La petizione ereditaria è implicita nella domanda di scioglimento della comunione

Cass. sez. II, Sent. 17/10/2024, n. 26.951, rel. Pirari:

<<Orbene, la questione proposta attiene, nella specie, agli effetti che conseguono alla proposizione di una domanda di scioglimento della comunione ereditaria e alla configurabilità dell’efficacia recuperatoria della stessa in assenza di relativa domanda, posto che, secondo il ricorrente, i giudici di merito non avrebbero potuto includere nella massa dividenda una somma di denaro in assenza di domanda di condanna e, correlatamente, di pronuncia in tal senso. A ben vedere, però, questa ricostruzione degli istituti non convince, poiché si pone in contrasto con il significato stesso del giudizio di divisione ereditaria e gli effetti da esso scaturenti. E’ ben noto, invero, che il recupero, da parte dell’erede, dei beni ereditari di cui sia nel possesso un terzo, sia in qualità di erede, sia senza titolo, avviene con l’esercizio dell’azione di petizione ereditaria ex art. 533 cod. civ., la quale, oltre ad avere natura reale e non contrattuale, è fondata sull’allegazione della qualità di erede con la finalità, giustappunto, di conseguire il rilascio dei beni compresi nell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione da chi li possiede senza titolo o in base a titolo successorio che non gli compete, ma non quelli che, al momento dell’apertura della successione del de cuius, erano già fuoriusciti dal suo patrimonio e che, in ragione di ciò, non possono essere considerati quali beni ereditari (in tal senso, Cass., Sez. 2, 4/4/2024, n. 8942).

Orbene, la petizione dell’eredità, che consente, ai sensi dell’art. 533 cod. civ., di chiedere sia la quota dell’asse ereditario sia il suo valore, potendo così assumere tanto natura di azione di accertamento o funzione recuperatoria (Cass., Sez. 6-2, 24/9/2020, n. 20024 ), quanto di condanna al rilascio dei beni ereditari posseduti dal convenuto a titolo di erede (Cass., Sez. 2, 19/1/1980, n. 461), si configura anche quando sia proposta domanda di divisione dell’asse ereditario, in quanto quest’ultima, al pari della prima, postula l’accertamento dell’esistenza, nell’attivo ereditario, del credito di cui il de cuius era titolare nei confronti di altro coerede per le somme da questi illegittimamente prelevate dal conto cointestato prima della sua morte (Cass., Sez. 6-2, 24/9/2020, n. 20024; Cass., Sez. 2, 2004, n. 24034). Ciò comporta che nell’azione di scioglimento della comunione ereditaria può dirsi insita l’azione di petizione ereditaria allorché si chieda la ricostruzione dell’asse relitto e l’inclusione, in esso, di beni sottratti da altro erede o da un terzo, ivi compresi, dunque, i crediti vantati dal de cuius o le somme di denaro illecitamente prelevate da altro erede, come nella specie, tanto più che la sentenza contenente l’assegnazione dei beni ai condividenti costituisce titolo esecutivo, idoneo a consentire a ciascuno di costoro di acquistare non soltanto la piena proprietà dei beni facenti parte della quota toccatagli, ma anche la potestà di esercitare tutte le azioni inerenti al godimento del relativo dominio, ivi compresa quella diretta ad ottenere, in via esecutiva, il rilascio dei beni in essa inclusi, rispetto ai quali gli altri condividenti non hanno più alcun titolo giustificativo per protrarre ulteriormente la detenzione proprio per effetto della compiuta divisione (sull’efficacia di titolo esecutivo dello scioglimento della comunione vedi Cass., Sez. 2, 22/8/2018, n. 20961; Cass., Sez. 2, 27/12/2013, n. 28697).

E’ allora evidente come nessuna ultrapetizione possa dirsi verificata nella specie, derivando dall’accertamento dell’esatta consistenza del patrimonio relitto prima e dall’attribuzione delle quote poi, presupponente evidentemente l’accertamento della qualità di erede, gli stessi effetti sostanziali che derivano dalla petizione ereditaria, che, in ragione di ciò, può dirsi insita nella domanda di scioglimento della comunione>>.

Non necessaria una rigorosa omogeneità delle porzioni nella divisione ereditaria

Cass. sez. II, ord. 24/10/2024 n. 27.602, rel. Criscuolo, sull’art. 727 cc:

fatto processuale:

<<La Corte d’Appello ha ritenuto di condividere i due distinti progetti di divisione approvati dal Tribunale, addivenendo ad un’assegnazione dei beni che non prevede la divisione di ognuno degli immobili caduti in successione tra i due gruppi di condividenti, ma ha previsto che le quote in natura fossero formate in parte con beni interamente inclusi nelle stesse, ovvero, come nel caso del fondo R con delle porzioni oggetto di frazionamento non perfettamente corrispondenti al valore della quota ideale, compensando tale differenza con l’assegnazione a favore del condividente che aveva ricevuto una quota materiale del bene inferiore a quella ideale, con l’assegnazione di altri beni tali da compensare la detta differenza>>.

