Diffamazione, diritto di cronaca e giornalismo di inchiesta

Cass. sez. III,  ord. 05/06/2024  n. 15.755, rel. Rubino:

<<6. – Quanto al rispetto del requisito della verità dei fatti, del quale è stata denunciata la carenza sia col primo che col secondo motivo, la decisione è conforme ai principi più volte enunciati da questa Corte, secondo i quali la lesione dell’onore e della reputazione altrui non si verifica quando la diffusione a mezzo stampa delle notizie costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca, condizionato all’esistenza dei seguenti presupposti: la verità oggettiva della notizia pubblicata; l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta pertinenza); la correttezza formale dell’esposizione (cosiddetta continenza). In particolare, quanto al primo presupposto soltanto la correlazione rigorosa fra fatto e notizia realizza l’interesse pubblico all’informazione, sotteso all’art. 21 Cost., e rende non punibile la condotta ai sensi dell’art. 51 cod. pen., sempre che ricorrano anche la pertinenza e la continenza. Ne consegue che il giornalista ha l’obbligo di controllare l’attendibilità della fonte informativa, a meno che non provenga dall’autorità investigativa o giudiziaria, e di accertare la verità del fatto pubblicato, restando altrimenti responsabile dei danni derivati dal reato di diffamazione a mezzo stampa, salvo che non provi l’esimente di cui all’art. 59 ultimo comma cod. pen. e cioè la sua buona fede (Cass. n.2271 del 2005).

Nel caso di specie, peraltro, i ricorrenti neppure si dolgono di un oggettivo mancato rispetto della verità dei fatti, quanto piuttosto che sia stato ritenuto non diffamatorio l’articolo in questione, che pur riportando i fatti tratti dall’inchiesta giudiziaria con esattezza, ne dava poi una lettura atta a gettare una luce di discredito sull’imprenditore Ma.Gi., pur avendo riferito correttamente che lo stesso non fosse direttamente coinvolto nell’inchiesta né sottoposto ad intercettazioni.

Occorre rilevare però che l’articolo in questione non era un semplice articolo di cronaca giudiziaria, in relazione al quale si richiede una fedele ed asettica riproduzione dei fatti appresi dalle fonti, ma un articolo di approfondimento giornalistico, pubblicato da un settimanale nell’ambito di una inchiesta sul tema dei tentativi di infiltrazione della camorra nelle attività commerciali. Per quanto concerne il giornalismo di inchiesta e di approfondimento, se la verità dei fatti va sempre rispettata, ovvero se i fatti vanno riferiti così come sono stati appresi, non può confiscarsi al giornalista il diritto-dovere di analizzarli, di interpretarli, di porli in correlazione l’uno con l’altro prospettando una chiave di lettura, che e il proprium della sua attività – pur sempre nel rispetto dei limiti esterni della pertinenza e della continenza.

Mentre la cronaca (giudiziaria) contiene solo la ricostruzione fedele dei fatti per come risultanti dalle fonti a disposizione del giornalista, che deve cercare anche di verificarne l’attendibilità, salvo che le fonti non siano di provenienza dall’autorità giudiziaria, nel giornalismo di inchiesta o di approfondimento, i fatti devono essere esposti nel rispetto del criterio della verità, ma poi possono essere letti e messi in correlazione tra loro con quel contributo di originalità che e dato proprio dall’approfondimento giornalistico, che può essere anche teso allo sviluppo di una tesi della quale si cerca il riscontro nello sviluppo dell’inchiesta. Ciò che conta, ai fini della esclusione di una colorazione diffamatoria del giornalismo di inchiesta è che i due elementi – verità dei fatti riferiti, analisi ed interpretazione degli stessi da parte del giornalista – non vengano confusi all’interno dell’articolo, disorientando il lettore ed alterando la sua percezione, ovvero che rimanga chiaro, all’interno dell’articolo, quali sono i fatti obiettivi e quali sia la lettura che di essi dà il giornale, e la valutazione che ne trae>>.

Applicato al caso de quo:

<<7. – Quanto al mancato rispetto dei limiti della pertinenza e della continenza, le censure, contenute nel terzo motivo, sono alquanto generiche e comunque infondate.

La sentenza impugnata è esente dai vizi denunciati: da un lato analizza i profili di rilevanza della inchiesta e dà atto, correttamente, della sua conformità all’interesse pubblico, che sussisterebbe quand’anche, accedendo alla ricostruzione dei fatti prospettata dai ricorrenti, il Ma.Gi. fosse del tutto estraneo ai fatti di penale rilevanza, non indagato e non sottoposto a dirette intercettazioni, perché sarebbe comunque conforme all’interesse pubblico venire a conoscenza dei tentativi della malavita organizzata di infiltrarsi nel tessuto economico sano della società.

