Diffamazione e concorrenza sleale da parte dell’ex dipendente

Un ex dipendente pubblica commenti offensivi sull’ex datore di lavoro (anzi, in parte anche quando ancora era al suo servizio)  su piattaforme come ad es. Glassdoor.com, Reddit.com, and Teamblind.com. 

Le sue lamentele era centered on the accusation that LoanStreet and/or Lampl cheated Troia out of $ 100,000 in stock options.

Fece di tutto poi per amplificare la diffusione dei post.

v. qui quelli presenti in sentenza

Il datore lo  cita per diffamazione e concorrenza sleale.

Il caso è deciso dal Distretto sud di New York 17 agosto 2022, Case 1:21-cv-06166-NRB , Loanstrett c. Qyatt Troja.

Qui segnalo l’incomprensibile affermazione del giudice per cui ricorre lo use in commerce del nome commerciale del datore, pur  considerato che l’aveva inserito nel keyword advertising (v. sub C, p. 26 ss).

L’ex dipendente infatti non aveva iniziato alcuna attività commerciale, tanto meno concorrenziale.

(segnalazione e link dal blog del prof. Eric Goldman)

Diritto alla reputazione vs. diritto di critica giornalistica: ecco la decisione fiorentina nel caso Renzi v. Travaglio

Sentenza interessante da Trib. Firenze 18.08.2022 n. 2348/2022, RG 9217/2020, G.U. Donnarumma Massimo, nella causa civile per illecito aquiliano diffamatorio di Marco Travaglio ai danni di Matteo Renzi.

Viene riportato l’intero passo censurato:

<<GRUBER: “Tu, oggi, definisci Renzi un mitomane?”»
T
RAVAGLIO: “Si, è una forma di mitomania molesta che, probabilmente, risale a fattori prepolitici che
andrebbero studiati da specialisti clinici. Probabilmente vuole farci pagare colpe ataviche, non so se
lo prendevano in giro da bambino, non so se vuole farci pagare il fatto che gli italiani non lo hanno
capito e lo hanno bocciato più volte, che il mondo non comprende il suo genio. Sta di fatto che lo
spettacolo penoso di ieri sera denota, secondo me, una svolta che non può essere nemmeno definita più
uno show, è una cosa penosa. Secondo me per l’igiene della politica bisognerebbe cominciare a fare
una specie di silenzio stampa, cioè una moratoria nel continuare a mettere il microfono davanti a una
persona che chiaramente non è compos sui, non è in sé. Ha appiccato il fuoco al governo Letta lo ha
fatto cadere, poi ha silurato se stesso. Sta cercando di silurare Conte e ieri ha proposto una soluzione
per rafforzare il premier, eleggendolo direttamente. Cosa che non accade in nessun paese del mondo
tranne che in Israele, credo. Voleva abolire la prescrizione e adesso vuole sfiduciare il ministro
Buonafede che l’ha, in parte, abolita. Diffida l’attuale maggioranza dal cercare altre maggioranze e
poi lui, ieri, ha proposto un’altra maggioranza con il centrodestra, che non se lo è filato di pezza, per
fare il sindaco di Italia. Non si capisce neanche di che stia parlando, dovrebbe cambiare venti o trenta
articoli della Costituzione per farlo, in una situazione in cui già non si riescono a far passare le leggi
ordinarie, figurarsi se passerebbero leggi costituzionali. Bisognerebbe cominciare a trattarlo come un
caso umano e dirgli, va bene, quando fai cadere il governo avvertici, per il momento ci siamo stufati.
Perché, poi queste cose, come diceva il professor Monti, si pagano. Nel senso che lo spread si era
abbassato quando c’era una parvenza di stabilità. C’è un governo che sta cercando di fare delle cose
importanti e che tutti i giorni si ritrova di fronte ai ricatti di uno che dice sempre il contrario degli altri
a prescindere, contraddicendo tutta la sua storia quotidianamente, quindi un minimo di moratoria,
secondo me, sarebbe igienica
>>

Il punto critico , naturalmente, è laddove T. dà a R. del <mitomane> , <caso umano> e <fattori prepolitici che andrebbero studiati da specialisti clinici>. Qui infatti per il Tribunale si eccede la critica politica.   Resta però da accertare la idoneità lesiva; la quale viene negata, così motivando:

< E2) Andando, ora, al cuore del problema poc’anzi prospettato, fa d’uopo rilevare che le espressioni in esame, pur connotandosi a tratti per un sarcasmo pungente, teso a dileggiare la figura del senatore Renzi, non risultano concretamente idonee a ledere la reputazione e l’onore di quest’ultimo.
Trattasi di affermazioni e locuzioni che, a ben vedere:
– non hanno alcuna pretesa di veridicità;
– pur investendo (come si è visto) la dimensione personale del Renzi, sono disancorate da riferimenti specifici a fatti od episodi afferenti.
Di conseguenza, nessun telespettatore può, ragionevolmente, prendere sul serio le espressioni che rimandano genericamente alla “mitomania” o la proposizione dubitativa per cui “
lo prendevano in giro da bambino”.
Ed è chiaro che lo stesso convenuto non ha detto ciò con l’intento di convincere qualcuno circa il fondamento delle espressioni pronunciate, ma al solo fine di ironizzare sulle condotte e sulla figura di Renzi. Ciò si evince, non solo dal tenore complessivo del discorso, ma anche dalla circostanza che le espressioni in oggetto sono spesso formulate in forma ipotetica (“
andrebbero studiati da specialisti clinici”; “non so se lo prendevano in giro da bambino”).
Come si è già detto, peraltro, le affermazioni in esame sono decontestualizzate, scevre da qualsivoglia riferimento a vicende od esperienze concrete del vissuto personale dell’attore, per cui risulta evidente che trattasi di una sorta di invenzione scenica ovvero di un espediente comunicativo che il giornalista
ha utilizzato per attirare l’attenzione degli ascoltatori, colorendo il proprio discorso ed introducendo i predetti al nucleo del proprio intervento, che afferisce per l’appunto alla critica politica.
Detto in altri termini, il registro linguistico sin qui esaminato, pur essendo a tratti graffiante e pur colorandosi di sarcasmo, è di fatto innocuo, non avendo – come si è detto – concreta idoneità lesiva rispetto all’onore ed alla reputazione dell’attore, proprio perché trattasi di espressioni, per un verso, prive di disvalore intrinseco, quali, ad esempio, le ingiurie, le contumelie, gli epiteti scurrili o le affermazioni che aggrediscono in termini universalmente oltraggiosi il patrimonio morale del destinatario; per altro verso, anche quando investono la dimensione personale, sono affermazioni, locuzioni e proposizioni scevre da riferimenti specifici e contestualizzanti
>

Il passaggio è importante. In breve , mancando di specificità, le offese non possono cagionare danno. Il giudizio però è di assai dubbia esattezza: non sono offensive solo le espressioni riferite a fatti specifici, ma anche anche quelle generali sulla persona.

Ancora,  viene rigettata l’eccezione di satira dato che T. è giornalista e non un comico (sub E1): non è però chiaro il nesso logico sottostante, potendo la satira essere usata da chiunque e non solo da comici di professione.

Altrettanto perplessa è la compensazione integrale delle spese di lite, a fronte di un rigetto integrale delle domanda di Matteo Renzi.

Ritwittare aggiungendo commenti diffamatori non è protetto dal safe harbour ex 230 CDA

Byrne è citato per diffamazione da Us Dominion (azienda usa che fornisce software per la gestione dei processi elettorali) per dichiaraizoni e tweet offensivi.

Egli cerca l’esimente del safe harbour ex 230 CDA ma gli va male: è infatti content provider.

Il mero twittare un link (a materiale diffamatorio) pootrebbe esserne coperto: ma non i commenti accompagnatori.

Così il Trib. del District of Columbia 20.04.4022, Case 1:21-cv-02131-CJN, US Dominion v. Byrne: <<A so-called “information content provider” does not enjoy immunity under § 230.   Klayman v. Zuckerberg, 753 F.3d 1354, 1356 (D.C. Cir. 2014). Any “person or entity that is responsible, in whole or in part, for the creation or development of information provided through the Internet or any other interactive computer service” qualifies as an “information content provider.” 47 U.S.C. § 230(f)(3); Bennett, 882 F.3d at 1166 (noting a dividing line between service and content in that ‘interactive computer service’ providers—which are generally eligible for CDA section 230 immunity—and ‘information content provider[s],’ which are not entitled to immunity”).
While § 230 may provide immunity for someone who merely shares a link on Twitter,
Roca Labs, Inc. v. Consumer Opinion Corp., 140 F. Supp. 3d 1311, 1321 (M.D. Fla. 2015), it does not immunize someone for making additional remarks that are allegedly defamatory, see La Liberte v. Reid, 966 F.3d 79, 89 (2d Cir. 2020). Here, Byrne stated that he “vouch[ed] for” the evidence proving that Dominion had a connection to China. See
Compl. ¶ 153(m). Byrne’s alleged statements accompanying the retweet therefore fall outside the ambit of § 230 immunity>>.

Questione non difficile: che il mero caricamente di un link sia protetto, è questione interessante; che invece i commenti accompagnatori ingiuriosi rendano l’autore un content provider, è certo.

Il legale che invia ad Amazon l’istanza di notice and take down non commette diffamazione

interessante fattispecie concreta decisa dalla Corte dell’Illinois, east. divis., 11 marzo 2022, No. 21 C 3648, The Sunny Factory, LLC v. Chen, 2.

Il legale di un impresa titolare di copyright intima ad Amazon la rimozione dei prodotti di un’azienda presente nel suo marketplace, che asseritamente violerebbero il diritto della cliente.

Amazon rimuove e il terzo “rimosso” cita in giudizio i legali per diffamazione , tortious interference (perdite pesanti nelle vendite) e dolosa misrepresentation ai sensi del § 512.f del DMCA.

La lite viene però decisa in modo sfavolevole all’azienda intimata e attrice nel presente processo, essenzialmente per mancanza dell’elememto soggettivo (dolo o malizia a secodna dei casi)in capo ai legali convenuti.