Valutazione giuridica della SC:

<<Trattasi di soluzione che appare in primo luogo supportata dalla giurisprudenza di questa Corte che ha in più occasioni affermato che il principio stabilito dall’art. 727 c.c., in virtù del quale, nello scioglimento della comunione, il giudice deve formare lotti comprensivi di eguali quantità di beni mobili, immobili e crediti, non ha natura assoluta e vincolante, ma costituisce un mero criterio di massima; ne consegue che resta in facoltà del giudice della divisione predisporre i detti lotti anche in maniera diversa, ove ritenga che l’interesse dei condividenti sia meglio soddisfatto attraverso l’attribuzione di un intero immobile, piuttosto che con il suo frazionamento, e che il relativo giudizio è incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato. (Cass. n. 29733 del 12/12/2017).

Inoltre nella divisione non si richiede necessariamente, in sede di formazione delle porzioni, una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo, nell’ambito di ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l’intero ad una quota ed altri, sempre per l’intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria, o comunque del complesso da dividere. Pertanto, nell’ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, il giudice del merito deve accertare se l’anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio (cfr. ex multis Cass. n. 17862 del 27/08/2020)>>.

CEssione di diritti su bene ereditario vs cessione di quota ereditaria: cambia la qualifica a seconda che ci sia un solo bene oppure più

Cass. sez. II, ord.  08/07/2024  n. 18.548, rel. Criscuolo:

<<Questa Corte ha, anche di recente, affermato che in tema di divisione ereditaria, la cessione a terzi estranei di diritti su singoli beni immobili ereditari non comporta lo scioglimento – neppure parziale – della comunione, in quanto i diritti continuano a fare parte della stessa comunione, restando l’acquisto del terzo subordinato all’avveramento della condizione che essi siano in sede di divisione assegnati all’erede che li abbia ceduti. Ne consegue che, se un coerede può alienare a terzi in tutto o in parte la propria quota, tanto produce effetti reali se e in quanto l’acquirente venga immesso nella comunione ereditaria, mentre, in caso diverso, la vendita avrà soltanto effetti obbligatori, salvo che la vendita non abbia avuto a presupposto un atto di scioglimento della comunione ereditaria, anche implicito, in ordine a tali beni (Cass. n. 25462/2023; Cass. n. 3385/2007).

Viceversa, nel caso di vendita da parte di uno dei coeredi di bene ereditario che costituisce l’intera massa, l’effetto traslativo dell’alienazione non resta subordinato all’assegnazione in sede di divisione della quota all’erede alienante, dal momento che costui è proprietario esclusivo della frazione ideale di cui può liberamente disporre, sicché il compratore subentra, “pro quota”, nella comproprietà del bene comune (Cass. n. 25462/2023), con affermazione di principio che è destinata a trovare applicazione anche nel caso in cui, pur riferendosi la vendita a singoli beni, la stessa esaurisca l’intero complesso dei beni ricaduti nella quota dell’alienante.

A tal fine diviene rilevante la concreta verifica compiuta dal giudice di merito, essendosi quindi specificato che l’indagine da quest’ultimo compiuta e diretta ad accertare, di norma ai fini dell’ammissibilità del retratto successorio, se la vendita compiuta da un coerede abbia avuto per oggetto la quota ereditaria (o una sua frazione) ovvero beni determinati, costituisce un apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione immune da vizi logici e giuridici (Cass. n. 25462/2023; Cass. n. 97/2011; Cass. n. 369/1986, secondo cui l’indicazione di beni determinati nel contratto di alienazione non costituisce elemento decisivo per escludere la ipotesi di trasferimento della quota ereditaria o di parte di essa, occorrendo accertare se l’acquirente sia stato o non introdotto nella comunione, con un’indagine che si avvalga tanto del dato oggettivo della rappresentatività quantitativa del bene, quanto del dato soggettivo della volontà dei contraenti, desumibile anche dal comportamento successivo al negozio; Cass. n. 3959/83; Cass. n. 5620/82; Cass. n. 246/1985; Cass. n. 5458/1979; Cass. n. 1537/1973).

Ad avviso della Corte tale indagine risulta essere stata operata in maniera incensurabile dal giudice di merito, così che le critiche mosse con il motivo in esame appaiono prive di fondamento. In primo luogo si rileva che l’atto contestato contiene una indicazione delle componenti alienate che risulta esaustiva, in rapporto alla quota ereditaria vantata dalla alienante, avendo la cedente fatto riferimento sia alle componenti di natura immobiliare sia al diritto di credito al momento ancora esistente alla data dell’alienazione, e cioè al saldo attivo del rapporto di conto corrente intrattenuto dal de cuius.