Anche quanto alla denunciata violazione della continenza, segnalata come particolarmente evidente nel titolo e nelle immagini ad esso accostate per enfatizzarlo e nei toni enfatici utilizzati per i sottotitoli e i cappelli introduttivi dei vari paragrafi più che nel testo, le censure sono infondate. La corte d’appello definisce il criterio della continenza richiamando proprie precedenti pronunce di merito in linea con i principi più volte affermati da questa Corte, secondo i quali essa deve essere correttamente intesa come correttezza formale dell’esposizione e non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse (Cass. n. 11767 del 2022), aggiungendo peraltro che la narrazione giornalistica, per essere rispettosa dell’altrui interesse a non essere screditati, non per questo può equivalere all’obbligo di utilizzare un linguaggio grigio ed anodino (richiama in proposito Cassazione penale n. 37442 del 2009)>>.

Diritto di cronaca, diritto di critica e diffamazione

Cass.  Sez. III, Ord. 12/03/2024, n. 6.464, rel. Valle, in un obiter dictum conciso e poco chiaro:

<< Il motivo può ritenersi assorbito dall’accoglimento dei primi tre, dovendosi, nondimeno, ribadire che (Cass. n. 25 del 7/01/2009 Rv. 606355 – 01) “qualora la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell’autore dello scritto, in modo da costituire nel contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza non può essere condotta sulla base di criteri solo formali, richiedendosi, invece, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.); bilanciamento ravvisabile nella pertinenza della critica all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, ma di quella interpretazione del fatto, che costituisce, assieme alla continenza, requisito per l’esimente dell’esercizio del diritto di critica” >>.

Riproduzione televisiva dell’immagine di un minore

Cass. sez. III dep. 01/02/2024 , n. 2.978, rel. Spaziani, con un interessante obiter dictum sulla tutela del minore (indicato in rosso; infatti non è la ratio della decisione che non diversifica tra minori e maggiorenni , applicando la gisciplina consueta).

Nel caso i genitori avevano agito per inibitoria e danno contro la RAI per aver ripreso il loro figlio durante un un servizio relativo alla cattura di un latitante.

La SC fa un ripasso generale dapprima:

<<.1.a. Il diritto all’immagine è tutelato nel nostro ordinamento nel codice civile (art.10) e nella legge n. 633 del 1941 sulla protezione del diritto d’autore (artt.96 e 97), che detta il completamento della disciplina codicistica.

Dal combinato disposto della disposizione del codice civile e delle disposizioni della legge speciale, si desume la regola che pone il divieto di esporre o pubblicare l’immagine di una persona.

Il divieto non è assoluto nell’ipotesi in cui l’esposizione o la pubblicazione non rechi pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione della persona ritratta, perché in questa ipotesi l’esposizione o la pubblicazione è eccezionalmente ammessa quando sussista il consenso della persona medesima (art.96 legge n. 633 del 1941) o quando ricorra una delle fattispecie tassativamente stabilite dalla legge in deroga al divieto stesso (notorietà della persona; ufficio pubblico da essa ricoperto; necessità di giustizia o di polizia; sussistenza di scopi scientifici, didattici o culturali; collegamento della riproduzione con fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico: art. 97, primo comma, l. n. 633 del 1941).

Il divieto è, invece, assoluto nella contraria ipotesi in cui l’esposizione o la pubblicazione rechi pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione della persona ritratta, perché in questa ipotesi l’esigenza del rispetto dell’intimità della persona prevale sull’esigenza sociale di pubblica conoscenza della sua immagine, sicché non sono ammesse deroghe al divieto di divulgazione (art.97, secondo comma, l. n.633 del 1941).

2.1.b. Il diritto all’immagine – configurato in dottrina talora come manifestazione del più ampio diritto alla riservatezza, talaltra come autonomo diritto della personalità – ha un duplice contenuto, negativo e positivo.

Sotto il primo profilo, il diritto tutela l’interesse del titolare a che la sua immagine non venga diffusa o esposta in pubblico; la correlativa situazione giuridica soggettiva passiva posta in capo alla totalità (erga omnes) dei consociati consiste in un dovere di astensione.

Sotto il secondo profilo, il diritto tutela l’interesse del titolare ad apparire in pubblico nella misura in cui abbia interesse a farlo; la correlativa situazione giuridica soggettiva passiva posta in capo alla totalità (erga omnes) dei consociati consiste in un obbligo di pati.

Tanto il primo quanto il secondo aspetto del diritto hanno avuto, nell’elaborazione giurisprudenziale, una rilevante capacità espansiva, evolvendo verso forme di tutela più estese di quelle circoscritte dalle norme di diritto positivo dianzi ricordate.

Con riguardo al contenuto positivo del diritto, il crescente riconoscimento sociale della facoltà della persona di apparire in pubblico nella misura in cui abbia interesse a farlo, si è tradotto nel giudizio di meritevolezza di tutela (art. 1322, secondo comma, cod. civ.) dell’interesse patrimoniale del soggetto allo sfruttamento commerciale della propria immagine verso un corrispettivo, ponendo le basi, da un lato, per la diffusione del contratto atipico di sponsorizzazione (Cass. n. 9880 del 1997; Cass. n. 7083 del 2006; Cass. n.12801 del 2006; Cass. n.18218 del 2009); dall’altro lato, per il riconoscimento della risarcibilità del pregiudizio economico rappresentato dalla perdita del corrispettivo dell’utilizzazione della propria immagine a fini pubblicitari (Cass. n. 22513 del 2004; Cass. n. 1875 del 2019), così autorizzandosi la dottrina a ritenere esistente, anche nel nostro ordinamento, la figura, di derivazione americana, del right of publicity.