Da segnalare che per il diritto usa c’è un privilegio a favore dei legali che agiscano per conto dei clienti quando mandano diffide nel corso di una lite, sia per diffamazione che per tortious interference, p. 5 e rispett. 7.

Strano aver lasciato  per ultima la questione del DMCA , che probabilmente era la prima in ordine logico: negando la responsabilità in base a tale dispisizone, diventava poi assai dfifficile, forse impossibile, ravvisarne in base a diverso titolo

(sentenza e link alla stessa dal blog del prof. Eric Goldman)

Copiare da un forum ad un altro threads, contenenti post diffamatori e soggetti a copyright, non preclude il safe harbour e costituisce fair use

Copiare post (anzi interi threads) da un forum ad un altro (in occasione ed anzi a causa di cambio di policy nel 2017) non impedisce la fruzione del safe harbour ex 230 CDA in caso di post diffamatori ; inoltre, quanto al copyright , costituisce fair use.

così il l’appello del primo circuito conferma il primo grado con sentenza 10.03.2022, caso n. 21-1146, Monsarrat v. Newman.

Quanto al § 230 CDA, il giudizio è esatto.

La prima piattaforma era LiveJournals, controllata dalla Russia; quella destinataria del trasferimento (operato da un moderatore) è Dreamwidth.

(sentenza a link alla stessa dal blog del profl Eric Goldman)

Responsabilità dell’editore per i commenti diffamatori postati dai lettori sulla sua pagina Facebook

La Suprema corte australiana ha affermato che l’editore di giornali è (cor-)responsabile per diffamazione circa il post diffamtorio dei lettori, pubblicati nella sua pagina Facebook come commento ad articolo giornalistico. In altre parole l’editore, dando visibilità ai post, ne diventa <publisher> .

Si tratta di Fairfax Media Publications Pty Ltd v Voller [2021] HCA 27, Nationwide News Pty Limited v Voller , Australian News Channel Pty Ltd v Voller, 8 Sep 2021, Case Number: S236/2020  – S237/2020  – S238/2020.

Il testo è leggibile qui e la sintesi per il pubblico qui.

La principale difesa degli editori consisteva (non soprrendentemente , dato l’innegabile loro contributo materiale) , nella mancanza di elemento soggettivo (consapevoleza della lesività): The appellants now contend that the common law requires that the publication of defamatory matter be intentional. It is not sufficient that a defendant merely plays a passive instrumental role in the process of publication. To be a publisher a person must intend to communicate the matter complained of, which is to say the relevant words. This is said to follow from what was said by Isaacs J in Webb v Bloch[1] and to accord with the holding in Trkulja v Google LLC[2], that Google’s intentional participation in the communication of the defamatory matter supported a finding of publication , § 18.

Secondo la Suprema Corte , però, tale elemento non è richiesto: The liability of a person as a publisher “depends upon mere communication of the defamatory matter to a third person”, Dixon J said[1] in Lee v Wilson & Mackinnon. No question as to the knowledge or intention of the publisher arises. His Honour said “[t]he communication may be quite unintentional, and the publisher may be unaware of the defamatory matter”, but the person communicating the defamatory matter will nevertheless be liable. The exception identified by his Honour was the case of certain booksellers, news vendors and messengers, to which reference will later be made, § 28.

E poi:  The Court of Appeal was correct to hold that the acts of the appellants in facilitating, encouraging and thereby assisting the posting of comments by the third-party Facebook users rendered them publishers of those comments, Concl. al § 55.

I giudici Gageler e Gordon:  98 Each appellant became a publisher of each comment posted on its public Facebook page by a Facebook user as and when that comment was accessed in a comprehensible form by another Facebook user. Each appellant became a publisher at that time by reason of its intentional participation in the process by which the posted comment had become available to be accessed by the other Facebook user. In each case, the intentional participation in that process was sufficiently constituted by the appellant, having contracted with Facebook for the creation and ongoing provision of its public Facebook page, posting content on the page the effect of which was automatically to give Facebook users the option (in addition to “Like” or “Share”) to “Comment” on the content by posting a comment which (if not “filtered” so as to be automatically “hidden” if it contained “moderated words”) was automatically accessible in a comprehensible form by other Facebook users.   99   Not to the point of the appellants having been publishers is the fact that: the appellants had no control over the facility by which the Facebook service was provided to them and to Facebook users; the “Comment” function was a standard feature of the Facebook service which the appellants could not disable; it was not possible for them to delete all comments in advance; or they could have effectively “hidden” all comments posted by Facebook users only by applying an extremely long list of common words as “moderated words”, §§ 98-99.

Dalla predetta  sintesi per il pubblico:
Fatto: The appellants are media companies which publish newspapers that circulate in New South Wales or operate television stations, or both. Each appellant maintained a public Facebook page on which they posted content relating to news stories and provided hyperlinks to those stories on their website. After posting content relating to particular news stories referring to Mr Voller, including posts concerning his incarceration in a juvenile justice detention centre in the Northern Territory, a number of third-party Facebook users responded with comments that were alleged to be defamatory of Mr Voller. Mr Voller brought proceedings against the appellants alleging that they were liable for defamation as the publishers of those comments.