Non incide in senso contrario il mancato riferimento ad alcuni titoli di Stato di cui la sentenza impugnata fa menzione. In tal senso rileva che, come riferito a pag. 11 della decisione di appello, trattasi di due titoli di stato che erano stati incassati dalla Ma.Su. nell’imminenza dell’apertura della successione, e che quindi non rientravano più, per essere stati estinti, tra le componenti attive dell’asse relitto.

Inoltre, l’avvenuta riscossione, peraltro in maniera illegittima, da parte della Ma.Su., ha determinato la sua condanna a reintegrare gli altri coeredi di quanto indebitamente prelevato, dando vita quindi ad un’obbligazione personale della stessa Ma.Su., che esula dal novero dei debiti ereditari, trattandosi di un’obbligazione assunta personalmente, per effetto della sua condotta illegittima.

Ne deriva che alcuna conseguenza sul piano dell’esegesi dell’atto può attribuirsi alla mancata menzione di tali titoli, in quanto ormai sottratti al novero dei beni ancora comuni, così come non può attribuirsi rilievo alla mancata menzione di debiti ereditari, in assenza della dimostrazione che ve ne fossero.

Né risulta rilevante la precisazione nell’atto di vendita che la alienante conservava il possesso dei beni alienati, e quindi ove si acceda all’esegesi fatta propria dai giudici di merito, della quota ereditaria di sua pertinenza, occorrendo a tal fine tenere conto della circostanza che la vendita riguardava la nuda proprietà, essendo il possesso di cui si fa menzione nell’atto riferibile al diritto di usufrutto che la venditrice si era riservata.

In assenza dell’indicazione di diversi beni facenti parte della quota ereditaria, ma esclusi dall’atto di cessione, ed apparendo quindi che quest’ultimo abbia effettivamente carattere esaustivo del compendio relitto, ancorché non si faccia espresso riferimento all’alienazione della quota, ma alla titolarità di singoli beni immobili e di diritti di credito, deve però ritenersi che l’atto in esame sia stato apprezzato come cessione di quota ereditaria, con una valutazione che non appare censurabile in questa sede, non potendosi attribuire al dato letterale portata risolutiva, ben potendosi quindi assegnare una valenza interpretativa privilegiata proprio al riferimento di cui all’art. 3 dell’atto al fatto che l’alienazione delle componenti indicate aveva ad oggetto tutto quanto spettante all’alienante “quale coerede del marito An.Ia.” >>.

La divisione ereditaria degli immobili

Cass. sez. II, ord. 21/06/2024 n. 17.176, rel. Criscuolo:

<<4. Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 720 c.c. in relazione all’art. 727 c.c.. (…).

La critica si appunta sulla valutazione dell’immobile di via (Omissis), e ciò in quanto si tratterebbe di due distinte unità immobiliari che avrebbero potuto essere inserite in due diverse quote.

Ciò avrebbe determinato una grave lacuna nell’operato del CTU.

Peraltro, alla defunta madre sarebbe stato possibile attribuire, in alternativa ai detti immobili, la villa di c.da (Omissis) nella sua interezza.

Non va poi trascurata l’illogicità della decisione di frazionare in quattro quote la villa di c.da (Omissis), con costi cospicui ed esosi. Il motivo è inammissibile.

Va richiamato il principio per il quale (Cass. n. 17862/2020) nella divisione ereditaria non si richiede necessariamente, in sede di formazione delle porzioni, una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo, nell’ambito di ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l’intero ad una quota ed altri, sempre per l’intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria, o comunque del complesso da dividere. Pertanto, nell’ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, il giudice del merito deve accertare se l’anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio.

Inoltre, è stato anche di recente ribadito che (Cass. n. 726/2018) in tema di divisione ereditaria, il giudice, nello scegliere, fra più progetti di divisione, quale approvare, ben può privilegiare quello che limita al massimo la misura dei conguagli, così assicurando che la quota sia prevalentemente formata in natura.

La valutazione resa sul punto dal giudice di merito costituisce però evidentemente un apprezzamento di fatto che è insuscettibile di sindacato in sede di legittimità (…).

La censura difetta altresì di specificità, nella parte in cui, pur denunciando la mancata considerazione della possibilità di valutare separatamente gli immobili di via Italia, omette però di individuare come la diversa valutazione dei beni possa effettivamente incidere sulla formazione di un diverso progetto di divisione, e ciò anche alla luce del fatto che la soluzione suggerita, consistente nell’attribuire alla quota della Ru. la villa di contrada Spagnola, implicherebbe la previsione di un conguaglio di valore notevolmente superiore a quello invece previsto nel progetto approvato in sentenza, in violazione della regola che vieta di imporre conguagli di ammontare sproporzionato o eccessivo.