Con particolare riguardo al contenuto negativo del diritto – ovverosia l’aspetto che assume rilievo nella presente sede – deve osservarsi che nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato, ed è andato consolidandosi, l’orientamento tendente ad operare una integrazione delle fonti della disciplina del diritto soggettivo in esame, individuandole, non più soltanto nella norma codicistica (art.10 cod. civ.) e nelle disposizioni della legge sul diritto d’autore (artt. 96 e 97 della legge n. 633 del 1941), ma anche nel Codice in materia di protezione dei dati personali (D.Lgs.30 giugno 2003, n.196).

In tema di informazione fornita con il servizio televisivo (e con specifico riguardo al caso di diffusione dell’immagine di persone riprese di nascosto) è stato, ad es., ripetutamente affermato che la presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sé, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell’immagine delle persone coinvolte, la cui liceità è subordinata, oltre che al rispetto delle prescrizioni contenute negli artt. 10 cod. civ., 96 e 97 della legge n. 633 del 1941, anche all’osservanza di quelle contenute nell’art. 137 del D.Lgs. n. 196 del 2003 e nell’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, nonché alla verifica in concreto della sussistenza di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell’ottica della essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza della informazione fornita (Cass. n. 15360 del 2015; Cass. n. 18006 del 2018).

Sempre in tema di attività giornalistica (con riguardo alla fattispecie di pubblicazione su quotidiano di fotografia di persona in stato di detenzione) è stato inoltre statuito che la pubblicazione è legittima se sia rispettosa, oltre che dei limiti, fissati dagli artt. 20 e 25 della legge n. 675 del 1996 (ratione temporis applicabili) e, comunque, riprodotti nell’art. 137 del D.Lgs. n. 196 del 2003, di essenzialità per illustrare il contenuto della notizia e quelli dell’esercizio del diritto di cronaca, anche delle particolari cautele imposte a tutela della persona ritratta, previste dall’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, che costituisce fonte normativa integrativa; si è inoltre puntualizzato che l’osservanza dei suddetti limiti va accertata con maggior rigore rispetto alla semplice pubblicazione della notizia, per la maggiore potenzialità lesiva dello strumento visivo e la maggiore idoneità ad una diffusione decontestualizzata e insuscettibile di controllo da parte della persona ritratta (Cass. n. 12834 del 2014).

2.1.c. Il consolidarsi dell’orientamento giurisprudenziale tendente ad integrare le fonti regolatrici del diritto della personalità in esame, si è tradotto nel riconoscimento di una sua maggiore estensione e di una più penetrante e satisfattiva protezione in sede giudiziaria, comportando implicazioni sul giudizio di comparazione tra l’esigenza di tutela dell’interesse della persona a non veder diffusa o esposta in pubblico la propria immagine e l’esigenza di tutela del contrario interesse sociale di pubblica conoscenza dell’immagine medesima, che giustifica la deroga al divieto di esposizione o pubblicazione nelle specifiche ipotesi tassativamente indicate dalla legge.

L’individuazione della fonte regolatrice del diritto anche nelle norme del codice della privacy, implica, infatti, che nel giudizio di bilanciamento assuma un peso maggiore l’esigenza di protezione della sfera privata della persona rispetto alla contraria esigenza di consentirne l’esposizione e la diffusione dell’immagine in quelle tassative fattispecie in cui – escluso comunque il pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione – sussista un interesse generale a renderla pubblica.

2.1.d. L’esigenza di protezione della sfera privata rispetto a quella di tutela dell’interesse pubblico alla diffusione della sua immagine assume particolare preminenza nell’ipotesi in cui si tratti di persona minore d’età.[è il passaggio più importante, solo che è lasciato in bianco l’esito. Il  bilanciamento col diritto alla data protection non ha alcun criterio per la sua esecuzione , come invece per il 96-97 l. aut. e 10 cc]

Con riferimento a tale fattispecie, questa Corte ha infatti affermato che anche quando non ricorra il caso limite della lesione del decoro, della reputazione o dell’onore della persona di cui all’art. 97, secondo comma, della legge n. 633 del 1941 e si integri, al contrario, in astratto, una delle fattispecie (in particolare il collegamento con un evento di interesse pubblico o comunque svoltosi in pubblico) indicate dal primo comma della detta disposizione, può nondimeno escludersi che operi, in concreto, la deroga legale al divieto di riproduzione dell’immagine prevista dalla stessa norma, allorché alla circostanza soggettiva della minore età della persona si accompagni quella, oggettiva, della non casualità della ripresa, espressamente diretta a polarizzare l’attenzione sull’identità del minore e sulla sua riconoscibilità (Cass. 13/05/2020, n. 8880)>> [NB regola probabilmente applicabile pure ai maggiorenni, valendo la stessa ragione] .

Poi va ai fatti di causa, col consueto rigetto del ricorso perchè censurante una valutaizone di fatto e non di diritto:

<< 2.1.e. Nella vicenda in esame, il Tribunale ha debitamente tenuto conto delle fonti regolatrici del diritto e dei limiti del divieto di pubblicazione dell’immagine della persona e ha debitamente svolto l’accertamento di merito alla luce degli illustrati principi di diritto.

