DAnno alla capacità lavorativa generica o specifica per un sedicenne? Sul danno biologico

Cass. sez. III, ord. 20/12/2023 n. 35.663, rel. Cirillo:

– I –

<<Come questa Corte ha già chiarito nella fondamentale ordinanza 27 marzo 2018, n. 7513, in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno dinamico-relazionale, atteso che con quest’ultimo si individuano pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale).

Si è detto in quella pronuncia, tra l’altro, che la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza d’una lesione della salute, non esce dall’alternativa: o è una conseguenza normale del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora si terrà per pagata con la liquidazione del danno biologico; ovvero è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (c.d. personalizzazione: così già la sentenza 29 luglio 2014, n. 17219). Dunque le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti dinamico-relazionali, che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale. Al contrario, le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico.

A quest’orientamento, già ribadito, tra le altre, dall’ordinanza 28 settembre 2018, n. 23469, e dalla sentenza 11 novembre 2019, n. 28988, va data ulteriore e convinta continuità.

Ciò comporta che nel caso specifico è palese come le censure evidenziate nel motivo in questione siano prive di fondamento, perché le ragioni che i ricorrenti pongono a sostegno della necessità di un ulteriore risarcimento a titolo di personalizzazione si scontrano col dato obiettivo per il quale i danni lamentati sono da ritenere inevitabili per tutti quelli che hanno subito il medesimo tipo di lesione e sono, pertanto, da considerare già risarciti nella stima percentuale del danno biologico>>.

– II –

<<La sentenza impugnata, infatti, pur partendo da una premessa corretta, ne ha tratto una conclusione errata.

La decisione in esame mostra, innanzitutto, di compiere una certa confusione tra capacità lavorativa generica e specifica, essendo evidente che in relazione ad un ragazzo che aveva sedici anni all’epoca del sinistro può parlarsi solo di capacità lavorativa generica, per ovvie ragioni. Ciò premesso, la Corte di merito ha richiamato la sentenza 11 novembre 2019, n. 28988, di questa Corte, ma non ne ha compiuto una corretta applicazione.

E’ necessario ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ha recentemente ribadito (ordinanza 12 giugno 2023, n. 16628) che il danno di natura patrimoniale derivante dalla perdita di capacità lavorativa specifica richiede un giudizio prognostico sulla compromissione delle aspettative di lavoro in relazione alle attitudini specifiche della persona, mentre il danno da lesione della cenestesi lavorativa, di natura non patrimoniale, consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell’attività lavorativa, non incidente, neanche sotto il profilo delle opportunità, sul reddito della persona offesa, risolvendosi in una compromissione biologica dell’essenza dell’individuo. Tale tipologia di danno, configurabile solo ove non si superi la soglia del 30 per cento del danno biologico, va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto (così la sentenza 28 giugno 2019, n. 17411, in linea con le precedenti ordinanze 9 ottobre 2015, n. 20312, e 22 maggio 2018, n. 12572; v. pure la sentenza 4 luglio 2019, n. 17931).

Ora, se è esatto affermare che il danno derivante dalla lesione della capacità lavorativa generica – la sola che può venire in considerazione nel caso di specie, trattandosi di un sedicenne – deve essere risarcito in termini di danno biologico, eventualmente, come si è detto, con un appesantimento del punto, va tuttavia rimarcato che tale criterio non è sempre utilizzabile quando il danno alla salute supera una certa soglia. La giurisprudenza di questa Corte ha mostrato, in argomento, alcune oscillazioni, nel senso che non tutte le decisioni sono concordi nell’indicare quale sia la soglia superata la quale la lesione del bene salute comporti di per sé, inevitabilmente, anche un danno patrimoniale. E tuttavia pare evidente che un danno da invalidità permanente nella misura del 36 per cento, caratterizzato dai disturbi così chiaramente illustrati dalla Corte d’appello (difficoltà di deambulazione, zoppia, basculamento del bacino) e accompagnato da un livello di istruzione certamente non elevato, non potrà che tradursi, secondo la regola causale del più probabile che non, anche in una diminuzione della capacità di lavorare e, quindi, di produrre un reddito. E’ ragionevole ritenere, infatti, che B.G. ben difficilmente svolgerà un lavoro intellettuale che, in astratto, potrebbe essere espletato anche da chi si trovi nella sua situazione senza maggiori difficoltà (se non in termini di cenestesi lavorativa); e quindi, dovendo egli probabilmente avviarsi ad un lavoro manuale, una diminuzione patrimoniale rientra nel novero delle possibilità che devono essere considerate.

La Corte d’appello, senza tenere conto di questo dato obiettivo, ha ritenuto di poter limitare il risarcimento al danno non patrimoniale. E, per di più, non ha neppure calcolato un appesantimento del punto di invalidità per tale ragione, giungendo alla sua conclusione senza uno specifico esame della situazione concreta, ma limitandosi ad affermare che non è lecito elevare il danno alla capacità lavorativa generica e autonoma ad ulteriore posta risarcitoria una volta che sia stato ristorato il danno alla salute. Conclusione, questa, che, assunta nella sua assolutezza, non è conforme alla giurisprudenza di questa Corte.

Ne consegue che tale profilo dovrà, dunque, essere riesaminato in sede di giudizio di rinvio, se del caso avvalendosi anche della prova per presunzioni (v. la suindicata ordinanza n. 11750 del 2018)>>.

Cass. sez. 3 del 27.10.2023 n. 29.859, rel., Vincenti:

<<Pertanto, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito inizia a decorrere non dal momento della verificazione materiale dell’evento di danno, bensì dal momento della conoscibilità del danno inteso nella sua dimensione giuridica; un danno ingiusto, cioè, che non soltanto sia “oggettivamente percepibile” all’esterno (elemento della conoscibilità del danno), ma che – attraverso parametri oggettivi quali la diligenza esigibile all’uomo medio e il livello di conoscenze scientifiche proprie di un determinato contesto storico – possa essere astrattamente ricondotto alla condotta colposa/dolosa di un terzo (requisito della rapportabilità causale).