Né coglie nel segno l’affermazione secondo cui la scelta di attribuire il bene di via Italia alla defunta madre porrebbe il problema della nascita di una ulteriore comunione ereditaria, posto che trattasi di un effetto che si verrebbe a creare a prescindere dall’individuazione del bene destinato a comporre la quota della defunta, concorrendo alla sua successione tutti i germani Lo. e trattandosi di beni destinati a formare una nuova comunione ereditaria, per la quale si imporrà una nuova divisione>>.

Azione di riduzione (con scelta tra conguaglio monetario e separazione del bene in natura), collazione e divisione ereditaria

Cass. sez. II Ord. 06/03/2024  n. 5.978, rel. Picaro:

<<Anzitutto va evidenziato che l’impugnata sentenza ha affermato il principio che il legittimario vittorioso ai fini della reintegrazione della quota riservatagli dalla legge possa optare – in luogo dell’assegnazione del bene, o dei beni in natura, che sono stati oggetto della donazione lesiva della legittima inefficace nei suoi confronti a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione – per la corresponsione di una somma in danaro equivalente al valore della quota medesima, richiamando a giustificazione del principio l’art. 560 cod. civ. con una motivazione meramente apparente, inidonea a spiegare le ragioni effettive del principio.

Tale norma, infatti, intitolata “Riduzione del legato o della donazione d’immobili”, al primo comma prevede all’opposto, per l’ipotesi in cui oggetto della donazione da ridurre sia un immobile comodamente divisibile, che la riduzione avvenga mediante la separazione in natura e la conseguente assegnazione al legittimario nella misura occorrente alla reintegrazione della quota legittima, separazione a maggior ragione attuabile sempre in natura quando, come nella specie, oggetto della donazione da ridurre erano più beni immobili distinti (nel caso in esame quattro distinti terreni ed un fabbricato in Tolve vico III Vignali delle Corti), che almeno in parte avrebbero potuto essere trasferiti in proprietà al legittimario pretermesso, allo scopo di reintegrare la quota di legittima lesa, mentre al secondo comma si riferisce all’ipotesi, non verificatasi, in cui l’immobile oggetto di donazione da ridurre non sia comodamente divisibile, ed al terzo comma attribuisce al donatario, e non certo al legittimario pretermesso, la facoltà di ritenere l’immobile oggetto della donazione da ridurre compensando in denaro quest’ultimo, sempre che il valore dell’immobile donatogli non superi l’importo della porzione disponibile e della quota che gli spetta come legittimario. Neppure può ritenersi idonea a giustificare il riportato principio la sottolineatura fatta dall’impugnata sentenza in ordine alle indiscusse diversità di petitum e di causa petendi dell’azione di riduzione per lesione di legittima e per l’azione di divisione, che non possono fare trascurare però che in caso di accoglimento dell’azione di riduzione per lesione di legittima delle donazioni compiute dal defunto, che non abbia lasciato beni alla sua morte a favore del legittimario pretermesso, si determina solo tra quest’ultimo ed il donatario una comunione relativamente ai beni oggetto della donazione da ridurre, che – ove richiesto (come nel caso di specie) – può essere anche oggetto di divisione nell’ambito dello stesso giudizio e che deve essere sciolta nel rispetto dei criteri dettati dagli articoli 560 e 561 cod. civ.

Per giurisprudenza consolidata di questa Corte, infatti, in caso di legittimario pretermesso, le azioni di riduzione e di divisione possono essere proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 2367/1970; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 1206/1962).

Il principio è stato ribadito anche di recente, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 31125/2023; Cass. n. 19284/2019).

Venendo all’esame delle lamentate violazioni di legge per error in iudicando, questa Corte già in passato ha affermato che (Cass.n. 1079/1970) nel caso di azione tendente alla riduzione di disposizioni testamentarie (e lo stesso principio vale per le donazioni) che si assumano lesive della legittima, il giudice deve anzi tutto accertare quale sia la quota di legittima spettante all’attore legittimario (nel caso in esame in relazione al solo donatum in assenza di beni relitti dal de cuius), e deve, a tal fine, riunire fittiziamente i beni e determinare l’asse ereditario, procedendo poi alla sua valutazione secondo i valori del tempo dell’apertura della successione e tenendo conto anche della qualità dei beni, se fruttiferi o meno. Accertata così la quota di legittima, nel procedere alla sua liquidazione, deve tenersi presente che il legittimario ha diritto di conseguirla in natura e solo eccezionalmente in denaro, e che, in questo ultimo caso, il credito del legittimario non è di valuta, ma di valore, per cui, operando l’aestimatio rei, per il soddisfacimento del suo diritto, deve aversi riguardo alla quantità di denaro occorrente per attribuirgli il valore che aveva diritto a conseguire, di modo che detta aestimatio deve riferirsi alla data in cui l’integrazione e la liquidazione si determina, cioè al momento della pronuncia giudiziale che la effettua.