Il giudice del merito, infatti, ha accertato, per un verso, la sussistenza di una delle tassative ipotesi in cui la pubblicazione dell’immagine della persona è consentita dalla legge a prescindere dal suo consenso, in quanto giustificata dal suo collegamento con un evento – l’arresto di un latitante nell’ambito del contesto sociale in cui si era nascosto – connotato dall’interesse pubblico all’informazione e, per di più, svoltosi in luogo pubblico; per altro verso, l’insussistenza delle circostanze obiettive che avrebbero escluso la liceità della pubblicazione dell’immagine di una persona minore di età, la quale era stata ripresa nell’ambito di un servizio di cronaca televisiva in modo del tutto casuale, all’interno di una massa indistinta di persone, senza alcun intento di renderla identificabile o riconoscibile da parte di chi avesse veduto il filmato.

Nell’obiettare a tale motivato accertamento l’opposto rilievo che, al contrario, la pubblicazione dell’immagine sarebbe stata compiuta in pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro della persona minorenne e con l’intento di polarizzare l’attenzione sulla sua identità e riconoscibilità, il motivo di ricorso in esame, ad onta della formale intestazione, non denuncia un error in iudicando ma tende a suscitare dalla Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito in contrapposizione a quello motivatamente formulato dal Tribunale nel rispetto dei principi di diritto applicabili alla fattispecie.

Pertanto, anche il secondo motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile>>.

Si v. ora, oltre alla nota redazionale, quella successiva firmata da Palmieri in Foro it., 2024/2, 404 ss (l’a. rileva la novità del bilanciamento esteso alla data protection, ma non ne rileva la difficoltà data dall’assenza di un criterio dirimente).

Diritto al’immagine vs. diritto di cronaca

La S.C. con sentenza 19.02.2021 n. 4477, rel. Campese, esamina in modo convincente una fattispecie forse non rara sul tema: la partecipazione di un personaggio famoso ad un evento privato e la successiva diffusione sui giornali delle fotografie scattate nell’occasione.

Nel caso specifico un calciatore famoso aveva fatto visita in ospedale ad una bambina gravemente malata ma le fotografie (alla bambina, col viso coperto, e  ai genitori) scattate dal personale medico erano poi state diffuse su svariati quotidiani.

L’analitica sentenza soprattutto distingue  tra diritto di cronaca -cioè il diritto di dare notizia dell’evento- e diritto alla riproduzione delle immagini delle persone cooinvolte: esistente il primo, non è detto che necessariamente ricorra pure il secondo: <<tali presupposti, in presenza dei quali il bilanciamento tra l’interesse individuale alla tutela di diritti della personalità quali l’onore, la reputazione e la riservatezza, e quello, costituzionalmente protetto, alla libera manifestazione del pensiero deve risolversi in favore di quest’ultimo, avuto riguardo al prevalente diritto dell’opinione pubblica ad essere informata ed a formarsi un convincimento in ordine a vicende di rilevante interesse collettivo, possono risultare idonei a giustificare la propalazione di informazioni in contrasto con i predetti diritti, ma non sono sufficienti a legittimare, sic et simpliciter, anche la diffusione della immagine della persona interessata, la quale trova un’autonoma e più rigorosa regolamentazione nell’art. 10 A.B. e della L. n. 633 del 1941, art. 97, di cui si è ampiamente detto in precedenza …. . In quest’ottica, la mera circostanza che l’immagine pubblicata appartenga ad un soggetto cui è riferibile una vicenda rispetto alla quale sia configurabile un interesse alla conoscenza da parte del pubblico non può considerarsi sufficiente a legittimarne la riproduzione e la diffusione, occorrendo a tal fine un quid pluris, consistente nella necessità che tale divulgazione risulti essenziale per la completezza e la correttezza dell’informazione fornita>>, § 2.7.2 e 2.7.3.

La diffusione dell’immagine infatti ha maggiore potenzialità lesiva: <<questa Corte, del resto, ha già avuto modo di affermare che l’accertamento della legittimità della pubblicazione dell’immagine di una persona senza o contro il consenso dell’interessato è un’indagine che va condotta caso per caso, nel rispetto sia dei parametri del diritto di cronaca e dell’essenzialità della diffusione della notizia, sia dei parametri specifici fissati dall’art. 8 citato a presidio della tutela della dignità umana (oltre che, ovviamente, a quello di cui al precedente art. 7 quanto alla tutela dei minori). La più accentuata potenzialità lesiva e la maggiore diffusività dell’immagine comportano inoltre che la relativa valutazione debba essere compiuta con maggior rigore rispetto a quella concernente la semplice pubblicazione della notizia, occorrendo verificare se la pubblicazione delle immagini fosse essenziale ai fini dell’informazione e inoltre considerare se tali immagini, per le loro caratteristiche intrinseche, fossero da considerare lesive della dignità della persona, in considerazione della particolare potenzialità offensiva connessa all’enfatizzazione tipica dello stesso strumento visivo (ed all’idoneità dell’immagine, una volta pubblicata, ad essere riprodotta anche a distanza di tempo sui più svariati mezzi di comunicazione, scissa dall’articolo di cronaca che ne poteva giustificare in origine la pubblicazione e sottratta al controllo del soggetto ritratto), il cui uso nell’attività giornalistica è per questo circondato da particolari cautele (cfr. Cass. n. 12834 del 2014)>>, § 2.7.6.