Motivo: The High Court by majority dismissed the appeals and found that the appellants were the publishers of the third-party Facebook user comments. A majority of the Court held that the liability of a person as a publisher depends upon whether that person, by facilitating and encouraging the relevant communication, “participated” in the communication of the defamatory matter to a third person. The majority rejected the appellants’ argument that for a person to be a publisher they must know of the relevant defamatory matter and intend to convey it. Each appellant, by the creation of a public Facebook page and the posting of content on that page, facilitated, encouraged and thereby assisted the publication of comments from third-party Facebook users. The appellants were therefore publishers of the third-party comments.

Da vedere se nel diritto USA il fatto sarebbe stato coperto dal safe harbour ex § 230 CDA.

Recensione di uno studio legale su Google e diffamazione

La recensione dell’operato di un avvocato , costituita dall’avergli assegnato una sola stellina (su 5 , come parrebbe desumersi in Google Maps) e null’altro (cioè senza aggiunta di parole), non costituisce diffamazione.

Così la Corte di appello del Michigan, 18.03.2021, Gursten c. John doe1 e altri, No.352225, Oakland Circuit Court ,LC No.2019-171503-NO.

Così già la corte di primo grado (confermata) :

<<A one-star review is pure opinion and is not a statement capable of being defamatory. Even if the review implies that John Doe 2 had an experience with [p]laintiffs as [p]laintiffs contend, the Court does not find that this implication would render what would otherwise be pure opinion, defamatory. The implication of an experience with [p]laintiffs is not a defamatory implication regardless of whether it is provable as false. The Court has not been presented with []authority for the contention that a one-star review[,]standing alone[,]is defamatory because it was posted anonymously or pseudonymously.Moreover, in considering the context of the review, the Court cannot ignore that the one-star review at issue in this case was made on Google Review. Such websites are well-recognized places for anyone to place an opinion. Within this context, an ordinary [I]nternet reader understands that such comments are mere statements of opinion. To hold that the pseudonymous review in this case is defamatory would make nearly all negative anonymous or pseudonymous [I]nternet reviews susceptible to defamation claims.Because the court finds that the one-star review is not a statement capable of being defamatory, [p]laintiffs’ claim for defamation and business defamation fail as a matter of law>>

L’avvocato attore aveva negato di aver mai avuto quel cliente e attribuiva la recensione ad un collega (competitor attorney, p. 2 in nota 1).

Per la corte di appello è centrale appurare se prevalga l’onore o il diritto di parola e di critica, p. 4.

E conclude che <<a one-star wordless review posted on Google Review is an expression of opinion protected bythe First Amendment. Edwards, 322 Mich App at 13. We have previouslyheld that “[t]he context and forum in which statements appear also affect whether a reasonable reader would interpret the statements as asserting provable facts.” Ghanam, 303 Mich App at 546 (quotation marks and citations omitted). In the context of Internet message boards and similar opinion-based platforms, statements “are generally regarded as containing statements of pure opinion rather than statements or implications of actual, provable fact…. Indeed, the very fact that most of the posters [on Internet message boards] remain anonymous, or pseudonymous, is a cue to discount their statements accordingly.” Id. at 546-547 (quotation marks and citations omitted). As plaintiffs note, Google Review is an online consumer review service where posters can share their subjective experience with, among otherthings, a business, a professional, or a brand. We therefore conclude that Google Review is no different than the[I]nternet message boards in Ghanam; that is,it containspurely a poster’s opinions,which are afforded First Amendment protection>>, p. 5.

Per l’avvocato attore la <<one-star Google review was a defamatory statement by implication. Plaintiffs assert that “Google review is an [I]nternet-based consumer review service” where individuals can post reviews of a business or professional on the basis of their actual experience; therefore, by posting a wordless one-star Google review, the poster implies that hisor her experience with that business was a negative one. . Because Doe 2 failed to establish that he or she was a prospective, former, or current client, plaintiffs contend that the review is defamatory as it was implied that Doe 2 had an actual attorney-client experience and received legal services from plaintiffs.>>

Ma per la corte spettava all’avvocato provare che la recensione era  <<materially false. American Transmission, Inc, 239 Mich App at 702. Indeed, plaintiffs do not even know Doe 2’s true identity. While plaintiffs urge this Court to assume Doe 2 is a competitor-attorney because Doe 1 was identified as such, this is mere speculation without any factual basis>>.

Sul punto però si è formata una dissenting opinion che ritiene opportuno indagare proprio la questione della falsità o verità del post in questione,anche se vede difficile la posizione del’avvocato attore: <<At this point, we must assume that which plaintiffs’ have alleged—the poster’s expressed opinion rested on nothing more than economic or personal animus, not actual experience. I would remand to permit the parties to conduct discovery focused on identifying the poster and determining whether he or she was truly a client of the firm or a person who had otherwise had an unsatisfactory interaction with it. That said, plaintiffs have a difficult road ahead. Despite that Milkovich does not preclude their claim at this stage, the First Amendment does offer substantial protection of John Doe 2’s right to opine regarding plaintiffs’ competence, work product, and legal abilities. If a substantially true implication or real facts underlieJohn Doe 2’s opinion, the First Amendment likely shields him or her from tort liability. As a matter of constitutional law, however, it is too early to make that determination>> (dissenting opinion del giudice Gleicher).