Più recentemente è stato sottolineato come (Cass. n. 39368/2021; Cass. n. 22097/2015) una delle differenze più significative tra la collazione e l’azione di riduzione consista proprio nel fatto che quest’ultima obbliga alla restituzione in natura dell’immobile donato, mentre l’altra ne consente l’imputazione di valore, sicché (vedi Cass. n. 28196/2020) se la collazione, nei rapporti indicati nell’art. 737 c.c., pone il bene donato, in proporzione della quota ereditaria di ciascuno, in comunione fra i coeredi che siano il coniuge o discendenti del de cuius, donatario compreso, senza alcun riguardo alla distinzione fra legittima e disponibile, e può comportare di fatto l’eliminazione di eventuali lesioni di legittima, consentendo agli eredi legittimi di conseguire nella divisione porzioni uguali, ciò non esclude che il legittimario possa contestualmente esercitare l’azione di riduzione verso il coerede donatario, atteso che solo l’accoglimento di tale domanda assicura al legittimario leso la reintegrazione della sua quota di riserva con l’assegnazione di beni in natura, privando i coeredi della facoltà di optare per l’imputazione del relativo valore.

Trattasi di una conseguenza derivante dalla stessa natura della pronuncia che accolga l’azione di riduzione (vedi in tal senso Cass. n. 39368/2021, cit.), che determina l’inefficacia per il legittimario della disposizione lesiva e che comporta, ove la disposizione abbia ad oggetto determinati beni, l’instaurarsi di una comunione tra beneficiario della disposizione lesiva e legittimario, nella quale la quota di compartecipazione del secondo è determinata in misura corrispondente al valore proporzionale della lesione da recuperare sul bene in rapporto al valore del bene stesso.

Tale conclusione trova poi il conforto dell’art. 560 cod. civ., che regola proprio la disciplina della comunione così determinatasi, prevedendo che preferibilmente la quota di legittima debba essere reintegrata mediante la separazione della parte del bene necessaria per soddisfare il legittimario, aggiungendo però che, laddove la separazione in natura non sia possibile, ed il bene quindi sia non comodamente divisibile, lo scioglimento della comunione avverrà sulla base di criteri preferenziali specificamente individuati dal comma 2° ed in deroga a quelli di carattere generale posti dall’art. 720 cod. civ.

E’ pur vero che la giurisprudenza si è occupata anche dell’ipotesi di reintegra della quota del legittimario in denaro, ritenendo che in tal caso l’obbligazione abbia natura di debito di valore, necessitante di adeguamento, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore dei beni in natura esistenti nell’asse, ma ciò presuppone che la reintegra in denaro o sia frutto di una concorde volontà delle parti, nella specie insussistente per la contraria volontà espressa da Pe.Ro., o che scaturisca dallo scioglimento della comunione secondo le modalità specificamente dettate dall’art. 560 cod. civ.

Ma ove non ricorrano tali condizioni, resta fermo che l’inefficacia della donazione lesiva, quale effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione, determina il subentro del legittimario nella comunione dei singoli beni oggetto della donazione, e quindi la reintegra in natura (vedi Cass. n. 39368/2021, cit.).

Ritiene il Collegio di dover quindi assicurare continuità a quanto di recente affermato con le pronunce di questa Corte n. 39368/2021 (cit.) e n. 16515/2020, le quali hanno ribadito che la reintegrazione, in linea di principio, va fatta in natura, mediante attribuzione, in tutto o in parte secondo che la riduzione sia pronunciata per intero o per una quota, dei beni oggetto delle disposizioni ridotte. E’ pur vero che tale affermazione viene di norma compiuta a tutela del diritto del legittimario, che non è in linea di principio suscettibile di essere convertito in un diritto di credito, ma ciò non toglie che l’osservanza della regola possa essere pretesa anche dal soggetto che subisce la riduzione, nella specie il donatario Pe.Ro., che non può essere costretto, contro la sua volontà, a liquidare in denaro la lesione che il legittimario ha diritto di recuperare in natura, e ciò soprattutto nel caso in cui, per effetto dell’andamento del mercato immobiliare e del lungo tempo trascorso tra l’apertura della successione e la conclusione delle operazioni divisionali, il mercato immobiliare abbia subito una fluttuazione in negativo, che renda quindi la reintegra in denaro svantaggiosa rispetto all’ipotesi in cui la reintegra sia realizzata in natura>>.