Inoltre, nel caso specifico <<l’avvenuta pubblicazione di foto centrate (anche) su di una minore allettata, non importa se con il viso oscurato, tra apparecchi e cavi, con medici ed infermieri e con la diffusione delle generalità, è certamente lesiva di quel preminente interesse del minore (soprattutto se in relazione ai principi di cui si è già dato precedentemente conto al p. 2.5.2, da intendersi qui ribaditi) che, dalla menzionata Convenzione di New York in poi, è al centro del diritto a livello internazionale>>, § 2.9. Sembra cioè di capire che sia di per sè lesiva: affermazione , allora, importante.

Pure importante (anche a livello teorico scontato)  è il seguente passo: <<la circostanza che i dati personali siano stati resi noti direttamente dagli interessati in una pregressa occasione non ha valore di consenso tacito al trattamento anche in contesti diversi dalla loro originaria pubblicazione, poichè l’interessato può essere contrario a che l’informazione da lui già resa nota riceva una ulteriore e più ampia diffusione, dovendosi ritenere che la deroga prevista dal D.Lgs. 30 giugno 2006, n. 196, art. 137, u.c., concerna solo l’essenzialità del dato trattato e non anche l’interesse pubblico alla sua diffusione, di cui va apprezzata autonomamente l’idoneità, in ispecie rispetto al diritto del minore alla riservatezza ed alla non diffusione dei sui dati anagrafici e del suo domicilio (cfr. Cass. n. 27381 del 2013)>>, § 2.9.3 (la SC si riferisce all’eccezione dei convenuti per cui poteva desumersi un consenso dei genitori dal fatto che avevano dato notizia dell’evento su una pagina Facebook).

Infine va rimarcato l’interesse della pronuncia per l’esame dei profili specificamente giornalistici del diritto di cronaca  e dunque degli artt. 136 e 137 cod. privacy.

In conclusione, i corpi normativi invocati in causa sono stati (la SC non menziona il GDPR, probabilmente perchè i fatti erano anteriori alla sua entrata in vigore):

  1. codice civile (art. 10).
  2. legge d’ autore (artt. 96-97)
  3. cod. privacy  nel testo anteriore al D LGS 101/2018, ratione temporis (spt. artt 136-137)
  4. Conv. New York del 1989 sui diritti del fanciullo
  5. codice deontologico dei giornalisti (dotato di dignità giuridica almeno ex artt-. 137 e 139 cod. privacy)

Recensione negativa di professionista su piattaforma social: è diffamazione?

Il Tribunale Siena 20.03.2020, giudice unico Ciofetti,  ha deciso una lite diffamatoria tra un professionista (consulente del lavoro) e il suo cliente.

L’attore (il consulente del lavoro, AB) cita il convenuto (SA) perchè gli paghi la parcella (capitali euro 317,20) e risarcisca il danno da diffamazione cagionato da  recensione assai critica, pubblicata in internet, quantificandolo in euro 50.000,00 per danno non patrimoniale e euro 5.000 per quello patrimoniale forfettariamente (?) stimato.

L’espressione incriminata è << c’è sempre una fregatura da parte mia non lo consiglierei a nessuno!!! >> , pubblicata nel servizio <Google My Business>.

Il Tribunale (poi: T.) respinge la domanda.

Riporto i passi più significativi della sentenza. Il succo è che l’opinione espressa non è particolarmente offensiva e che nel diritto di critica è meno rigoroso il dovere di esattezza dei fatti rappresentati, rispetto al diritto di cronaca [NB: sottolineato, corsivo, colore rosso etc. sono stati da me aggiunti]

La causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p, dice il T. < sub specie dell’esercizio del diritto di critica, ricorre quando i fatti esposti siano veri o quanto meno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorchè erroneamente, convinto della loro veridicità>

Il rispetto della verità del fatto assume, in riferimento all’esercizio del diritto di critica, <un rilievo più limitato e necessariamente affievolito rispetto al diritto di cronaca, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente oggettiva, ha per sua natura carattere congetturale, che non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica>.

Non vi è dubbio -aggiunge il T.- <che le allusioni contenute nella recensione dell’ SA hanno lo scopo di porre in dubbio la correttezza dell’operato dell’attrice>

Si tratta tuttavia di allusioni in sé consentite dalla facoltà di critica <e che non si traducono in un attacco gratuitamente degradante della figura morale della AB , ma richiamano la forte insoddisfazione del SA sulle prestazioni ricevute. Ad un’attenta analisi, infatti, tali espressioni, valutate secondo il criterio della sensibilità dell’uomo medio, non appaiono dotate di un particolare grado di offensività intrinseco: il convenuto non ha, infatti, usato un linguaggio scurrile o comunque parole particolarmente dispregiative nei confronti della AB , ma si è limitato a descrivere ciò che lui aveva percepito>.