Caso interessante, dato che le decisioni sulla offensività delle recensioni in internet sono poche (qualcuna su Tripadvisor, anche italiana) e ancor meno sull’operato di un avvocato.

(notizia e link alla sentenza e alla dissenting opinion tratti dal blog di Eric Goldman)

sentenza milanese sul diritto all’oblio verso Google

Trib. Milano 24.01.2020, sent. 4911/2019-RG 12255/2018 , decide una domanda di deindicizzazione verso Google.

Nel caso specifico l’istante, ottenuta una sentenza penale di diffamazione a carico di un terzo che l’aveva diffamato con post su internet, chiede a Google (G.) la deindicizzazione dal motore di ricerca di tali materiali.

La cronologia:

  • l’attore si accorge delle notizie lesive nel giugno 2011;
  • ottiene sentenza di condanna per diffamazione nel febbraio 2017;
  • fa istanza a G. di deindicizzazione nel maggioo 2016 e poi tramite legale nel febbraio 2017;
  • adisce il trib. MI nel febbraio 2018.

Adisce citando sia Google italy che Google LLC. Il primo però  è ritenuto privo di legittimazione passiva, <<poichè il titolare del trattamento dei dati personali di cui parte attrice si duole è unicamente Google LLC>>, p. 5

Il Trib elenca le norme regolanti il caso, p. 9-10, tra cui figura la dir. 2016/680 del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio.

Non figura direttamente il GDPR.

Il Trib. qualifica i motori di ricerca come banche dati di pagine reperite tramite i software c.d spiders, p. 13.

Non si applica la normativa sul safeharbour: <<Ritiene  il  Tribunale  che  la  presente  vicenda  non  possa  trovare  regolazione  dalla  normativa  contenuta nel  D.  Lgs.  n.70/03,  che  inerisce  esclusivamente  l’attività  di  memorizzazione  di  informazioni commerciali fornite daaltri. Oggetto del presente ricorso,  invero, non è l’attività di host  provider di  Google  in  relazione  alla formazione  dei  contenuti  delle  singole  pagine  web  sorgente,  ma la  condotta  posta  in  essere  dal motore di ricerca in qualità di titolare del trattamento dei dati sottesa all’evocazione attraverso la semplice digitazione del nome e cognome dell’interessatodi  tutti  i  siti  in  cui  viene  in  risalto  il  preteso  ruolo  criminale  del  ricorrente attraverso  un software messo  a  punto    da  Google  e  di  cui quest’ultima  si avvale per facilitare la ricerca degli utenti attraverso il suo motore di ricerca>> p. 14-15.

Il Trib. ribadisce che <<l’abbinamento dei siti al nome del ricorrente è frutto del sistema adottato da  Google  per  scandagliare  il  web,  copiare  e  immagazzinare  i  contenuti  pubblicati  dai  siti sorgente,  aggiornandoli,  organizzare  il  materiale  secondo  chiavi  di  lettura  in  modo  da  rendere fruibile “worldwide” in tempo reale i contenuti relativi ad un soggetto, ad una data vicenda o ad argomento assegnati dall’utente nella stringa di ricerca; condotta da  intendersi,  dunque,  comeprodotto di un’attività direttamente ed esclusivamente riconducibile, come tale,  alla resistente.  Ed è proprio questo il meccanismo di operatività del software messo a punto da Google che determina il   risultato   rappresentato   dai   possibili   percorsi   di   ricerca, rendendo   disponibili   informazioni aggregate  in  grado  di  fornire  agli  utenti  una  profilazione  dell’intera  storia  personale dell’interessato e  che appaiono all’utente che inizia la ricerca digitando le parole chiave anche  in relazione a settori potenzialmente differenti od estranei a quello oggetto della ricerca. Soprattutto, la capillarità della raccolta, la capacità di padroneggiare un numero potenzialmente illimitato  di  dati  e  notizie,  la  diffusività  della  propagazione  del  dato  e  delle  notizie  ad  esso correlate  costituiscono  il  valore  aggiunto,  autonomo  da  quello  offerto  dai  siti  sorgente,  operato dal motore generale di ricerca>> p. 16

D’altro  canto,  il T. sottolinea  che   la   rimozione   a   posteriori   mediante   de-indicizzazione dell’associazione dato personale/contenuti dei siti sorgente Google <<non impedisce la visualizzazione  di contenuti immessi  dagli utenti  e non costituisce  intromissione dell’hosting provider nei  contenuti immessi   nel   sito   dai   siti   sorgente   (i   cui   titolari   non   venivano   evocati   nel   presente   giudizio), considerazione che consente di superare l’eccezione mossa da parte convenuta circa l’impossibilità (giuridica, non certo tecnica) di accedere e cancellare il testo veicolato in rete dal soggetto titolare del singolo sito informatico.

