Il danno da perdita del rapporto parentale comprende pure il danno da perdita del frutto del concepimento

I capitol di prova sulla sofferenza post decesso (“panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita, conseguenti alla morte del feto in utero”) del feto concernono fatti rientranti nell’originaria domanda di danni non patrimoniali da perdita del frutto del cocnepimento: non sono mutamento di domanda.

Addebito medico: <<In particolare, essi attribuivano la causa dell’esito infausto della gravidanza all’omessa diagnosi di ipossia fetale e all’omesso trattamento terapeutico, nonchè ai ritardi imputabili agli operatori sanitari, i quali non avevano eseguito prontamente il taglio cesareo che, con elevata probabilità, avrebbe evitato la sofferenza del feto e la sua morte. Precisano ancora che B.T., giunta alla trentunesima settimana di gestazione, in seguito all’improvvisa comparsa di contrazioni e perdita di liquido amniotico, si era recata presso l’ospedale di (OMISSIS), i cui sanitari, dopo aver monitorato il battito cardiaco fetale, ne disposero il trasferimento presso il nosocomio di (OMISSIS), dove, riscontrato un grave peggioramento delle condizioni cliniche della nascitura, veniva data alla luce una bambina già morta>>.

Così Cass. 29.09.2021 n. 26.301, pres. est. Travaglino (segnalo spt. la parte finale sulla c.d. elaborazione del lutto):

<<La censura, oltre che ammissibile, risulta poi pienamente fondata, dal momento che quello che la sentenza impugnata definisce, circoscrivendolo nella sua reale dimensione funzionale – per vero, riduttivamente ed impropriamente – come danno “da perdita del frutto del concepimento”, altro non è se non un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale, avendo la Corte territoriale omesso del tutto di considerare come anche “la tutela del concepito abbia fondamento costituzionale”, rilevando in tale prospettiva non solo la previsione della tutela della maternità, sancita dall’art. 31 Cost., comma 2, ma, più in generale, quanto stabilito dall’art. 2 Cost., norma “che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito” (così esprimendosi, in motivazione, la fin troppo nota sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 1975).   (…)

Andranno, pertanto, applicati, sul punto, i principi ripetutamente affermati da questa Corte, che non solo ha ritenuto legittimati i componenti del consorzio familiare a far valere una pretesa risarcìtoria che trova fondamento negli artt. 2043 e 2059 c.c. in relazione agli artt. 2,29 e 30 Cost., nonché – ai sensi della norma costituzionale interposta costituita dall’art. 8 CEDU, che dà rilievo al diritto alla protezione della vita privata e familiare – all’art. 117 Cost., comma 1, (in tal senso, funditus, Cass. 27 marzo 2019, n. 8442), ma ha anche chiarito che pure tale tipo di pregiudizio rileva nella sua duplice, e non sovrapponibile dimensione morfologica “della sofferenza interiore eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, ulteriore e diversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita” (Cass. sent. 11 novembre 2019, n. 28989, approdo definitivo di un lungo e tormentato percorso interpretativo che ha finalmente colto la reale fenomenologia del danno alla persona, come confermato dallo stesso, esplicito dettato legislativo di cui al novellato art. 138 C.d.a., oltre che dalla cristallina sentenza del Giudice delle leggi n. 235/2014 che, nel pronunciarsi sulla conformità a Costituzione del successivo art. 139, e discorrendo di risarcibilità anche del danno morale al punto 10.1. della sentenza, ha definitivamente chiarito la differenza strutturale tra qualificazione della fattispecie e quantificazione del danno).

Aspetti, dunque, come il panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita, conseguenti alla morte del feto in utero, non possono considerarsi affatto come un tipo di danno “assolutamente avulso rispetto alla domanda di risarcimento formulata ex art. 2059 c.c.”, risultando tale affermazione errata in diritto, come errata appare quella secondo cui “altro sarebbe il danno non patrimoniale causato dalla perdita del frutto del concepimento, e ben altro sarebbe invece il danno consistente negli strascichi che quel lutto abbia lasciato nell’animo dei protagonisti”.

Nel riconsiderare tali aspetti del danno lamentato dai ricorrenti, il collegio di rinvio terrà altresì conto di quanto di recente affermato da questa stessa Corte (Cass. 8887/2020) in tema di danno da perdita del rapporto parentale, valorizzando appieno l’aspetto della sofferenza interiore patita dai genitori (Cass. 901/2018, 7513/2018, 2788/2019, 25988/2019), poiché la sofferenza morale, allegata e poi provata anche solo a mezzo di presunzioni semplici, costituisce assai frequentemente l’aspetto più significativo del danno de quo.

Esiste, difatti, una radicale differenza tra il danno per la perdita del rapporto parentale e quello per la sua compromissione dovuta a macrolesione del congiunto rimasto in vita – caso nel quale è la vita di relazione a subire profonde modificazioni in pejus. Una differenziazione che rileva da un punto di vista qualitativo/quantitativo del risarcimento se è vero che, come insegna la più recente ed avveduta scienza psicologica, e contrariamente alle originarie teorie sull’elaborazione del lutto, quella della cosiddetta elaborazione del lutto è un’idea fallace, poiché che camminiamo nel mondo sempre circondati dalle assenze che hanno segnato la nostra vita e che continuano ad essere presenti tra noi. Il dolore del lutto non ci libera da queste assenze, ma ci permette di continuare a vivere e di resistere alla tentazione di scomparire insieme a ciò che abbiamo perduto“.

Il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione. E’ il dolore, non la vita, che cambia, se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a se stessi nel mondo>>.