Ciò ovviamente non esclude , riconosce il T., <che le parole usate, benché non dotate di una particolare offensività intrinseca, abbiano comunque urtato in concreto la sensibilità del professionista, ma ciò non rileva in questa sede in quanto, per la giurisprudenza prevalente, “la mera suscettibilità o la gelosa riservatezza della parte asseritamente offesa” (Cass. pen. 24 marzo 1995, n. 3247) non possono rilevare perché, se rilevassero, la sussistenza della diffamazione finirebbe col dipendere dalla maggiore o minore suscettibilità dell’offeso>.

<Tuttavia, in tale ottica, non è consentito al giudice di merito sintetizzare un discorso assegnandogli il significato di un attacco alla persona (“dare fregature”) che lo stesso non ha, visto che nel post viene criticata l’attività professionale e non l’etica del soggetto privato, in quanto tale. Le espressioni utilizzate dal SA  infatti, si riferiscono alla qualità scadente dei servizi che il lavoratore ha ritenuto di ricevere dal consulente ed appare del tutto evidente che la critica alle modalità di svolgimento del lavoro professionale riguarda la percezione che il cliente ha avuto sull’utilità dei servizi ricevuti. La presenza di recensioni negative, del resto, è uno dei “pericoli” cui il professionista va incontro nel momento in cui inserisce il suo profilo professionale in una piattaforma internet, come Gmail My Business.>

In tema di diffamazione, ricorda il T., il requisito della continenza <postula una forma espositiva corretta della critica rivolta – e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione – ma non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, in quanto non hanno adeguati equivalenti (Sez. 5, Sentenza n. 31669 del 1410412015 Ud. (dep – 21107/2015) Rv. 264442)>

Il rispetto del canone della continenza esige …. che <le modalità espressive dispiegate siano proporzionate e funzionali alla comunicazione dell’informazione, e non si traducano, pertanto, in espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticalo. Pertanto, il requisito della continenza, quale elemento costitutivo della causa di giustificazione del diritto di critica, attiene alla forma comunicativa ovvero alle modalità espressive utilizzate e non al contenuto comunicato (Sez. 5, Sentenza n. 18170 del 09/03/2015 Ud. (dep. 3010412015) Rv. 263460). L’interpretazione offerta dall’attrice, di fatto, finisce per ridurre la facoltà di critica alla esposizione dei fatti e alla loro puntuale, esatta rappresentazione. Gli elementi a disposizione del tribunale, invece, consentono di riconoscere l’operatività della scriminante invocata dal convenuto> .

Di tutto rilievo il seguente passaggio: < Sussiste un interesse pubblico derivante dal fatto che si parla di uno studio di consulenza del lavoro e, in quanto tale, aperto al pubblico>. Ne segue che <il linguaggio, figurato e gergale, nonchè i toni, aspri e polemici, utilizzati dall’agente sono funzionali alla critica perseguita, senza trasmodare nella immotivata aggressione ad hominem. Il requisito della continenza non può ritenersi superato per il solo fatto dell’utilizzo di termini che, pur avendo accezioni indubitabilmente offensive, hanno però anche significati di mero giudizio critico negativo del quale occorre tenere conto anche alla luce del contesto complessivo e del profilo soggettivo del dichiarante (Sez. 5 n. 42570 del 20/06/0218, Concadoro, non massimata). Da ciò discende che la domanda risarcitoria è infondata e va rigettata>

Le spese processuali sono compensate in toto per la seguente (poco chiara) ragione: <Stante l’esito della controversia e, dunque, considerata l’infondatezza della domanda di risarcimento, ma che il convenuto ha pagato il compenso dovuto al professionista solo in corso di causa, sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite> .

Resta il dubbio sull’esattezza della sentenza, laddove il T. non ha richiesto che il cliente spiegasse il motivo dell’insoddisfazione pubblicamente declamata: si può esprimere critica molto negativa senza dire il perchè? In altre parole, è ammessa una critica pesante ma del tutto generica?

Sulla diffamazione tramite opera cinematografica (fatti affermati vs. fatti solo suggeriti)

La Cassazione (sez. I civ., 19.06.2019 n. 16.506, rel. Tricomi)  decide su una domanda di risarcimento danni per diffamazione, asseritamente prodotti da un film sulla vita di Giovanni Falcone perchè lesivo dell’onore o della reputazione.

La domanda risarcitoria era stata avanzata dal magistrato Vincenzo Geraci nei confronti dei titolari del diritto d’autore.  Geraci aveva a suo tempo collaborato con Falcone, anche se poi non votò a suo favore nella delibera del CSM per l’assegnazione della carica di capo del pool antimafia, istituto dal magistrato Chinnici (prendo dai fatti storici ricordati da M. De Chiara, in nota alla sentenza, Foro it., 2019, 12, 3978, § 2).

La lunga sentenza viene qui riferita solo relativamente al profilo della conciliazione fra diritto di cronaca/di critica, da una parte, e diritto all’onore/alla reputazione, dall’altra (§ 4.2).