Va  dunque  ribadito  che  la  deindicizzazione  non  comprime  in  alcun  modo  la  libertà    degli  utenti  di accedere alle ricerche offerte dal motore di ricerca Google-alla stessa maniera di quanto accade per gli altri motori di ricerca-attingendo la notizia dai singoli siti sorgente.

Infatti -come  si  è  descritto  in  precedenza-il  servizio  indicato  non  compie  alcun  intervento  diretto  sui contenuti  memorizzati  nel  web,  ma  svolge  su  di  essi  una  rilevazione  in  ambito  mondiale  non  solo meramente quantitativa e statistica (e dunque “esterna” rispetto al contenuto)  dei dati oggettivi, ma provvede  altresì  alla  estrapolazione  dei  dati  organizzandoli  in rankingsulla  base  diparametri  non divulgati (non comprimibili nella sola, notoria, frequenza,  c.d. popolarità, dei termini  usati dagli utenti nelle ricerche  e dei siti visitati), trasfusi nel  grande algoritmo segreto  che  regola il  funzionamento  del sistema>>, p.17.

Nel  web  i  dati  assai  sovente  risultino  <<inseriti  in  contenuti  non comprimibili  nella  mera  categoria  delle  aggregazioni  di  nudi  dati,  ma  siano  piuttosto  inclusi  in testi più ampi, ascrivibili all’area dell’esercizio della liberta di stampa o di espressione (come nel caso  di  specie),  di  talchè  la  cancellazione  della  pagina  web  dall’archivio  del  titolare  del trattamento  finirebbe  per  incidere  su  un’area  ben  più  ampia  del  singolo  dato  che  si  vuole trattare.  Occorre  poi  puntualizzare  che,  come  più  volte  ribadito,  la  deindicizzazione  non  incide  sui  contenuti; nondimeno, limitando l’accessibilità alla pagina web, attingibile solo attraverso l’attivazione diretta del singolo sito sorgente,  essa finisce per incidere sull’ampiezza e quindi sul concreto esercizio dei diritti di libertà ad esso connessi.  Non ci si può infatti nascondere che la mancata comparsa sulla pagina web del motore generalista della pagina  sorgente alla digitazione delle generalità dell’interessato sia in grado di incidere in maniera significativa  -in ipotesi anche potenzialmente assorbente-sulla capacità diffusiva della notizia da parte del sito sorgente.    Occorre dunque effettuare un attento bilanciamento dei contrapposti diritti>> p. 18

l  diritto  in  esame [identità personale e riservatezza] , dice il T.,  <<piuttosto  che  un  autonomo diritto  della personalità  costituisce  un  aspetto  del  diritto  all’identità  personale,  segnatamente  il  diritto  alla  dis-associazione  del  proprio  nome  da  un  dato  risultato  di  ricerca.  Il  c.d.  ridimensionamento  della  propria visibilità  telematica,  difatti,  rappresenta  un  aspetto  “funzionale”  del  diritto  all’identità  personale, diverso  dal  diritto  ad  essere  dimenticato,  che  coinvolge  e  richiede  una  valutazione  di  contrapposti interessi: quello dell’individuo a non essere (più) trovato on  linee  quello  del  motore  di  ricerca  (nel senso poco sopra specificato).

Orbene,  se  tutto  ciò  vale  per  il  caso  in  cui  un  dato  sia  vero,  ma  la  sua  conoscenza  abbia  perso  di interesse  per  la  collettività  per  la  risalenza  di  esso,  a  maggior  ragione    dovrà  porsi  nel  giudizio  di bilanciamento  una  valutazione  di supravalenza della falsità del dato in tutti i casi in cui l’interessato offra una  ragionevole (sensible) rappresentazione della  falsità allegata; bilanciamento sottratto, infine, alla  disponibilità  del  titolare  del  trattamento in tutti i casi in cui dall’interessato sia allegata prova dell’accertamento giudiziario della falsità del dato. Nelle pagine web ricorrono entrambe le fattispecie menzionate>>,  p. 21.

Poi passa ad applicare questi principi al caso de quo.

Ritiene che il trattamento di G. sia illecito a partire dalla diffida inotrata dall’ineressato, tra l’altro allegando la sentenza di condanna per diffamazione: <<la convenuta avrebbe, tuttavia, dovuto procedere a trattare lecitamente i dati del ricorrente, evitando che le ricerche effettuate dagli utenti partendo dalla stringa contenente le generalità di XX dessero luogo all’elencazione dei siti sorgente contenenti le notizie la cui diffamatorietà era stata giudizialmente accertata. IL  motore di ricerca avrebbe quindi dovuto procedere in allora alla deindicizzazione dei risultati>> p. 22

Anche sul danno, naturalmente la responsaiblità rigurda l’omissione solo a partire dalla diffida.

Nulla accerta come danno patriminiale.

