però, che la proposizione di una tale domanda, da parte dell’ A., non fornisce argomento per sostenere che l’azione proposta dagli attori fosse per forza di cose quella di regolamento di confini;

– invero la domanda di usucapione era stata proposta dal convenuto solo in via subordinata, avendo egli primariamente sostenuto che il terreno conteso gli apparteneva in base ai titoli;

– i ricorrenti sostengono ancora nella memoria che le contestazioni di parte “avevano e hanno quale unico riferimento l’estensione dei fondi e la determinazione degli esatti confini di proprietà”, non essendoci alcun contrasto fra i rispettivi titoli di proprietà, del mappale (OMISSIS) quanto agli attori, e dei mappali (OMISSIS), quanto al convenuto;

– ma neanche la mancanza di conflitto su questo aspetto è in contraddizione con la qualificazione operata dalla corte d’appello;

– il conflitto fra titoli, ravvisato dalla corte d’appello, non è riferito ai mappali sopra indicati, ma alla porzione antistante la casa di abitazione del convenuto;

– da qui l’implicazione, desunta dalla corte di merito e coerente con le premesse, che fosse onere degli attori fornire la prova imposta a colui che agisce in rivendicazione;

– invero, in presenza di una domanda quale quella a suo tempo proposta dagli attuali ricorrenti, essenzialmente caratterizzata dalla richiesta del riconoscimento della proprietà comune della porzione di cui sopra, l’interpretazione operata dalla corte d’appello non incorre in alcun vizio logico o giuridico;>>