La Corte dapprima ribadisce che il diritto all’onore e alla reputazione cede quando viene esercitato il diritto di cronaca oppure quello di critica, entrambi gemmati dalla libertà di espressione. Illustra quindi i limiti posti all’esercizio dell’uno  e dell’altro, che non coincidono: sono meno stringenti infatti quelli posti al diritto di critica (§ 4.2.3)

La parte più interessante è quando applica questa disciplina alla fattispecie sub iudice: la quale non è collocabile in modo netto in alcuna delle due cit. categorie concettuali.

La Corte osserva infatti: <<Questa distinzione, tuttavia, tende ad essere superata, laddove l’opera artistica riguardi vicende di cronaca ancora in evoluzione, utilizzi i nomi propri delle persone coinvolte e adotti un taglio al contempo sia narrativo che giornalistico o documentaristico, come nel caso in esame, dovendosi dare allora prevalenza agli aspetti di tipo informativo/documentaristico, rispetto a quelli di tipo artistico/creativo, venendo in rilievo la pretesa di raffigurare in un’unità temporale sia pur ridotta, una vicenda che è conosciuta e di cui le cronache hanno parlato, anche con dovizia di dettagli, di modo da applicare i criteri di valutazione della verità putativa più confacenti al caso di specie >> (§ 4.2.4, primo per.).

Non è esatto allora intepretare questo passo nel senso che <<la corte premette che nell’opera in esame l’intento cronachistico è prevalente>> (così De Chiara , cit., § 4). La Corte, invece, dice che, quando ricorrono sia l’intento cronachistico che quello critico, si deve fare prevalere il primo (condivisibilmente, direi, dato che -in presenza di duplice anima dell’opera dell’ingegno- va applicata la disciplina di quella più lesiva).

Ne segue allora che in tale caso <<la valutazione della sussistenza dell’esimente della verità putativa deve attenersi ai più stringenti criteri richiesti al pari dell’esercizio del diritto di cronaca, distinguendo tra fatti oggettivamente accertati e le opinioni raccolte, sia pure da fonti attendibili, senza limitare il giudizio di liceità sull’esplicazione del diritto di critica attuato mediante la realizzazione dell’opera cinematografica ad una valutazione degli elementi formali ed estrinseci, ma estendendolo anche ad un esame dell’uso di espedienti stilistici, che possono trasmettere agli spettatori, anche al di là di una formale — ed apparente — correttezza espositiva, connotazioni negative sulle persone e sul ruolo rivestito da loro in una più ampia vicenda; per cui, in definitiva, ogni accostamento di notizie vere può considerarsi lecito se non produce un ulteriore significato che le trascenda e che abbia autonoma attitudine lesiva, considerata nel complesso della narrazione filmica e delle interrelazioni causali rappresentate in audio e video o implicitamente suggerite>> ( § 4.2.4 secondo per.).

Sintetizzerei allora così due insegnamenti traibili dal riportato (e un pò contorto) passo, relativamente alla c.d “verità putativa”:

1) in un caso (come quello sub iudice), che non è puro esercizio nè del diritto di critica né di quello di cronaca, bisogna attenersi ai limiti più rigorosi cioè a quelli posti al diritto di cronaca;

2) detti limiti riguardano non solo i fatti apertamente introdotti nella narrazione, ma anche quelli suggeriti, insinuati o evocati solo per implicito.

Sulla disciplina della “verità putativa”, va letta la recente Cass. 29.10.2019 n. 27.592, redatta con la sua consueta chiarezza dal giudice Rossetti, relativa ad una diffusione via web di notizie diffamanti a carico di un imprenditore operante nel settore della ristorazione (anche tramite servizi di buoni pasto a pubbliche amministrazioni). Riporto la sintesi finale: <<In conclusione, per la consolidata giurisprudenza di questa Corte il rispetto della verità putativa non può dirsi sussistente sol perché l’autore abbia riferito di fatti appresi da una fonte giudiziaria, poliziesca od amministrativa. Sussiste solo se l’autore riferisca donde abbia appreso quei fatti; non taccia fatti connessi o collaterali di cui sia a conoscenza; non ricorra ad insinuazioni allusive con riferimento ai fatti riferiti; si attivi con zelo e prudenza nel vagliare la verosimiglianza dei fatti riferiti>> (§ 2.5.3).

diritto all’oblio vs. diritto di cronaca: norma di riferimento

la norma di riferimento sul tema è l’art. 17 del GDPR ( REGOLAMENTO (UE)  2016/679 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)) , secondo cui:

<< Articolo 17
Diritto alla cancellazione («diritto all’oblio»)
1. L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i
dati personali, se sussiste uno dei motivi seguenti:
a) i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati;
b) l’interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento conformemente all’articolo 6, paragrafo 1, lettera a), o all’articolo 9, paragrafo 2, lettera a), e se non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento;
c) l’interessato si oppone al trattamento ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento, oppure si oppone al trattamento ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 2;
d) i dati personali sono stati trattati illecitamente;
e) i dati personali devono essere cancellati per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento;
f) i dati personali sono stati raccolti relativamente all’offerta di servizi della società dell’informazione di cui all’articolo 8, paragrafo 1.