Liquida però euro 25.000,00 per danno morale così argomentando: <<Deve valutarsi   il   disagio   subito   da   parte   ricorrente,   e   dalla   medesima allegato,   dovuto   alla preoccupazione  conseguente  al  protrarsi  della  permanenza  in  rete  dell’abbinamento  del  proprio nominativo  alle  URL  riportanti  le  notizie  diffamatorie  in  esito  al  rifiuto  opposto  da  Google  LLC. L’assenza di puntualizzazioni difensive in ordine ad un eventuale scarto qualitativo differenziante la sofferenza patita sin dall’origine della diffusione in rete dell’associazione diffamatoria dei propri dati da  quella  sopportata  in  progressione  in  esito  al  rifiuto  ricevuto,  impone  al  giudicante  di  attenersi,  nel computi di base, ad una liquidazione per equivalente attestata su valori contenuti. D’altro  canto,  non  può  il  Tribunale  non  tenere  conto  nella  liquidazione  del  danno  della  risposta derisoria opposta da Google LLC alle richieste di cancellazione dell’interessato; la società aveva infatti motivato il proprio rifiuto affermando che le notizie attingevano la vita professionale del richiedente e che oggetto di esse era un “reato”, con ciò incorrendo in una (voluta?) confusione tra autore e vittima del delitto di diffamazione, ovvero pretermettendo la sussistenza di un provvedimento della A.G. con la quale si affermava la falsità delle notizie attribuenti il coinvolgimento di XX  in gravi fatti di reato; si legge, infatti,  nella nota del 13.12.2017 inviata al difensore dalla odierna resistente che “In merito  alle  seguenti  URL” –e compariva l’elenco di cui al ricorso –“si  riferiscono  al  contenuto riguardante  la  vita  professionale  del  suo  cliente  di  sostanziale  interesse  pubblico…  potrebbero interessare  potenziali  e  attuali  consumatori,  utenti  o  fruitori  dei  servizi  del  suo  cliente… Pertanto la presenza di questo contenuto nei nostri risultati di ricerca … è giustificato dall’interesse pubblico ad averne accesso” (cfr doc. 6 ric.).>> p. 24-25

Copiare post di una community da un social ad un altro , per evitare di sottostare a condizioni d’uso non gradite: è lecito sotto il profilo copyright?

Un gestore/moderatore di una pagina , relativa ad una comunità locale, su un social (LiveJournal) non accetta che il social cambi le condizioni d’uso per adeguarle al diritto russo . Per questo si sposta su altro social (Dreamwith).

Un follower, però, gli fa causa, dicendo che tale riproduzione viola il copyright sui suoi post.

La corte distrettuale del Massachusetts nega che vi sia violazione, affermando il ricorrere del fair use (17 US COde § 107): si tratta di US D.C. of Mass., 21.01.2021, Monsarrat c. Newman, civ. act. n. 20-10810-RGS (sub Discussion.a, p. 3 ss). Sopratutto perchè è rispettato il criterio più imporante dei quatro (l’ultimo, quello relativo all’effetto economico-concorrenziale, pp. 7/8.

Sul fair use v. lo studio “quantitativo” della giurisprudenza 1978-2019 in <<An Empirical Study of U.S. Copyright Fair Use Opinions Updated, 1978-2019>>, di Barton Beebe, NEW YORK UNIVERSITY JOURNAL OF INTELLECTUAL PROPERTY & ENTERTAINMENT LAW, vol.10/1, 2020 .

Viene anche proposta una domanda ex diffamazione , a causa della ripubblicazione di vecchi messaggi diffamatori (parrebbe, non è chiarissimo; sub Discussion.b, p. 8 ss.; il republishing è citato a p. 10). Pertanto il moderatore con ciò sarebbe divenuto <publisher>, non più mero <host> di informazioni altrui : in breve, l’informazione sarebbe propria (anche) del moderatore, invece che (solo) di chi a suo tempo la caricò.

Il moderatore covneuto invoca tuttavia il § 230 CDA.

La Corte accoglie l’eccezione, non avcendo l’attore provato un coinvolgimento del moderatore nella produzione della notizia diffamatoria, p. 10-11.

La decisione è interessante: amplia assai il concetto di <internet service provider> , che in tali termini potrà probabilmente essere usato anche nel diritto nazionale ed euroipeo.

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Recensione negativa di professionista su piattaforma social: è diffamazione?

Il Tribunale Siena 20.03.2020, giudice unico Ciofetti,  ha deciso una lite diffamatoria tra un professionista (consulente del lavoro) e il suo cliente.

L’attore (il consulente del lavoro, AB) cita il convenuto (SA) perchè gli paghi la parcella (capitali euro 317,20) e risarcisca il danno da diffamazione cagionato da  recensione assai critica, pubblicata in internet, quantificandolo in euro 50.000,00 per danno non patrimoniale e euro 5.000 per quello patrimoniale forfettariamente (?) stimato.

L’espressione incriminata è << c’è sempre una fregatura da parte mia non lo consiglierei a nessuno!!! >> , pubblicata nel servizio <Google My Business>.

Il Tribunale (poi: T.) respinge la domanda.