Applicazione alla fattispecie sub iudice:

<<La Corte d’Appello di Potenza, che peraltro ha interpretato la disponibilità espressa da Pe.Ma. ad ottenere un conguaglio in denaro (non la compensazione in denaro della quale parla l’art. 560, comma 2°, ultima parte cod. civ.) come volontà di ottenere la reintegrazione della quota riservatale in denaro anziché in natura, traendone inammissibilmente conferma da quanto richiesto dagli eredi di Pe.Ma. solo nella comparsa di costituzione del giudizio di secondo grado, non si è attenuta a tali principi, in quanto, una volta determinata la misura della lesione, avrebbe dovuto verificare in via prioritaria se sussistevano le condizioni per la reintegrazione della legittima in natura, determinando la quantità di beni oggetto della donazione ridotta secondo il valore degli stessi alla conclusione delle operazioni divisionali occorrenti a questo fine (Cass. n. 2006/1967) e l’importo dell’eventuale conguaglio, non potendo procedere direttamente alla reintegra dell’intera quota riservata in denaro.

Il modo di procedere nella reintegrazione della quota riservata a Pe.Ma. seguito dalla sentenza impugnata, confermativa di quella di primo grado, ha avuto, inoltre, come effetto quello di attribuire agli eredi del legittimario pretermesso la rivalutazione monetaria sul valore della quota riservata dalla data dell’apertura della successione alla sentenza conclusiva delle operazioni divisionali ed i frutti civili sotto forma di interessi su di essa, anziché i frutti naturali dei beni assegnati per la reintegrazione della quota a partire dalla domanda giudiziale ex art. 561, ultimo comma, cod. civ., con applicazione degli articoli 820 e 821 cod. civ.

Dovrà farsi applicazione per i beni assegnati a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione al legittimario pretermesso Pe.Ma., alla quale sono subentrati gli eredi Sa.Ro., Sa.Lu., Po.An. e Po.Do., del principio, di recente ribadito dalla sentenza n. 31125 dell’8.11.2023 di questa Corte, per cui in tema di divisione i frutti naturali della cosa comune già separati al momento della divisione sono di proprietà di tutti i partecipanti, in conformità del disposto degli articoli 820 e 821 cod. civ. e non possono quindi, salva diversa volontà delle parti, diventare di proprietà esclusiva del condividente cui sia stato assegnato il bene che li ha prodotti. Invece, nell’ipotesi in cui i frutti stessi non siano stati ancora separati al momento della divisione, è operante l’efficacia retroattiva prevista dall’art. 757 cod. civ., con la conseguenza che il condividente assegnatario ha il diritto di percepire per l’intero i frutti stessi anche se riferibili al periodo in cui il bene che li ha prodotti era comune (Cass. n. 2975 del 20/03/1991, richiamata in n. 25021/2019).

Azione di riduzione da parte dell’legittimario pretermesso, acquisto della qualità ereditaria ed azione per la divisione dei beni caduti in successione

Cass. sez. II del 08/11/2023 n. 31.125, rel. Criscuolo, ci fa ripassare alcuni principi  consolidati in materia:

<<Rileva a tal fine la circostanza che oggetto dell’azione di riduzione, in quanto lesiva dei diritti di legittimaria dell’attrice, è una disposizione testamentaria del de cuius, con la quale, pretermettendo A., il testatore aveva istituto erede universale il solo figlio maschio.

Tenuto, quindi, conto della massa ereditaria, per effetto delle operazioni di riunione fittizia (queste sì da compiere sulla base della stima dei beni alla data di apertura della successione), si è escluso che la lesione derivasse dalle donazioni pur compiute in vita in favore del convenuto (trattandosi di donazioni che per il loro ammontare gravavano sulla disponibile), ed è stato invece appurato che a risultare lesiva era proprio l’istituzione di erede universale, che andava ridotta, e quindi resa inefficace nei confronti dell’attrice, nei limiti in cui era necessario assicurarle quanto dovuto a titolo di quota di riserva (in quanto ancora insoddisfatta all’esito dell’imputazione delle liberalità a sua volta ricevute in vita dall’attrice).

In presenza di un’istituzione di erede universale ovvero per quote astratte dell’intero patrimonio, il legittimario pretermesso non è erede al momento di apertura della successione, ma lo diviene solo una volta esperita vittoriosamente l’azione di riduzione.

Inoltre, se ai sensi dell’art. 560 c.c., nel caso in cui la riduzione abbia ad oggetto disposizioni a titolo di legato ovvero donazioni (ed in via estensiva istituzioni ex certa re), l’effetto della riduzione è quello di rendere efficace solo la disposizione che abbia avuto ad oggetto il singolo bene, attribuendolo per intero al legittimario (ove la lesione travolga per intero l’attribuzione) ovvero rendendolo comune fra beneficiario e legittimario, nei limiti necessari ad assicurare la reintegra dei diritti del secondo, nel diverso caso in cui la lesione derivi da una disposizione di erede a titolo universale, l’effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione è quello di far acquisire al legittimario la qualità di erede su tutti i beni caduti in successione, ovvero a creare una comunione su quelli oggetto di liberalità ove a loro volta idonei a determinare la lesione, con il riconoscimento sui primi di una quota indivisa pari all’ammontare della legittima ancora insoddisfatta, ragguagliata al valore del relictum.