  1. Il titolare del trattamento, se ha reso pubblici dati personali ed è obbligato, ai sensi del paragrafo 1, a cancellarli, tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione adotta le misure ragionevoli, anche tecniche, per informare i titolari del trattamento che stanno trattando i dati personali della richiesta dell’interessato di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei suoi dati personali.
  2. I paragrafi 1 e 2 non si applicano nella misura in cui il trattamento sia necessario:
    a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione;
    b) per l’adempimento di un obbligo legale che richieda il trattamento previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o per l’esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento;
    c) per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica in conformità dell’articolo 9, paragrafo 2, lettere h) e i), e dell’articolo 9, paragrafo 3;
    d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento; o
    e) per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.>>

diritto all’oblio vs. diritto di cronaca: rimessione alle sezioni unite della Corte di Cassazione

La Cassazione ora rimette la questione alle sezioni unite (Cass. 05/11/2018, n. 28084), in quanto  questione di massima di particolare importanza (art. 374/2 cpc), così concludendo  :

<< 9.  Il bilanciamento tra il diritto di cronaca ed il diritto all’oblio incide sul modo di intendere la democrazia nella nostra attuale società civile, che, da un lato fa del pluralismo delle informazioni e della loro conoscenza critica un suo pilastro fondamentale; e, dall’altro, non può prescindere dalla tutela della personalità della singola persona umana nelle sue diverse espressioni.

Sembra al Collegio che, soltanto partendo dal caso concreto, sia possibile definire: quando possa effettivamente configurarsi un interesse pubblico alla conoscenza di fatti (tali non essendo le insinuazioni di dubbi e le voci incontrollate); quando, nonostante il tempo trascorso dai fatti, detto interesse possa essere considerato attuale; in che termini, sulla sussistenza di detto interesse, possa incidere la gravità e la rilevanza penale del fatto, la completezza (o la incompletezza) della notizia del fatto, la finalità di trattamento del dato (se, ad es., per fini di ricerca scientifica o storica, per fini statistici, per fini di informazione o per altri motivi, ad es. di marketing), la notorietà (o la mancanza di notorietà) della persona interessata, la chiarezza della forma espositiva utilizzata (anche evitando l’accorpamento e l’accostamento di notizie false a notizie vere).

Il delicato assetto dei rapporti tra diritto all’oblio e diritto di cronaca o di manifestazione del pensiero assume così – alla luce del vigente quadro normativo e giurisprudenziale, nazionale ed Europeo, il primo dei quali come di recente innovato, a garanzia del generale principio della certezza del diritto – i contorni della questione di massima di particolare importanza, parendo ormai indifferibile l’individuazione di univoci criteri di riferimento che consentano agli operatori del diritto (ed ai consociati) di conoscere preventivamente i presupposti in presenza dei quali un soggetto ha diritto di chiedere che una notizia, a sè relativa, pur legittimamente diffusa in passato, non resti esposta a tempo indeterminato alla possibilità di nuova divulgazione; e, in particolare, precisare in che termini sussiste l’interesse pubblico a che vicende personali siano oggetto di (ri)pubblicazione, facendo così recedere il diritto all’oblio dell’interessato in favore del diritto di cronaca.

Si rimettono pertanto gli atti al Primo Presidente della Corte per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione di massima di particolare importanza, concernente il bilanciamento del diritto di cronaca – posto al servizio dell’interesse pubblico all’informazione – e del c.d. diritto all’oblio – posto a tutela della riservatezza della persona – alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale negli ordinamenti interno e sovranazionale.>>

Si badi la cronologia: fatti storici del 1982, articolo giornalistico del 2009.

diritto all’oblio vs. diritto di cronaca: caso Venditti c. RAI

Secondo Cass. civ. 20/03/2018 n. 6919. Est. Valitutti, Venditti Antonio c. RAI – Radiotelevisione Italiana S.p.a, § 3:

<<Da tale quadro normativo – desumibile da un reticolo di norme nazionali (art. 2 Cost., art. 10 c.c., L. n. 633 del 1941, art. 97) ed Europee (artt. 8 e 10, comma 2 CEDU, artt. 7 e 8 della Carta di Nizza – e giurisprudenziale di riferimento deve, pertanto, inferirsi che il diritto fondamentale all’oblio può subire una compressione, a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza di specifici e determinati presupposti:

1) il contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico;

2) l’interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali), da reputarsi mancante in caso di prevalenza di un interesse divulgativo o, peggio, meramente economico o commerciale del soggetto che diffonde la notizia o l’immagine;

3) l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica e, segnatamente, nella realtà economica o politica del Paese;

4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l’informazione, che deve essere veritiera (poichè attinta da fonti affidabili, e con un diligente lavoro di ricerca), diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell’interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione;

5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all’interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al grande pubblico.

In assenza di tali presupposti, la pubblicazione di una informazione concernente una persona determinata, a distanza di tempo da fatti ed avvenimenti che la riguardano, non può che integrare, pertanto, la violazione del fondamentale diritto all’oblio, come configurato dalle disposizioni normative e dai principi giurisprudenziali suesposti.>>