Il principio così delineato (ossia, della conoscibilità del danno nella sua dimensione giuridica) trova applicazione, ai fini dell’individuazione dell’exordium praescriptionis, in tutti i casi di esercizio del diritto al risarcimento del danno, con la precisazione, tuttavia, che il carattere mobile dell’iniziale dies a quo e il suo “spostamento in avanti” si giustificherà nelle ipotesi in cui sia dato scindere, sotto il profilo temporale, il momento dell’accadimento materiale dell’evento di danno e il diverso momento della “esteriorizzazione del danno” nei termini sopra precisati.

Infatti, è solo in questi casi – a differenza di quelli in cui si possa apprezzare la coincidenza tra la verificazione dell’evento di danno e la conoscibilità del danno ingiusto patito -, che l’individuazione di un “dies a quo mobile” è sorretto dalla ratio di evitare che il termine di prescrizione inizi a decorrere in assenza della percezione di aver subito un danno ingiusto.

Ed è ciò che avviene, a titolo meramente esemplificativo, nei casi di responsabilità per danni cd. lungo-latenti, come quello di danni da emotrasfusioni infette. Non a caso la sentenza delle Sezioni Unite n. 576/2008, ha enunciato l’anzidetto principio proprio con riferimento al caso di “chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo” >>.

Poi: <<- E’ principio consolidato che, qualora l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato ma il giudizio penale non sia stato promosso, ancorché per difetto di querela, all’azione civile di risarcimento si applica, ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 3, l’eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato purché il giudice civile accerti, incidenter tantum, con gli strumenti probatori ed i criteri propri del relativo processo, l’esistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, sia soggettivi che oggettivi (tra le altre: Cass. n. 24988/2014 e Cass. n. 2350/2018, richiamate anche nella sentenza impugnata).

Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale (pp. 8 e 9 della sentenza impugnata), non è “necessario”, a tal fine, dover coltivare “un’espressa domanda volta a ottenere in via incidentale l’accertamento dell’ipotizzato reato”, giacché – alla luce dell’orientamento del pari consolidato di questa Corte (per tutte: Cass., S.U., n. 9993/2016; Cass. n. 24260/2020; Cass. n. 21404/2021) – la deduzione circa l’applicabilità del termine prescrizionale più lungo di cui all’art. 2947 c.c., comma 3, integra una contro-eccezione in senso lato, la cui rilevazione può avvenire anche d’ufficio, nel rispetto dei termini di operatività delle preclusioni relative al thema decidendum ex art. 183 c.p.c., qualora sia fondata su nuove allegazioni di fatto.

Là dove invece essa sia basata su fatti storici già allegati entro i termini di decadenza propri del giudizio ordinario a cognizione piena, la sua proposizione è ammissibile nell’ulteriore corso del giudizio di primo grado, in appello e, con il solo limite della non necessità di accertamenti di fatto, anche in Cassazione, dove non integra una questione nuova inammissibile.

La rilevabilità ex officio della contro-eccezione e’, dunque, subordinata alla allegazione – tempestiva, giacché effettuata originariamente con l’atto introduttivo del giudizio ovvero perché le nuove circostanze fattuali sono state dedotte nei termini di cui all’art. 183 c.p.c. (così da consentirne il rilievo officioso anche oltre detti termini) – dei fatti posti a suo fondamento e, quindi, ai fini dell’applicazione dell’art. 2947 c.c., comma 3, del “fatto considerato dalla legge come reato”, ossia delle circostanze da cui evincere la sussistenza degli elementi costitutivi (oggettivi e soggettivi) del reato di omicidio colposo, ex art. 589 c.p>>.

Ancora:

<< In tema di danno non patrimoniale risarcibile, iure haereditatis, in caso di morte causata da un illecito, la tassonomia invalsa che distingue tra varie voci di danno (danno biologico terminale, danno morale terminale, danno catastrofale o catastrofico, danno da lucida agonia) risponde ad una esigenza meramente descrittiva e non viene a configurare delle categorie giuridiche.

A tal fine, infatti, ciò che rileva è la reale fenomenologia del pregiudizio ed è sotto tale profilo che, pur nell’unitarietà della liquidazione del danno non patrimoniale, si diversificano le conseguenze dannose risarcibili, le quali, dunque, se effettivamente sussistenti, sono tutte da riconoscere, senza che si verifichi una duplicazione risarcitoria ingiustamente locupletativa.

In siffatta prospettiva, la giurisprudenza di questa Corte (tra le molte: Cass. n. 26727/2018; Cass. n. 18056/2019; Cass. n. 21837/2019), assumendo a fondamento la reale fenomenologia dei pregiudizi alla persona, ha comunque tradotto l’anzidetta esigenza meramente descrittiva nei seguenti termini: a) il “danno biologico terminale” è un pregiudizio alla salute, da invalidità temporanea sebbene massimo nella sua entità ed intensità, da accertarsi con criteri medico-legali e da liquidarsi comunque, avuto riguardo alla specificità del caso concreto, se tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo; b) il “danno catastrofale” (o anche detto: “danno morale terminale”, “danno da lucida agonia”), consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando, ai fini della liquidazione in via equitativa in base alle specificità del caso concreto, soltanto l’intensità della sofferenza medesima>>.

Infine;

<<. Giova, infatti, rammentare che la responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati iure proprio dai congiunti di un paziente deceduto, è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall’altro i parenti non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale (tra le altre: Cass. n. 14258/2020 e Cass. n. 21404/2021)>>.