Già in passato questa Corte ha ricordato come le disposizioni testamentarie lesive della legittima non siano nulle né annullabili ma, sino a quando esse non vengano impugnate con l’azione di riduzione, conservano la loro piena efficacia. Di conseguenza, ove il de cuius abbia distribuito, con il testamento alle persone in questo indicate, tutto il suo patrimonio, mediante disposizioni a titolo universale o particolare, pretermettendo alcuni legittimari, questi non partecipano, de iure, alla comunione per il semplice fatto che si è aperta la successione testamentaria, giacché il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. Il legittimario, pertanto, non può chiedere la divisione dei beni lasciati dal de cuius, senza aver prima esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie. Inoltre, per ragioni di economia processuale, è tuttavia consentito, in ipotesi del genere, che le azioni di riduzione e di divisione siano proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 1206/1962; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 160/1970; Cass. n. 2367/1970).

Il principio è stato anche di recente ribadito, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 19284/2019; Cass. n. 4140/1992).

Alla base di tale principio si pone la premessa che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione e concorre poi alla comunione dei beni relitti, secondo una quota di entità corrispondente al valore della quota di riserva non soddisfatta, così che, ove i beni relitti, assegnati per testamento in maniera universale ad altri soggetti, siano di entità superiore alla quota di riserva, sugli stessi si instaura una comunione secondo le quote da determinare in base ai criteri esposti, comunione che può essere sciolta subito dopo l’accoglimento dell’azione di riduzione e nello stesso giudizio, alla luce delle esigenze di economia processuale, alle quali i precedenti richiamati fanno riferimento.

In ipotesi, peraltro, il legittimario ben potrebbe accontentarsi solo di esercitare l’azione di riduzione, al fine di conseguire il riconoscimento della titolarità pro quota dei beni caduti in successione ed assegnati ad altri per testamento, salvo poi decidere in un secondo momento di chiederne la divisione.

Ne consegue che, tenuto conto di quanto statuito dal Tribunale di Termini Imerese nella sentenza appellata, a fronte di una massa di beni relitti (e quindi con esclusione di quelli donati), pari ad Euro 1.980.062,99 (cfr. pag. 23), essendo la quota di legittima ancora non soddisfatta dell’attrice pari ad Euro 409.078,82 (cfr. pag. 25), sui beni relitti l’attrice ha acquisito una quota ideale pari al 20,66% (409.078,82: 1.980.062,99 = x: 100; x = 409.078,82-100/1.980.062,99= 20,66).

Risulta quindi pertinente rispetto all’ipotesi oggetto di causa il richiamo effettuato dalla difesa della ricorrente a quanto affermato da Cass. n. 2975/1991, secondo cui, ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli artt. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell’asse ereditario al tempo dell’apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell’art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conf. Cass. n. 739/1977).

Infatti, una volta appurata l’entità della lesione e la necessità quindi di ridurre la disposizione testamentaria a titolo universale, insorge, per effetto proprio dell’accoglimento della riduzione, una comunione tra erede istituito e legittimario, secondo le quote come sopra individuate, comunione per il cui scioglimento valgono le regole ordinariamente dettate, tra cui proprio la previsione di cui all’art. 726 c.c., in ordine alla necessità di attualizzazione della stima dei beni alla data dell’effettivo scioglimento>>.

E poi:

<<La logica che sottende la soluzione alla quale il Collegio intende aderire è sostanzialmente la medesima che è alla base dell’altrettanto pacifico orientamento secondo cui, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso, sicché quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinché ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 7478/2000).

Una volta acquisita la qualità di erede, o meglio di coerede, per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione, tale qualità reca con sé anche la necessità di poter avvantaggiarsi degli eventuali incrementi di valore dei beni in relazione ai quali è stata riconosciuta la contitolarità, in vista del soddisfacimento della quota di riserva, ovvero, ed è caso non infrequente nei periodi in cui il mercato immobiliare subisca delle crisi, di subire le conseguenze del deprezzamento dei beni stessi>>.

Principio di diritto:

<<In caso di pretermissione del legittimario per effetto di istituzione di erede a titolo universale, a seguito dell’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione sui beni relitti ovvero recuperati per effetto sempre dell’azione di riduzione, viene a determinarsi una situazione di comunione tra l’erede istituito ed il legittimario nella quale la quota del primo è corrispondente al valore della quota di legittima non soddisfatta determinata in proporzione al valore dell’intera massa, il tutto secondo la stima compiuta alla data di apertura della successione; tuttavia ove debba procedersi alla divisione della comunione così insorta, la stima dei beni in vista delle operazioni divisionali deve essere aggiornata alla luce del mutato valore dei beni tra la data di apertura della successione e quella di effettivo scioglimento della comunione>>.