Riporto i passi più significativi della sentenza. Il succo è che l’opinione espressa non è particolarmente offensiva e che nel diritto di critica è meno rigoroso il dovere di esattezza dei fatti rappresentati, rispetto al diritto di cronaca [NB: sottolineato, corsivo, colore rosso etc. sono stati da me aggiunti]

La causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p, dice il T. < sub specie dell’esercizio del diritto di critica, ricorre quando i fatti esposti siano veri o quanto meno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorchè erroneamente, convinto della loro veridicità>

Il rispetto della verità del fatto assume, in riferimento all’esercizio del diritto di critica, <un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente oggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica>.

Non vi è dubbio -aggiunge il T.- <che le allusioni contenute nella recensione dell’ SA hanno lo scopo di porre in dubbio la correttezza dell’operato dell’attrice>

Si tratta tuttavia di allusioni in sé consentite dalla facoltà di critica <e che non si traducono in un attacco gratuitamente degradante della figura morale della AB , ma richiamano la forte insoddisfazione del SA sulle prestazioni ricevute. Ad un’attenta analisi, infatti, tali espressioni, valutate secondo il criterio della sensibilità dell’uomo medio, non appaiono dotate di un particolare grado di offensività intrinseco: il convenuto non ha, infatti, usato un linguaggio scurrile o comunque parole particolarmente dispregiative nei confronti della AB , ma si è limitato a descrivere ciò che lui aveva percepito>.

Ciò ovviamente non esclude , riconosce il T., <che le parole usate, benché non dotate di una particolare offensività intrinseca, abbiano comunque urtato in concreto la sensibilità del professionista, ma ciò non rileva in questa sede in quanto, per la giurisprudenza prevalente, “la mera suscettibilità o la gelosa riservatezza della parte asseritamente offesa” (Cass. pen. 24 marzo 1995, n. 3247) non possono rilevare perché, se rilevassero, la sussistenza della diffamazione finirebbe col dipendere dalla maggiore o minore suscettibilità dell’offeso>.

<Tuttavia, in tale ottica, non è consentito al giudice di merito sintetizzare un discorso assegnandogli il significato di un attacco alla persona (“dare fregature”) che lo stesso non ha, visto che nel post viene criticata l’attività professionale e non l’etica del soggetto privato, in quanto tale. Le espressioni utilizzate dal SA  infatti, si riferiscono alla qualità scadente dei servizi che il lavoratore ha ritenuto di ricevere dal consulente ed appare del tutto evidente che la critica alle modalità di svolgimento del lavoro professionale riguarda la percezione che il cliente ha avuto sull’utilità dei servizi ricevuti. La presenza di recensioni negative, del resto, è uno dei “pericoli” cui il professionista va incontro nel momento in cui inserisce il suo profilo professionale in una piattaforma internet, come Gmail My Business.>

In tema di diffamazione, ricorda il T., il requisito della continenza <postula una forma espositiva corretta della critica rivolta – e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione – ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, in quanto non hanno adeguati equivalenti (Sez. 5, Sentenza n. 31669 del 1410412015 Ud. (dep – 21107/2015) Rv. 264442)>

Il rispetto del canone della continenza esige …. che <le modalità espressive dispiegate siano proporzionate e funzionali alla comunicazione dell’informazione, e non si traducano, pertanto, in espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticalo. Pertanto, il requisito della continenza, quale elemento costitutivo della causa di giustificazione del diritto di critica, attiene alla forma comunicativa ovvero alle modalità espressive utilizzate e non al contenuto comunicato (Sez. 5, Sentenza n. 18170 del 09/03/2015 Ud. (dep. 3010412015) Rv. 263460). L’interpretazione offerta dall’attrice, di fatto, finisce per ridurre la facoltà di critica alla esposizione dei fatti e alla loro puntuale, esatta rappresentazione. Gli elementi a disposizione del tribunale, invece, consentono di riconoscere l’operatività della scriminante invocata dal convenuto> .

Di tutto rilievo il seguente passaggio: < Sussiste un interesse pubblico derivante dal fatto che si parla di uno studio di consulenza del lavoro e, in quanto tale, aperto al pubblico>. Ne segue che <il linguaggio, figurato e gergale, nonchè i toni, aspri e polemici, utilizzati dall’agente sono funzionali alla critica perseguita, senza trasmodare nella immotivata aggressione ad hominem. Il requisito della continenza non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo del quale occorre tenere conto anche alla luce del contesto complessivo e del profilo soggettivo del dichiarante (Sez. 5 n. 42570 del 20/06/0218, Concadoro, non massimata). Da ciò discende che la domanda risarcitoria è infondata e va rigettata>

Le spese processuali sono compensate in toto per la seguente (poco chiara) ragione: <Stante l’esito della controversia e, dunque, considerata l’infondatezza della domanda di risarcimento, ma che il convenuto ha pagato il compenso dovuto al professionista solo in corso di causa, sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite> .

Resta il dubbio sull’esattezza della sentenza, laddove il T. non ha richiesto che il cliente spiegasse il motivo dell’insoddisfazione pubblicamente declamata: si può esprimere critica molto negativa senza dire il perchè? In altre parole, è ammessa una critica pesante ma del tutto generica?