Il tempo di riferimento per la determinazione della quota di legittima (apertura della successione) è diverso da quello per la formazione delle quote per la divisione ereditaria (tempo della divisione)

Cass. sez. 2 del 8 novembre 2023 n. 31.125, rel. Criscuolo:

premessa:

<<Già in passato questa Corte ha ricordato come le disposizioni testamentarie lesive della legittima non siano nulle né annullabili ma, sino a quando esse non vengano impugnate con l’azione di riduzione, conservano la loro piena efficacia. Di conseguenza, ove il de cuius abbia distribuito, con il testamento alle persone in questo indicate, tutto il suo patrimonio, mediante disposizioni a titolo universale o particolare, pretermettendo alcuni legittimari, questi non partecipano, de iure, alla comunione per il semplice fatto che si è aperta la successione testamentaria, giacché il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. Il legittimario, pertanto, non può chiedere la divisione dei beni lasciati dal de cuius, senza aver prima esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie. Inoltre, per ragioni di economia processuale, è tuttavia consentito, in ipotesi del genere, che le azioni di riduzione e di divisione siano proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 1206/1962; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 160/1970; Cass. n. 2367/1970).

Il principio è stato anche di recente ribadito, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 19284/2019; Cass. n. 4140/1992).

Alla base di tale principio si pone la premessa che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione e concorre poi alla comunione dei beni relitti, secondo una quota di entità corrispondente al valore della quota di riserva non soddisfatta, così che, ove i beni relitti, assegnati per testamento in maniera universale ad altri soggetti, siano di entità superiore alla quota di riserva, sugli stessi si instaura una comunione secondo le quote da determinare in base ai criteri esposti, comunione che può essere sciolta subito dopo l’accoglimento dell’azione di riduzione e nello stesso giudizio, alla luce delle esigenze di economia processuale, alle quali i precedenti richiamati fanno riferimento.

In ipotesi, peraltro, il legittimario ben potrebbe accontentarsi solo di esercitare l’azione di riduzione, al fine di conseguire il riconoscimento della titolarità pro quota dei beni caduti in successione ed assegnati ad altri per testamento, salvo poi decidere in un secondo momento di chiederne la divisione>>.

Poi andando al punto:

<<Risulta quindi pertinente rispetto all’ipotesi oggetto di causa il richiamo effettuato dalla difesa della ricorrente a quanto affermato da Cass. n. 2975/1991, secondo cui, ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli artt. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell’asse ereditario al tempo dell’apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell’art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conf. Cass. n. 739/1977).

Infatti, una volta appurata l’entità della lesione e la necessità quindi di ridurre la disposizione testamentaria a titolo universale, insorge, per effetto proprio dell’accoglimento della riduzione, una comunione tra erede istituito e legittimario, secondo le quote come sopra individuate, comunione per il cui scioglimento valgono le regole ordinariamente dettate, tra cui proprio la previsione di cui all’art. 726 c.c., in ordine alla necessità di attualizzazione della stima dei beni alla data dell’effettivo scioglimento>>.

E poi:
<<La logica che sottende la soluzione alla quale il Collegio intende aderire è sostanzialmente la medesima che è alla base dell’altrettanto pacifico orientamento secondo cui, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso, sicché quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinché ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 7478/2000).

Una volta acquisita la qualità di erede, o meglio di coerede, per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione, tale qualità reca con sé anche la necessità di poter avvantaggiarsi degli eventuali incrementi di valore dei beni in relazione ai quali è stata riconosciuta la contitolarità, in vista del soddisfacimento della quota di riserva, ovvero, ed è caso non infrequente nei periodi in cui il mercato immobiliare subisca delle crisi, di subire le conseguenze del deprezzamento dei beni stessi.

Con l’appello la ricorrente intendeva proprio contestare il criterio con il quale il Tribunale aveva provveduto alla divisione dei beni dei quali la stessa era divenuta contitolare, così che si palesa erronea la risposta fornita dalla sentenza impugnata che ha invece invocato il principio secondo cui la stima andava sempre ed unicamente compiuta in base al valore dei beni alla data di apertura della successione>>.

Finale principio di diritto:

<<In caso di pretermissione del legittimario per effetto di istituzione di erede a titolo universale, a seguito dell’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione sui beni relitti ovvero recuperati per effetto sempre dell’azione di riduzione, viene a determinarsi una situazione di comunione tra l’erede istituito ed il legittimario nella quale la quota del primo è corrispondente al valore della quota di legittima non soddisfatta determinata in proporzione al valore dell’intera massa, il tutto secondo la stima compiuta alla data di apertura della successione; tuttavia ove debba procedersi alla divisione della comunione così insorta, la stima dei beni in vista delle operazioni divisionali deve essere aggiornata alla luce del mutato valore dei beni tra la data di apertura della successione e quella di effettivo scioglimento della comunione>>.